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    Oliver Röpke (CESE): Fermiamo la guerra. Tuteliamo i lavoratori. Salviamo la democrazia

    L’urgenza della situazione in Ucraina, il dramma del popolo ucraino, il fatto che tenga testa, con coraggio e successo, a un nemico molto più potente – tutto questo ha scosso fin nelle fondamenta quello che, solo pochi mesi fa, era spesso considerato l’ordine naturale delle cose in Europa.
    La guerra stessa, che si svolge alle porte dell’Unione europea, ci ha ricordato che esiste un mondo al di là dei nostri confini. Le immagini e le notizie da cui siamo bersagliati quotidianamente ci rammentano la brutalità della guerra – un conflitto che è in corso sulla soglia di casa nostra -, compresa la recente scoperta di fosse comuni e di indizi di quelli che potrebbero essere veri e propri crimini di guerra. . Le forze armate e i razzi di Putin hanno colpito Kyiv e, anche dopo il parziale ritiro delle truppe russe e il contrattacco degli ucraini, l’offensiva prosegue con immutata violenza e i civili continuano a morire. Dopo aver rinunciato a un Blitzkrieg nei primi giorni di guerra e aver subito gravi perdite, Putin sembra essere passato alla strategia di un attacco mirato e più graduale, devastando ogni metro di terreno conquistato. Sfruttando l’enorme superiorità della Russia negli equipaggiamenti convenzionali, e in particolare nelle armi pesanti, Putin continua ad avanzare, costringendo migliaia di persone ad abbandonare le loro case e uccidendone molte altre. Gli indizi che siano stati effettivamente perpetrati dei crimini di guerra e l’altissimo numero di profughi suggeriscono che l’obiettivo della strategia è fare in modo che quasi nessun ucraino rimanga nelle retrovie per contestare l’annessione di fatto (anche con il rilascio di passaporti russi) dei territori ucraini occupati. Nell’UE le conseguenze economiche del conflitto stanno già colpendo duramente i più vulnerabili, e se la guerra perdura la situazione probabilmente non farà che peggiorare.
    Per fortuna la risposta, dopo un’iniziale esitazione, è stata unitaria e netta: un pacchetto di misure per sanzionare Putin e il suo regime, la solidarietà con i milioni di profughi in fuga dinanzi all’invasione russa e un chiaro sostegno al popolo ucraino. La direttiva sulla protezione temporanea è stata un elemento fondamentale di questa risposta. La priorità assoluta è assistere l’Ucraina e prestare aiuto e soccorso ai profughi ucraini e alle società che li accolgono. La società civile ha svolto e continuerà a svolgere un lavoro straordinario, dalla raccolta e l’invio di donazioni all’offerta di un tetto e di assistenza alle persone in fuga. Il gruppo Lavoratori del CESE, unitamente alla Confederazione europea dei sindacati (CES/ETUC), condanna l’aggressione russa ed esprime la sua solidarietà al popolo ucraino. Siamo in contatto permanente con i nostri omologhi ucraini per garantire che il maggior numero possibile di aiuti giunga là dove è più necessario. Ora è più importante che mai mantenere i nostri sforzi a questo stesso ritmo, evitando che la situazione si “normalizzi” e di rivolgere altrove la nostra attenzione. Un sostegno continuo con tutti i mezzi disponibili è l’unico modo per conseguire la pace, e l’Ucraina ha un gran bisogno delle risorse necessarie per fermare l’invasione: fintantoché Putin considererà probabile una vittoria militare, si siederà al tavolo dei negoziati solo per inscenare una finzione utile a serrare i ranghi del suo esercito.
    Dobbiamo inoltre ricordare che questa guerra è solo l’ultimo anello di una lunga catena, a partire dalla Cecenia fino alla Georgia e alla Crimea. Qualora ci fosse ancora bisogno che ci venisse ricordato, Putin ci fornisce continuamente la prova di come l’Ucraina sia solo un ulteriore tassello di una visione imperialista di più ampio respiro, secondo la quale intere regioni d’Europa dovrebbero piegarsi al suo regime autocratico o essere considerate degli aggressori. È da ingenui pensare che questa volta il presidente russo si potrà accontentare di quello che ha già ottenuto. Un altro aspetto di questo conflitto è la guerra che Putin sta combattendo contro il suo stesso popolo: mantenuto in stato di terrore, disinformato dalla propaganda, diviso dalla polarizzazione delle opinioni, in un paese in cui il dissenso equivale al tradimento e chi osa parlare chiaro e forte viene direttamente eliminato.
    Come è avvenuto per la pandemia di coronavirus, anche l’invasione dell’Ucraina ci ha colto impreparati: in questo caso, sono molti i paesi che non hanno provveduto a diversificare le loro forniture di energia rispetto alle importazioni di combustibili fossili dalla Russia. Questa dipendenza incauta e sconsiderata, dannosa sia per il clima che per la nostra sovranità, deve cessare. Sicuramente le conseguenze della guerra graveranno molto di più sugli ucraini, ma anche altri non ne rimarranno indenni: le sanzioni e la recessione colpiranno duramente i lavoratori più vulnerabili della Russia e dell’UE. L’impennata dei prezzi dell’energia, il tasso di inflazione galoppante, l’aumento dei costi dei prodotti di base… siamo solo all’inizio. Nel frattempo, su molti paesi che non possono più contare sulle esportazioni ucraine incombe una potenziale penuria di derrate alimentari e una crisi dovuta a carestia e fame.
    L’UE e i suoi Stati membri devono agire, salvaguardando il tenore di vita dei cittadini europei, garantendo che la speculazione sui prezzi dell’energia non spinga ancora di più le nostre famiglie verso la precarietà energetica e le nostre industrie verso il collasso, e anche sostenendo le società che accolgono milioni di profughi. Servono inoltre riforme a lungo termine in un mercato dell’energia che ha chiaramente mostrato di star funzionando male e come qualsiasi perturbazione abbia ripercussioni dirette sui lavoratori e sui cittadini in generale. Il peggioramento della situazione attuale degli europei dovrebbe anche servire loro da ammonimento, dato che i leader autocratici prosperano sul terreno delle disuguaglianze e della povertà. La democrazia è minacciata da autocrati come Putin, che considera l’Ucraina – e anche altri paesi – territorio russo, e si impadronisce delle risorse dei suoi vicini con il pretesto di voler tutelare determinate identità etniche.
    La democrazia è minacciata anche da alcuni leader politici nella stessa UE che vorrebbero costruire un modello simile e che traggono alimento dalla crescita delle disuguaglianze e della povertà. Il sostegno alla concessione all’Ucraina dello status di paese candidato è un segnale positivo forte: l’Europa non deve più essere un terreno di gioco delle superpotenze, ma deve invece formare un’Unione coesa e pacifica che si batte per la libertà e il benessere dei suoi cittadini. Tuttavia, lo status di paese candidato è solo la prima tappa di un lungo percorso, ed è anche un’opportunità per fissare standard dell’UE per il processo di ricostruzione postbellica dell’Ucraina. Tra questi standard europei figurano il rafforzamento dell’autonomia delle parti sociali e della democrazia sociale, il rispetto integrale dei diritti sociali e il recepimento nella legislazione nazionale di tutto il rimanente acquis comunitario, nonché la garanzia del pieno rispetto dello Stato di diritto.
    Sebbene all’Ucraina sia stato concesso lo status di paese candidato, va detto che l’UE non è ancora pronta per un nuovo e importante allargamento: le norme attuali non sono adeguate; è questo il chiaro messaggio emerso dalle raccomandazioni formulate durante la Conferenza sul futuro dell’Europa. L’Unione europea deve accelerare le sue riforme, semplificando e rendendo più democratici i suoi processi decisionali e modificando i suoi meccanismi affinché da un sistema concepito per pochi Stati membri si passi a un sistema in grado di tenere insieme i quasi 30 paesi che potrebbero costituire l’UE nel prossimo futuro.
    Il gruppo Lavoratori, per parte sua, continuerà a monitorare la situazione delle persone in fuga dall’Ucraina a causa della guerra, e in particolare l’assistenza che ricevono nei paesi di accoglienza e la loro integrazione nel mercato del lavoro dell’UE, per poter mettere in campo misure volte a scongiurare il lavoro precario e lo sfruttamento della manodopera. Continueremo inoltre ad essere a fianco dei sindacati nei loro sforzi per raccogliere e far pervenire gli aiuti ai lavoratori e ai sindacati ucraini.
    *Oliver Röpke, presidente del gruppo Lavoratori del Comitato economico e sociale europeo

