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    L’Ue “deplora profondamente” la revoca della ratifica del Trattato sul divieto dei test nucleari da parte della Russia

    Bruxelles – Con la firma apposta oggi (2 novembre) da Vladimir Putin, la Russia ha adottato definitivamente la legge che revoca la ratifica del Trattato sulla messa al bando degli esperimenti nucleari (Ctbt). Una decisione resa nota dal Cremlino già da tempo e approvata all’unanimità dalle due camere del Parlamento russo in ottobre. Una decisione che l’Unione europea “deplora profondamente”, arrivata “dopo mesi di retorica e minacce nucleari irresponsabili”.La risposta del blocco Ue a Mosca è affidata all’Alto rappresentante per gli Affari Esteri, Josep Borrell, che ha definito la scelta di Putin “un grave passo indietro, aggravato dallo status della Russia come membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. La revoca della ratifica del Ctbt non significa automaticamente che la Russia riprenderà i test nucleari: il Cremlino ha fatto sapere che questo non succederà, a meno che non li riprendano prima gli Stati Uniti.L’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep BorrellCon la nuova legge, la Russia rimane comunque firmatario del trattato, ma potrà smettere di rispettarne i vincoli. Che è la stessa posizione proprio di Washington e di diversi altri Paesi che non hanno mai ratificato il Ctbt. Adottato dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1996, il Trattato sulla messa al bando dei test nucleari non è mai entrato in vigore a livello globale a causa del non raggiungimento del numero minimo di firme: Paesi che dispongono già di testate nucleari come Pakistan, India e Corea del Nord non lo hanno mai firmato, mentre Stati Uniti, Iran, Cina, Egitto non hanno mai autorizzato la sua ratifica.Ma rimane “uno strumento di cruciale importanza per il disarmo nucleare e la non proliferazione”, ha sottolineato Borrell. E in effetti dal 1996 a oggi solo India, Pakistan e Corea del Nord hanno condotto esperimenti nucleari. Nel vecchio continente tutti gli Stati membri dell’Ue hanno ratificato il Ctbt e “lavorano da molti anni per il suo rafforzamento e la sua entrata in vigore”. Oggi sono 178 i Paesi che aderiscono al trattato, ma la sua entrata in vigore è vincolata alla ratifica da parte dei 44 Paesi che parteciparono formalmente alla Conferenza sul Disarmo nel 1996 e che possedevano a quella data tecnologia nucleare. In quella lista di Paesi, “l’ingiustificabile intenzione della Russia di revocare la ratifica del Ctbt costituisce una grave battuta d’arresto nell’impegno della Russia nei confronti dell’architettura di sicurezza internazionale”
    Vladimir Putin ha firmato la legge che sospende gli impegni previsti dal Ctbt, mai ratificato nemmeno da Cina e Stati Uniti. Per l’Alto rappresentante Josep Borrell “un grave passo indietro, aggravato dallo status della Russia come membro permanente del Consiglio di sicurezza Onu”

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    Fumata nera per l’accordo di libero scambio Ue-Australia. Per Bruxelles “la porta resta aperta”

