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    Il Consiglio dell’Ue spacchetta il percorso di adesione di Albania e Macedonia del Nord. Per Tirana si apre il capitolo negoziale

    Bruxelles – Tirana avanza, Skopje, per il momento, no. Gli ambasciatori dei Paesi Ue hanno spacchettato il percorso di adesione all’Ue di Albania e Macedonia del Nord. I due Paesi dei Balcani occidentali finora avevano sempre camminato a braccetto, ma da troppo tempo erano fermi a causa degli attriti tra il nuovo governo macedone e la Bulgaria. Con questa decisione, l’Ue forza l’impasse e prepara il campo per la Conferenza intergovernativa con l’Albania, che potrebbe tenersi già nelle prossime settimane.Nella giornata di ieri (25 settembre), i rappresentanti diplomatici dei 27 hanno approvato la lettera con cui la Presidenza del Consiglio dell’Ue comunicherà alle autorità albanesi la valutazione positiva del Consiglio sul raggiungimento degli obiettivi previsti dal ‘cluster 1‘. Quelli ritenuti fondamentali, che danno l’accesso al processo negoziale. I cinque ‘benchmark’ riguardavano Magistratura e diritti fondamentali, Giustizia, libertà e sicurezza, Appalti pubblici, Statistiche, Controllo finanziario.Tirana si scrolla così di dosso l’ingombrante compagno nel processo di adesione, che la tiene in stallo dall’estate del 2022. La Commissione europea, che ha sempre sostenuto di voler tenere legate le due capitali, ha alzato le mani di fronte allo spacchettamento: “Auspichiamo che i negoziati per il cluster fondamentale inizino al più presto con l’Albania e, una volta soddisfatti i criteri concordati dal Consiglio, anche per la Macedonia del Nord“, ha dichiarato la portavoce Ana Pisonero. Il passo necessario per Skopje, che continua a mancare, riguarda alcune modifiche costituzionali promesse a Bruxelles. E soprattutto a Sofia.Nel luglio del 2022, con la mediazione della presidenza francese del Consiglio dell’Ue, Bulgaria e Macedonia del Nord avevano trovato un accordo per risolvere la questione della minoranza bulgara sul territorio macedone. In sostanza, Skopje aveva promesso di includere nella propria Carta fondamentale la comunità bulgara insieme a quelle già tutelate. Così Sofia avrebbe revocato il veto sull’avanzamento del processo di adesione all’Ue. Ma l’accordo non è ancora stato implementato, e il nuovo governo, espressione del partito nazionalista VMRO-DPMNE che ha vinto le elezioni lo scorso maggio, ha già annunciato di voler rinegoziare il cosiddetto “compromesso francese”. Bloccando di fatto non solo Skopje, ma anche Tirana.Per spingere avanti l’Albania, paese candidato all’Ue dal 2014, si è fatta da parte invece la Grecia, con cui si erano accese alcune tensioni relative alla detenzione in Albania di Fredis Beleri, sindaco di etnia greca del comune albanese di Himarë, condannato a due anni di carcere per compravendita di voti alle elezioni comunali del maggio 2023. Ma eletto come eurodeputato in Grecia alle elezioni europee del 9 giugno scorso. A quanto si apprende, diversi Stati membri hanno espresso soddisfazione per l’avanzamento concesso all’Albania, auspicando inoltre che altri Paesi dei Balcani Occidentali – tra cui appunto la Macedonia del Nord – possano presto fare passi in avanti.Ora Albania e Ue dovranno definire le rispettive posizioni negoziali in vista della Conferenza intergovernativa. Che potrebbe tenersi già nel mese di ottobre.

