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    Ucraina, gli europarlamentari italiani insistono sulla ricerca della pace. E’ tempo di più diplomazia

    Bruxelles – Sostegno all’Ucraina, quello si. Senza se, ma… con dei ‘ma’. Uno su tutti, quello delle trattative di pace per porre fine a un conflitto che anima sempre di più le delegazioni italiane del Parlamento europeo. Non c’è dubbio che Kiev abbia il diritto di difendersi, e non si discute il sostegno dell’Ue, questa è una precisazione d’obbligo, oltre che a concetti ribaditi dai rappresentanti dei vari partiti italiani in occasione del briefing con la stampa che precedere la sessione plenaria del Parlamento, dove la questione Ucraina sarà oggetto dei lavori. Ma emerge in modo trasversale la necessità di dare nuovo impulso alla diplomazia.Chi pone l’accento sul tema in modo più urgente è Ignazio Marino (Verdi-Avs), che guarda con una certa apprensione all’immediato futuro. Le elezioni statunitensi si terranno tra 42 giorni, ricorda, e ricorda anche che il candidato repubblicano “Donald Trump ha detto che se vince non aspetterà l’insediamento per andare da Putin e negoziare la pace alle condizioni che più fanno gli interessi degli Stati Uniti“. Ecco che, alla luce di queste premesse, “anziché spingere per più armamenti bisognerebbe agire prima che agiscano altri“, visto che, insiste “se non ricordo male l’Ucraina si trova in Europa”.Inizia a farsi strada una preoccupazione tutta nuova, quella di un ruolo secondario e subalterno in politica estera. Non è detto che a succedere a Joe Biden nella Casa bianca sarà Trump, ma comunque si avverte la necessità di accompagnare il sostegno economico e armato dell’Ucraina a un dialogo fin qui ridotto al minimo. Salvatore De Meo, capodelegazione di Forza Italia, ben riassume la necessità di questa doppia linea d’azione. “Per quanto riguarda l’Ucraina non possiamo non continuare a rafforzare la vicinanza dell’Europa, insistendo per creare le condizioni per uno spiraglio di pace“.Linea e posizione analoga quella espressa dal Pd, attraverso Annalisa Corrado. “Il sostegno all’Ucraina resta necessario”, ma al tempo stesso, aggiunge, occorre un “potenziamento di tutti gli strumenti diplomatici“, perché quello che preoccupa sicuramente una parte dei socialisti è il rischio di “una escalation che poi diventa difficile da gestire”.I partiti di maggioranza e opposizione descrivono una certa convergenza sul tema, come dimostra una volta di più Stefano Cavedagna (Ecr), esponente del partito della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Per l’europarlamentare di Fratelli d’Italia resta fermo il principio per cui “l’Ucraina ha il diritto di difendersi, ci sono un aggredito e un aggressore”, con Fdi che “sostiene” Kiev, ma al tempo stesso anche all’interno del Fratelli d’Italia si è dell’idea che “l’obiettivo deve essere la pace“.Anche dalle fila della Lega viene esternata la necessità di “creare le prospettive di pace” quando si parla del conflitto russo-ucraino, sostiene Anna Maria Cisint. L’europarlamentare del Carroccio sottolinea come il suo partito e il suo gruppo “non si è mai sottratto a votare per il sostegno all’Ucraina”, ma, aggiunge, “non abbiamo mai fatto mistero della necessità di accompagnare l’aiuto con un’azione diplomatica forte”, perché “un tavolo di pace è necessario”.Serve dunque un riorientamento dell’Ue, che però è tutt’altro che scontato. Il motivo lo spiega Gaetano Pedullà (M5S-laSinistra). “Se vogliamo la pace dobbiamo cambiare la narrativa e smettere di fare quanto fatto negli ultimi due anni e mezzo, vale a dire andare avanti con sanzioni e rifornimento armi”. Per il pentastellato non ci sono grandi alternative. “Senza dialogo non ci può essere pace”, ma per avere un dialogo occorre avere le condizioni per agevolarlo. Quindi per forza di cose serve “ragionare con la Russia, prima che lo facciano gli Stati Uniti“.Nel gruppo italiano all’europarlamento serpeggerebbe dunque una generale necessità di una soluzione non armata del conflitto, a riprova delle insofferenze, non solo italiane, prodotte da un conflitto che va avanti contro ogni interesse a dodici stelle. Su una cosa tutte le delegazioni tricolore sembrano non avere dubbi: le armi fornite dall’Italia all’Ucraina devono essere utilizzate solo per scopi di difesa e non di offesa. un concetto espresso e ribadito da tutti.

