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    Ucraina e Moldova sincronizzate alla rete elettrica dell’UE

    Bruxelles – Sincronizzare la rete elettrica dell’Ucraina a quella europea, così da affrancare il Paese dalla dipendenza energetica dalla Russia. Dopo aver trovato un accordo di principio con gli Stati a inizio marzo, mercoledì 16 marzo la Commissione Europea ha annunciato che entrambe le reti elettriche di Ucraina e Moldova “sono state sincronizzate con successo con la rete dell’Europa continentale” per aiutare i due Paesi a mantenere stabile il “proprio sistema elettrico, le case calde e le luci accese” anche durante la guerra della Russia in Ucraina.
    Per quanto riguarda Kiev, la sincronizzazione elettrica era un progetto che Bruxelles portava avanti da tempo considerandolo strategico per diversificare i fornitori di elettricità e rafforzare l’autonomia energetica del Paese dalla Russia. Secondo quando riferito dalla commissaria per l’Energia, Kadri Simson, l’allaccio sarebbe accaduto comunque in circostanze normali “il prossimo anno”, ma la guerra intrapresa da Mosca, inevitabilmente, ne ha accelerato i risultati. Poche ore prima dell’inizio dell’invasione da parte della Russia sul territorio di Ucraina, è stato effettuato un primo test per disaccoppiare la rete ucraina da quella russa. Un test di isolamento della rete che ha funzionato, dimostrando che il sistema elettrico di Kiev è in grado di funzionare anche senza quello russo. Dopo l’aggressione, Kiev ha deciso di non riallacciare la rete a quella russa e rinforzare il dialogo con l’UE.
    Appena qualche settimana dopo è stato compiuto un “passo chiave per mantenere le luci accese e le case calde in questi tempi bui sincronizzando le reti elettriche di Ucraina e Moldova con la rete europea”, scrive su twitter la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, assicurando che “continueremo a lavorare per stabilizzare i loro sistemi di alimentazione”. Una promessa che arriva anche dalla commissaria Simson, secondo cui “l’UE continuerà a sostenere l’Ucraina nel settore energetico, garantendo l’inversione dei flussi di gas verso il paese e la fornitura di forniture energetiche di cui c’è un estremo bisogno”. Da Kiev è arrivato il messaggio di ringraziamento all’UE da parte del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, compiaciuto del fatto che “l’Ucraina è diventata membro dell’Unione dell’energia. L’unificazione dei sistemi energetici è completata e ora l’elettricità ucraina può entrare in UE e viceversa”.

    🇺🇦 has become a member of 🇪🇺 Energy Union. The unification of 🇺🇦 & 🇪🇺 energy systems has been completed. Now 🇺🇦 electricity flows in 🇪🇺 & vice versa. Grateful to 🇪🇺 members, personally to @vonderleyen, @KadriSimson & everyone, thanks to whom we now have a single energy system!
    — Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) March 16, 2022

    Un progetto che Bruxelles portava avanti da tempo considerandolo strategico per diversificare i fornitori di elettricità e rafforzare l’autonomia energetica dei Paesi dalla Russia. La guerra in Ucraina ne ha accelerato tempi e modi, il presidente Zelensky: “Kiev è ora membro dell’Unione dell’energia”

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    Ucraina, l’Unione europea congela gli asset di Putin e Lavrov

    Bruxelles – Via libera dal Consiglio Affari Esteri al congelamento dei beni del presidente Vladimir Putin e del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, per l’aggressione ai danni dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Dopo varie indiscrezioni circolate nel pomeriggio, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, lo ha confermato in un punto stampa a margine dei lavori del Consiglio.
    “Quelle che arrivano dall’Ucraina sono immagini inquietanti: carri armati sulle auto dei civili, bambini portati in salvo dalle zone dei combattimenti. È la dimostrazione della crudeltà della Russia e irresponsabilità guerra”, ha detto parlando ai giornalisti, preoccupato del “rischio per tutti cittadini europei” e di una destabilizzazione del continente europeo. “Questa guerra può destabilizzare tutto il continente ed e’ per questo che qui a Bruxelles tutti compatti hanno votati un pacchetto di sanzioni molto dure” non solo verso Putin e Lavrov, ma anche verso “banche, imprese di Stato e interi settori chiave”.
    La linea adottata dalla comunità occidentale è chiaramente quella di “isolare la Russia”, costringendola a cedere. Nel pomeriggio si sono susseguite varie manifestazioni di protesta contro l’azione armata di Mosca: prima la sospensione dai diritti di rappresentanza dal Consiglio d’Europa, l’organizzazione che si occupa di difesa dei diritti umani e di cui fanno parte tutti gli Stati membri UE. “Quello che sta facendo (Putin) va contro ogni regola di convivenza e umanità e non possiamo permettercelo”, ha accusato Di Maio. Poi anche il mondo dello sport sta reagendo contro Russia, non solo politica. Tutte onorificenze ritirate o a personaggi russi: non c’è nulla di onorevole nella Russia in Ucraina.
    Il ministro conferma che a Bruxelles si lavora al terzo pacchetto di sanzioni contro Mosca, come annunciato questa mattina dal presidente del Consiglio, Charles Michel. Pacchetto che dovrebbe essere varato nei prossimi giorni dall’UE.