    Bruxelles – Non sono bastati cinque anni di lavoro per finalizzare un accordo di libero scambio tra l’Unione europea e l’Australia. A Osaka, in Giappone, per il vertice ministeriale del G7, le negoziazioni tra le parti sono fallite un’altra volta: troppa la distanza su diverse questioni legate all’agricoltura. Per Bruxelles “la porta è ancora aperta”, ma da Canberra traspare pessimismo. Almeno fino alle prossimi elezioni nazionali del 2025.Le aspettative erano alte: il commissario Ue al Commercio, Valdis Dombrovskis, al suo arrivo a Osaka aveva dichiarato che l’accordo era “a portata di mano”. Per superare gli attriti rimasti sul mercato agricolo è volato in Giappone anche il commissario per l’Agricoltura, Janusz Wojciechowski. Ma alla fine Bruxelles non ha ceduto sul nodo rimasto in sospeso: l’Australia vuole un effettivo accesso al mercato europeo per i suoi produttori di carne (soprattutto manzo e montone), l’Ue mette dei paletti. E vuole limitare limitare l’utilizzo da parte degli agricoltori australiani di indicazioni geografiche di prodotti europei.Wojciechowski ha espresso “rammarico” e ha chiarito la posizione dell’Ue: “Per andare avanti, abbiamo bisogno di aspettative più realistiche e di un approccio equilibrato che rispetti pienamente la vitalità dei nostri agricoltori e la sostenibilità del nostro sistema alimentare”. L’esecutivo comunitario, attraverso il portavoce Olof Gill, si dice “pronto a continuare le trattative quando anche gli altri saranno pronti”. Dall’altra parte del tavolo, il ministro per il Commercio australiano, Don Farrell, si è augurato di “poter raggiungere un giorno un accordo che avvantaggi sia l’Australia che i nostri amici europei”. Ma il suo collega, il ministro dell’Agricoltura Murray Watt, in un’intervista all’Australian Broadcasting Corporation (Abc) ha ammesso che bisognerà verosimilmente aspettare le elezioni parlamentari previste nel 2025 prima di riprendere in mano i negoziati.E in effetti, dopo il secondo fallimento in poco più di tre mesi, e cinque anni di lavoro, forse l’accordo di libero scambio va riportato in cantiere. I lavori, iniziati nel 2018, erano stati temporaneamente sospesi nel 2021 a causa delle tensioni tra Australia e Francia su un accordo per la fornitura di sottomarini, che Canberra aveva preferito acquistare da Stati Uniti e Regno Unito. A luglio di quest’anno, il ministro Farrell aveva abbandonato i negoziati a Palazzo Berlaymont a Bruxelles, rientrando in patria insoddisfatto dai vincoli posti all’accesso delle aziende australiani al mercato europeo. Durante l’estate le posizioni non sembrano essere cambiate: per una maggiore integrazione tra i due mercati, che nel 2022 hanno scambiato merci per un valore di oltre 55 miliardi di dollari, bisognerà aspettare ancora qualche anno.
    Falliti i colloqui a Osaka, durante il G7 dei ministri del commercio. All’aria cinque anni di lavoro sull’accordo, il commissario Ue Wojciechowski: “Per avanzare, abbiamo bisogno di aspettative più realistiche e un approccio equilibrato”

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    Acciaio, Ucraina e tensioni in Medio Oriente. Von der Leyen e Michel a Washington per il Vertice Ue-Usa