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    La Thailandia approva i matrimoni tra coppie dello stesso sesso. La Commissione europea se ne compiace

    Bruxelles – La Thailandia diventa il terzo paese asiatico, dopo Taiwan e Nepal, ad autorizzare legalmente matrimoni tra coppie dello stesso sesso.La legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Reale dopo l’approvazione del re Maha Vajiralongkorn ed entrerà in vigore tra 120 giorni. A gennaio, le coppie dello stesso sesso avranno finalmente la possibilità di registrare la propria unione in Thailandia. Il procedimento va avanti dalla primavera, con i due passaggi alla Camera dei Rappresentanti e al Senato rispettivamente in aprile e giugno che permettono il pieno riconoscimento dei diritti legali, finanziari e medici ai partner matrimoniali di qualsiasi sesso.Grande successo a favore della comunità Lgbtq+, che ha visto riconosciuti i propri diritti di fronte ad un governo e una società storicamente conservatori. Importante anche il cambiamento di linguaggio sul Codice civile per sostituire le parole specifiche di genere, come “uomo o donna”, con parole neutre, come “individuo”.L’Unione europea si congratula con la Thailandia per questo risultato, che la rende “il primo Paese del Sud-est asiatico a riconoscere le unioni tra persone dello stesso sesso”. Questo costituisce un esempio positivo per la regione, come modello di diffusione dell’inclusività e della promozione dell’uguaglianza. L’Ue ha poi rilanciato l’incoraggiamento verso il paese asiatico nel sostegno alla promozione del diritto alla libertà di espressione senza alcuna discriminazione.Nell’ambito dell’accordo di partenariato e cooperazione firmato da Ue e Thailandia, Bruxelles auspica un ulteriore rafforzamento delle relazioni riguardo a tutti gli aspetti che rendono le società più inclusive, considerando il condiviso impegno per la non discriminazione, l’uguaglianza di genere e il rispetto dei diritti umani.

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    L’Ue, il G7 e le monarchie del Golfo chiedono un cessate il fuoco di 21 giorni tra Israele e Hezbollah

    Bruxelles – Tre settimane di tregua per “dare spazio alla diplomazia”. Unione Europea, Stati Uniti, Australia, Canada, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Giappone, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti lanciano un disperato appello a Israele e Hezbollah per fermare l’escalation in corso in Libano.Circa 700 vittime in 72 ore e lo spauracchio di un’operazione di terra in Libano. Israele sta mettendo in campo la stessa forza distruttrice mostrata a Gaza. Nelle ultime 24 ore, i raid delle Idf hanno ucciso 81 persone e ne hanno ferite 403. Dall’altra parte della linea blu, Hezbollah continua a lanciare razzi in direzione di Israele. Una situazione “intollerabile”, che “presenta un rischio inaccettabile di una più ampia escalation regionale”, si legge nella dichiarazione congiunta dei Paesi del G7, le tre monarchie del Golfo, l’Ue e l’Australia. Una crisi che “non è nell’interesse di nessuno, né del popolo di Israele né del popolo libanese”.L’imperativo è la conclusione di un accordo “che permetta ai civili di entrambi i lati del confine di tornare alle loro case in sicurezza”. Un accordo coerente con l’implementazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sul Libano e su Gaza. Ma, come ampiamente dimostrato nei mesi scorsi dai fallimentari negoziati tra Hamas e Tel Aviv, la diplomazia “non può avere successo in un’escalation”.La richiesta di “dare una reale possibilità a una soluzione diplomatica” è rivolta a “tutte le parti” coinvolte, “compresi i governi di Israele e del Libano”. I firmatari della dichiarazione congiunta si dicono “pronti a sostenere pienamente tutti gli sforzi diplomatici per concludere un accordo entro questo periodo”.Le prime reazioni arrivate da Israele non sono incoraggianti. Il ministro delle finanze, l’estremista religioso Bezalel Smotrich, ha affermato che “non bisogna dare al nemico il tempo di riprendersi e riorganizzarsi per continuare la guerra dopo 21 giorni”. Per Smotrich, l’unico modo per riportare i cittadini israeliani sfollati nelle loro case al confine libanese è “la resa di Hezbollah o la guerra”. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il leader dell’opposizione, Yair Lapid, starebbe cercando di convincere il governo di Netanyahu a accettare la tregua, “ma solo per 7 giorni, per non permettere a Hezbollah di ricostruire i suoi sistemi di comando e controllo”.Charles Michel al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, 25/09/24L’ufficio di Netanyahu ha smentito qualsiasi apertura verso un cessate il fuoco. Anzi, il primo ministro avrebbe autorizzato l’esercito a continuare a “colpire con tutta la sua forza” in Libano e a Gaza fino a quando tutti gli obiettivi della guerra non saranno raggiunti. Ieri sera, in un discorso di fronte al Consiglio di sicurezza dell’Onu, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, ha invitato il massimo organo delle Nazioni Unite ad alzare la voce. Perché quando i crimini “restano impuniti, diventano normali, diventano la legge”.A Gaza, così come a Kiev o in Sudan. E nella “più che irresponsabile” escalation in Libano. I conflitti di oggi mettono in dubbio l’autorità delle istituzioni multilaterali, e per Michel la ragione è da ricercare anche in seno al Consiglio di sicurezza, dove “alcuni membri non sono all’altezza delle loro responsabilità“. C’è bisogno di una riforma “per renderlo più inclusivo, più legittimo e più efficace”. Per il leader Ue, “è tempo che tutti i membri permanenti di questo Consiglio siano all’altezza della loro responsabilità storica”.