    L’attacco ha scosso l’UE tutta intera e svelato, ancora una volta, l’autentico volto delle autocrazie. Continueremo ad essere a fianco dei sindacati nei loro sforzi per raccogliere e far pervenire gli aiuti ai lavoratori e ai sindacati ucraini

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    La Russia è la “principale minaccia diretta” della NATO. Ma per la prima volta si considera anche quella cinese

    Bruxelles – È tutto pronto per il Summit NATO di Madrid del 29-30 giugno e per il nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica. “Prenderemo molte decisioni importanti, a partire dalla svolta nel considerare il nuovo contesto della sicurezza globale”, ha anticipato in conferenza stampa il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), Jens Stoltenberg, spiegando le decisioni su Russia, Cina, rafforzamento e allargamento dell’Alleanza.
    Il nuovo concetto strategico della NATO “risponderà a un’era di competizione strategica” in cui “la Russia è la più significativa e diretta minaccia” per la sicurezza degli alleati. L’accusa a Mosca è di aver “rifiutato il tentativo di dialogo portato avanti per anni e aver scelto piuttosto il confronto” con l’Alleanza: “Dobbiamo prenderne atto, non abbiamo avuto successo per colpa delle scelte del Cremlino”. Ma il segretario generale Stoltenberg ha sottolineato che “per la prima volta consideriamo anche la Cina“, a causa delle “sfide che Pechino porta ai nostri valori”. Non è un caso se Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud “si uniranno alla nostra riunione come partner per la prima volta” a Madrid.
    Di fronte alla minaccia portata dalla Russia in Ucraina e ai Paesi del fianco orientale della NATO, “dobbiamo rafforzare la nostra capacità di difesa”, anche e soprattutto a partire dal “rafforzamento della spesa militare” dei singoli Paesi, oltre la soglia del 2 per cento del prodotto interno lordo. Una difesa che coinvolge anche gli alleati nella regione baltica, considerate le nuove tensioni con il Cremlino per la questione del divieto di transito sul territorio della Lituania per le merci russe sottoposte a sanzioni e dirette verso l’exclave di Kaliningrad. “Qualsiasi territorio dell’Alleanza deve essere difeso, deterrenza significa prevenire un conflitto, non provocarlo“, ha messo in chiaro Stoltenberg, facendo riferimento alle “oltre 400 mila truppe stanziate nell’Europa orientale, buona parte delle quali nel Baltico”. Per quanto riguarda l’Ucraina, invece, “ogni giorno sul campo si dimostra quanto è stato sostanziale il nostro supporto a livello di addestramento dell’esercito ucraino”, che riceverà “ulteriori forniture militari e di equipaggiamenti”, tra cui sistemi anti-droni.
    Altra questione cruciale sarà la candidatura di Svezia e Finlandia alla NATO. Anticipando l’incontro di domani (martedì 28 giugno) a Madrid con il presidente della Finlandia, Sauli Niinistö, la prima ministra svedese, Magdalena Andersson, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, Stoltenberg ha messo in guardia che “non posso fare promesse, ma servono progressi, perché sono candidature storiche che rafforzerebbero la NATO e la stabilità dell’area euro-atlantica”. Rispondendo alle domande sul blocco imposto dalla Turchia, il segretario generale ha ribadito diplomaticamente che “dobbiamo considerare le preoccupazioni di tutti gli alleati, ma stiamo lavorando duro perché i due Paesi scandinavi possano unirsi a noi il prima possibile”.

