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    Un progetto geopolitico minato dall’interno. Perché l’Ue deve cambiare passo sull’allargamento

    Bruxelles – Il futuro è un passo, ma in mezzo c’è l’ostacolo di un Consiglio Europeo a oggi ostaggio delle decisioni di un solo leader, il premier ungherese Viktor Orbán. La situazione evidenzia non solo l’importanza dell’allargamento Ue sul piano geostrategico – in particolare dopo lo scoppio della guerra russa in Ucraina – ma soprattutto le difficoltà attuali dell’Unione di portare a compimento le promesse decennali ai Paesi candidati realizzando contemporaneamente una riforma interna per non snaturare l’Unione con il potenziale ingresso di 10 nuovi Stati membri nel futuro a medio/lungo termine.La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (8 novembre 2023)La necessità di focalizzarsi con più serietà sulla questione dell’allargamento Ue è emersa con urgenza dopo i fatti del 24 febbraio 2022 e con le richieste di Ucraina, Moldova e Georgia di aderire all’Unione. L’offensiva russa ha dimostrato i rischi di un continente in balia di un progetto imperialista da parte del Cremlino, che sarebbe interessato sia all’annessione degli ex-Paesi sovietici, sia alla destabilizzazione con una guerra ibrida a quello che rappresenta da sempre il buco nero dell’integrazione europea: i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), che in varie forme e a diversi stadi si sono tutti già incamminati da anni sulla strada dell’adesione all’Ue. In altre parole, il progetto di “pace, democrazia e stabilità sul continente” rappresentato dall’Unione Europea – come continuano a ripetere tutti i leader delle istituzioni comunitarie – non può concretizzarsi se i Paesi che hanno fatto richiesta di aderire continueranno a essere ignorati, dal momento in cui la frustrazione di politici e cittadini (a stragrande maggioranza europeisti) li spingerà a cercare supporto in regimi autocratici come quello russo. Il mancato allineamento della Serbia alle misure restrittive contro Mosca e il secessionismo serbo-bosniaco contro Sarajevo sono stati un chiaro campanello d’allarme.C’è da riconoscere che la spinta all’allargamento Ue non è solo una questione di rispetto delle promesse o anti-Russia, ma è diventata anche una vera e propria priorità dell’Unione sul piano politico ed economico. Lo dimostra in primis la serie di pacchetti da miliardi di euro in investimenti diretti e indiretti a sostegno di tutti i partner più stretti – da quelli per la sopravvivenza finanziaria dell’Ucraina a quello di crescita economica per i Balcani Occidentali, oltre al supporto contro la crisi energetica. E poi non va dimenticato il nuovo obiettivo al 2030 annunciato a fine agosto dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, che ha fornito (anche in modo controverso) una data entro cui tutti siano pronti per l’allargamento Ue, dentro e fuori l’Unione. Seppur contestando implicitamente la definizione di un obiettivo temporale in un processo “basato sul merito”, anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha fatto un passo in avanti nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione a settembre, collegando in modo esplicito il processo di allargamento Ue alla riforma dei Trattati su cui si fonda l’Ue.Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel (28 agosto 2023)È qui che si entra nel ventre molle dell’Unione, quello di un processo che rigeneri l’Unione rendendola all’altezza delle sfide future. Sulla base di una proposta franco-tedesca particolarmente articolata, i 27 leader Ue hanno iniziato al Consiglio informale di Granada a discutere di un’agenda strategica in tre punti – priorità future, sistema decisionale e modalità di finanziamento comune – che inevitabilmente tiene insieme allargamento Ue e riforma del Trattati. Oltre alle discussioni servirebbe ora un’azione urgente, perché le richieste di adesione sono già sul tavolo e richiedono una risposta immediata. Tra le altre cose, la riforma interna non potrebbe prescindere dall’abbandono dell’unanimità e del diritto di veto in Consiglio, perché non è immaginabile un’Unione a 32 (con i candidati che hanno già avviato i negoziati di adesione), a 35 (con anche quelli che hanno ricevuto lo status di Paese candidato) o 37 (con tutti dentro, compresi Kosovo e Georgia), in cui un solo Paese può tenere in stallo tutto il sistema decisionale comune.La riforma dovrà però essere concordata da tutti gli attuali membri dell’Unione ed è questo il punto in cui al momento tutto il palco rischia di cadere. Per questioni di fondi da redistribuire tra più Paesi (soprattutto quelli di coesione e dell’agricoltura) e consapevolezza che senza il diritto di veto il peso di ogni singola capitale vale meno (in altri termini, verrebbe meno la possibilità di ‘ricattare’ Bruxelles per ottenere qualcosa in cambio dell’unanimità), alcuni tra i Ventisette non mostrano alcun interesse ad allinearsi a questa ambizione comunitaria, da cui dipende lo stesso processo di allargamento Ue. In particolare l’Ungheria di Orbán ha scelto una posizione apertamente ostruzionista nei confronti dell’avvio dei negoziati di adesione all’Ucraina e al proseguo del finanziamento a Kiev, come una sorta di vendetta per il congelamento di quasi 30 miliardi di euro in fondi Ue per il mancato rispetto dello Stato di diritto. Il rischio concreto ora è che non solo non arrivi il via libera del Consiglio Europeo in programma domani e dopodomani (14-15 dicembre) ai negoziati con l’Ucraina, ma che tutto il processo di allargamento Ue si incagli nella settimana più decisiva degli ultimi anni.A che punto è l’allargamento UeSui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue – Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia – continuano a non riconoscerlo come Stato sovrano.Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Nel Pacchetto Allargamento Ue 2023 la Commissione ha raccomandato al Consiglio di avviare i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova – anche con la Bosnia ed Erzegovina quando sarà raggiunta la conformità ai criteri di adesione – e di concedere alla Georgia lo status di Paese candidato.I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è stato affrontato in una relazione strategica apposita a Bruxelles.Come si aderisce all’Unione EuropeaIl processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    L’inizio dell’era post-fossile. La Cop28 segna la svolta “storica” e l’Ue rivendica l’accordo ‘Made in Europe’

    Bruxelles – Un lungo applauso è quello che alla Cop28 di Dubai ha accompagnato questa mattina l’annuncio di aver raggiunto uno “storico” impegno per abbandonare tutti i combustibili fossili nei sistemi energetici, nell’ottica di raggiungere a livello globale emissioni nette zero entro il 2050. Con un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia (la Cop doveva chiudersi ieri), questa mattina poco dopo le 7 si è aperta una nuova sessione plenaria della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ma è durata pochi minuti. Appena il tempo per far constatare al presidente della Cop28, Sultan al-Jaber, che non c’erano obiezioni da parte dei quasi 200 Paesi presenti sull’ultimo testo di compromesso, al centro di frenetiche trattative della notte che hanno portato questa mattina a un accordo all’unanimità.L’inizio della fineNella versione definitiva dell’accordo non c’è un vero e proprio riferimento alle parole “eliminazione graduale” dei combustibili fossili, come chiedevano le parti più ambiziose, come l’Unione europea. Ma c’è un esplicito richiamo alla necessaria “transizione dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere l’azzeramento netto entro il 2050”, si legge nel documento finale licenziato a Dubai.L’accordo è senza dubbio storico perché è la prima volta nella storia del più importante appuntamento globale di diplomazia climatica in cui nell’accordo finale è presente un chiaro riferimento alla fine dell’utilizzo di  gas, carbone e petrolio che dovranno progressivamente essere abbandonati dai sistemi energetici globali per raggiungere la neutralità globale. La Cop28 sarà ricordata per aver segnato l’inizio di questo processo, ovvero l’inizio della fine per i combustibili fossili. Anche se il lavoro è tutt’altro che compiuto. Il ruolo futuro dei combustibili fossili è stato, come previsto, il tema principale e più divisivo della Cop28, che si è tenuta negli Emirati Arabi Uniti, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio e gas.Ursula von der Leyen partecipa alla Cop28Dopo essersi aperta lo scorso 30 novembre finalizzando in tempi brevi le discussioni per dar vita a un Fondo globale per le perdite e danni dai cambiamenti climatici, i negoziati tra le parti si sono presto arenati su una bozza di documento finale presentata dalla presidenza emiratina senza alcun riferimento all’eliminazione graduale dei combustibili fossili, offrendo ai Paesi presenti una serie di opzioni da adottare. Dopo tre giorni di intense trattative e indignazione generale per un accordo al ribasso, il testo è stato rivisto e adottato nella versione definitiva.Raddoppiare e triplicare, accordo storico ‘Made in Europe’Come sempre accade, le reazioni internazionali al testo di compromesso finale si dividono tra chi descrive l’accordo come una svolta affrontando per la prima volta la necessità di dar vita a una transizione senza combustibili fossili e chi lo reputa un accordo al ribasso. L’Unione europea rientra nel primo caso.Non solo combustibili fossili, la Cop28 si chiude oggi accogliendo la proposta promossa dalla Commissione europea di lanciare un impegno globale per le energie rinnovabili e l’efficienza energetica, l’iniziativa che fissa gli obiettivi globali al 2030 di triplicare la capacità installata di energia rinnovabile (almeno 11 terawatt) e raddoppiare le misure di efficienza energetica (dal 2 al 4 per cento annuo).Un’iniziativa lanciata dalla presidente della Commissione europea già durante le prime giornate di vertice, contando 121 Paesi disposti ad aderirvi. Ed è oggi sempre Ursula von der Leyen a rivendicare che i firmatari dell’impegno sono saliti a quota 130. “Il mondo si è impegnato a triplicare la capacità di energia rinnovabile e a raddoppiare il tasso di miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030. Ciò dà un forte slancio alla transizione dai combustibili fossili”, ha commentato la leader tedesca, salutando l’intesa alla Cop28 come una svolta storica per l’inizio “dell’era post-fossile”.La conferenza delle Nazioni Unite sul clima di Dubai “ha appena raggiunto un accordo storico. E una parte cruciale di esso è veramente made in Europe”, ha rivendicato nel suo intervento a Strasburgo durante la plenaria dell’Europarlamento. Nel documento finale è approdata anche la richiesta a triplicare la capacità globale di energia rinnovabile entro il 2030 e accelerare lo sviluppo di tecnologie a basse emissioni