    Bruxelles – Doveva essere un semplice incontro interlocutorio per discutere delle dispute commerciali in attesa di essere risolte e per ribadire il “sostegno incondizionato” all’Ucraina da i due lati dell’Atlantico. Eppure, non è difficile immaginare che il conflitto in Medio Oriente tra Israele e Hamas e le tensioni nella striscia di Gaza stravolgeranno l’agenda. I leader europei Ursula von der Leyen e Charles Michel sono attesi nella notte (ora locale di venerdì 20 ottobre) a Washington per il secondo Vertice Ue-Usa da quando il presidente statunitense Joe Biden si è insediato alla Casa Bianca a gennaio 2021.Difesa dell’Ucraina e il sostegno alla sua ricostruzione e l’approvvigionamento di materie prime critiche, centrali per la produzione di tecnologie verdi, dovevano essere i temi dominanti secondo l’agenda annunciata lo scorso 28 settembre in una nota congiunta dei due lati dell’Atlantico in cui si legge che il presidente Biden insieme al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, faranno il punto sulla cooperazione tra Stati Uniti e Unione Europea, soprattutto per confermare il “nostro impegno condiviso a sostenere l’Ucraina nella difesa della sua sovranità e a imporre costi alla Russia per la sua aggressione”. Ma i leader si confronteranno sulla crisi in Medio Oriente dopo le visite in loco nei giorni scorsi di von der Leyen, insieme alla presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, e di Biden in Israele. Dall’acciaio ai minerali critici, le questioni commerciali in balloVon der Leyen e Michel saranno accompagnati da una schiera di rappresentanti dell’esecutivo comunitario, dall’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, al vicepresidente esecutivo con delega al commercio, Valdis Dombrovskis e alla vicepresidente per la trasparenza Vera Jourova. I leader europei, in particolare, cercheranno di portare avanti i negoziati bilaterali per scongiurare nuovi dazi sull’acciaio e l’alluminio (imposti a suo tempo sulle importazioni dal continente dall’ex presidente Donald Trump) e finalizzare l’accordo in chiave anti-cinese sui minerali critici, attenuando l’impatto negativo dell’Inflation Reduction Act (IRA) statunitense e sui suoi sussidi per i veicoli elettrici. Il riferimento alla Cina non è diretto, ma il rafforzamento della cooperazione transatlantica è in chiave anti-Pechino. Washington e Bruxelles lavorano ormai da mesi per finalizzare un accordo sui minerali critici, che entrambe le parti puntano a chiudere entro la fine dell’anno. L’obiettivo è quello di raggiungere uno status equivalente a un accordo di libero scambio per l’Ue per i minerali critici, essenziali per la produzione di tecnologie chiave per la doppia transizione, come il litio per le batterie – e distendere le tensioni create dall’Inflation Reduction Act (IRA), il vasto piano di sussidi verdi da quasi 370 miliardi di dollari varato dall’amministrazione Usa, che Bruxelles teme possa svantaggiare le imprese europee. Le discussioni “esplorative” con gli Stati Uniti tenute finora hanno mostrato un allineamento sui principi principali, mentre i dettagli verranno approfonditi durante i negoziati ancora in corso. E il Vertice di fine ottobre potrebbe essere la giusta occasione per velocizzare i negoziati. Il Vertice prenderà le mosse in un contesto completamente diverso rispetto a quello che a giugno 2021 ha accolto Biden a Bruxelles. I leader europei e statunitensi si trovavano a dover affrontare e gestire insieme la crisi economica derivata dall’urgenza sanitaria del Covid-19 e una guerra alle porte dell’Europa era impensabile.
    I leader europei Ursula von der Leyen e Charles Michel attesi a Washington da Biden per il secondo Vertice Ue-Usa da quando il presidente statunitense si è insediato alla Casa Bianca a gennaio 2021. Le tensioni tra Israele e Hamas stravolgono l’agenda del vertice