    Durante il Summit a Madrid sarà presentato il nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica, che considera il fallimento del dialogo degli ultimi anni con Mosca. Il segretario generale Stoltenberg: “Dobbiamo prendere atto del nuovo contesto di sicurezza globale”

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    Il vertice dell’UE aggiorna l’agenda per l’Ucraina: ulteriore sostegno militare, ricostruzione e attuazione delle sanzioni

    Bruxelles – Sostegno militare, che deve arrivare fin da subito dagli Stati membri. Sostegno alla ricostruzione, che deve partire dalla strategia della Commissione europea, fermezza sulle sanzioni. I leader dell’UE aggiornano l’agenda politica sull’Ucraina. Le conclusioni adottate dai Ventisette riuniti a Bruxelles non si limitano alla decisione storica di riconoscere lo status di Paese candidato, che avvia un percorso di lungo periodo in termini di riforme e rispetto delle condizioni richieste. C’è soprattutto un percorso per l’immediato, che parte da “ulteriore sostegno militare”.
    I capi di Stato e di governo ribadiscono una volta di più che il blocco a dodici stelle “resta fermamente impegnata a fornirlo” per aiutare l’Ucraina a esercitare “il suo diritto intrinseco all’autodifesa” contro l’aggressione russa e a difendere la propria integrità territoriale e sovranità. Per questo motivo i leader invitano i ministri responsabili a “lavorare rapidamente per un ulteriore aumento del sostegno militare”.
    Sempre nell’immediato, serve non avere indecisioni sul percorso sanzionatorio intrapreso fin qui quale risposta all’aggressione russa. Quindi “proseguiranno i lavori sulle sanzioni, anche per rafforzare l’attuazione e prevenire l’elusione”. In questa ottica i leader invitano “tutti i paesi ad allinearsi” con le sanzioni dell’UE, “in particolare i paesi candidati”, vale a dire Turchia (dal 1999), Macedonia del Nord (dal 2004), Montenegro (dal 2010), Serbia (dal 2012) e Albania (dal 2014), e ovviamente Ucraina e Moldova.

    PM Orbán: We say yes to peace, but say no to more sanctions. Besides the war in Ukraine, the main cause of economic problems are the sanctions. We need peace now, not more sanctions, as the only antidote to war inflation is peace.
    — Zoltan Kovacs (@zoltanspox) June 23, 2022

    L’Ungheria tiene però a precisare che oltre il sesto pacchetto di sanzioni Budapest non intende spingersi. “Sì alla pace, no a più sanzioni”, la posizione espressa da Viktor Orban ai partner. “Oltre alla guerra in Ucraina, la principale causa di problemi economici sono le sanzioni. Abbiamo bisogno di pace ora, non di più sanzioni, poiché l’unico antidoto all’inflazione di guerra è la pace”.
    I leader non sembrano intenzionati a discutere di nuove sanzioni, ma di rendere il più efficaci possibili quelle già concordate. Per questo “dovrebbero essere rapidamente finalizzati i lavori sulla decisione del Consiglio che aggiunge la violazione delle misure restrittive dell’Unione all’elenco dei reati dell’UE“. Questo per l’immediato futuro. Per quello prossimo serve un’Ucraina tutta nuova. Perciò il Consiglio invita “la Commissione a presentare rapidamente le sue proposte sul sostegno dell’UE alla ricostruzione dell’Ucraina, in consultazione con partner, organizzazioni ed esperti internazionali”.
    Non solo ulteriore sostegno militare, dunque. Difesa, determinazione, ricostruzione. Questi gli imperativi che i leader dell’UE si sono imposti per aiutare l’Ucraina.

    I leader danno istruzioni a ministri, commissari europei e Paesi candidati. Ma Budapest frena su nuove restrizioni: “Sì alla pace, no alle sanzioni”

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    Il premier croato Plenković indica all’UE la “cifra storica” del nuovo millennio: “Le nostre democrazie contro le autocrazie”