tra cui il nucleare (come rivendicato dal presidente francese, Emmanuel Macron, fermo sostenitore in Europa dell’energia dell’atomo), l’idrogeno a basse emissioni di carbonio e la cattura e lo stoccaggio del carbonio.Il commissario per il clima, Wopke Hoekstra, e la ministra spagnola Teresa Ribera“Il mondo ha appena adottato una decisione storica per mettere in moto una transizione accelerata e irreversibile dai combustibili fossili. In questo modo abbiamo raggiunto ciò che ci eravamo prefissati: mantenere il target del 1,5° a portata di mano e segnare l’inizio della fine dei combustibili fossili”, ha dichiarato il commissario europeo per l’azione per il clima, Wopke Hoekstra, commentando l’accordo da Dubai, dove si trova per negoziare per conto dell’Unione europea insieme alla ministra spagnola per la transizione, Teresa Ribera, che rappresenta la presidenza di turno del Consiglio Ue.Passi lenti sul prezzo del carbonioC’era un terzo punto su cui ha cercato di spingere l’Unione europea nei negoziati, senza che ci siano stati risultati tangibili. Bruxelles spingeva gli altri partner a lavorare insieme per portare alla Cop28 una proposta per la determinazione del prezzo globale del carbonio, per riflettere il sistema di scambio di quote di emissioni che l’Ue ha adottato dal 2005. Nulla da fare, i tempi sono poco maturi e a riconoscerlo è von der Leyen, accennando al fatto che la Cop28 è stata anche “un’occasione per discutere del prezzo del carbonio con altre parti, in modo che più paesi inizino a dare un prezzo all’inquinamento” ma che nessuna decisione è stata presa. L’idea di Bruxelles è quella di usare i proventi della determinazione del prezzo del carbonio per sostenere la transizione pulita nei Paesi in via di sviluppo, quindi l’idea sarebbe quella di destinare le entrate ai finanziamenti per il clima. L’Unione europea ha introdotto nel 2005 il sistema di scambio quote di emissioni, il mercato del carbonio Ets, con cui secondo i dati snocciolati da von der Leyen un paio di mesi fa avrebbe ottenuto ricavi per 142 miliardi di euro e allo stesso tempo le emissioni sono state ridotte del 35 per cento. Bruxelles è convinta che fissare un prezzo al carbonio sia uno degli strumenti più efficaci per tagliare le emissioni in modo da obbligare chi inquina a pagare una tassa.

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    Contro le ingerenze straniere: la Commissione Ue presenta il pacchetto ‘Difesa della democrazia’

    Bruxelles – In vista dell’appuntamento elettorale di giugno 2024, la Commissione europea cerca riparo dalle ingerenze straniere indebite. Oggi (12 dicembre) la vicepresidente Vera Jourová ha presentato all’Eurocamera di Strasburgo una proposta legislativa per mettere sotto i riflettori dell’opinione pubblica le attività di lobbying per conto di Paesi terzi.“È giunto il momento di portare alla luce l’influenza straniera nascosta”, ha dichiarato Jourová in aula. Perché, complici l’eco mediatica dello scandalo di presunta corruzione denominato Qatargate e una situazione geopolitica sempre più polarizzata, oltre l’80 per cento dei cittadini europei ritiene che l’ingerenza straniera nei nostri sistemi democratici sia un problema serio che deve essere affrontato.Le norme proposte dalla Commissione mirano a dare al pubblico, ai media e alla società civile un migliore accesso alle informazioni per capire chi sta cercando di influenzare ciò che vedono o leggono. Attraverso una serie di obblighi per organizzazioni non governative e agenzie che svolgono attività di rappresentanza: l’iscrizione ad un registro per la trasparenza, la conservazione di registri delle informazioni e del materiale relativo alle attività di lobbying per un periodo di quattro anni dopo la fine di tale attività, l’obbligo di rendere accessibili al pubblico gli elementi chiave del proprio lavoro di rappresentanza. Ad esempio, gli importi annuali ricevuti e i Paesi terzi interessati.Uno strumento che “in poche parole propone regole armonizzate per la trasparenza dei servizi di rappresentanza di interessi finanziati da Paesi terzi con lo scopo di influenzare le nostre politiche e i nostri processi decisionali e, in breve, il nostro spazio democratico”, ha spiegato la vicepresidente della Commissione europea. La minaccia ha almeno un nome e un cognome: “Non dobbiamo permettere a Vladimir Putin o a qualsiasi altro autocrate di interferire segretamente nel nostro processo democratico, non possiamo permettere che si nascondano”, ha aggiunto.Nonostante la proposta preveda alcune garanzie per evitare conflitti con diritti fondamentali come la libertà di espressione o di associazione – come la possibilità di derogare alla pubblicazione delle informazioni in casi “debitamente giustificati”-, all’emiciclo di Strasburgo non sono mancate alcune critiche. Per l’eurodeputata olandese Sophie in ‘t Veld, dei liberali di Renew, il pacchetto della Commissione “etichetta le ong come potenziali agenti stranieri“, senza peraltro affrontare gli attacchi alla democrazia che arrivano dal territorio comunitario.Il riferimento al braccio di ferro tra l’Ue e l’Ungheria di Viktor Orban sul conflitto in Ucraina si fa più esplicito nell’intervento del pentastellato Fabio Massimo Castaldo, che ha avvertito la Commissione di “guardarsi da tutti i rischi, perché spesso i più pericolosi arrivano dall’interno”, da “ambigui leader nazionali che continuano a mistificare la realtà strizzando l’occhio a presidenti autoritari”.