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    I raid israeliani in Libano hanno già ucciso più di 550 persone. Borrell chiede l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu

    Bruxelles – La comunità internazionale, a New York per la 79esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, guarda con preoccupazione verso il Medio Oriente. Lo scenario peggiore si sta materializzando, dopo un anno il conflitto tra Israele e Hamas è diventato guerra regionale. “Il Consiglio di sicurezza deve svolgere il suo ruolo”, è l’appello lanciato dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, di fronte al “bilancio allarmante” delle vittime degli attacchi israeliani in Libano.Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Salute di Beirut, i raid dell’aviazione israeliana hanno già ucciso 558 persone, di cui 50 bambini e 94 donne. E ne hanno ferite 1.835. Tra le vittime, anche due operatori dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). “Abbiamo urgente bisogno di fermare il cammino verso la guerra. Entrambe le parti devono attuare un cessate il fuoco immediato”, ha supplicato il capo della diplomazia europea.Josep Borrell a New York per la 79esima sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu (Photo by ANGELA WEISS / AFP)Borrell si appella al massimo organo dell’Onu perché le risoluzioni del Consiglio di sicurezza – a differenza di quelle dell’Assemblea generale – sono le uniche ad essere vincolanti per i 193 Paesi che fanno parte delle Nazioni Unite. Almeno sulla carta: il 25 marzo scorso, dopo mesi di veti incrociati tra Stati Uniti e Russia, il Consiglio di Sicurezza aveva adottato una risoluzione con cui chiedeva un immediato cessate il fuoco su Gaza durante il mese di Ramadan e il rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi. Una richiesta rimasta tuttora inascoltata.Il governo di Netanyahu non esclude tra l’altro, “se necessario”, un intervento via terra nel sud del Libano per sgominare le cellule di Hezbollah e permettere il rientro in sicurezza degli sfollati israeliani nel Nord del Paese. Nello spaventoso racconto in numeri che si sussegue dal 7 ottobre scorso a Gaza, e che ora è cominciato anche nel Paese dei Cedri, Tel Aviv elenca “i circa 400 lanciarazzi a medio raggio, 70 depositi di armi e circa 80 droni e missili da crociera di Hezbollah” distrutti dagli oltre 250 aerei di combattimento che in due giorni “hanno sganciato circa 2.000 munizioni”.The death toll of Israeli strikes in Lebanon is alarming. The latest figures say over 500 casualties, with 50 children among the victims.The Security Council has to play its role. We urgently need to halt the path to war. Both sides need to implement an immediate ceasefire.— Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) September 24, 2024

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    Bruxelles respinge le accuse sui finanziamenti alla Guardia nazionale tunisina: “Tutti i fondi a Ong partner”