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    L’Ue avverte la Serbia: “Allinearsi alla Russia in contrasto con obiettivo dichiarato di adesione”

    Bruxelles – O la Russia o l’Unione europea. Una cosa esclude l’altra e la Serbia deve chiarire che intenzioni ha per il suo presente e ancor di più per il proprio futuro. La Commissione europea non gradisce il viaggio del vice primo ministro serbo Aleksandar Vulin in Russia e il suo incontro col presidente russo Vladimir Putin, e avverte che scelte troppo filo-russe potrebbero chiudere le porte dell’Ue per Belgrado bloccando di fatto il processo di adesione.“Sotto la guida di Vladimir Putin la Russia viola lo Statuto delle Nazioni Unite e il diritto internazionale su cui si fonda l’Unione europea, e allinearsi alla Russia non è compatibile con i principi dell’Ue e in contrasto con ciò che richiede l’adesione all’Ue”, mette in chiaro Peter Stano, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell. La missione istituzionale condotta da Vulin “è in contrasto con l’obiettivo dichiarato di aderire all’Ue”, e da Bruxelles arriva l’invito esplicito ad “astenersi dal rafforzare i legami con la Russia”.La richiesta è però un minaccia. L’incompatibilità delle politica di Belgrado con i valori e l’acquis comunitario implica per l’Unione europea il dover riconsiderare il processo di adesione, il che vuol dire minacciare di sospenderlo come l’esecutivo comunitario ha iniziato a fare con la Georgia. La Serbia ha fatto richiesta di adesione all’Ue nel 2009, e a marzo 2012 ha ottenuto lo status di Paese candidato. Da allora oltre un decennio di lavorio continuo, reso più complicato dalla questione del Kosovo e la normalizzazione dei rapporti tra le due entità (il Kosovo continua a non essere riconosciuto come Stato indipendente e sovrano da tutti i 27), ma comunque mai messo in discussione come oggi.

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    La Mongolia non arresta Putin, ma l’Ue non può alzare troppo la voce: servono le materie prime critiche per il Green Deal