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    L’Ue: “Sanzioni anti-Russia funzionano. Pronti a vararne altre, se necessario”

    Bruxelles – “Voglio ribadirlo: le sanzioni contro la Russia funzionano“. Il commissario per la Giustizia, e adesso anche commissario per la Concorrenza ad interim, lo scandisce sia nell’intervento di apertura che di chiusura del dibattito d’Aula al Parlamento europeo. Didier Reynders trova un emiciclo diviso, dove al fronte dei sempre contrari alla misure restrittive nei confronti di Mosca per l’aggressione dell’Ucraina si aggiungono che iniziano a essere stanchi delle ricadute economiche. A tutti però ricorda che “le sanzioni stanno avendo un forte impatto sull’economia russa”, e lo dicono i numeri. “Solo per quest’anno le stime parlano di una contrazione economica di 1,7 miliardi di rubli”. A questo si aggiungono i circa “300 miliardi di euro di asset congelati, due terzi dei quali in Europa”.La linea non si cambia. Perché è giusto così e perché funziona. Tanto che la presidenza spagnola di turno del Consiglio dell’Ue annuncia la disponibilità ad andare avanti. “L’attuale regime di sanzioni contro la Russia è il più vasto mai adottato dall’Ue”, premette Pascual Navarro Rios, segretario per gli Affari europei del governo di Madrid. Quindi l’affondo: “L’Ue è pronta ad accrescere la pressione ulteriormente, anche con altre sanzioni, quando e dove necessario“.Un’apertura che trova il plauso di Juan Fernando Lopez Aguilar. L’europarlamentare socialista chiede di spostare attenzione e azione dell’Unione europea “sul settore dei porti”, così da chiudere ogni strada alle merci per e dalla Russia. C’è chi invece invita alla riflessione. “Sulle sanzioni sarebbe magari il caso di fare meno filosofia e iniziare a pensare sul prezzo che le aziende italiane ed europee stanno pagando”, scandisce Paolo Borchia (Lega/Id), che invoca “un ragionamento in termini di efficacia e di ricadute sulla nostra economia”. Piè deciso l’alleato Harald Vilimsky, esponente dell’ultradestra di Fpo ed euroscettico del gruppo Id, lo stesso gruppo della Lega. “Le sanzioni non garantiscono stabilità dei prezzi? No. L’inflazione è una conseguenza delle sanzioni. Dobbiamo lavorare per portare le persone attorno al tavolo”.Ma trattare non è un’opzione, almeno non per i liberali. “Sento gli amici di Putin in quest’Aula parlare dei costi delle sanzioni e contro le sanzioni, senza dire che il costo di questa guerra anche maggiore”, tuona  Sophie in’t Veld (Re).
    Il commissario per la Giustizia e la presidenza spagnola del Consiglio nell’Aula del Parlamento insistono sulla necessità di procedere come fatto finora. Sovranisti ed euroscettici vogliono lo stop e chiedono trattative con Mosca