    Bruxelles – La Commissione europea nega di aver messo fondi a disposizione delle forze di sicurezza tunisine nell’ambito dell’accordo Ue-Tunisia per ridurre le partenze di persone migranti verso l’Europa. E respinge così le accuse di coinvolgimento nelle documentate violazioni dei diritti umani perpetrate dalla Guardia Nazionale tunisina. La portavoce Ana Pisonero ha affermato che “i fondi europei per la migrazione in Tunisia sono incanalati attraverso le organizzazioni internazionali, gli Stati membri e le ong presenti sul territorio”.L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), la Croce rossa tunisina. Se è vero che sono loro i principali partner di Bruxelles sul campo, è altrettanto indubbio che non possano essere loro a svolgere il lavoro ‘preventivo’ richiesto dall’Unione europea. Quello di bloccare i migranti sulle coste del Paese nordafricano e impedire loro la traversata del Mediterraneo. Perché la Tunisia sia in grado di farlo, l’Ue ha già sborsato 42 milioni di euro per il refitting di navi, veicoli e altre attrezzature per la guardia costiera tunisina, oltre che per la fornitura di nuove imbarcazioni, termocamere e altra assistenza operativa.Come rendicontato con precisione da un documento presentato agli ambasciatori degli Stati membri il 20 dicembre 2023, l’Ue ha inoltre previsto di finanziare “la costruzione e l’equipaggiamento di un centro di comando e controllo per la guardia nazionale tunisina” nel deserto al confine con la Libia. Questo non significa automaticamente che l’Ue abdichi al ruolo di difensore dei diritti umani sull’altare dell’esternalizzazione delle proprie frontiere. La gestione delle migrazioni deve essere in linea con gli standard Ue sui diritti delle persone migranti e dei richiedenti asilo, e la Commissione europea “monitora i suoi programmi attraverso diversi strumenti, tra cui i rapporti regolari dei partner esecutivi, le missioni di verifica in loco, gli esercizi di monitoraggio orientati ai risultati e le valutazioni esterne”, ha elencato Pisonero.Salvo poi ammettere che “il monitoraggio da parte di terzi sarà istituito entro la fine del 2024”. Per quanto riguarda le missioni di verifica, già nel corso del 2023, due delegazioni del Parlamento europeo si sono viste rifiutare l’ingresso in Tunisia. Non proprio un segnale incoraggiante. Le violenze, gli stupri e i pushback messi in atto dalle forze di sicurezza tunisine, in un regime di completa impunità instaurato dal presidente Kais Saied, è “molto importante che vengano debitamente indagate dalle autorità competenti“, ha intimato quindi la portavoce della Commissione europea.Difficile che l’input sia raccolto dalla Tunisia, il cui governo ha già definito le accuse pubblicate la scorsa settimana dal The Guardian come “false e infondate”. Nemmeno dopo le elezioni presidenziali del 6 ottobre, nelle quali la rielezione di Saied è data praticamente per certa. La richiesta di avviare un’indagine è però arrivata proprio oggi all’Aia: gli avvocati e le famiglie dei leader dell’opposizione tunisina incarcerati hanno chiesto alla Corte penale internazionale di indagare sulla repressione politica e sugli abusi nei confronti dei migranti sub-sahariani.

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    Bruxelles promette a Kiev fino a 35 miliardi di euro, che dovrebbero arrivare dagli extraprofitti sugli asset russi congelati