    Bruxelles – La guerra russo-ucraina, rispetto di diritto internazionale, Stato di diritto e diritti fondamentali. E poi la partita delle risorse, indispensabile per le ambizioni di motore ‘green’ globale. L’Unione europea ha tanto da guadagnare con nuovi, maggiori, rapporti con la Mongolia e la visita del presidente russo Vladimir Putin crea insofferenze e imbarazzi. Non si può forzare la mano né fare troppo la voce grossa visto gli interessi geopolitici in ballo con Ulan Bator, ma la Commissione europea, attraverso la portavoce Nabila Massrali, non nasconde il disappunto per l’inazione delle autorità mongole.“C’è un mandato di arresto della Corte penale internazionale, e la Mongolia in quanto aderente allo Statuto di Roma ha degli obblighi giuridici“, il commento di Massrali ad una visita che ha permesso al leader russo di giocare la sua partita in senso anti-occidentale ed europeo. Gli accordi per le forniture di gas sono introiti per le casse di Mosca e un modo per aggirare le sanzioni a dodici stelle, mentre l’intesa per le materie prime critiche sono una sottrazione alle ambizioni europee.Rame e terre rare sono tra le risorse che la Mongolia può offrire. Elementi utili al Green Deal dell’Unione europea, schiacciata tra l’esigenza di condannare la Russia di Putin e l’impossibilità di una linea troppo dura nei confronti di un partner strategico che rischia di sfuggire. Perché anche Elon Musk, ha considerato l’ipotesi di andare a produrre in Mongolia le batterie per le sue Tesla elettriche in ragione di quello che si trova nel sottosuolo mongolo. Che offre molto di più del rame. Ci sono litio, nichel e manganese, tutti utili per le batterie, il molibdeno, strategico come componente delle celle solari, e ancora la grafite, necessaria per i transistor, i dispositivi elettronici presenti nei semiconduttori di cui l’Ue ha bisogno per la sua doppia transizione verde e tecnologica.L’accordo di cooperazione Ue-Mongolia è entrato in vigore nel 2017, e l’aggressione russa dell’Ucraina nel 2022 ha indotto il blocco dei Ventisette a dover ridisegnare ogni agenda e la necessità di una diversificazione degli approvvigionamenti. A Bruxelles si sono resi conto che la dipendenza dell’Unione europea da catene di fornitura credibili e sicure per materie prime critiche utili a tradurre in pratica la doppia transizione e gli sforzi della Mongolia per diversificare in modo sostenibile le sue relazioni economiche potrebbero avvicinare i due soggetti, tenuto conto anche delle esigenze europee di affrancarsi dal fornitore cinese.Gli analisti del Parlamento europeo fanno un punto della situazione, in un documento di lavoro che riassume passato, presente, e potenziali scenari futuri: “Mentre la corsa alle materie critiche è in pieno svolgimento e i principali paesi importatori di queste materie prime hanno progettato politiche di riduzione del rischio economico per trovare alternative all’attuale quasi monopolio delle esportazioni della Cina come le terre rare, l’Ue e la Mongolia potrebbero stipulare una partnership sulle materie prime critiche“.Un partenariato di tale tipo e natura sarebbe una formula vincente per entrambi i contraenti. La produzione energetica della Mongolia ad oggi deriva al 95 per cento dal carbone, e il potenziale per le rinnovabili resta non sfruttato. L’Ue può offrire una mano per pulire l’economia mongola, e pulire la propria attraverso quelle risorse che non ha ma che potrebbe ottenere dal partner. Il dilemma tutto europeo è servito. La Mongolia acquista una rilevanza e una valenza tutta nuova in uno scacchiere internazionale sempre più complesso. In questa partita Putin sembra aver giocato d’anticipo, con le autorità di Ulan Bator che non ne hanno disposto l’arresto per un risultato che è una doppia beffa per l’Europa. “La Mongolia ha tutto il diritto di stabilire le proprie relazioni bilaterali”, il punto è proprio questo, e la portavoce della Commissione ne è consapevole tanto è vero che lo ricorda lei stessa. La Mongolia, schiacciata tra Russia e Cina, ha fatto le sue scelte, che non sorridono all’Ue.

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    Ucraina, tensione Borrell-Tajani: “Ridicolo non permettere a Kiev di attaccare”

    Bruxelles – Sulla guerra russa in Ucraina, adesso è strappo Ue-Italia e tensioni tra l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, e il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Il primo non gradisce la linea del secondo, e ne critica le argomentazioni. Negare, come ha fatto Tajani, la possibilità di utilizzo delle armi degli alleati su suolo russo è una logica considerata come ipocrita. “Penso sia ridicolo dire che consentire di colpire all’interno del territorio russo significhi essere in guerra contro Mosca”, sostiene Borrell all’inizio della riunione informale dei ministri della Difesa, tornando sulle dichiarazioni di Tajani di ieri. Il ministro degli Esteri ha detto che l’Unione non è in guerra contro la Russia per spiegare il ‘no’ del governo all’eliminazione delle restrizioni sull’utilizzo delle armi occidentali, e l’Alto rappresentante insiste nel bacchettare il partner: “Non siamo in guerra contro Mosca, penso sia ridicolo dirlo. Stiamo sostenendo l’Ucraina“. Ecco il distinguo operato da Borrell, per replicare alle affermazioni non gradite dell’Italia. “L’Ucraina – continua Borrell – viene attaccata dal territorio russo e, secondo il diritto internazionale, può reagire attaccando i luoghi da cui viene attaccata. Quindi, non c’è nulla di strano in questo”. Dall’Italia dunque dichiarazioni inaccettabili e posizioni incomprensibili. Resta fermo per gli Stati membri il diritto di scegliere, questo Borrell né lo nega né lo mette in discussione. “E’ chiaro che questa è una cosa che spetta a ciascuno di loro”, anche perché quella estera e di difesa “non è una politica dell’Ue”. Quindi, a Tajani che lo accusava di parlare a titolo personale, replica: “Come Alto rappresentante devo avere opinioni personali se voglio spingere il consenso tra gli Stati membri”. Le riunioni informali aprono un solco tra il governo Meloni e l’Ue.