    The senseless suffering and loss of civilian life must stop.
    Europe stands with #Ukraine’s people and will continue to provide support.
    Second wave of sanctions with massive and severe consequences politically agreed last night.
    Further package under urgent preparation.
    — Charles Michel (@eucopresident) February 25, 2022

    Il vero nodo di questo nuovo pacchetto di sanzioni è l’esclusione di Mosca dal sistema di pagamenti internazionali, SWIFT, su cui ieri il Consiglio europeo ha incontrato alcune resistenze da Germania, Italia, Austria, Lussemburgo e Cipro. A sentire il titolare della Farnesina non c’è alcuna intenzione da parte dell’Italia di mettere un veto alla proposta. “Continueremo a votare in maniera compatta le proposte della Commissione e siamo aperti alla proposta del pacchetto terzo”, ha detto rispondendo ai giornalisti.
    Riuniti a Bruxelles anche i ministri dell’Economia e delle finanze, che nel pomeriggio hanno pubblicato un comunicato congiunto con l’esecutivo comunitario e la BCE  in cui sostengono di aver “chiesto alla Commissione UE e alla Banca Centrale Europea di valutare le conseguenze di un ulteriore taglio dell’accesso delle istituzioni russe al sistema finanziario”. “Tutte le opzioni sono sul tavolo”, viene specificato nella nota.
    L’esclusione di Mosca dal sistema dei pagamenti internazionali è richiesta a gran voce dall’intero Europarlamento, per dare un segnale forte di rottura della continuità nel dialogo dell’UE con Mosca. “È giusto che l’UE adotti sanzioni massicce, senza precedenti e severe nei confronti della Russia. Abbiamo bisogno di più e devono essere di ulteriore portata, inclusa l’esclusione della Russia dal sistema SWIFT e severe sanzioni individuali senza nessuno fuori dal tavolo”, ha ribadito la presidente Roberta Metsola. A farle eco in vari tweet i capogruppi di Partito popolare europeo, dei Socialisti e Democratici (S&D) e di Renew Europe.

    If we are tempted to accommodate, to take a step back, – we will soon be facing another ultimatum. And what then?
    We are #WithUkraine.
    3/3
    — Roberta Metsola (@RobertaMetsola) February 25, 2022

    Diverse sono state le critiche ai leader europei al Consiglio europeo di ieri di aver “lasciato fuori” dal tavolo delle sanzioni per l’invasione dell’Ucraina sia Putin-Lavrov, sia il gas, l’altro grande assente nelle discussioni in corso a Bruxelles: includerli avrebbe di certo dato l’idea di una rottura più concreta dalla dipendenza dell’Unione da Mosca. Di gas per ora non se ne parla proprio, l’UE ha preferito colpire solo le tecnologie che la Russia importa dall’UE per raffinare il suo petrolio per poi esportarlo di nuovo in Europa “pulito”. Su Putin nel mirino, invece, i governi hanno trovato la quadra all’unanimità. A dimostrazione del fatto che quando c’è volontà politica di fare qualcosa, l’ostacolo dell’unanimità viene superato.
    “Personalmente sono molto favorevole, ma l’importante non è quello che penso io ma ciò che decide il Consiglio” dei ministri e “la procedura richiede l’unanimità”, ha detto l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al suo arrivo al Consiglio Esteri. Lo stesso Borrell ha fatto anche sapere di avere avuto questa mattina un colloquio telefonico con il governo cinese, in cui “ho chiesto alla Cina di esercitare la sua influenza per il rispetto della sovranità dell’Ucraina e per un negoziato“.
    Nel pomeriggio Putin si è detto pronto a inviare una delegazione a Minsk per i negoziati con l’Ucraina. Mosca “è pronta a inviare un gruppo dei suoi ministeri della Difesa e degli Esteri insieme ai funzionari del Cremlino per colloqui con l’Ucraina nella capitale bielorussa”, ha fatto sapere il portavoce del presidente russo, Dmitry Peskov. Sembra una delegazione per imporre una capitolazione che per aprire un dialogo.

    Via libera definitivo raggiunto in seno al Consiglio dei ministri degli Esteri. Di Maio: “Sanzioni dure contro una guerra irresponsabile”. A Bruxelles si lavora con urgenza per varare il terzo pacchetto di sanzioni che potrebbe escludere Mosca dal sistema di pagamenti internazionali, SWIFT. Per il titolare della Farnesina dall’Italia nessun veto: “Continueremo a votare in maniera compatta le proposte della Commissione”

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    Il governo dei talebani chiede assistenza all’UE per garantire il funzionamento degli aeroporti in Afghanistan