    Bruxelles – Per l’ottava volta dall’inizio dell’invasione russa, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha incontrato a Kiev il leader ucraino Volodymyr Zelensky. Al quale ha annunciato che presto l’Ue staccherà per il Paese aggredito un maxi assegno che, come da accordi presi la scorsa estate in ambito G7, sarà finanziato dagli extraprofitti generati dagli asset russi immobilizzati. L’importo esatto non è ancora definito, ma potrebbe arrivare fino a 35 miliardi di euro. Ma rimane il rischio che l’Ungheria possa mettere a repentaglio l’intero piano.Durante una conferenza stampa congiunta con Volodymyr Zelensky al termine del loro incontro bilaterale, il capo dell’esecutivo comunitario ha annunciato venerdì (20 settembre) che “la Commissione ha adottato delle proposte che permetteranno all’Ue di prestare 35 miliardi di euro” come parte dell’impegno assunto dai partner del G7 la scorsa estate di fornire all’Ucraina 50 miliardi di dollari (circa 45 miliardi di euro) per sostenere le casse dello Stato, finanziando l’esborso con i proventi generati dagli asset russi immobilizzati in Occidente.Parlando al fianco del presidente ucraino, von der Leyen è tornata sul “piano per l’inverno” in tre punti (del valore di 160 milioni di euro) che aveva articolato giovedì (19 settembre): la priorità per l’Ue è sostenere il sistema energetico di Kiev riparando i danni provocati dagli attacchi russi, connettendo la griglia ucraina a quella europea e stabilizzando la produzione energetica del Paese. E in più ha aggiunto il carico da novanta, cioè appunto questi 35 miliardi che dovrebbero arrivare il più velocemente possibile nelle casse ucraine.In realtà, quello dei 35 miliardi è il limite massimo che l’Ue può fornire all’Ucraina nel quadro del piano del G7, ma non è detto che l’esborso effettivo ammonti davvero a quella cifra. La decisione sull’importo preciso verrà presa in un secondo momento, probabilmente entro la fine di ottobre, quando anche gli altri partner occidentali avranno definito l’entità della propria contribuzione. Insomma, i 45 miliardi totali potrebbero essere forniti anche in proporzioni diverse – non necessariamente 35 da parte di Bruxelles e i restanti 10 dagli altri membri dell’organizzazione.Gli accordi presi la scorsa estate a livello di G7 prevedevano originariamente un contributo paritario di Unione europea e Stati Uniti, pari a 20 miliardi di dollari ciascuno (poco meno di 18 miliardi di euro), mentre Canada, Giappone e Regno Unito avrebbero messo il resto. Ma Washington aveva poi rallentato l’intero processo adducendo dubbi circa la disponibilità degli Stati membri dell’Ue a rinnovare periodicamente le sanzioni che, nel concreto, mantengono effettivamente immobilizzati gli asset della Banca centrale russa – e che costituiscono dunque le fondamenta legali su cui si basa tutto il piano. Nello specifico, il timore si concentra sull’Ungheria di Viktor Orbán: dato che i Ventisette devono raggiungere l’unanimità al Consiglio per rinnovare il regime sanzionatorio contro Mosca, esiste il rischio che Budapest faccia saltare il banco.L’idea della Commissione Ue è di istituire un meccanismo speciale, che dovrebbe chiamarsi Ukraine loan cooperation mechanism, per incanalare annualmente verso le casse di Kiev un gettito compreso tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro (gli asset congelati nelle giurisdizioni europee sono stimati in circa 200 miliardi). Questo meccanismo andrebbe così a complementare lo Strumento europeo per la pace (Epf nell’acronimo inglese), che al momento finanzia la maggior parte degli esborsi sostenuti dagli Stati membri, e anzi dovrebbe finire per coprire (almeno nelle intenzioni) il 95 per cento dei prestiti erogati all’Ucraina, sulla base del principio per cui “la Russia deve pagare per la distruzione che provoca”, come più volte ribadito dalla stessa von der Leyen.Tecnicamente, questi soldi non sono destinati a nessun ambito di spesa specifico ma saranno nella completa disponibilità del governo ucraino. Un modo con cui Bruxelles cerca cioè di aumentare lo spazio di bilancio di agibilità per Kiev, le cui spese per fronteggiare l’aggressione russa continuano a salire. La creazione di questo fondo speciale – che sarà garantito in ultima istanza dal bilancio comunitario e diventerà operativo a partire dal 2025 – dovrà essere approvata entro la fine dell’anno fiscale in corso con procedura legislativa ordinaria dall’Eurocamera e dal Consiglio, che su questo punto delibera a maggioranza qualificata e può quindi bypassare un eventuale veto ungherese.Il “no” di Budapest può invece bloccare, come si diceva, il regime sanzionatorio imposto dai Ventisette contro la Federazione russa, che attualmente viene rinnovato a cadenza semestrale. Ora, per limitare il rischio che un singolo Stato membro possa minare l’intero meccanismo di prestito, la Commissione ha proposto di estendere a 36 mesi la periodicità con cui il Consiglio decide sul rinnovo del congelamento degli asset russi immobilizzati. Con questa mossa (che non va intesa come un “disaccoppiamento” del congelamento dal resto delle sanzioni, come precisato dai funzionari dell’esecutivo Ue), dunque, le misure restrittive continuerebbero ad essere rinnovate ogni sei mesi mentre l’immobilizzazione dei fondi della Banca centrale di Mosca verrebbe di fatto blindata di tre anni in tre anni. Perché questa proposta venga accolta, tuttavia, serve che i governi dei Ventisette l’accettino all’unanimità. Il che potrebbe non essere poi così scontato.