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    Medio Oriente, Borrell formalizza la richiesta di sanzioni per i ministri di Israele. “Decideranno gli Stati, ma il processo è avviato”

    Bruxelles – Josep Borrell non molla, al contrario insiste. L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue vuole mandare un messaggio, chiaro e diretto: c’è un’Unione europea che non è più disposta a sostenere le ragioni di Israele di fronte a una risposta all’aggressione di Hamas che ha passato il limite del tollerabile. L’idea di sanzionare i ministri israeliani per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, e delle Finanze, Bezalel Smotrich, diventerà una proposta formale e ufficiale.“Ho deciso di proporre l’inclusione dei due ministri israeliani nella lista Ue delle sanzioni”, annuncia al termine della riunione informale dei ministri degli Esteri. “Ovviamente spetterà ai ministri decidere, come sempre, il processo sarà avviato“. La proposta con ogni probabilità sarà affossata dagli Stati. L’unanimità richiesta per approvare le sanzioni non c’è, vista la contrarietà dichiarata dell’Italia, ma non solo. L’idea non piace all’Ungheria di Orban, e neppure alla Germania. Ma Borrell vuole comunque inviare un messaggio al governo di Benjamin Netanyahu.Non vengono messe in discussione le ragioni dello Stato ebraico. “L’attacco di Hamas ha dato origine a una guerra, e la guerra ha dato origine a una situazione drammatica dal punto di vista umanitario”, dice sintetizzando in estrema sintesi gli avvenimenti dal 7 ottobre 2023 in poi. Ma si scaglia contro la reazione di Israele, e una condotta che a Bruxelles viene vista come irresponsabile. “Dichiarazioni sulla costruzione di una sinagoga dentro una moschea suggeriscono una radicalizzazione della situazione” da parte israeliana, aggiunge in conferenza stampa. Una presa di distanze da Ben-Gvir, che ha dichiarato di voler costruire un luogo di culto ebraico laddove sorge la mosche di Al-Aqsa, a Gerusalemme.E’ l’ultimo atto di una giornata iniziata con un attacco frontale di Borrell nei confronti di Israele. Ai Ventisette chiedeva di condannare l’operato dell’amministrazione Netanyahu, bollata come “inaccettabile”, e di non prevedere tabù nei confronti di un alleato storico considerato dall’Alto rappresentante come non più difendibile. Finora l’Ue si era espressa contro i coloni estremisti, decretando sanzioni restrittive nei loro confronti, ma è la prima volta che prende corpo l’iscrizione nella lista nera di esponenti di governo israeliano. Con ogni probabilità la linea Borrell non passerà, ma adesso Tel Aviv è avvisata: il sostegno senza ‘se’ e senza ‘ma’ dell’Europa è rimessa in discussione.E’ questa un’altra incrinatura dei rapporti tra Europa e Israele, dopo che Belgio e Slovenia hanno sostenuto l’azione legale del Sudafrica, che ha trascinato lo Stato ebraico davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, con l’accusa di crimini di genocidio nei confronti dei palestinesi.