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    L’Ue ha concluso la difficile e lunga trattativa con San Marino e Andorra per l’Accordo di Associazione

    Bruxelles – La meta è a un passo, manca solo l’approvazione finale e la firma dei co-legislatori. Dopo otto anni di trattative l’Unione Europea ha concluso i negoziati per l’Accordo di Associazione con San Marino e Andorra, nonostante gli ostacoli dell’ultimo miglio che hanno rischiato di far saltare tutto il banco (ma che comunque hanno costretto il Principato di Monaco a fare un passo indietro). Come annunciato oggi (12 dicembre) in conferenza stampa dal vicepresidente esecutivo della Commissione Ue responsabile per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič, “questo accordo sancirà una relazione privilegiata” tra Bruxelles e i due microstati, entrambi “nel cuore dell’Europa e del nostro Mercato interno”.Da sinistra: il vicepresidente della Commissione Europea per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič, il ministro per gli Affari esteri di San Marino, Luca Beccari, e il primo ministro di Andorra, Xavier Espot Zamora (12 dicembre 2023)I negoziati per l’Accordo di Associazione erano iniziati nel marzo del 2015, ma le conseguenze della guerra russa in Ucraina hanno portato a un’accelerazione. Il 30 giugno dello scorso anno era stata presentata una roadmap per arrivare alla firma entro il 2024 degli Accordi di Associazione con Andorra, Monaco e San Marino, definendola “una priorità, ambiziosa ma realizzabile“. Tuttavia a fine agosto di quest’anno i presidenti dell’Autorità bancaria europea (Eba), dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) e dell’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (Eiopa) avevano avvertito la Commissione che finalizzare questi accordi potrebbe aprire le porte del Mercato Unico a una destabilizzazione dei servizi finanziari. Nel giro di due settimane la consigliera del ministero degli Affari esteri e della cooperazione del Principato di Monaco, Isabelle Berro-Amadei, aveva concordato con il braccio destro di Ursula von der Leyen che “le condizioni non erano mature per concludere un accordo”. Il lavoro è così continuato solo con San Marino e Andorra e dopo tre mesi il membro dell’esecutivo Ue può parlare di “un solido precedente per altri Paesi terzi che intendono accedere al mercato interno dell’Unione“.I risultati dei negoziati tra le tre parti sono stati comunicati oggi dal vicepresidente Šefčovič al Consiglio Affari generali, con tutti i dettagli di un accordo paragonabile a quello che regola i rapporti tra Bruxelles e Norvegia, Islanda e Liechtenstein. Ma anche di più. “Probabilmente siamo andati oltre, questo è l’accordo complessivo più completo che ha l’Unione Europea, una sorta di Spazio Economico Europeo +“. In termini concreti, l’accordo prevede la partecipazione di San Marino e Andorra al Mercato interno dell’Ue “in condizioni di parità di concorrenza e di rispetto delle stesse regole”. Inclusi i servizi finanziari, ma in modo “progressivo” e a seconda dall’esito della “verifica della solidità dei quadri normativi e di vigilanza” (la condizione preliminare è la conformità alle misure anti-riciclaggio). Parallelamente sarà stabilito un quadro di sviluppo del dialogo e della cooperazione in settori di interesse comune – ricerca e sviluppo, istruzione, politica sociale, ambiente, protezione dei consumatori, cultura o cooperazione regionale – e uno istituzionale “coerente, efficace ed efficiente” per l’interpretazione e l’applicazione dell’accordo in linea con la giurisprudenza europea (di cui la Corte di Giustizia Ue è “arbitro ultimo” per le controversie).A questo punto le parti dovranno elaborare e ratificare i testi giuridici. A Bruxelles la Commissione Ue li finalizzerà e li presenterà al Consiglio per la firma finale, previa approvazione del Parlamento. Il valore aggiunto dell’Accordo di Associazione tra Ue e San Marino e Andorra è il fatto di tenere conto della “situazione particolare e delle specificità” dei due microstati, in particolare per quanto riguarda “le relazioni di prossimità con gli Stati membri Ue confinanti, la loro geografia, le loro dimensioni e la loro popolazione relativamente ridotta”. Per questo motivo sono previsti adattamenti e periodi transitori diversi per mettere in campo e adeguarsi al corpus normativo dell’Unione. “Questo formato è un compromesso importante, perché ci permette di iniziare una nuova fase di rapporti“, ha sottolineato sul podio del Berlaymont il ministro per gli Affari esteri di San Marino, Luca Beccari, sottolineando i punti di criticità dell’assenza di un accordo: “Scontiamo la condizione di enclave di enclave all’interno dell’Unione Europea, ma i nostri limiti non ci permettono un percorso agevole di adesione e partecipazione a pieno titolo nell’Ue, nonostante ci sviluppiamo come Stati perfettamente integrati e condividiamo i valori, i principi e gli ideali dell’Unione”.San Marino, Andorra e gli altri microstati europeiI tre microstati europei in questione hanno degli status diversi. Né San Marino né Andorra sono parte dello