    Bruxelles – Non facendo concessioni sulla propria posizione di non riconoscimento del governo provvisorio dell’Afghanistan, l’Unione Europea sta portando avanti a Doha (Qatar) il dialogo con il regime dei talebani, per “garantire l’impegno operativo nell’interesse dell’UE e del popolo afghano”, precisa una nota del Servizio europeo per l’azione esterna.
    Tra i punti in agenda compare la richiesta a Bruxelles da parte della delegazione afghana di assistenza operativa per garantire il funzionamento degli aeroporti. I rappresentanti dell’UE ci starebbero pensando, considerata “l’importanza fondamentale di mantenere aperti gli aeroporti dell’Afghanistan”. Inoltre, gli stessi talebani hanno ribadito “l’impegno a facilitare il passaggio sicuro dei cittadini stranieri e afghani che desiderano lasciare il Paese“, specifica la nota dell’agenzia UE.
    Preoccupa in particolare il peggioramento della situazione umanitaria con l’arrivo dell’inverno: “L’Unione Europea intende continuare a fornire assistenza umanitaria alle donne, agli uomini e ai bambini afghani in difficoltà”, che “non sarà soggetta a tassazione”. Nessun ripensamento sul fatto che il sostegno UE allo sviluppo dell’Afghanistan per il momento rimarrà sospesa, ma si sta iniziando a prendere in considerazione “un’assistenza finanziaria sostanziale a diretto beneficio del popolo afghano“. In altre parole, “convogliata esclusivamente attraverso organizzazioni internazionali e ONG”, per garantire i servizi essenziali (istruzione e sanità) e  mezzi di sussistenza per la popolazione.
    In linea con la posizione adottata dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a seguito del ritorno al potere dei talebani in Afghanistan, la delegazione europea ha sottolineato la necessità di un “processo trasparente e partecipativo” sul fronte di una possibile riforma costituzionale, così come della riconciliazione nazionale attraverso l’amnistia generale. A questo proposito la delegazione afgana ha riaffermato il suo impegno per “amplificare questo messaggio e la sua applicazione” nel Paese, così come per il rispetto della libertà di parola e dei media, “in linea con i principi islamici”, e dei diritti umani e le libertà fondamentali, “compresi i diritti delle donne e delle minoranze”.
    Ultimo capitolo sui rapporti internazionali. Se da una parte c’è l’impegno per assicurare l’integrità territoriale di “un Afghanistan sovrano, in pace con i vicini e che interagisce con la comunità internazionale”, allo stesso tempo l’UE ha insistito sull’obbligo dei talebani di intraprendere “un’azione determinata per combattere tutte le forme di terrorismo“. La delegazione afghana ha riaffermato il suo impegno a non permettere che il territorio nazionale serva da base per ospitare e finanziare gruppi che minaccino la sicurezza degli altri Paesi e “ha accolto con favore” la presenza delle missioni diplomatiche in Afghanistan, compresa quella dell’UE, che sta ancora valutando se stabilire “una presenza minima” sul terreno a Kabul.

    Dialogo tra la delegazione UE e del governo provvisorio afghano a Doha: riconfermato l’impegno sul libero passaggio per chi vuole lasciare il Paese e sulla lotta al terrorismo. Bruxelles valuta “una presenza minima” sul terreno a Kabul

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    Nord Stream 2, la Germania frena sull’iter di certificazione e salgono i prezzi del gas

    Bruxelles – L’entrata in funzione del gasdotto Nord Stream 2 subisce una nuova battuta d’arresto. Questa mattina (16 novembre) il regolatore tedesco delle reti, l’Agenzia federale (BNA -Bundesnetzagentur), ha sospeso temporaneamente l’iter di autorizzazione all’attivazione (la cosiddetta certificazione) del discusso gasdotto che collega la Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico. Secondo l’autorità tedesca il consorzio che opera l’infrastruttura, Nord Stream 2 Ag, deve essere “organizzato secondo forma giuridica di diritto tedesco” per poter dare il suo ok.
    Il punto sollevato dal regolatore tedesco è che Nord Stream 2 AG ha sede in Svizzera e ha deciso di non convertire ancora la società esistente, ma di costruire una filiale secondo le norme di diritto tedesco. Questa filiale diventerà proprietaria e gestirà la sezione tedesca del gasdotto, ma il processo di certificazione rimarrà sospeso fino a quando il consorzio trasferirà “importanti risorse e budget per il personale” a una vera e propria filiale tedesca.
    Il gasdotto Nord Stream 2 collegherà la Germania alla Russia
    Anche se non è ancora chiaro di quanto, lo stallo dovrebbe ritardare l’immissione dei primi flussi di gas nel gasdotto appena completato, che andrà a raddoppiare il volume di gas naturale trasportato da Mosca a Berlino replicando, nei fatti, il percorso del gasdotto gemello Nord Stream che è già in attività. Si parla di circa 55 miliardi di metri cubi all’anno di gas verso la Germania a capacità massima, raddoppiati a 110.
    Alla notizia della sospensione, questa mattina i prezzi del gas, già in rialzo nelle ultime settimane a causa di una più ampia crisi dei prezzi dell’energia, sono balzati del 9 per cento. Nord Stream 2 ha commentato di non essere in grado attualmente “di commentare i dettagli della procedura, la sua possibile durata e gli impatti sui tempi di avvio delle operazioni del gasdotto”. Così la Commissione Europea, che dovrà dare infine un parere sulla decisione del regolatore tedesco, ha confermato oggi al regolare briefing con la stampa di essere a conoscenza dei fatti ma di non potersi pronunciare oltre. Il gasdotto non è un progetto di interesse comune a livello europeo ma riguarda solo la Germania e il diritto nazionale tedesco, che deve essere in linea con la direttiva UE sul mercato del gas.
    Il contestato gasdotto ha affrontato una dura opposizione da parte degli Stati Uniti e di alcuni stati dell’Unione Europea, compresa l’Italia, che temono una ulteriore dipendenza strategica dell’UE dal gas russo, di cui è dipendente per il 90 per cento della sua fornitura di gas. Per Mosca l’importanza strategica del gasdotto è che finora la maggior parte del suo gas è stato trasportato in Europa attraverso l’Ucraina, mentre il percorso del Nord Stream 2 consente di bypassarla, togliendole rilevanza. Kiev ha accolto con favore la decisione del regolatore tedesco – che resta solo una temporanea sospensione – e nel merito è entrato oggi anche il premier britannico Boris Johnson, sottolineando l’opposizione del Regno Unito al gasdotto Nord Stream 2 che dirotterebbe le forniture dall’Ucraina e potrebbe avere “significative implicazioni per la sicurezza della regione”, mentre Londra continua a sposare l’integrità territoriale dell’Ucraina, dopo l’annessione illegale della penisola di Crimea da parte di Mosca del 2014.