    Bruxelles – Democrazie contro autocrazie, “questa è la cifra storica del momento in cui viviamo”. Nel suo intervento alla mini-sessione plenaria del Parlamento UE a Bruxelles, il premier della Croazia, Andrej Plenković, è stato particolarmente chiaro nell’illustrare la posizione che l’Unione deve continuare a portare avanti nell’approccio alla guerra russa in Ucraina e sul piano della dimensione esterna: “Siamo all’apice degli standard globali di democrazia, dobbiamo prendere la leadership della difesa e della promozione dei valori fondamentali, soprattutto nei confronti dei nostri vicini”.
    Il primo ministro della Croazia, Andrej Plenković, alla plenaria del Parlamento UE a Bruxelles (22 giugno 2022)
    Considerando lo “stravolgimento dell’ordine internazionale” provocato dall’invasione russa dell’Ucraina, il premier croato ha iniziato la propria analisi dalle cause che l’hanno determinato. “Mosca ha rilevato e interpretato una serie di debolezze dell’Occidente nel contesto generale“, che vanno dall’abbandono dell’Afghanistan “nel modo non più decoroso possibile” alla Brexit, passando dalla svolta politica epocale in Germania e gli appuntamenti elettorali in Francia: “Su scala più grande, la Russia si è comportata nello stesso modo del 2008, quando dopo le Olimpiadi di Pechino ha invaso la Georgia”, in un parallelismo con l’aggressione militare dell’Ucraina iniziata dopo la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi invernali di febbraio, sempre a Pechino.
    Ma nel 2022 “abbiamo assistito a un’enorme mobilitazione internazionale” a favore dell’Ucraina, che come ultimo stadio sta portando i Ventisette – e la Croazia “senza ambiguità” – a sostenere la richiesta di adesione di Kiev all’UE: “C’è una posizione comune sul riconoscimento, che sarà confermata al Consiglio di domani“, ha confermato il premier Plenković. Ma Zagabria è tra gli avanguardisti dell’allargamento dell’Unione: “Sosteniamo anche il conferimento dello status a Moldova e Georgia, perché la scelta di offrire la prospettiva europea è un’evoluzione politica cruciale per l’architettura del nostro continente“, o, in altre parole “una svolta enorme nel dibattito sull’Europa e nei confronti di Paesi che ancora non appartengono all’Unione”.
    E proprio su questo punto il premier della Croazia non ha nascosto che l’UE deve lavorare di più sul piano dell’allargamento ai Balcani Occidentali, in particolare nei confronti della Bosnia ed Erzegovina: “Siamo a favore del riconoscimento dello status di Paese candidato all’adesione anche per Sarajevo, non può essere l’ultima ruota del carro, sarebbe ingiustizia storica“, ha attaccato Plenković. Il tema è delicato e coinvolge direttamente i principi-cardine del processo di adesione all’UE (a cui la Bosnia non si è ancora pienamente allineata). Per questo motivo non sono attesi particolari passi in avanti al vertice UE-Balcani Occidentali in programma a Bruxelles appena prima dell’inizio del Consiglio, anche se la Slovenia – sostenuta da Zagabria – dovrebbe presentare una proposta per allineare Sarajevo a Kiev e Chișinău.
    La spinta in avanti di Zagabria deriva anche dal suo “approccio moderno alla sovranità“, come l’ha definito Plenković, ovvero una politica che mira a “raggiungere i nostri obiettivi nazionali, ma lavorando strettamente insieme ai partner e agli amici europei, superando le difficoltà attraverso la solidarietà comune che ci contraddistingue“. Un approccio che ha permesso a “un Paese che è stato riconosciuto a livello internazionale solo 30 anni fa” di continuare a promuovere “la nostra scelta europea”. È così che la Croazia è riuscita non solo ad aderire all’UE nel 2013, ma anche a “rispettare gli obiettivi economici e finanziari per diventare il 20esimo membro dell’Eurozona“. Dal primo gennaio del 2004 Zagabria riuscirà a realizzare “l’obiettivo di più profonda integrazione”, cioè l’adozione della moneta unica. “Ora attendiamo anche l’ingresso nell’area Schengen”, ha esortato Parlamento e Consiglio il premier croato.
    Nell’ottica della sovranità strategica dell’Unione Europea – un’altra forma di “approccio moderno alla sovranità”, per usare le parole di Plenković – la Croazia può rappresentare “un hub energetico da rafforzare, grazie alla nostra posizione geostrategica”. Zagabria sta potenziando un terminale di gas naturale liquefatto (GNL) “portandolo da 2,9 milioni a 6 milioni di metri cubi, con investimenti che serviranno non solo per la nostra economia, ma potenzialmente anche per Bosnia, Slovenia e Ungheria”. Inoltre, “l’oleodotto nell’Adriatico del Nord potrebbe rifornire anche le raffinerie in Serbia e in Slovacchia”, ha sottolineato il primo ministro croato. Gli investimenti in gasdotti, oleodotti e terminali GNL si iscrivono nella strategia di “diventare indipendenti dalle fonti fossili della Russia, garantendo la sicurezza di approvvigionamento energetico ai nostri cittadini e imprese attraverso reti energetiche europee“, per riprendere a una crisi da cui “nessuno rimarrà immune”, ha concluso il suo intervento il premier Plenković.

    Nel suo intervento alla sessione plenaria del Parlamento Europeo, il primo ministro della Croazia ha esortato l’Unione a “promuovere la leadership anche nella sfera esterna” e a riconoscere lo status di Paese candidato all’adesione a Ucraina, Moldova, Georgia e Bosnia ed Erzegovina

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    L’Ucraina ha ratificato la Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere. L’UE: “Passo sul cammino europeo”

    Bruxelles – L’Ucraina intraprende passi sempre più decisi per avvicinarsi all’Unione Europea, formali e sostanziali. Con la decisione presa dalla Verchovna Rada (il Parlamento nazionale), l’Ucraina è diventata il 36esimo Paese a ratificare la Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere. Ne ha dato notizia il profilo ufficiale dell’Assemblea su Twitter: “È una decisione storica!”