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    Borrell allo scontro con gli Stati dell’Ue su Ucraina e Medio Oriente

    Bruxelles – L’Unione europea si impegna tanto, e produce troppo poco. L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, fa auto-critica e poi critica gli Stati membri. Sull’Ucraina ci sono ritardi e promesse non mantenute, sul modo in cui Israele sta gestendo l’offensiva di Hamas sta invece chiudendo gli occhi su ciò che andrebbe condannato.In occasione della riunione informale dei ministri degli Esteri in corso a Bruxelles Borrell si presenta alla stampa con il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, per permettere al partner di esternare tutta la contrarietà per un’Ue a doppia velocità. “Solleverò una questione per noi spaventosa”, e cioè “il divario tra gli annunci sull’assistenza militare e la consegna effettiva” di quanto promesso, fa sapere un visibilmente contrariato Kuleba. “Ogni ritardo lo paghiamo noi. Quale che sia la ragione per i ritardi, è tempo di rendere operative le decisioni”. Un riferimento ai sistemi di difesa aerea che pure si è deciso fornire a Kiev.Parole che trovano terreno fertile in Borrell. “Condivido le preoccupazioni, e ne parleremo con i ministri” degli Stati membri. L’Alto rappresentante vuole mettere pressioni sui governi, e imprimere un cambio di passo, visto anche come si stanno mettendo le cose. “Le operazioni a Kursk sono un duro colpo alla narrativa di Putin”. Vuol dire che l’Ucraina guadagna terreno, ma la Russia “non smetterà di colpire” finché l’Ucraina sarà in grado di difendersi completamente. Tradotto, in termini chiari: “I sistemi di difesa aerea erano di critica importanza a giugno, e lo ancor più di critica importanza oggi“.Borrell si scusa con Kuleba come può, e accusa pubblicamente gli Stati. “Kuleba ha ragione: gli annunci sono una cosa, la realizzazione un’altra. Chiederò agli Stati di dare ciò che hanno promesso, perché avere forze armate meglio equipaggiate è un elemento chiave per permettere di vincere la guerra”.Ma la furia dell’Alto rappresentante è rivolta nei confronti dei Ventisette per come non stanno gestendo la crisi in Medio Oriente. Invita a trovare quel coraggio fin qui mancato. “Non dovremmo avere tabù” quando si parla di Israele, sottolinea. Perché una volta di più Borrell va all’attacco frontale dell’attuale governo israeliano. “Un ministro israeliano lancia messe di odio che sono un chiaro invito a calpestare il diritto umanitario”, ricorda Borrell, in riferimento al ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, che sosteneva la necessità di affamare la popolazione a Gaza.C’è poi “la preoccupante intenzione di spostare la popolazione in Cisgiordania come già fatto a Gaza“, sottolinea ancora l’Alta rappresentante, producendo sfollati e di fatto disperdendo i palestinesi dai loro territori. Qualcosa di “completamente inaccettabile”. Israele ha passato il segno, e l’Ue dovrebbe farsi sentire con decisione e senza tentennamenti, proprio come Borrell sente che andrebbe fatto nei confronti dell’Ucraina. Il consiglio informale dei ministri degli Esteri sarà l’occasione per una lavata di testa.

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    Maduro riconfermato presidente del Venezuela tra i dubbi della comunità internazionale