    Nuova battuta d’arresto per il controverso gasdotto che arriva dalla Russia attraverso il Mar Baltico. Il regolatore tedesco chiede una modifica della “forma giuridica” del consorzio che opera l’infrastruttura, la Nord Stream 2 Ag

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    COP26: il carbone frena le ambizioni di Glasgow, accordo sul clima al ribasso. L’UE: “Il lavoro non è finito”

    Bruxelles – Due settimane di negoziati intensi per arrivare a un accordo che va indiscutibilmente nella giusta direzione, ma non entusiasma proprio tutti. La Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) si è chiusa sabato sera (13 novembre) con la firma di un Patto per il clima di Glasgow, in cui gli oltre 190 Paesi partecipanti si sono impegnati a rafforzare i propri obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e a rivederli ogni anno a partire dal 2022 per “mantenere vivo” l’obiettivo di circoscrivere la temperatura globale entro i 1,5°C, in linea con quanto prescritto ormai sei anni fa dagli accordi di Parigi.
    Oggi le stime degli esperti parlano di una rotta globale che porterebbe a una temperatura compresa tra 1,8°C e 2,4°C, per questo nelle conclusioni i Paesi si sono impegnati a rivedere ogni anno (e non più ogni cinque, come accade ora) le loro traiettorie con un nuovo processo di revisione, per mantenersi sulla buona strada per 1,5°C di riscaldamento. Il tassello più rivoluzionario e allo stesso tempo più deludente per il mondo ambientalista dell’accordo di Glasgow è però il riferimento al carbone, tra i combustibili fossili il più inquinante e responsabile di circa il 40 per cento delle emissioni di CO2.
    L’accordo di Glasgow è considerato positivo a metà perché per la prima volta in un patto internazionale sul clima delle Nazioni Unite i Paesi si impegnano a “ridurre gradualmente” la parte di loro energia prodotta dal carbone, ma il testo finale è stato in parte annacquato all’ultimo quando l’India, sostenuta dalla Cina e da altri Paesi in via di sviluppo più dipendenti dal carbone, si è opposta alla dicitura “eliminazione graduale”, spingendo per sostituirla con un impegno più tiepido a “ridurre gradualmente” (“phase down”) il loro uso di energia prodotta da carbone. Il compromesso sul carbone è un netto passo avanti in termini di impegni rispetto a quanto le grandi potenze globali erano riuscite a ottenere, anche nel quadro dei negoziati G20, ma manca anche di un chiaro riferimento temporale a quando l’impegno dovrebbe attuarsi.
    Alok Sharma
    Ai Paesi è servito un giorno in più per chiudere l’accordo, facendo concludere il vertice sabato invece che venerdì. Il presidente della COP26, il britannico Alok Sharma, si è detto “profondamente dispiaciuto” per come si sono conclusi gli eventi, ma era necessario preservare l’accordo nel suo insieme e dunque arrivare a un compromesso con quelle economie che non si ritengono pronte ad abbandonare completamente l’uso del carbone per produrre energia. “I testi approvati sono un compromesso. Riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi”, ha ammesso anche Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite al termine della COP. “Fanno passi importanti, ma purtroppo la volontà politica collettiva non è bastata a superare alcune profonde contraddizioni”.
    Passi avanti si sono registrati sulla finanza climatica, ovvero il tentativo di ridurre il divario finanziario tra Paesi ricchi e poveri per la lotta ai cambiamenti climatici e anche l’adattamento ad essi (ad esempio la costruzione di infrastrutture protettive). Tutti i Paesi sviluppati si sono impegnati a raddoppiare la quota collettiva dei finanziamenti per l’adattamento entro il 2025 e a raggiungere l’obiettivo di 100 miliardi di dollari ai Paesi poveri “il prima possibile”. Le stime presentate proprio in occasione della COP26 dicono che l’impegno per 100 miliardi non sarà raggiungibile prima del 2023, con circa 3 anni di ritardo sulla tabella di marcia.
    In ultimo, ma non da meno, dopo due tentativi falliti alle precedenti COP di Katowice e Madrid, i Paesi hanno concluso un accordo sul regolamento dell’accordo di Parigi, compreso l’insieme delle regole (l’articolo 6 rimasto incompleto) che disciplina i mercati globali del carbonio e sugli obblighi di trasparenza e rendicontazione delle emissioni di CO2.
    Le reazioni europee
    Ursula von der Leyen
    L’Unione Europea – tra le potenze partecipanti più ambiziose in termini climatici – è contenta a metà di quanto raggiunto a Glasgow dopo due intense settimane di negoziati. “La COP26 è un passo nella giusta direzione. I 1,5 gradi Celsius rimangono a portata di mano; ma il lavoro è tutt’altro che finito”, riassume la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in una nota che fa seguito alla sigla del patto climatico. “Il minimo che possiamo fare ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e poi puntare più in alto”, aggiunge, dando appuntamento a tutti alla prossima COP che si terrà in Egitto nel 2022. L’augurio che “ci metta saldamente sulla buona strada per i1,5 gradi”.
    Pur non essendo un accordo perfetto, “mantiene vivo l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Ora, le promesse devono essere mantenute e gli impegni consegnati rapidamente. La lotta al cambiamento climatico non può subire ulteriori ritardi”, ha ammonito in un tweet il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli.