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    Edi Rama a Bruxelles chiede di seguire l’esempio del Cese: “I Paesi candidati siano presenti all’Eurocamera”

    Bruxelles – Delegazioni di deputati dai Paesi candidati all’adesione all’Ue all’interno del Parlamento europeo, per evitare che – una volta membri di diritto – siano come “turisti giapponesi che visitano il Louvre”. Sull’esempio del progetto pilota in corso al Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese), l’istituzione che riunisce rappresentanti delle imprese, dei lavoratori e della società civile dei 27 Ue. A suggerirlo il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, a Bruxelles per celebrare la sessione plenaria del Cese dedicata all’Allargamento.In un punto stampa con il presidente del Cese, Oliver Röpke, i due hanno annunciato l’istituzione di una commissione consultiva (Jcc) della società civile Ue-Albania. Un’ulteriore “prova del nostro impegno, ma anche dell’idea che l’integrazione europea non è solo tema dei governi, ma appartiene alla società nel suo intero”, ha dichiarato Rama. All’interno dell’iniziativa per l’allargamento del Cese, finanziata dalla Commissione europea e in vigore da febbraio, 18 rappresentanti di sindacati, imprenditori e società civile albanesi stanno già contribuendo alla stesura di alcuni pareri che l’istituzione adotta per incidere sul processo legislativo.Tra gli obiettivi del progetto pilota, c’è proprio il coinvolgimento dei Paesi candidati su argomenti in cui la loro partecipazione è particolarmente rilevante, in primis pareri legislativi relativi all’allargamento. Tuttavia, i membri dei nove Paesi candidati – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Moldova, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia, Turchia e Ucraina – non sono membri effettivi del Comitato, non possono avere ruoli di coordinamento nella stesura dei pareri e non hanno diritto di voto. L’iniziativa si concluderà a dicembre, ma Röpke è “assolutamente determinato” ad ottenere un prolungamento per il prossimo anno, con in mente l’obiettivo di farne una “struttura permanente”. Ed è sicuro che “troveremo i mezzi per finanziarlo”.Edi Rama [Ph Credits: Cese]Per Edi Rama, la creazione del JCC Ue-Albania è uno strumento “per accelerare un processo di adesione” che è cominciato nel 2014. E per cui l’orizzonte fissato da Bruxelles sembra essere il 2030. Il premier ha dichiarato di aver sottoposto a Ursula von der Leyen “152 richieste per ottenere un ulteriore accesso in 152 direzioni di questo labirinto”. Fermo sostenitore della necessità di un’integrazione graduale all’Ue, Rama ha sottolineato che – per come stanno ora le cose – “finché sei nel processo di adesione non hai nulla, poi diventi membro e hai tutto”. Diritti e doveri, senza per forza essere preparato ad esercitare gli uni e ad osservare gli altri.Per questo, e in linea con l’appello lanciato da Röpke alle altre istituzioni, Rama ha suggerito che “dovremmo essere presenti anche nel Parlamento europeo, non con gli eurodeputati per votare, ma con dei team di osservazione che si preparino per la fase successiva“. Due anni fa, a Bruxelles, il primo ministro albanese aveva paragonato l’Unione europea a Samuel Beckett, l’autore di Aspettando Godot, e l’Albania e la Macedonia ai due personaggi dell’opera teatrale, Vladimir e Estragon. Ora “qualcosa sta cambiando, è un momento diverso”, e l’Ue “è passata dall’essere il nostro Samuel Beckett” a una fase di “letteratura romantica francese”, ha scherzato Rama. Augurandosi però che la forte spinta all’allargamento innescata dall’invasione della Russia in Ucraina non si assopisca una volta che il conflitto sarà terminato.

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    Ucraina, l’Eurocamera chiede a gran voce di eliminare le restrizioni all’uso di armi sul territorio russo