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    L’inconsistenza dell’Unione europea in Medio Oriente e quella difficoltà a condannare l’assedio di Gaza

    Bruxelles – Sono passati ormai sei giorni dall’attacco terroristico senza precedenti sferrato da Hamas a Israele la mattina di sabato 7 ottobre e le ostilità continuano a crescere. Sarebbero già 1.200 le vittime israeliane, oltre 1.400 i morti a Gaza, in cui secondo le stime delle Nazioni Unite i raid di ritorsione di Tel Aviv avrebbero già causato 339 mila sfollati. Da entrambe le parti, chi sta pagando il prezzo più alto è la popolazione civile. L’Unione europea si è immediatamente schierata a fianco dell’amico e partner israeliano, “l’unica democrazia del Medio oriente”, e contro la barbarie del gruppo terrorista islamico. Ma è difficile non rilevare diverse criticità nell’atteggiamento che Bruxelles ha assunto di fronte al riaccendersi del conflitto israelo-palestinese.Prima di tutto, come ha sottolineato il diplomatico francese ed ex segretario generale del Servizio europeo d’azione esterna (Eeas), Pierre Vimont, la diplomazia europea “negli ultimi anni sta progressivamente scomparendo dalla geopolitica della regione”. Il lungo elenco di richiami ad Israele a porre fine alla politica degli insediamenti illegali e di appelli alla de-escalation a entrambe le parti è rimasto inascoltato. “Oggi, l’Europa è troppo emarginata nella regione per sperare di far sentire la propria voce nel contesto dello scontro in corso”, prosegue Vimont nel suo editoriale per Carnegie Europe. E infatti per ora nessuna iniziativa è stata lanciata dai 27, la cui linea comune sul conflitto può essere riassunta con la frase “Israele ha il diritto di difendersi”.Pierre Vimont (Photo by NICHOLAS KAMM / AFP)Un principio sacrosanto, ma che d’altra parte palesa la mancanza di volontà e di autorità per mediare tra le parti. Se a questo si somma la confusione manifestatasi negli ultimi due giorni in seguito all’annuncio del commissario europeo, Olivér Várhelyi, di una sospensione totale di ogni assistenza Ue al popolo palestinese, senza distinzione tra Striscia di Gaza e Cisgiordania, seguita da una forte opposizione da parte di diversi Stati membri , “è una chiara indicazione delle profonde divisioni all’interno dell’Unione”, scrive ancora l’esperto diplomatico francese.Se la polemica sui fondi europei per la popolazione palestinese sembra essere rientrata – con non poco imbarazzo -, con la Commissione europea che ha smentito Várhelyi e ha annunciato una revisione dell’assistenza a causa del rischio che le risorse Ue possano direttamente o indirettamente armare Hamas, a Bruxelles non sembrano aver ancora trovato una formula comune per condannare le atrocità sui civili palestinesi che sta compiendo Tel Aviv a Gaza. L’Ue ha denunciato con sdegno e determinazione il massacro di “neonati, bambini, donne e uomini innocenti” da parte dei terroristi di Hamas, ma pochissimo ha detto contro l’assedio totale all’enclave palestinese ordinato dal governo Netanyahu.O meglio, la differenza sta nella coralità dell’appello: ci ha provato Borrell, che dopo la riunione d’urgenza con i 27 ministri degli Esteri a Muscat, in Oman, ha dichiarato che “Israele ha il diritto di difendersi, ma deve essere fatto in conformità con il diritto internazionale, il diritto umanitario e alcune decisioni sono contrarie al diritto internazionale”. Perché tagliare l’acqua, l’elettricità, il cibo, l’assistenza medica a una popolazione intera è una violazione del diritto internazionale. Anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha rilanciato su X (ex Twitter) un messaggio del Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, secondo cui “i beni di prima necessità devono raggiungere Gaza”.Charles Michel, Roberta Metsola, Ursula von der Leyen e l’ambasciatore israeliano a Bruxelles, Haim Regev, commemorano le vittime di Hamas (Photo by Kenzo TRIBOUILLARD / AFP)Ma la posizione presa dalle Nazioni Unite non sembra essere condivisa – quanto meno nei discorsi ufficiali – dalla presidente della Commissione europea. La stessa von der Leyen che un anno fa, davanti all’Eurocamera, dichiarava che “gli attacchi della Russia contro le infrastrutture civili sono crimini di guerra” e che “tagliare l’acqua, l’elettricità e il riscaldamento a uomini, donne e bambini sono atti di puro terrore”. A riascoltare queste parole, il silenzio di von der Leyen sull’assedio di Gaza è ancora più assordante. Lo stesso che ha portato Roberta Metsola, leader del Parlamento europeo, a indire un sacrosanto momento di raccoglimento per le vittime israeliane del terrorismo di Hamas, ma senza concedere alcun cenno alle vittime civili palestinesi.Legittimare la risposta massiva dell’esercito israeliano su una popolazione di 2 milioni e mezzo di persone, che dal 2007 vivono in una prigione a cielo aperto in una condizione di dipendenza pressoché totale dagli aiuti internazionali, potrà solamente alimentare un inasprimento delle tensioni in Medio Oriente. “Per il momento, qualsiasi mediazione – se ce n’è la possibilità – tra le parti in conflitto nella Striscia di Gaza proverrà dai Paesi della regione”, sostiene Pierre Vimont. Non da Bruxelles.
    Secondo l’ex segretario generale del Seae, Pierre Vimont, la diplomazia Ue è “progressivamente scomparsa dalla geopolitica della regione”. I 27 hanno condannato duramente il terrorismo di Hamas e difeso il diritto di Israele a difendersi, ma per ora non hanno profuso nessuno sforzo di mediazione. E non richiamare Tel Aviv sull’assedio a Gaza è un errore