    Although not perfect, #COP26 Glasgow keeps the goal of limiting global warming to 1.5 degrees alive. Now, promises must be kept and commitments delivered on quickly. The fight against climate change cannot suffer any further delay.
    — David Sassoli (@EP_President) November 14, 2021

    Presente a Glasgow nella seconda settimana di lavori (8-12 novembre) anche una delegazione di eurodeputati. Per il francese Pascal Canfin (Renew Europe) – capo delegazione e presidente della commissione Ambiente (ENVI) – “l’accordo alla COP26 presenta alcuni buoni passi avanti sull’obiettivo di raccogliere 100 miliardi di dollari per i paesi in via di sviluppo vulnerabili e la coalizione per fermare il finanziamento pubblico di nuovi progetti di combustibili fossili all’estero. Tuttavia, dobbiamo ammettere che l’accordo si basa sul minimo comune denominatore. La priorità ora per tutti i più grandi emettitori è quella di condividere tabelle di marcia concrete e credibili verso emissioni nette zero”.
    Gli impegni collaterali alla COP26
    A margine delle discussioni vere e proprie della COP26, si sono tenute varie riunioni collaterali che hanno portato ad alleanze o impegni all’unanimità tra gruppi ristretti di Paesi. La COP26 si è aperta con un impegno di oltre 100 Paesi a fermare la deforestazione entro il 2030, compresi quelli come Brasile, Canada, Colombia e Russia che contano l’85 per cento delle aree forestali del mondo. Molti critici mettono in evidenza che l’impegno non è vincolante e che questa promessa era già stata fatta nel 2014 e gli obiettivi per il 2020 di ridurre il tasso di deforestazione al 50 per cento sono stati mancati con un enorme margine di difetto.
    Venticinque Paesi – compresa l’Italia – si sono impegnati poi a porre fine al finanziamento diretto internazionale con fondi pubblici per i sussidi ai fossili entro il 2022 e 103 Paesi hanno sottoscritto il Global Methane Pledge, l’alleanza lanciata da USA e UE per ridurre le emissioni globali di metano del 30 per cento entro il 2030. Segnali positivi (anche se poco concreti) di un avvicinamento tra Cina e USA, che hanno siglato un accordo per lavorare insieme sulla questione climatica. Nulla di molto concreto, ma è un segnale positivo che i due maggiori emettitori al mondo (rispettivamente il 31 e il 14 per cento delle emissioni al mondo) abbiano intenzione di discutere di prima, nonostante i loro rapporti diplomatici tesi.

    Luci e ombre di un compromesso che va senza dubbio nella giusta direzione, ma che in molti si aspettavano più ambizioso. Von der Leyen: “Il minimo ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e puntare più in alto”

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    La Lituania dichiara lo stato di emergenza sul confine bielorusso. Esercito in stato di allerta per la crisi migratoria

    Bruxelles – Dopo la Polonia, anche la Lituania ha dichiarato lo stato di emergenza in risposta alla crisi migratoria scatenata dal presidente bielorusso, Alexander Lukashenko. A partire dalla mezzanotte di oggi (mercoledì 10 novembre) e per i prossimi 30 giorni sarà limitato l’accesso ai non-residenti e il movimento di veicoli non autorizzati in un’area larga cinque chilometri lungo il confine sud-orientale con la Bielorussia.
    La misura promossa dalla ministra dell’Interno, Agnė Bilotaitė, è stata approvata nel tardo pomeriggio di ieri (9 novembre) dal Seimas, il Parlamento nazionale, con 122 voti a favore su 141. È la prima volta che in Lituania entra in vigore lo stato di emergenza, da quando il Paese ha dichiarato l’indipendenza dall’Unione Sovietica l’11 marzo del 1990. Oltre al divieto di ingresso nella zona di frontiera per i civili non autorizzati e la possibilità della guardia di frontiera di fare perquisizioni indiscriminatamente, il pacchetto di misure include l’uso di fondi di riserva del governo per rispondere alla crisi e limitazioni dei diritti dei richiedenti asilo già alloggiati nel Paese: per esempio, restrizioni nella comunicazione per iscritto o telefoniche verso l’estero e ilm divieto di assemblea nelle strutture di accoglienza dei migranti a Kybartai, Medininkai, Pabradė, Rukla e Vilnius.
    La ministra dell’Interno, Agnė Bilotaitė, e la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, in vista sul confine tra Lituania e Bielorussia
    “La situazione alla nostra frontiera è stabile e sotto controllo, ma osservando ciò che sta accadendo al confine bielorusso-polacco, dobbiamo essere preparati a diversi scenari“, è stato il commento della ministra dell’Interno. Spiegando la decisione di imporre lo stato di emergenza, Bilotaitė l’ha definita “proporzionata” rispetto alla “minaccia alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico” di un arrivo massiccio di richiedenti asilo dalla Bielorussia. Così come sta accadendo dallo scorso 2 settembre in Polonia, questa misura “ci permetterà di chiudere completamente il confine con la Bielorussia”, ha aggiunto la ministra. L’esercito è stato messo in stato si allerta.
    La scelta della Lituania di dichiarare lo stato di emergenza è arrivata dopo il precipitare della situazione alla frontiera polacca, con l’arrivo di centinaia di migranti (Varsavia parla di oltre 4mila) agevolato dal regime Lukashenko. Da mesi il presidente bielorusso sta utilizzando il flusso irregolare di migranti come “strumento di guerra ibrida” – parole delle istituzioni europee – in risposta alle sanzioni economiche imposte da Bruxelles. Ma nelle ultime settimane la situazione sembra essere sul punto di sfuggire dal controllo delle autorità di frontiera della Polonia. Questa mattina due gruppi di migranti, incalzati dalle forze dell’ordine bielorusse, hanno sfondato la barriera innalzata dall’esercito polacco nei pressi dei villaggi di Krynki e Bialowieza. In risposta, circa 50 persone sono state arrestate per attraversamento illegale del confine.