    Historical decision! #IstanbulConvention ratified!The Verkhovna Rada of #Ukraine ratified The @coe Convention on preventing and combating violence against women and domestic violence (Reg. № 0157). pic.twitter.com/52BAtMqjbD
    — Verkhovna Rada of Ukraine – Ukrainian Parliament (@ua_parliament) June 20, 2022

    Quella ratificata oggi (lunedì 20 giugno) dall’Ucraina è la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, trattato internazionale aperto alla firma dei membri del Consiglio a Istanbul l’11 maggio del 2011. Proprio la Turchia – primo Paese a ratificarla – è stata l’unica che ha revocato la propria partecipazione alla Convenzione (con un decreto firmato dal presidente, Recep Tayyip Erdoğan, nel 2021), mentre dei 27 Stati membri dell’Unione Europea, sono sei quelli che l’hanno sottoscritta ma non ratificata: Bulgaria, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Con 259 deputati a favore, 8 contrari, 47 astenuti e 28 schede bianche, la Verchovna Rada ha sancito che, a 11 anni dalla firma, per l’Ucraina è invece arrivato il momento di far entrare in vigore la Convenzione di Istanbul sul proprio territorio nazionale.
    (la mappa è aggiornata al 10 maggio 2022, prima della ratifica dell’Ucraina. Fonte: Consiglio d’Europa)
    “È un evento storico che ci porterà ancora più velocemente nell’Unione Europea, ringrazio i colleghi per essere rimasti fedeli ai valori europei, perché i diritti umani sono fondamentali”, ha commentato su Twitter il vicepresidente dell’Assemblea nazionale, Oleksandr Korniyenko. Parole confermate dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che, felicitandosi per la ratifica della Convenzione di Istanbul, ha riconosciuto il “continuo rafforzamento in Ucraina dei diritti umani, dell’uguaglianza di genere e della lotta contro la violenza contro le donne e la violenza domestica, nonostante le continue aggressioni della Russia”. Uno sforzo che rappresenta “un altro passo fondamentale” per il percorso del Paese verso l’Unione. Venerdì scorso (17 giugno) la Commissione ha adottato il proprio parere formale in merito alla richiesta di adesione di Kiev all’UE, raccomandando al Consiglio di garantire lo status di Paese candidato.
    “Poiché le donne e le ragazze sono particolarmente vulnerabili durante il conflitto, accolgo con grande favore l’approvazione da parte del Parlamento ucraino della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica”, ha dichiarato la segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinović Burić, in una nota. Congratulandosi con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e con i membri della Verchovna Rada per “aver dimostrato, ancora una volta, leadership e coraggio, e per aver dato seguito alle nostre precedenti discussioni su questo tema”, la segretaria generale Pejčinović Burić ha sottolineato che quello intrapreso da Kiev è “un enorme passo avanti nella protezione delle donne e delle ragazze da ogni forma di violenza, sia in Ucraina sia all’estero”.

    My statement @coe on Ukrainian Parliament’s approval of the Istanbul Convention ⁦@CoE_endVAW⁩ / Ma déclaration @coe_fr sur l’approbation par le Parlement ukrainien de la Convention d’Istanbul @CoE_endVAW ⁦@UKRinCoE⁩ https://t.co/P6FqztqGSr
    — Marija Pejčinović Burić (@MarijaPBuric) June 20, 2022

    Con la ratifica della Verchovna Rada (Parlamento nazionale), il Paese è diventato il 36esimo a ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa del 2011. Congratulazioni dall’alto rappresentante Borrell, mentre Kiev esulta per “un evento storico che ci porterà nell’Unione più velocemente”

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    L’UE cerca una risposta coordinata alla crisi alimentare globale: “Usare fame come arma è crimine contro umanità”