spazio Schengen (che prevede la libera circolazione delle persone tra Stati membri Ue e l’abolizione delle frontiere comuni), tuttavia esiste un’unione doganale con l’Unione dal 1991: solo San Marino lo è anche per i prodotti agricoli (dal 2002). Andorra mantiene parte dei suoi controlli al confine, solamente in alcuni valichi di frontiera con la Spagna. Il Principato di Monaco attualmente è in una situazione ibrida, e applica alcune politiche dell’Ue attraverso la relazione speciale che ha con la Francia: è membro di fatto di Schengen, mentre è a pieno titolo parte del territorio doganale dell’Unione.Da sinistra: l’alta commissaria per gli Affari europei del Principato di Monaco, Isabelle Costa, il ministro per gli Affari esteri di San Marino, Luca Beccari, il vicepresidente della Commissione Europea per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič, e il segretario di Stato per gli Affari europei di Andorra, Landry Riba Mandicó (4 luglio 2023)Per quanto riguarda gli altri microstati europei, il Liechtenstein è l’unico a far parte dello Spazio economico europeo e del Mercato Unico (dal primo maggio del 1995), mentre dal 19 dicembre del 2011 ha firmato gli accordi Schengen. La Città del Vaticano è il più piccolo Stato riconosciuto al mondo e ha solamente il confine aperto con l’Italia. Tutti i microstati europei (fatta eccezione per il Liechtenstein, che usa il franco svizzero) usano come moneta ufficiale l’euro e hanno il diritto di coniarne un numero limitato, perché viene riconosciuto loro l’aver utilizzato o essere stati legati a valute non più in circolazione di alcuni Paesi membri (lira per San Marino e Città del Vaticano, franco francese per Monaco, peseta spagnola e franco francese per Andorra). Da parte di Bruxelles non c’è l’interesse di integrare nessuno dei microstati europei come Paese membro, dal momento in cui sarebbe eccessivamente complesso gestire questioni interne all’Unione (come le presidenze di turno del Consiglio dell’Ue, o il diritto di veto degli Stati membri) per entità territoriali troppo limitate a livello di superficie e popolazione.

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    Gli ostacoli alle relazioni commerciali tra Ue e Taiwan su agroalimentare ed eolico off-shore

    Bruxelles – Unione Europea e Taiwan rimangono partner commerciali stretti, ma non si possono nascondere i problemi a lungo termine. “Taiwan deve mostrare disponibilità ad affrontare le nostre preoccupazioni e migliorare i rapporti“, è l’esortazione arrivata oggi (12 dicembre) alla sessione plenaria dell’Eurocamera a Strasburgo da parte del vicepresidente della Commissione Ue responsabile per l’Economia, Valdis Dombrovskis, intervenendo al dibattito sulle relazioni tra l’Unione e Taipei. “Siamo economie di mercato, libere e indipendenti, le barriere agli investimenti e al commercio sono praticamente zero”, ma in alcuni settori “le aziende europee hanno notato che ci sono notevoli ostacoli“.(credits: Jameson Wu / Afp)Sono in particolare due i crucci del vicepresidente dell’esecutivo comunitario: energia e agroalimentare. In primis nel settore dell’eolico off-shore, “dove abbiamo preoccupazioni sui requisiti che impone Taiwan”. È per questa ragione che a Taipei è stato chiesto di invertire la rotta e “porre fine agli ostacoli”, a partire dai dialoghi sulle regole del settore intensificatisi da aprile 2023: “Continueremo la cooperazione”, ha promesso Dombrovskis. L’altro punto di difficoltà è “l’accesso al mercato per i prodotti agricoli, soprattutto la carne”. Il vero problema riguarda il fatto che “le nostre regole sulla regionalizzazione non vengono riconosciute da Taiwan” e parallelamente “vengono imposti in modo non giustificato dei blocchi ai nostri prodotti“. Di fronte a “diverse richieste” alla Commissione da parte dei 27 Paesi membri Ue, “Taiwan ha accettato di affrontare la cosa in modo globale”, ha voluto specificare il responsabile per il Commercio nel gabinetto von der Leyen.Rispondendo alle domande incalzanti degli eurodeputati, Dombrovskis ha annunciato che “a breve faremo il punto dei progressi ottenuti in entrambi i settori” e il Berlaymont si aspetta “maggiori contatti per porre fine a queste barriere”. Ma non tutto è un ostacolo tra Bruxelles e Taipei, come dimostrano i passi in avanti fatti nel settore digitale. “Dal 2021 abbiamo aumentato il dialogo commerciale, comprese le esportazioni a duplice uso, la ricerca e sviluppo e i semiconduttori”, ha ricordato il vicepresidente della Commissione. E proprio il settore dei semiconduttori rivestirà un ruolo cruciale nei rapporti tra l’Unione e l’isola. Dopo l’incontro dello scorso 28 aprile, “abbiamo messo a punto diverse iniziative” con il coinvolgimento di diversi direzioni generali della Commissione, con “un workstream apposito e avvieremo un dialogo sulle misure di agevolazione per lo scambio di semiconduttori“, è la promessa di Dombrovskis.L’Ue tra Cina e TaiwanDa sinistra: il vicepresidente della Commissione Europea responsabile per l’Economia, Valdis Dombrovskis, e il vice-premier della Cina, He Lifeng (credits: Pedro Pardo / Afp)Nel