    A section of the barbed wire fence has been removed. Polish servicemen formed a human shield to cover the hole and are trying to scare migrants off with a helicopter. The crowd is chanting “Germany!” pic.twitter.com/P99Yd9SRdO
    — Tadeusz Giczan (@TadeuszGiczan) November 8, 2021

    È da lunedì (8 novembre) che oltre 12mila militari in assetto antisommossa si stanno opponendo all’ingresso dei richiedenti asilo in arrivo dalla Bielorussia, con scontri in cui sono rimasti feriti anche alcuni bambini. Nei fatti si tratta di pushback, respingimenti di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Unione Europea: secondo le regole comunitarie, sono pratiche illegali. Nonostante ciò, l’attenzione dell’UE è tutta focalizzata sul sostegno a Varsavia nel proteggere le frontiere (nazionali ed esterne dell’Unione) e sul denunciare “l’aggressione di un regime illegittimo e disperato”, come ha commentato la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson. Bruxelles vuole “evitare una nuova crisi umanitaria alle frontiere” e la priorità più urgente è “porre fine agli arrivi di migranti all’aeroporto di Minsk“, ha aggiunto la commissaria in audizione alla commissione per le Libertà civili (LIBE) del Parlamento UE. A questo scopo “stiamo intensificando i contatti con i Paesi partner” da dove il regime di Lukashenko organizza voli per richiedenti asilo (Iraq, Iran, Siria e Paesi africani della Costa d’Oro).
    Parallelamente, l’UE sta preparando un nuovo pacchetto di sanzioni (il quinto) contro la Bielorussia, per estenderle a individui e organizzazioni che contribuiscono alla strumentalizzazione della migrazione. La discussione è prevista per oggi al Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (Coreper), mentre alla mini-sessione plenaria del Parlamento UE che si aprirà questo pomeriggio è stata aggiunta in extremis una discussione sulla crisi migratoria al confine tra Polonia e Lituania. Ieri mattina il Consiglio dell’UE ha invece deciso di sospendere parzialmente l’accordo di facilitazioni per l’ottenimento dei visti sul territorio comunitario per chi proviene dalla Bielorussia.

    Con il precipitare della situazione in Polonia, Vilnius ha deciso di introdurre la misura che vieta l’accesso a un’area di 5 chilometri lungo la frontiera e limita i diritti dei migranti già presenti sul territorio nazionale

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    Da UE, USA e Regno Unito 8,5 miliardi di dollari per sostenere la decarbonizzazione del Sudafrica

    Bruxelles – Unione Europea, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania si sono uniti in un partenariato da almeno 8,5 miliardi di dollari (7,5 miliardi di euro) per aiutare il Sudafrica nella decarbonizzazione della propria economia. L’annuncio è arrivato oggi (2 novembre) a margine della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) in corso a Glasgow: il budget iniziale di 8,5 miliardi di dollari attraverso meccanismi di finanziamento, prestiti agevolati, investimenti e strumenti a rischio condiviso servirà per aiutare il Paese ad aggiornare i suoi impegni sulla riduzione di CO2, con particolare attenzione al sistema elettrico.
    L’obiettivo è quello di riuscire a sbloccare altri investimenti dal settore privato. Le previsioni dei 5 Paesi occidentali stimano che il partenariato preverrà fino a 1-1,5 miliardi di tonnellate di emissioni nei prossimi 20 anni e aiuterà il Sudafrica ad abbandonare in maniera definitiva il carbone. “Il Sudafrica accoglie con favore l’impegno assunto nella Dichiarazione politica a sostegno dell’attuazione del nostro contributo determinato a livello nazionale, che rappresenta l’ambizioso sforzo del nostro Paese per sostenere la battaglia globale contro il cambiamento climatico”, ha commentato il capo di Stato della Repubblica del Sudafrica, Cyril Ramaphosa. A sostegno della transizione del Paese “attendiamo con impazienza una partnership a lungo termine che possa fungere da modello appropriato di sostegno per l’azione per il clima dai Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo”.
    “Questa partnership è una novità globale e potrebbe diventare un modello su come supportare la giusta transizione in tutto il mondo”, ha aggiunto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. “Unendo le forze, possiamo accelerare l’eliminazione graduale del carbone nei paesi partner, sostenendo al contempo le comunità vulnerabili che dipendono da esso. Garantire una transizione giusta è una priorità per l’UE, sia in patria che all’estero”.