    Bruxelles – “Un crimine contro l’umanità”. Non usa giri di parole l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, parlando dell’utilizzo da parte del Cremlino della “fame globale come arma” politica e bellica per vincere la guerra in Ucraina. A margine di un Consiglio Affari Esteri che ha avuto come punto centrale in agenda la questione dell’insicurezza alimentare determinata dall’aggressione militare russa contro Kiev, l’alto rappresentante Borrell ha avvertito Mosca che “sarà ritenuta responsabile” di tale crimine: “Non è immaginabile che milioni di tonnellate di grano rimangano bloccate, mentre nel resto del mondo le persone muoiono di fame”.
    Ma i Ventisette non rimangono a guardare e durante il Consiglio Affari Esteri hanno delineato una strategia in quattro azioni per contrastare l’insicurezza alimentare globale, una sfida “senza precedenti” che rappresenta una delle molteplici conseguenze “disastrose” dell’invasione militare russa dell’Ucraina: una guerra che parte dal blocco del grano nei porti del Mar Nero e arriva in tutto il mondo, in particolare nelle regioni più a rischio di carestie e crisi alimentari. La risposta coordinata a livello Team Europe partirà dal fornire “solidarietà attraverso gli aiuti di emergenza e il sostegno all’accessibilità economica” per i Paesi più vulnerabili e sarà accompagnata dalla promozione della “produzione sostenibile, la resilienza e la trasformazione del sistema alimentare” in loco. Di cruciale importanza è anche la facilitazione degli scambi commerciali, “aiutando l’Ucraina a esportare prodotti agricoli attraverso diverse rotte e sostenendo il commercio globale”, oltre al “multilateralismo efficace” a sostegno del Gruppo di risposta alle crisi delle Nazioni Unite, “per coordinare gli sforzi globali”.
    A livello UE si tenta così di percorrere una strada “reattiva, responsabile e affidabile” a sostegno dei partner colpiti dalla drastica riduzione di esportazioni di grano e cereali dall’Ucraina. La risposta della squadra europea contrasta un’insicurezza alimentare la cui responsabilità è tutta del Cremlino: “Le truppe russe bombardano e occupano i terreni coltivabili dell’Ucraina, distruggendo aziende agricole, strutture di stoccaggio e di lavorazione degli alimenti, attrezzature e infrastrutture di trasporto”, si legge nelle conclusioni del Consiglio. I 27 ministri UE hanno ricordato che “non ci sono sanzioni sulle esportazioni russe di prodotti alimentari“, dal momento in cui le misure restrittive sono state “specificamente concepite” per non colpire i prodotti alimentari e agricoli: “Non vietano l’importazione, il trasporto, il pagamento o la fornitura di sementi” da parte di Paesi terzi, “ma si limitano a colpire le persone e le entità sanzionate”, è la precisazione contenuta nel documento.
    Al netto delle preoccupazioni e degli attacchi frontali contro il Cremlino, l’alto rappresentante UE Borrell si è detto “sicuro” che “alla fine le Nazioni Unite riusciranno a trovare un accordo per sbloccare il grano in Ucraina“. Mentre ai governi dell’Unione Africana è stata inviata “una lettera per spiegare nel dettaglio cosa è permesso fare e cosa no secondo il regime di sanzioni internazionali”, il rischio di “una grande carestia nel mondo, soprattutto nel continente africano” è stato sottolineato con preoccupazione anche dalla ministra degli Esteri francese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Catherine Colonna: “Esortiamo la Russia a smettere di giocare con la fame del mondo e a cessare il blocco dei porti ucraini”, ha affermato a margine del Consiglio.

    Al Consiglio Affari Esteri i Ventisette hanno delineato una strategia in quattro azioni per contrastare il rischio di carestie nei Paesi più vulnerabili. L’alto rappresentante Borrell attacca il Cremlino: “Milioni di tonnellate di grano non rimangano bloccate, mentre le persone muoiono”

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    Ucraina e Rule of Law: come cambiano gli equilibri nell’Unione