momento in cui i rappresentanti delle istituzioni comunitarie si riferiscono a Taiwan, è inevitabile il riferimento alla Cina. “Dobbiamo preservare lo status quo a Taiwan, che non può essere cambiato con la forza, è fondamentale per il mantenimento della pace e del commercio globale e nella regione”, ha sottolineato con forza il vicepresidente della Commissione Ue Dombrovskis, rispondendo alle domande degli eurodeputati sulla posizione nei confronti delle minacce cinesi nello Stretto di Taiwan. Solo una settimana fa la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e del Consiglio Europeo, Charles Michel, hanno partecipato a Pechino al 24esimo vertice Ue-Cina in cui sono state ribadite le linee per il riorientamento dei rapporti Ue-Cina – considerato lo squilibrio commerciale con il partner/competitor – e le questioni delle tensioni in Ucraina e a Taiwan con il leader cinese, Xi Jinping, proprio come fatto a inizio aprile dalla presidente von der Leyen e il presidente francese, Emmanuel Macron.Proprio il tema del rapporto dei Ventisette con Taiwan – nel caso dell’escalation della tensione con Pechino – era stato al centro di un teso dibattito interno all’Unione in primavera. A scatenare il vespaio erano state le parole del presidente francese Macron di ritorno dal viaggio a Pechino. “La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dovremmo essere dei seguaci su questo tema e adattarci al ritmo americano e a una reazione eccessiva della Cina“, era stato il commento dell’inquilino dell’Eliseo, tratteggiando la necessità di una vera autonomia strategica europea (ma non un’equidistanza tra Washington e Pechino).Nel pieno della bagarre tra i gruppi politici alla sessione plenaria dell’Eurocamera di metà aprile a Strasburgo, la presidente von der Leyen e l’alto rappresentante Borrell avevano messo in chiaro che serve unità contro la “politica di divisione e conquista” cinese e che le istituzioni europee si oppongono “fermamente” a qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo, “in particolare attraverso l’uso della forza”. A confermare questa posizione, in un’intervista a Le Journal du Dimanche lo stesso alto rappresentante Ue aveva esortato le marine europee a “pattugliare lo Stretto di Taiwan, per dimostrare l’impegno dell’Europa a favore della libertà di navigazione in quest’area assolutamente cruciale” per il commercio globale.

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    La Commissione europea al lavoro per imporre sanzioni ai coloni israeliani più violenti

    Bruxelles – Era nell’aria da giorni, da quando il segretario di Stato Antony Blinken ne aveva parlato durante una visita a Tel Aviv. L’idea di introdurre un regime di sanzioni contro i coloni israeliani responsabili di violenze contro la popolazione palestinese si è materializzata oggi (11 dicembre) anche sul tavolo dei ministri degli Esteri dell’Ue.“Non posso dire che c’è stata unanimità”, ha ammesso l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, a margine dei lavori. A quanto si apprende da fonti comunitarie, in prima linea ci sono il Belgio – che aveva già annunciato di voler vietare l’ingresso sul territorio nazionale ai coloni israeliani violenti – assieme a Spagna, Irlanda e Malta, che avrebbero firmato una lettera congiunta per sostenere la proposta di Borrell. Ma tra i 27 c’è chi, come dichiarato oggi dal vicepremier italiano Antonio Tajani, pensa che sia sufficiente la condanna della violenza, perché “non possiamo equiparare i coloni ebrei ad Hamas”. E poi c’è uno spettro di Paesi più possibilisti: Catherine Colonna, ministra degli Esteri francese, ha dichiarato che Parigi “sta riflettendo sull’adozione di misure nazionali”.Per Borrell però “è arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti”. Il capo della diplomazia europea si è messo in scia di Washington e ha fatto la proposta ai ministri Ue: ora il Servizio europeo di Azione esterna (Seae) è al lavoro per presentare “una lista di persone conosciute per la loro attività violenta contro i palestinesi nella West Bank” agli Stati membri, da sanzionare secondo il quadro generale Ue pe la difesa dei diritti umani. Lo stesso attraverso cui l’Ue ha emesso dieci pacchetti di sanzioni contro gli individui e le entità responsabili delle repressioni di piazza in Iran.La discussione sarà probabilmente riproposta ai 27 capi di Stato e di governo dell’Ue già giovedì e venerdì 14-15 dicembre, in occasione del Consiglio europeo. Borrell è stato molto duro anche sulla recente decisione del governo di Tel Aviv di approvare l’ulteriore costruzione di 1700 unità abitative a Gerusalemme est: “Condanniamo la decisione e prepareremo una dichiarazione a 27 per fissare la nostra posizione”. I ministri degli esteri Ue hanno inoltre insistito sulla necessità di mobilitare il più presto possibile i fondi comunitari alla Palestina che – dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre – erano stati sottoposti a una revisione approfondita. Si parla di progetti per circa 330 milioni di euro. La Commissione Ue avrebbe garantito che “saranno consegnati nei prossimi giorni”.