    A margine della COP26 di Glasgow, Bruxelles insieme a Francia, Germania, Regno Unito e USA lancia un’iniziativa finanziaria per la transizione energetica del Paese. Il presidente Ramaphosa: “Serve sostegno a lungo termine all’azione per il clima delle economie in via di sviluppo”

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    I negoziati di adesione UE di Albania e Macedonia del Nord dovrebbero iniziare “entro la fine del 2021”

    Bruxelles – C’è una nuova data-limite per l’apertura dei negoziati di adesione all’UE di Albania e Macedonia del Nord: il 31 dicembre 2021. Ma stavolta sarà bene che non si riveli l’ennesima promessa non mantenuta da Bruxelles, o il processo di allargamento dell’Unione nei Balcani Occidentali rischierà di essere compromesso alla radice.
    L’obiettivo è stato fissato dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, durante la prima conferenza stampa del suo viaggio di tre giorni nelle sei capitali balcaniche. Accanto a lei, sulla tribuna a Tirana, lo sguardo del premier albanese, Edi Rama, è uno di quelli ancora pieni di fiducia nella prospettiva europea del Paese, ma con una punta di frustrazione per i continui rinvii delle istituzioni UE, nonostante tutte le richieste per l’apertura dei capitoli negoziali siano già state soddisfatte.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il premier albanese, Edi Rama, a Tirana (28 settembre 2021)
    “Voglio essere molto chiara, io e il mio gabinetto siamo fortemente convinti che il futuro dell’Albania sia nell’Unione Europea”, ha esordito von der Leyen. “Per questo motivo vogliamo che le prime conferenze intergovernative si possano organizzare entro la fine dell’anno“. La presidente dell’esecutivo comunitario ha riconosciuto gli sforzi del Paese nell’intraprendere il cammino europeo – in particolare “sulla riforma del sistema giudiziario, la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata” – e ha definito il vertice UE-Balcani Occidentali in programma il prossimo 6 ottobre a Kranj (Slovenia) “un’occasione per dialogare direttamente con un futuro membro dell’Unione come è l’Albania”.
    Il premier albanese Rama ha dimostrato una particolare lucidità nel distinguere i problemi e le posizioni delle diverse istituzioni europee. “Io non scommetto più su nessuna data, ma aspetto in serenità ciò che succederà: ci vuole pazienza, noi siamo pronti, il resto dipende dai nostri interlocutori”, ha commentato sulla questione delle tempistiche per l’adesione all’UE. “Apprezzo l’obiettivo fissato dalla Commissione, ma capisco perfettamente cosa sta succedendo al Consiglio e nei singoli Paesi membri”, ha aggiunto Rama. Con un sorriso amaro, il primo ministro ha ricordato che “l’Albania è in una situazione assurda. Siamo ostaggio del veto della Bulgaria alla Macedonia del Nord, anche se potremmo già sederci al tavolo dei negoziati a Bruxelles”. Da Tirana non c’è comunque nessuna intenzione di tirarsi indietro: “Siamo fortunati a essere nati in questo continente e poter aspirare all’accesso all’Unione Europea, che è a servizio dei cittadini”, ha ribadito Rama.

    Delighted to start my visit to the Western Balkans in Albania.⁰My message is clear: Albania’s future is in the EU. The @EU_Commission stands firmly by this commitment. With good progress on justice reforms, Albania has clearly delivered. Now the EU should do too. pic.twitter.com/VLYjz7s8oU
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) September 28, 2021

    L’apertura dei negoziati di adesione all’UE per Albania e Macedonia del Nord passa però dalla questione scottante dello stallo imposto in seno al Consiglio dalla Bulgaria. Ed è proprio a Skopje che l’atmosfera si fa più pesante. “Il veto rischia di mettere in discussione la credibilità dell’Unione Europea come partner“, è stato il duro commento del premier macedone, Zoran Zaev, durante la conferenza stampa congiunta con von der Leyen, arrivata nella capitale della Macedonia del Nord nel primo pomeriggio. “Noi ci siamo impegnati a seguire i valori europei, ma con questo veto è la stessa Unione a metterli in discussione”, ha aggiunto.
    Anche per Skopje comunque non è in discussione il cammino europeo, almeno per il momento: “Questo processo non ha alternative e serve un nuovo impegno da parte di tutti, perché non si incoraggino le forze contrarie all’unità e ai valori europei”, ha ribadito con forza il premier macedone. Zaev ha espresso la sua gratitudine alla presidente von der Leyen per il “continuo impegno profuso per l’adesione della Macedonia all’UE” e ha chiesto che durante il summit in programma mercoledì prossimo a Kranj “i ventisette leader europei ribadiscano l’impegno per l’allargamento dell’Unione ai Balcani“.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il premier macedone, Zoran Zaev, a Skopje (28 settembre 2021)
    Il riferimento al veto della Bulgaria è stato esplicito: “Ci aspettiamo che Sofia approvi il quadro come gli altri ventisei Paesi membri“, è stata l’esortazione del primo ministro, che ha anche sottolineato che il via libera non può riguardare altro se non “i nostri successi sul piano delle riforme”. Per qualsiasi altra questione che sta bloccando l’avvio dei negoziati Zaev si è detto disponibile a impegnarsi in colloqui bilaterali “con il mutuo rispetto della dignità nazionale”.
    Anche a Skopje la presidente della Commissione Europea ha confermato che il suo obiettivo è quello di avviare i negoziati di adesione all’UE di Macedonia del Nord e Albania entro la fine del 2021: “Sarò sincera, adesso è compito dell’Unione Europea risolvere la questione dello stallo“. Anche per il popolo macedone “il futuro è nell’Unione Europea e il mio gabinetto è fortemente legato a questa promessa”, ha ribadito von der Leyen, che ha chiesto di “non perdere la pazienza e la fiducia” nell’Europa: “Avete il supporto di tanti a Bruxelles e non solo, arriviamo fino in fondo”.