    L’invasione russa in Ucraina supera i cento giorni e le priorità europee cambiano di conseguenza. L’Unione sembra infatti aver premuto il tasto pausa su vari punti della sua agenda politica, al fine di concentrare tutte le sue forze nella ricerca di una risposta coordinata e unitaria a sostegno del popolo ucraino.
    La tutela della Rule of Law nell’Unione europea
    Sono sotto gli occhi tutti, da diversi anni, le dinamiche regressive che caratterizzano le politiche di alcuni Stati membri dell’Unione circa la protezione dello Stato di Diritto. L’Ungheria, in particolare, ha già da tempo introdotto una serie di misure volte all’instaurazione di un regime illiberale, concretizzatesi attraverso la repressione, su larga scala, della libertà di stampa, delle prerogative delle opposizioni e dei diritti delle minoranze. La Polonia, al contempo, ha posto in essere numerose riforme che minacciano l’indipendenza del potere giudiziario – e, di conseguenza, il principio della separazione dei poteri. Quest’ultimo, ideato espressamente per proteggere i cittadini dal rischio di arbitrarietà del potere esecutivo, costituisce uno dei capisaldi della Rule of Law su cui l’Unione si fonda. In questo contesto, inoltre, si sono spesso inserite riforme legislative ed iniziative politiche volte a ledere i diritti di persone appartenenti a minoranze, talvolta mettendo in discussione la loro stessa esistenza. Basti pensare, ad esempio, alle cosiddette “LGBT-free zones” dichiarate da numerose municipalità polacche.
    Parallelamente, sono oramai noti a tutti l’insufficienza e i limiti degli strumenti posti a disposizione delle istituzioni UE per far fronte a queste dinamiche. Le numerose procedure di infrazione attivate nei confronti di Ungheria e Polonia – nonché le conseguenti pronunce della Corte di Giustizia – sembrano infatti aver esaurito tutto il loro potenziale. E ciò non stupisce affatto, in quanto esse rappresentano uno strumento ideato per le violazioni tecnico-giuridiche, e non per rispondere a problematiche politiche di carattere sistemico. Il meccanismo di cui all’articolo 7 TUE (che, in breve, permetterebbe al Consiglio di imporre sanzioni politiche ad uno Stato membro in caso di violazioni costanti e persistenti dello Stato di Diritto) è stato attivato sia nei confronti della Polonia che dell’Ungheria, nel 2017 e nel 2018 rispettivamente. La concreta imposizione delle sanzioni, tuttavia, continua a rimanere bloccata dal requisito dell’unanimità.
    Infine, uno strumento nuovo e ulteriore è rappresentato dal Regolamento 2020/1092 (c.d. “Meccanismo di condizionalità”), il quale consente all’Unione di sospendere l’erogazione di fondi derivanti dal proprio bilancio ad un Paese che ponga in essere violazioni della Rule of Law idonee a compromettere la sana gestione finanziaria del bilancio UE. Tale meccanismo, peraltro recentemente attivato nei confronti dell’Ungheria, costituisce sicuramente un nuovo asset a disposizione dell’Unione; le sue potenzialità, tuttavia, sembrano limitate difronte al processo di regressione sistemica che caratterizza i due Stati membri.
    Lo scoppio della guerra in Ucraina: cambio di passo?
    Al di là dell’inefficienza degli strumenti europei posti a tutela dello Stato di Diritto, una cosa, almeno fino ad ora, è sempre stata chiara: la posizione delle istituzioni UE. Il Parlamento europeo, in questo contesto, è intervenuto nel dibattito adottando numerose Risoluzioni, con le quali ha espressamente e costantemente condannato le dinamiche regressive che caratterizzano Polonia e Ungheria. La Commissione, al contempo, ha (quasi) sempre mantenuto una posizione analoga, spesso anche ricorrendo all’utilizzo di strumenti atipici. Peraltro, è proprio questa istituzione ad aver recentemente attivato il meccanismo di cui al Regolamento 2020/2092 contro l’Ungheria, nonostante le reticenze iniziali.
    Ciononostante, questo paradigma appare oggi decisamente cambiato. La drammatica invasione russa dell’Ucraina, come accennato, ha influenzato notevolmente l’agenda politica dell’Unione e dei suoi Stati membri. Tra i vari temi che tale situazione ha (legittimamente) sollevato, vi è quello relativo all’accoglienza di rifugiati ucraini nel territorio di tutti gli Stati membri UE. Nonostante l’impegno congiunto dei 27, tale accoglienza – in un’ottica quantitativa – non ha riguardato tutti allo stesso modo. Alcuni Paesi, soprattutto a causa della loro posizione geografica, sono stati chiamati ad uno sforzo decisamente maggiore. Tra questi figurano, in particolare, Polonia e Ungheria. Stando ai dati più recenti, infatti, si stima che la prima stia accogliendo oltre 2,7 milioni di cittadini ucraini in fuga, contro i 454 mila della seconda.
    Un tale (s)bilanciamento, come ci si aspettava, è tutt’altro che privo di effetti sugli equilibri interni all’Unione europea, la quale rappresenta un’entità soggetta a geometrie politiche idonee a mutare continuamente. Tale mutevolezza è dovuta anche e soprattutto alla “struttura ibrida” dell’Unione, spesso caratterizzata da procedure e regole di voto altamente complesse, le quali richiedono una continua interazione tra attori puramente sovranazionali (quali il Parlamento e la Commissione) e governi degli Stati membri.
    In ogni caso, l’emblema di questo cambio di passo è rappresentato dall’approvazione, avvenuta lo scorso 1° giugno, del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) presentato dalla Polonia nell’ambito del programma Next Generation EU. La non ancora avvenuta approvazione del piano polacco, fino a pochi giorni fa, è sempre stata ricollegata ai numerosi dubbi relativi al rispetto dei valori UE da parte del Paese. L’attivismo polacco nell’ambito dell’accoglienza europea di rifugiati ucraini, tuttavia, sembra aver ribaltato questo paradigma, inducendo la Commissione a chiudere un occhio (o forse due!) sul rispetto dei valori sui quali l’Unione europea si fonda. Il non aver (ancora?) riservato lo stesso trattamento all’Ungheria, probabilmente, sembra legato a tre fattori principali: a) il numero più modesto di rifugiati ucraini accolti; b) le violazioni, decisamente più gravi e diffuse, della Rule of Law; c) il rischio, per la Commissione, di entrare in contraddizione con la propria azione, vista la recente attivazione del “meccanismo di condizionalità” contro l’Ungheria.
    Risulta spontaneo chiedersi, in conclusione, quale sarà l’impatto futuro di queste dinamiche. È vero, da un lato, che ciascun Stato membro dispone di un potere di veto – e che, di conseguenza, alcune concessioni si rendono necessarie al fine di superare eventuali blocchi decisionali; è altrettanto vera, dall’altro, la consapevolezza per cui l’Ucraina non sta semplicemente difendendo sé stessa. Essa sta difendendo, come è spesso stato correttamente sottolineato, tutti i valori sui quali l’Europa unita si fonda – dallo Stato di Diritto all’autodeterminazione dei popoli. Fino a che punto, dunque, siamo disposti a chiudere un occhio sul rispetto di questi valori da parte di Stati che sono già membri dell’Unione europea?

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

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    Ucraina e Moldova “meritano lo status di Paesi candidati all’adesione UE”. Per la Georgia serve un’attenta valutazione