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    La settimana dell’allargamento è ostaggio di Orbán. Pressing a Bruxelles per sbloccarla

    Bruxelles – È iniziato il conto alla rovescia di una settimana cruciale per le prospettive di allargamento Ue, ma anche per una delle prove più delicate di unità dei Ventisette. Il premier ungherese, Viktor Orbán, da settimane sta aumentando la pressione su due appuntamenti di estrema importanza per il futuro dell’Unione, che in diverse modalità si intersecano e dipendono dalla volontà dell’uomo forte di Budapest sull’Ucraina: il vertice Ue-Balcani Occidentali di mercoledì (13 dicembre) e il Consiglio Europeo di giovedì e venerdì (14-15 dicembre).Da sinistra: il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán, a Budapest (27 novembre 2023)“Sicuramente il veto di Orbán sarà in cima all’agenda delle discussioni all’ordine del giorno, spero che l’unità europea non verrà spezzata, perché non è il momento di indebolire il nostro supporto all’Ucraina”, è stato il commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, facendo ingresso al Consiglio Affari Esteri di oggi (11 dicembre) a Bruxelles. A nulla sembra essere servito il viaggio del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, a Budapest lo scorso 27 novembre per tentare una difficilissima mediazione con Orbán: solo una settimana fa lo stesso premier ungherese ha inviato a Michel una lettera per esortarlo a cancellare dall’agenda del vertice tutti i punti sulle decisioni inerenti a Kiev – dall’avvio dei negoziati di adesione al sostegno finanziario – “fino a quando non si trova un consenso sulla nostra futura strategia nei confronti dell’Ucraina”. E niente si è mosso negli ultimi giorni, nemmeno nel corso dei confronti bilaterali con il presidente francese, Emmanuel Macron, e con il premier spagnolo, Pedro Sánchez.È così che, a due giorni dall’avvio della tre-giorni di vertici a Bruxelles, l’allargamento Ue è ancora ostaggio del potere di veto di Budapest. Perché – come ricordato puntualmente dal ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, oggi a Bruxelles – “l’allargamento è un processo vasto che non copre solo l’Ucraina, non voglio neanche pensare allo scenario di un fallimento generale su questo tema“. In altre parole, per quanto potrà essere di successo il vertice Ue-Balcani Occidentali (in programma dalle ore 17 di mercoledì), non si potrà esultare fino a quando non saranno messe nero su bianco le conclusioni “gradite” del Consiglio Europeo sull’avvio dei negoziati di adesione per l’Ucraina, così come raccomandato dalla Commissione Ue lo scorso 8 novembre. La motivazione ha trovato una sintesi nelle parole del ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis: “Se non ci sarà una soluzione positiva, arriveranno tempi bui, l’unico modo in cui leggo la posizione dell’Ungheria è che si posiziona contro l’Unione e tutto ciò che fa”. Percorso di allargamento Ue e di riforma interna inclusi.Il tempo scarseggia per cercare di sbloccare l’impasse, ma a Bruxelles è intensa la pressione diplomatica da parte di quasi tutti i governi per scongiurare un fallimento su tutta la linea questa settimana. “Mi auguro che da parte ungherese si possa compiere un passo in avanti, anche dopo la decisione di garantire la libertà di insegnamento della lingua ungherese per la minoranza che vive in Ucraina”, ha spiegato alla stampa europea il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani: “Spero che si possa procedere con una posizione favorevole da parte di Budapest verso la nostra posizione”. Più dura la collega finlandese, Elina Valtonen: “La posizione dell’Ungheria è stata davvero deplorevole nel corso degli ultimi mesi”. Rispondendo alle domande su come superare lo stallo, il ministro lettone Arturs Kariņš ha ricordato che “la Commissione sta valutando tutte le opzioni per superare l’impasse, la nostra missione di politici è trovare soluzioni”. Il riferimento è all’atteso sblocco “fino a un tetto massimo” di 10 miliardi di euro “prima del 15 dicembre” dai fondi della politica di coesione (su un totale di 28,6 miliardi congelati) – come hanno reso noto alti funzionari europei – dopo aver dato il via libera al capitolo RePowerEu da 4,6 miliardi di euro, con i suoi 900 milioni di euro di pre-finanziamento automatico e non vincolato.L’allargamento Ue ai vertici di BruxellesIl tema dell’allargamento sarà per evidenti motivi prioritario al vertice Ue-Balcani Occidentali che, come riferiscono fonti Ue, si soffermerà sui progressi dell’ultimo anno (dal summit di Tirana del 6 dicembre 2022). Saranno valutate le notizie positive in arrivo dal Montenegro – che “nel giro dei prossimi sei mesi” ci si aspetta possa “chiudere i capitoli 23 e 24” dei negoziati di adesione Ue – si dovrà considerare la possibilità di disaccoppiare il percorso di adesione di Albania e Macedonia del Nord – anche se “non è l’opzione che vogliamo” – e si farà il punto sull’anno complicatissimo per i rapporti tra Serbia e Kosovo e i riflessi sul dialogo Pristina-Belgrado. Ma soprattutto si dovrà considerare come posizionarsi nei confronti della Bosnia ed Erzegovina, in questo momento in un bivio tra il percorso europeo e le sirene secessioniste nella Republika Srpska di Milorad Dodik.