    North Macedonia has made outstanding progress on EU-related reforms and taken courageous decisions. I support the formal opening of accession negotiations with North Macedonia & Albania, as soon as possible.  You will be part of the EU.
    It is not a question of if, but when. pic.twitter.com/LkOX9XBAH8
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) September 28, 2021

    Vaccini e investimenti
    Se gli ostacoli al processo di adesione all’UE di Albania e Macedonia del Nord sono stati inevitabilmente il tema cruciale nelle prime due tappe del viaggio di von der Leyen nei Balcani, la presidente della Commissione Europea ha voluto anche sottolineare il contributo dell’Unione alla ripresa economica e sociale della regione dopo la pandemia COVID-19.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Per quanto riguarda l’invio di vaccini, da maggio a oggi sono state donate 430 mila dosi a Tirana e 270 mila a Skopje grazie al pacchetto Team Europe, del valore di quasi 40 miliardi di euro: “Sappiamo di avere un inizio difficile, ma ora siamo in grado di aiutarvi nello sforzo di proteggere tutta la popolazione”, ha ribadito von der Leyen. Un’altra “notizia positiva” è l’adozione dell’equivalenza del certificato COVID digitale, “grazie alla quale è stata eliminata ogni restrizione di viaggio legata alla pandemia” tra l’Unione Europea e i due Paesi balcanici.
    Altro punto su cui ha insistito von der Leyen è il Piano economico e di investimenti da 29 miliardi di euro, annunciato il 6 ottobre dello scorso anno e sbloccato dall’accordo tra Parlamento e Consiglio dell’UE sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III. La presidente della Commissione Europea ha sottolineato che servirà a “sostenere la ripresa della regione dopo questa crisi, puntando su investimenti per il futuro digitale e sostenibile dei Balcani”. Inoltre, per rafforzare la convergenza economica a lungo termine con i Paesi membri dell’UE, “proporremo di aumentare il budget di altri 600 milioni di euro entro la fine dell’anno“, ha promesso von der Leyen.
    Il capitolo Serbia-Kosovo
    Un ultimo punto di confronto con i leader della regione balcanica ha riguardato la tensione crescente tra Belgrado e Pristina, scatenata dalla ‘battaglia delle targhe’. La leader dell’esecutivo UE si è detta “molto preoccupata per la situazione che si è creata” tra Serbia e Kosovo e ha chiesto “un immediato ritorno al dialogo”, portando l’esempio positivo della nascita dell’Unione Europea: “È un processo lungo, ma che conduce a un futuro di pace e di sviluppo”. L’unica soluzione per i due Paesi è “confrontarsi positivamente al tavolo dei negoziati”, ha sottolineato von der Leyen.
    Non è solo l’esecutivo comunitario a essere preoccupato per le implicazioni della nuova causa di conflittualità tra Pristina e Belgrado. “La Serbia e il Kosovo devono trovare urgentemente una soluzione pacifica e sostenibile per garantire la sicurezza di tutti i cittadini”, si legge in una dichiarazione firmata dai relatori del Parlamento UE per la Serbia, Vladimír Bilčík, e per il Kosovo, Viola von Cramon-Taubadel, e dai presidenti della delegazione alla commissione parlamentare di Stabilizzazione e associazione UE-Serbia, Tanja Fajon, e per le relazioni con Bosnia ed Erzegovina e Kosovo, Romeo Franz.
    Le richieste degli eurodeputati vanno dal “ritiro della polizia speciale e di qualsiasi unità dell’esercito” allo “smantellamento dei posti di blocco” in Kosovo. Ma “devono cessare” anche tutte le “azioni unilaterali, le provocazioni e la retorica infiammatoria, che aumentano le tensioni e colpiscono il benessere delle comunità locali”. Per i leader di Serbia e Kosovo l’esortazione è di “utilizzare la piattaforma del dialogo facilitato dall’UE per risolvere tutte le questioni aperte, comprese quelle relative alla libertà di movimento”.
    La questione ha un impatto diretto sulle stesse prospettive europee di Serbia e Kosovo, dal momento in cui “la normalizzazione delle relazioni è una precondizione per l’adesione all’UE“, hanno ricordato gli europarlamentari. “È essenziale per garantire la stabilità e la prosperità nella regione in generale” e per questo motivo le due parti devono “impegnarsi nuovamente in modo attivo e costruttivo” per cercare un accordo “globale, sostenibile e giuridicamente vincolante”.

    ‘Serbia and Kosovo must urgently find a peaceful and sustainable solution in order to ensure the security and safety of all citizens.’
    Joint statement with @VladoBilcik, @tfajon & @RomeoFranz1 👇 https://t.co/CvtB22zPFq
    — Viola von Cramon (@ViolavonCramon) September 28, 2021