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    I leader Ue omaggiano le vittime del terrorismo di Hamas. Metsola: “Questa è l’Europa, noi stiamo con Israele”

    Bruxelles – L’Eurocamera, il Consiglio europeo e la Commissione europea insieme per Israele. Davanti all’edificio Altiero Spinelli, al Parlamento europeo di Bruxelles, i leader delle tre istituzioni Ue si sono riuniti per un momento di raccoglimento per le oltre mille vittime degli attacchi terroristici perpetrati da Hamas da sabato 7 ottobre.Con Roberta Metsola, Charles Michel e Ursula von der Leyen anche l’ambasciatore israeliano presso l’Ue, Haim Regev, oltre a diversi commissari europei, i presidenti dei principali gruppi politici all’Eurocamera, tanti deputati, funzionari e cittadini. Centinaia di persone che hanno riempito l’intero piazzale dedicato a Simone Veil. “Sono orgogliosa di essere qui con così tanti di voi. La vostra presenza fuori dal Parlamento europeo è significativa, la nostra voce è importante. So quanto questo significhi per le persone in Israele colpite dal peggior attacco terroristico da generazioni”, ha dichiarato Metsola.Ribadita la dura la condanna all’estremismo di Hamas: “Dobbiamo essere chiari: questo è il terrorismo nella sua peggior forma”, ha tuonato Metsola, sottolineando che il gruppo islamista è “un’organizzazione terroristica” che “non rappresenta le legittime aspirazioni del popolo palestinese”, che non “offre soluzioni” ma solo “spargimenti di sangue”. Per la leader Ue il 7 ottobre passerà alla storia come il “giorno dell’infamia globale”, il giorno in cui ancora una volta il mondo “è stato testimone dell’assassinio di ebrei semplicemente perché erano ebrei”. Il giorno in cui – ha ricordato Metsola – “Hamas ha ucciso più di mille neonati, bambini, donne e uomini innocenti, ha aperto il fuoco su centinaia di giovani durante un evento musicale uccidendo indiscriminatamente anche cittadini dell’Ue, ha rapito ragazze e ragazzi, ha preso gli anziani sopravvissuti all’Olocausto e li ha trascinati fuori dalle loro case, facendoli sfilare per le strade come trofei”.Dal Parlamento europeo l’appello al rilascio immediato degli oltre 100 ostaggi ancora nelle mani di Hamas e la promessa che “l’Europa è pronta ad aiutare a mediare le risoluzioni”. Ma con un punto fermo: “Non esiste alcuna giustificazione per il terrorismo”. Prima di indire un minuto di silenzio, Metsola si è rivolta direttamente all’ambasciatore di Israele a Bruxelles: “Ambasciatore Haim Regev, grazie per essere qui oggi. Questa è l’Europa. E noi siamo con te”. Le parole di Metsola sono state accolte da un lungo applauso delle persone raccolte in piazza. Dopo il momento di silenzio, hanno risuonato gli inni di Israele e dell’Ue.Momento di raccoglimento per Israele al collegio dei Commissari UePoco prima della cerimonia sul piazzale del Parlamento europeo, a palazzo Berlaymont anche i commissari del gabinetto von der Leyen si sono riuniti in un momento di raccoglimento per le vittime in Israele. “Ci può essere solo una risposta: l’Europa sta con Israele, supportiamo pienamente il diritto di Israele a difendersi”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea, prima di condannare duramente le azioni terroristiche di Hamas, l’unico “responsabile per le sue azioni”, che porteranno “maggiore sofferenza ai palestinesi innocenti”.Sulla polemica montata nei giorni scorsi sui fondi dell’Ue per la Palestina, von der Leyen ha assicurato che “il sostegno umanitario al popolo palestinese non è in discussione”, ma che al contempo “è importante rivedere attentamente la nostra assistenza finanziaria alla Palestina”. Tuttavia la leader dell’esecutivo comunitario è sicura: “I finanziamenti dell’Ue non sono mai andati e non andranno mai a Hamas o a qualsiasi entità terroristica”.
    Roberta Metsola, Charles Michel e Ursula von der Leyen insieme per commemorare gli oltre mille morti in Israele per mano dell’organizzazione terroristica. Per la presidente dell’Eurocamera il 7 ottobre passerà alla storia come “il giorno dell’infamia globale”. Nessun riferimento alle vittime civili palestinesi

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    Bruxelles annuncia una “revisione” dei fondi alla Palestina, c’è il rischio di finanziamenti indiretti ad Hamas. Ma salva gli aiuti umanitari