    Bruxelles – Nicolas Maduro sarà ancora presidente della Repubblica del Venezuela. In carica dal 2013, è uscito vincitore dall’appuntamento elettorale di ieri (28 luglio), conquistando il 51,4 per cento dei voti contro il 44,2 di Edmundo Gonzalez Urrutia, candidato per l’opposizione. Un esito contro tutte le previsioni, su cui aleggiano già le perplessità di una buona fetta della comunità internazionale. Compresa l’Ue, con l’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, che chiede di garantire “il conteggio dettagliato dei voti e l’accesso ai registri delle votazioni presso i seggi elettorali”.I sondaggi davano Gonzalez Urrutia, politologo e diplomatico scelto dalla Piattaforma Unitaria per mettersi alle spalle più di vent’anni di chavismo, avanti di 20-30 punti percentuali. La leader dell’opposizione, Maria Corina Machado, ha denunciato irregolarità nello scrutinio e ha rivendicato la vittoria del proprio candidato “con il 70 per cento” dei voti. Maduro si difende all’attacco, accusando “un massiccio attacco hacker” al centro del Consiglio elettorale, escogitato da chi “voleva impedire che il popolo del Venezuela avesse il suo risultato ufficiale”. Per il presidente, i pesanti ritardi nello scrutinio sono stati architettati “per poter gridare alla frode“. La coalizione a sostegno di Gonzalez – che aveva schierato migliaia di osservatori ai seggi di tutto il Paese – ha denunciato invece che in molti seggi gli osservatori sono stati “costretti a andarsene”, ed è stato quindi impossibile verificare che non ci fossero brogli.Maria Corina Machado e Edmundo Gonzalez Urrutia denunciano irregolarità nello scrutinio elettorale (Photo by Federico PARRA / AFP)D’altra parte, a partire dal segretario di Stato americano, Anthony Blinken, sono in molti a ritenere “poco credibili” le cifre annunciate dal Partito Socialista Unito del Venezuela. Anche la Colombia di Gustavo Petro e il Cile di Gabriel Boric. Dall’Unione europea, che a maggio si è vista rifiutare da Caracas l’ingresso di una delegazione di osservazione elettorale, si sono levate diverse voci. Al capo della diplomazia Ue, Josep Borrell, hanno fatto eco i ministri degli Esteri di Spagna, Germania e Italia. Per José Manuel Albares “la volontà democratica del popolo venezuelano deve essere rispettata con la presentazione dei verbali di tutti i seggi elettorali per garantire risultati pienamente verificabili”, mentre una nota di Berlino dichiara che “i risultati elettorali annunciati non bastano a dissipare i dubbi sul conteggio dei voti“. Ancora più diretto il vicepremier italiano Antonio Tajani, che su X si è chiesto se “il risultato che annuncia la vittoria di Maduro rispecchia veramente la volontà del popolo?”.Nicolas Maduro festeggia a Caracas (Photo by Yuri CORTEZ / AFP)Con la stessa fermezza con cui Elvis Amoroso, capo del Consiglio nazionale elettorale del Venezuela, aveva dichiarato che “i rappresentanti dell’Ue non sono i benvenuti nel nostro Paese mentre vengono mantenute le sanzioni genocide contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela, e in particolare il suo governo”, Maduro si è scagliato contro le ingerenze dell’Occidente. “Non ci sono riusciti con le sanzioni, con l’aggressione, con la minaccia. Non ce l’hanno fatta ora e non ce la faranno mai con la dignità del popolo del Venezuela. Il fascismo in Venezuela, la terra di Bolivar e Chavez, non passerà”, sono state le sue prime parole pronunciate davanti al Palazzo Miraflores.Visto il clima incandescente che attraversa il Venezuela – con l’economia in recessione, tassi d’inflazione annua a tre cifre, gli abusi della polizia e le pratiche sempre più antidemocratiche del governo di Maduro – da Bruxelles è arrivato anche l’auspicio che si mantenga per lo meno “la calma e la civiltà” con cui è trascorso il giorno delle elezioni. Giorno in cui Hugo Chavez, sulla cui eredità si fonda il decennale potere di Maduro, avrebbe compiuto 70 anni. “Chavez vive. Chavez questo trionfo è tuo”, ha gridato il presidente alla folla di sostenitori.

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    L’Italia e altri 7 Paesi Ue chiedono a Bruxelles un cambio di strategia sulla Siria