    Bruxelles – Via le restrizioni sull’utilizzo delle armi occidentali per colpire obiettivi militari in Russia. L’appello del Parlamento europeo è forte e chiaro: con 425 voti a favore, 131 contrari e 63 astensioni, l’Aula di Strasburgo ha chiesto agli Stati membri di permettere all’Ucraina di “esercitare pienamente il suo diritto all’autodifesa”, revocando “immediatamente” le restrizioni sulle armi consegnate a Kiev. Hanno fatto resistenza le delegazioni dei partiti italiani, salvo poi – nella maggior parte dei casi – mettersi il cuore in pace e avallare una risoluzione che ribadisce il forte sostegno Ue all’Ucraina.La questione dell’utilizzo delle armi occidentali sul territorio russo tiene banco da tempo. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, aveva invitato i Paesi dell’Alleanza atlantica a riconsiderare le restrizioni già a maggio. Anche l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borell, si è fatto portavoce dell’istanza, arrivando a definire “ridicola” la posizione fermamente contraria difesa dal ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. In quell’occasione – era la riunione informale dei ministri degli Esteri dell’Ue dello scorso 29 agosto -, a quanto si apprende diversi Paesi avevano manifestato la propria “contrarietà a forzare un messaggio di consenso Ue relativo all’utilizzo di armi europee in territorio russo”: Slovenia, Romania, Germania, Slovacchia. Alla discussione innescata da Borrell, passò dunque velocemente la linea di mantenere la decisione a livello bilaterale.A giudicare da come hanno votato gli europarlamentari italiani al paragrafo 8 della risoluzione, quello sulla revoca alle restrizioni, l’Italia è rimasta singolarmente compatta nel fronte di quel manipolo di Paesi che antepongono il rischio di una pericolosa escalation militare alle esigenze belliche della controffensiva ucraina. L’invito a dare il via libera all’uso delle armi è stato approvato con 377 voti favorevoli, 191 contrari e 51 astenuti. Tra gli italiani, solo in 7 hanno votato a favore. Sono Ruggero Razza e Lara Magoni di Fratelli d’Italia (FdI), Giuseppina Princi, Massimiliano Salini e Marco Falcone di Forza Italia, Elisabetta Gualmini e Pina Picierno del Partito Democratico. La quasi totalità di FdI si è opposta, così come l’intera compagine europea della Lega. Forza Italia si è spaccata in due, con Caterina Chinnici, Salvatore De Meo e Flavio Tosi contro la revoca alle restrizioni. Mentre la delegazione dem si è sfilacciata, votando comunque no in netta maggioranza, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra sono rimasti uniti all’opposizione.In una nota, l’eurodeputato pentastellato Danilo Della Valle ha definito la risoluzione “un invito alla guerra”, denunciando il respingimento da parte dell’Aula di “tutti gli emendamenti che auspicavano l’apertura di un vero e proprio negoziato di pace”. La delegazione dei Verdi Italiani ha motivato il no alla risoluzione nel suo insieme perché “ostinatamente volta a perseguire la vittoria militare ad ogni costo senza realmente affrontare il tema dei negoziati di pace”. Se M5S, AVS e Lega hanno ribadito la contrarietà anche alla risoluzione generale, il Pd ha deciso di approvare il testo finale. Così come Fi e Fdi, che non hanno voluto mettere in discussione il supporto del governo a Kiev.L’Eurocamera chiede di accelerare la fornitura di armi all’UcrainaIl testo approvato dall’Eurocamera dice molto altro. Punta il dito contro gli Stati membri, colpevoli di aver diminuito il volume degli aiuti militari bilaterali all’Ucraina, chiede di accelerare la consegna di armi, sistemi di difesa aerea e munizioni e di rispettare l’impegno assunto nel marzo 2023 – non ancora conseguito – per la fornitura di un milioni di munizioni a Kiev. Ma non solo: gli eurodeputati chiedono di rafforzare le sanzioni contro l’Iran e la Corea del Nord per il loro sostegno militare a Mosca e spronano l’Ue e la comunità internazionale a stabilire un regime giuridico per la confisca dei beni statali russi congelati, di modo da utilizzare come “parte degli sforzi per compensare l’Ucraina per gli ingenti danni subiti”.Nel documento finale (comunque non vincolante), sono stati aggiunti alcuni emendamenti che sottolineano la crescente ambiguità dell’Ungheria nei confronti del conflitto in Ucraina. Su questi – complice l’ingresso nel gruppo sovranista fondato dal filo-russo Viktor Orban, è uscito allo scoperto il Carroccio. La delegazione della Lega a Bruxelles, ha dichiarato in una nota di non poter condividere “iniziative che alimentano pericolosamente la tensione e l’escalation militare, in cui si prevede di destinare lo 0.25 per cento del Pil in aiuti militari” e che attaccano “chi, come il governo ungherese, lavora attivamente per far prevalere la diplomazia”.