    Bruxelles – Giacca gialla e camicia azzurra, i colori della bandiera ucraina. Che il 17 giugno rappresenti una data decisiva per il processo di allargamento dell’Unione Europea lo si capisce già dall’abbigliamento scelto dalla presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, per presentare i pareri formali dell’esecutivo comunitario sul conferimento dello status di Paese candidato di adesione all’UE: Ucraina e Repubblica di Moldova subito, Georgia dopo “un’attenta valutazione”. A soli cento giorni dal via libera degli ambasciatori dei Ventisette, il gabinetto von der Leyen ha affidato al Consiglio il compito di decidere (all’unanimità) come e secondo quali tappe dovrà procedere il processo che in prospettiva potrebbe portare nell’Unione tre nuovi membri. A Kiev e Chișinău dovrebbe essere garantito subito lo status di Paese candidato, mentre Tbilisi dovrà lavorare su una serie di priorità, ma con il riconoscimento della prospettiva europea.
    Il collegio dei commissari riunito il 17 giugno 2022 per deliberare i pareri formali sulle richieste di adesione UE di Ucraina, Moldova e Georgia
    “Abbiamo certificato in modo accurato i meriti di ciascun Paese che ha fatto richiesta, secondo i criteri politici, economici e di capacità di assumersi gli obblighi derivanti dall’adesione, come previsto dall’acquis comunitario”, ha esordito la presidente von der Leyen in conferenza stampa. Tutte le attenzioni sono per l’Ucraina, per cui la Commissione raccomanda la prospettiva di diventare membro dell’UE e di concedere lo status di candidato all’adesione, “a condizione che vengano compiute riforme importanti in una serie di settori”, tra cui quello giudiziario, sulla lotta alla corruzione, sulla legislazione anti-oligarchi e su quella per la tutela delle minoranze. In ogni caso, “il popolo ucraino ha dimostrato chiaramente l’aspirazione e la determinazione ad aderire ai valori e standard europei, anche prima della guerra“, ha sottolineato la leader dell’esecutivo comunitario, mettendo in risalto i punti di forza: stabilità delle istituzioni, Stato di diritto, funzionamento della pubblica amministrazione, decentralizzazione, stabilità macroeconomica e finanziaria, sistema elettorale libero ed equo. “Sì, gli ucraini meritano la prospettiva europea e di essere accolti come candidati, ora devono avere il futuro nelle proprie mani”, è stato il “chiaro messaggio” di von der Leyen.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen (17 giugno 2022)
    Come per l’Ucraina, la Commissione raccomanda al Consiglio di riconoscere alla Moldova la prospettiva di diventare membro dell’Unione e lo status di candidato all’adesione UE, sempre secondo i “meriti che devono accompagnare questo processo” soprattutto sul piano delle riforme economiche fondamentali. Nonostante le difficoltà interne per il separatismo della Transnistria, Chișinău “dispone di solide basi” su democrazia e Stato di diritto e ha registrato “progressi nel rafforzamento del settore finanziario e del contesto imprenditoriale”, che garantiscono un “sostanziale avvicinamento” alle condizioni richieste dall’ingresso nel Mercato Unico.
    Leggermente diversa è la situazione della Georgia, che ha sì “le stesse aspirazioni” di Ucraina e Moldova e “buone basi per la stabilità”, ma “sono necessarie ulteriori riforme su una lista di priorità che abbiamo evidenziato“, ha spiegato il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi: “Fine della polarizzazione politica, riforme giudiziarie, progressi sulla lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata, indipendenza dei media e sicurezza dei giornalisti”. Come ha sottolineato la presidente von der Leyen, “la porta è totalmente aperta e le tempistiche dipendono dalla Georgia“, ma per il momento la Commissione raccomanda al Consiglio di garantire solo la prospettiva di diventare membro dell’UE, fino a quando non saranno soddisfatte tutte le priorità.
    Le tappe del processo di adesione UE
    Le tre richieste per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione UE erano arrivate tutte nel corso della prima settimana di guerra della Russia in Ucraina, tra lunedì (28 febbraio) e giovedì (3 marzo): la prima era stata l’Ucraina, seguita a ruota da Georgia e Moldova. Gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) avevano concordato quattro giorni più tardi di invitare la Commissione Europea a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione, da inviare poi ai leader UE. L’8 aprile a Kiev von der Leyen aveva consegnato al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, il questionario per il processo di elaborazione del parere dell’esecutivo comunitario sulla richiesta di adesione, così come aveva fatto tre giorni più tardi il commissario Várhelyi per Georgia e Moldova. “Tutti i questionari sono stati compilati autonomamente, noi abbiamo dato supporto tecnico per non perdere tempo“, ha spiegato lo stesso commissario europeo, ricordando che “abbiamo usato anche i nostri dati, senza chiedere cose che già sapevamo”.
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’UE (Ucraina, Georgia e Moldova, in questo caso), è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen, ovvero le basilari condizioni democratiche, economiche e politiche (istituzioni stabili, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, economia di mercato, capacità di mantenere l’impegno). Ottenuto il parere positivo della Commissione, si può arrivare o alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione – un accordo bilaterale tra UE e Paese richiedente, utilizzato in particolare per i Balcani Occidentali, a cui viene offerta la prospettiva di adesione – o direttamente il conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio UE di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.
    Oltre alle candidature di Moldova, Georgia e Ucraina, il processo di allargamento UE coinvolge già i sei Paesi dei Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – e la Turchia, i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord è bloccato dal 2018 prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello attuale della Bulgaria contro Skopje (dalla fine del 2020). La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016, mentre il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione.
    La situazione dello stallo del processo di allargamento nella regione sarà al centro delle discussioni del prossimo vertice UE-Balcani Occidentali, in programma a Bruxelles giovedì prossimo (23 giugno), ma nella sede della Commissione non si respira un clima positivo: “Non sono a conoscenza di quadri negoziali tra Macedonia del Nord e Bulgaria, ma solo di un blocco di cui non sono per niente soddisfatto”, ha commentato seccamente il commissario Várhelyi. Per quanto riguarda il processo della Bosnia ed Erzegovina – che sarebbe sorpassata da destra da Ucraina e Moldova – “stiamo aspettando che il Paese soddisfi le 14 priorità già presentate nella nostra opinione al Consiglio“, perché “se le rinegoziassimo, mineremmo la credibilità del processo di allargamento“, ha puntualizzato il titolare della Politica di allargamento dell’esecutivo comunitario.

    È quanto emerge dai pareri formali della Commissione UE sulle richieste di Kiev e Chișinău, che passeranno al tavolo del Consiglio Europeo. A Tbilisi dovrebbe essere garantita la prospettiva di diventare Paese membri, ma serviranno forti riforme politiche, economiche e sociali