    Bruxelles – Dopo le dichiarazioni di pieno sostegno a Israele e al suo diritto a difendersi, la Commissione europea prende la prima iniziativa unilaterale nei confronti di Hamas. ma che potenzialmente potrebbe impattare su tutto il popolo palestinese: l’esecutivo comunitario avvierà una “revisione urgente dell’assistenza dell’Ue alla Palestina” che non colpirà però i versamenti a “tutti i palestinesi”, assicura l’alto rappresentante per la Politica estera Josep Borrell. Su cosa questo possa comportare, non sono d’accordo nemmeno a palazzo Berlaymont.La notizia è arrivata a metà pomeriggio attraverso un tweet condiviso dal commissario Ue per l’Allargamento e la politica di vicinato, Olivér Várhelyi: “Il livello di brutalità e terrore contro Israele e la sua popolazione è un punto di non ritorno. La Commissione europea rivedrà il suo intero portafoglio di sviluppo, pari a un valore di 691 milioni di euro“. È lo stesso Várhelyi che si prende la libertà di spiegare le dirette implicazioni: stop immediato ai pagamenti, tutti i progetti che tornano in cantiere a Bruxelles e le proposte di budget congelate e rinviate fino a nuovo ordine.Oliver Varhelyi, commissario Ue per l’AllargamentoMa l’annuncio del commissario ungherese ha smentito in parte quanto dichiarato in mattinata dai portavoce dell’esecutivo comunitario, Eric Mamer e Peter Stano, che avevano rimandato qualsiasi mossa del blocco Ue a domani, in occasione del Consiglio Affari Esteri straordinario convocato d’urgenza dall’Alto rappresentante, Josep Borrell. Apparentemente l’uscita di Várhelyi non è stata concordata in modo collegiale dal gabinetto von der Leyen: il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha immediatamente corretto il tiro con un tweet, confermando invece che “gli aiuti umanitari alla Palestina continueranno per tutto il tempo necessario”. Anche diversi Stati membri si sono allarmati dopo l’annuncio di Varhelyi: Spagna, Belgio, Irlanda e Lussemburgo in primis hanno contestato la legittimità di una scelta che riguarda la gestione del budget europeo e di conseguenza i 27 Paesi Ue.Dopo oltre quattro ore di silenzio, è intervenuta la Commissione con un comunicato stampa che annunciava la “revisione” dell’assistenza, non la sua immediata sospensione. “Oltre alle salvaguardie esistenti, l’obiettivo di questa revisione è garantire che nessun finanziamento dell’Ue consenta indirettamente a un’organizzazione terroristica di effettuare attacchi contro Israele. Anche qui, l’esecutivo Ue ha cambiato radicalmente il proprio linguaggio: poche ore prima il portavoce capo della Commissione, Eric Mamer, aveva garantito che le risorse europee per la Palestina sono soggette a “severi controlli per assicurare che non ci siano finanziamenti diretti e indiretti” ad Hamas. Ma il commissario dal tweet facile ha svelato lo scenario in realtà più realistico, e cioè che l’Ue non può avere la certezza che i propri fondi non abbiano armato il gruppo terrorista palestinese.La Commissione europea ha specificato poi che “la presente revisione non riguarda l’assistenza umanitaria fornita nell’ambito delle operazioni europee di protezione civile e aiuto umanitario (Echo)”, confermando quanto dichiarato da Lenarčič. Alla luce dei dati pubblicati dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), che ieri ha contato 73.538 sfollati interni, a cui sta dando rifugio in 64 delle sue scuole all’interno di Gaza, gli aiuti umanitari sono di vitale importanza. L’Unrwa ha anche previsto un “verosimile incremento dei numeri alla luce dei pesanti bombardamenti e attacchi aerei anche sulle aree civili” da parte dell’aviazione israeliana. Oggi il governo israeliano ha ordinato “l’assedio totale” della Striscia e dichiara di aver riunito 100 mila soldati al confine con Gaza, pronti ad un incursione via terra per recuperare gli oltre 100 israeliani che sarebbero tenuti in ostaggio in territorio palestinese. Non solo, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dato indicazione di tagliare completamente i rifornimenti di acqua, elettricità, carburante e generi alimentari alla popolazione della Striscia, che vive una situazione di crisi umanitaria perenne.I finanziamenti europei alla Palestina: 1,1 miliardi di euro dal 2021 al 2024Nell’ultimo anno e mezzo i 27 avevano stanziato più di 300 milioni di euro per la popolazione palestinese, impegnandosi a fornire fino a 1,1 miliardi di euro di assistenza finanziaria dal 2021 al 2024. Nell’ultimo pacchetto – relativo al 2022– erano previsti 200 milioni per sostenere l’Autorità Palestinese nel pagamento degli stipendi e delle pensioni dei dipendenti pubblici, delle indennità sociali alle famiglie vulnerabili, dei ricoveri agli ospedali di Gerusalemme Est e dell’acquisto di vaccini Covid-19, un programma specifico di 36 milioni per il periodo 2021-2023 per migliorare le condizioni di vita a Gerusalemme Est, 30 milioni per lo sviluppo del settore privato nei territori palestinesi occupati. E ancora, lo scorso febbraio, 82 milioni di euro per sostenere il lavoro sul campo dell’Unrwa.La volontà della Commissione europea sarà discussa domani dai ministri Ue, al vertice che si terrà in formato inedito a Muscat, in Oman, dove già oggi Borrell ha discusso delle “tragiche conseguenze dell’attacco di Hamas” con i leader del Consiglio di cooperazione del Golfo. L’ambasciatore spagnolo, José Manuel Albares, ha chiesto di inserire la questione all’agenda dell’incontro, dopo aver espresso il proprio disaccordo in una telefonata con il commissario responsabile dello psicodramma di oggi pomeriggio.
    Il commissario Ue Várhelyi ha annunciato la sospensione immediata dell’intero portafoglio di sviluppo con la Palestina, per un valore di 691 milioni di euro, suscitando le critiche di diversi Paesi membri. In serata la precisazione dell’esecutivo Ue: la revisione non riguarda i fondi per l’assistenza umanitaria e non riguarda “tutti i palestinesi”