È qui che va considerato quanto sarà inserito all’ordine del giorno del Consiglio Europeo al via il giorno successivo al vertice Ue-Balcani Occidentali. “Il Consiglio è pronto ad avviare i negoziati di adesione all’Ue con la Bosnia ed Erzegovina, una volta raggiunto il necessario grado di conformità ai criteri di adesione“, si legge nella bozza delle conclusioni del vertice dei leader Ue visionata da Eunews. Niente di nuovo rispetto alla raccomandazione della Commissione Europea, ma non va dimenticato che l’ombra lunga di Orbán incombe anche nel caso dell’allargamento Ue alla Bosnia ed Erzegovina. Di fronte alle politiche secessioniste di Dodik e alla vicinanza sempre più esplicita all’autocrate Vladimir Putin dopo l’invasione russa dell’Ucraina (non dissimulate nemmeno dal premier ungherese), l’Unione Europea ha già un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato. Tuttavia, come rivelato da fonti Ue a Eunews, è proprio l’Ungheria a non permettere il via libera per la vicinanza politica tra Orbán e il leader serbo-bosniaco che vuole la secessione da Sarajevo.Rispetto a quanto raccomandato dal gabinetto di Ursula von der Leyen nel Pacchetto Allargamento Ue 2023, la partita si giocherà in particolare su quello che nella bozza delle conclusioni compare al punto 14 e 15: “Il Consiglio Europeo decide di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldova” e invita i 27 ministri competenti ad “adottare i rispettivi quadri negoziali una volta adottate le misure indicate” dal Consiglio Affari Generali. In attesa anche la Georgia, per cui si dovrebbe decidere di “concedere lo status di Paese candidato“, ma con l’allargamento Ue in ostaggio di Budapest niente è certo al momento. Perché, come spiegano senza troppi giri di parole le fonti Ue, se il percorso dell’Ucraina sarà bloccato da Orbán “non sappiamo ancora se altri Paesi faranno dei collegamenti sul processo basato sul merito anche per gli altri candidati“.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Tajani frena su possibili sanzioni Ue contro i coloni estremisti israeliani: “Non sono terroristi”

    Bruxelles – Le violenze sistematiche dei coloni israeliani nei territori palestinesi occupati non sono atti terroristici. Non ha alcun dubbio il vicepremier Antonio Tajani, che dalla capitale Ue dice la sua sulla possibilità di vietare l’ingresso nell’area Schengen ai coloni estremisti che si macchiano di violenze contro la popolazione civile palestinese.“Condanno le violenze, ma i coloni non sono un’organizzazione terroristica”, ha dichiarato il ministro degli Esteri a margine del vertice con gli omologhi dei 27 Paesi Ue. La questione è stata portata sul tavolo dei ministri europei – e dell’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell – dal governo belga, pronto a vietare l’ingresso sul territorio nazionale ai coloni che commettono crimini nella West Bank. “Perché questa misura sia efficace, ho chiesto di vietarlo in tutto lo spazio Schengen”, ha spiegato la ministra belga, Hadja Lahbib, citando gli ultimi dati raccolti dall’ufficio di coordinamento per gli affari umanitari dell’Onu (Ocha): “Sette atti violenza al giorno commessi da coloni violenti, una situazione estremamente inquietante”.Dal 7 ottobre, Ocha-Opt ha registrato 331 attacchi di coloni israeliani contro le comunità palestinesi. Con un bilancio di 8 vittime, 35 episodi di violenza con almeno un ferito e 251 episodi in cui sono state danneggiate proprietà della comunità locale. La media settimanale degli attacchi è aumentata da 21 episodi, registrata tra gennaio e settembre 2023, a 36 episodi dopo il 7 ottobre.Ampliamento dell’insediamento israeliano di Har Homa nella Cisgiordania Occupata, 7/12/23 (Photo by AHMAD GHARABLI / AFP)Tajani ha tuttavia rispedito immediatamente al mittente la proposta: “Quella di usare violenza o di aggredire la popolazione palestinese in Cisgiordania è una scelta che non condivido, ma non possiamo equiparare Hamas ai coloni ebrei“, ha chiosato il ministro. Perché l’organizzazione terroristica palestinese “si è macchiata di crimini immondi” che “gridano vendetta”. Hamas ha “cercato la gente casa per casa, ucciso bambini di tre mesi, violentato donne per poi ucciderle e giocare a calcio con i loro seni”.Italia, Francia e Germania hanno indirizzato una lettera a Borrell per esprimere “il loro forte sostegno” all’istituzione di un regime di sanzioni ad hoc per i militanti di Hamas, i gruppi affiliati e i suoi sostenitori, “al fine di stigmatizzare politicamente gli attacchi del 7 ottobre scorso, isolare Hamas a livello internazionale e privarlo del sostegno finanziario e logistico da parte di terzi”. I tre maggiori Paesi del blocco guidano l’azione Ue contro i terroristi palestinesi, ma reagiscono in modo diverso alla proposta belga di sanzionare i coloni israeliani. Idea che oltretutto ha messo sul piatto a Washington anche il segretario di stato americano, Anthony Blinken. “La situazione in Cisgiordiania ci preoccupa, a causa dei troppi casi di violenze commesse da coloni estremisti. La Francia sta riflettendo sull’adozione di misure nazionali“, ha ammesso la ministra degli Esteri Catherine Colonna.