    Bruxelles – Dal 2011 a oggi, l’Ue e i suoi Stati membri hanno mobilitato più di 33 miliardi di euro per l’assistenza umanitaria e allo sviluppo per i 7,2 milioni di cittadini sfollati in Siria e per gli oltre 5 milioni di rifugiati siriani nella regione. Un “enorme sforzo umanitario, che non si è tradotto in un corrispondente ruolo politico”. È la valutazione espressa in una lettera indirizzata all’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, dall’Italia e altri 7 Paesi membri, che chiedono a Bruxelles di cambiare strategia nei confronti del Paese lacerato da una delle peggiore catastrofi umanitarie della storia moderna.Insieme al ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, la lettera è stata firmata dagli omologhi di Austria, Slovenia, Slovacchia, Croazia, Grecia, Repubblica Ceca e Cipro. Al suo arrivo al Consiglio Ue Affari Esteri, il vicepremier Tajani ha lamentato che la Siria è diventato un tema “del quale si parla poco”, sovrastato dai recenti conflitti in Ucraina e a Gaza. “Dobbiamo avere una strategia europea anche su quella parte di Medio Oriente – ha avvertito Tajani -, da dove partono tantissimi profughi”.Dopo tredici anni di guerra civile il 90 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e 7 siriani su 10 necessitano di assistenza umanitaria. Il governo centrale, che occupa oggi ampie porzioni del territorio siriano, è ancora in mano a Bashar al Assad. Un regime che si è macchiato di atrocità contro la popolazione civile, e sul quale grava dal 2011 un duro regime di sanzioni Ue. Ma per le otto cancellerie europee, l’impegno umanitario non basta se permane un totale muro diplomatico nei confronti di Assad.Bashar al-AssadL’attuale strategia sulla Siria, adottata il 3 aprile 2017 dal Consiglio dell’Ue, si concentra su sei aree chiave: porre fine alla guerra attraverso una vera transizione politica, promuovere una transizione significativa e inclusiva, salvare vite umane rispondendo alle esigenze umanitarie dei più vulnerabili, promuovere la democrazia, i diritti umani e la libertà di parola, assicurare alla giustizia i responsabili di crimini di guerra, sostenere la resilienza della popolazione e della società siriana.“Riteniamo che sia giunto il momento di rivedere e valutare i risultati della strategia raggiunti finora, l’efficacia delle nostre azioni e dei nostri strumenti”, recita la lettera al capo della diplomazia Ue. L’Italia e gli altri 7 chiedono una politica per la Siria che sia “più attiva, orientata ai risultati e operativa”. L’obiettivo è “raggiungere le condizioni per ritorni sicuri, volontari e dignitosi dei rifugiati siriani, in conformità con gli standard dell’Unhcr”.I Paesi europei accolgono oltre un milione di rifugiati dalla Siria, di cui più della metà in Germania. Anche nel 2023, i cittadini siriani sono stati i più numerosi tra i richiedenti asilo, circa 183 mila. Contro la lettera firmata da Tajani si è immediatamente scagliata la delegazione del Partito Democratico a Bruxelles, che ha denunciato la presenza di “diversi punti poco chiari o contraddittori che chiediamo al ministro italiano di chiarire pubblicamente”. Lucia Annunziata, Nicola Zingaretti, Giorgio Gori, Alessandra Moretti e Marco Tarquinio – i cinque dem che fanno parte della Commissione Affari Esteri all’Eurocamera -, si chiedono come sia possibile conciliare “l’affermata volontà di contribuire al raggiungimento per un ritorno sicuro, volontario e dignitoso dei rifugiati siriani, in conformità con gli standard dell’Unhcr con la richiesta di rilanciare un dialogo sostanziale e significativo con gli attuali governanti di Damasco”.All’accusa Pd di voler “riabilitare Assad” per potergli rispedire indietro i profughi siriani, Tajani ha risposto in maniera pragmatica: “Abbiamo sempre condannato alcuni comportamenti per quanto riguarda i diritti civili, ma non possiamo non tener conto di ciò che sta accadendo, serve una strategia e bisogna discuterne”. Il problema è ora sulla scrivania di Borrell, che ne discuterà con i ministri dei 27 già dal prossimo Consiglio Ue Affari esteri, dopo la pausa estiva. Sul primo giro di tavolo, tenutosi oggi a Bruxelles come ultimo punto dell’incontro dei ministri, il capo della diplomazia europea ha commentato: “Il lavoro continuerà, con pragmatismo ma senza ingenuità. Conosciamo il regime di Assad, sappiamo quanto è vicino a Iran e Russia”.