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    Il nodo dei ‘rifugiati climatici’ in aumento, un problema politico per l’Ue

    Bruxelles – Un fenomeno in aumento e che crescerà ancora. Un problema reale, naturale, sociale, economico e ancor più politico. Perché nel diritto comunitario manca ancora una definizione di ‘rifugiato climatico’, e riconoscerlo vorrebbe dire dover aprire confini e frontiere a masse di migranti crescenti. Ma i numeri parlano chiaro, e il centro studi e ricerche del Parlamento europeo li raccoglie e li aggiorna. Dal 2008 oltre 376 milioni di persone in tutto il mondo sono state costrette a lasciare la propria abitazione a causa di inondazioni, tempeste di vento, terremoti o siccità, con un record di 32,6 milioni solo nel 2022. Non è la prima volta che il centro studi e ricerche del Parlamento europeo si sofferma sulla questione dei rifugiati climatici. L’ultimo rapporto realizzato nel 2021 censiva 318 milioni di sfollati causa eventi meteorologici estremi dal 2008. In due anni soltanto, dunque, si contano 58 milioni di sfollati ulteriori in tutto il mondo. Ma a dirla tutta “dal 2020 si è registrato un aumento annuo del numero totale di sfollati a causa di catastrofi rispetto al decennio precedente in media del 41 per cento”. Si tratta, guardando i numeri, di una “tendenza al rialzo chiara in modo allarmante”. Tanto che nello scenario peggiore si stima che “1,2 miliardi di persone potrebbero essere sfollate entro il 2050 a causa di disastri naturali e altre minacce ecologiche”. Un invito ad agire. Con la transizione sostenibile e la sua traduzione in pratica, certo. Ma pure con politiche di prevenzione e mitigazione dei rischi. Perché, avvertono gli analisti di Bruxelles, “con il cambiamento climatico come catalizzatore trainante, il numero di rifugiati climatici continuerà ad aumentare”, come dimostra l’ultimo anno, quello in corso. Mettendo insieme i principali eventi di cronaca, emerge come “solo nel 2023 centinaia di migliaia di persone sono state colpite da pericoli naturali e gravi catastrofi meteorologiche in tutto il mondo”. Qualche esempio: a settembre la tempesta Daniel ha causato la morte di oltre 12mila persone in Libia e 40mila persone sono state costrette a lasciare le proprie case; nel corso dell’estate le temperature nella regione del Mediterraneo e negli Stati Uniti hanno raggiunto livelli record e le inondazioni in Emilia-Romagna hanno ucciso 14 persone e provocato 50mila sfollati.“Il cambiamento climatico continuerà ad avere un effetto enorme su molte popolazioni, soprattutto quelle delle zone costiere e pianeggianti”, avverte il documento di lavoro. Uomini, donne e bambini si metteranno in marcia, ancora di più di adesso, perché il crescente impatto del cambiamento climatico sta rendendo alcune aree sempre più inabitabili, rendendo difficile il ritorno. Ma qui c’è il nodo politico della questione. Perché già adesso gli Stati membri dell’Ue litigano sulla gestione dei flussi, insistono sulla necessità di fermare le partenze per ridurre gli sbarchi. Un approccio che sembra in contrapposizione a tendenze peggiorative, dal punto di vista climatico e le sue ricadute. Oggi il diritto prevede che la protezione internazionale possa e debba essere riconosciuta da chi scappa da guerre e persecuzioni. Il clima non è contemplato, neppure dalle convenzioni Onu. L’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, spinge per un cambio di rotta e magari anche un nuovo trattato.Il Green Deal europeo riconosce che i cambiamenti climatici sono una delle cause che alimentano i fenomeni migratori, ma si limita a spostare l’accento sull’investimento in sostenibilità nei Paesi terzi. L’Europa ha già preso coscienza del fenomeno, ma non ha il coraggio, ancora, di introdurre una definizione giuridica di ‘rifugiato climatico’. Farlo vorrebbe dire aprire porti e porte dell’Ue.
    Un’analisi del centro studi e ricerca del Parlamento europeo torna su un tema noto e sempre più una sfida per i Ventisette. Nello scenario 1,2 miliardi di persone sfollate entro il 2050 a causa di minacce ecologiche