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    L’Ue colpisce Alrosa, il colosso minerario che produce oltre il 90 per cento dei diamanti russi

    Bruxelles – L’Unione europea ha inaugurato ufficialmente la battaglia contro i diamanti russi. Dopo l’approvazione del dodicesimo pacchetto di sanzioni a Mosca, che per la prima volta dall’inizio della guerra d’invasione in Ucraina ne ha vietato il commercio, oggi (3 gennaio) Bruxelles ha deciso di imporre sanzioni direttamente alla società Pjsc Alrosa, il gigante minerario di proprietà dello Stato russo, e al suo amministratore delegato.Stiamo parlando della più grande compagnia produttrice di diamanti al mondo, che rappresenta oltre il 90 per cento di tutta la produzione russa e che contribuisce in larghissima parte all’indotto complessivo di 4,5 miliardi di dollari all’anno che Mosca ricava dal commercio dei gioielli di lusso. Alrosa, così come tutte le entità colpite dalle misure restrittive dell’Ue, sarà soggetta al congelamento dei beni sul territorio europeo. E non potrà ricevere fondi da cittadini e imprese dell’Ue. Al suo amministratore delegato, Pavel Alekseevich Marinychev, sarà impedito l’ingresso e il transito nei 27 Paesi membri.Il colpo assestato ad Alrosa “integra il divieto di importazione di diamanti russi incluso nel dodicesimo pacchetto di sanzioni economiche e individuali adottato il 18 dicembre 2023″, spiega il Consiglio dell’Ue con un comunicato stampa. L’offensiva contro i diamanti russi è coordinata con i Paesi del G7 nel tentativo di privare la Russia di una importantissima fonte di ricchezza.Valdimir Putin e l’ex Ceo di Alrosa, Sergei Ivanov, al Cremlino nel 2020 (Photo by Mikhail KLIMENTYEV / SPUTNIK / AFP)Fino ad ora la compagnia di proprietà del Cremlino aveva potuto continuare la propria attività in Europa senza intoppi, così come il suo ex Ceo, Sergey Sergeyevich Ivanov, figlio di un amico di lunga data di Vladimir Putin. Sostituito da Marinychev nel maggio 2023, Ivanov è figlio di un ufficiale del Kgb, Sergey Borisovich Ivanov, nella cerchia dei più stretti collaboratori di Putin. Ivanov padre era stato inserito nella lista delle sanzioni europee già il 9 marzo 2022, due settimane dopo l’inizio dell’invasione russa, mentre l’ex amministratore delegato di Alrosa era soggetto a misure restrittive da parte di Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Nuova Zelanda e Ucraina. Ma non dall’Ue.Con questa nuova designazione, le misure restrittive di Bruxelles nei confronti di azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina si applicano ora complessivamente a 1.950 persone ed entità in totale. La prossima tappa della battaglia per ostacolare il commercio di diamanti russi è attesa dal primo marzo, quando sarà introdotto gradualmente un sistema di tracciabilità che diventerà obbligatorio a partire dal primo settembre 2024, e che permetterà di introdurre divieti anche sui diamanti russi lavorati in Paesi terzi.

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    L’Ue: “Soluzione a due Stati in Medio Oriente”. Ma solo 9 su 27 riconoscono la Palestina come Stato

    Bruxelles – Soluzione a due Stati in Medio Oriente, con Israele da una parte e Palestina dall’altra . L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Josep Borrell, sta insistendo sul fatto che solo questa sia la soluzione al conflitto arabo-israeliano. Una linea sposata anche dall’Italia e dal governo in carica, ma che appare tutt’altro che semplice. Perché oggi appena un terzo degli Stati membri dell’UE riconosce la Palestina come Stato. Appena nove su Ventisette, più un decimo che si è aggiunto in corso d’opera.Bulgaria, Cipro, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Svezia e Ungheria. Sono loro ad aver riconosciuto la Palestina come Stato secondo i confini del 1967 (Cisgiordania, striscia di Gaza e Gerusalemme est). Solo la Svezia ha riconosciuto uno stato palestinese da membro UE, mentre gli altri l’hanno fatto prima di entrare nel club a dodici stelle. Recentemente, sulla scia dell’operazione lanciata di Hamas su vasta scala innescando il conflitto tutt’ora in corso, il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez ha annunciato di essere pronto a compiere il passo mai compiuto finora, portando così a dieci gli Stati membri dell’Ue a riconoscere la Palestina come Stato.Risultano evidenti dunque cortocircuito e contraddizione dell’UE, che da una parte chiede un qualcosa che non può avvenire finché i singoli governi non nazionali ottengono ciò che serve. Sulla ‘questione Palestina’ c’è un braccio di ferro inter-istituzionale che si trascina da almeno un decennio. Il Parlamento europeo chiede che venga riconosciuto uno stato palestinese almeno dal 2014, sempre sulla base di una situazione a due stati con frontiere del 1967. Adesso torna a spingere anche la Commissione europea, attraverso Borrell, per la stessa cosa, ma il vero nodo è in Consiglio.Tanto è vero che l’europarlamentare spagnola Ana Miranda (Verdi), con tanto di interrogazione urgente, chiede di riconoscere “con urgenza” la Palestina come Stato invitando il consiglio Affari generali, che riunisce i ministri per gli Affari europei dei 27 Stati membri dell’UE, di mettere sul tavolo l’argomento. La richiesta originariamente era indirizzata alla Spagna, presidente di turno fino al 31 dicembre 2023, ma essendo stata presentata il 13 dicembre questa interrogazione ora finirà all’attenzione del Belgio, presidente di turno dal primo gennaio.“L’Unione deve adottare una nuova posizione e riconoscere lo Stato di Palestina“, esorta l’europarlamentare spagnola. Ma perché ciò sia possibile occorre che tutti i 27 Stati membri riconoscano la Palestina come Stato. Altrimenti le dichiarazioni resteranno prive di fondamento e credibilità. Il sostegno all’Autorità nazionale palestinese da solo non basta.

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    Borrell: “Avanti con il rifornimento di munizioni all’Ucraina”. In primavera attesa la svolta

    Bruxelles – Avanti con il rifornimento di munizioni all’Ucraina. L’Unione europea non intende abbandonare l’alleato-partner nel conflitto con la Russia, e il piano per accelerare produzione industriale e forniture non solo non è rimesso in discussione ma dovrebbe iniziare a produrre i propri effetti entro la primavera di quest’anno. E’ la data che fornisce l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, nella risposta fornita ad un’interrogazione parlamentare in materia.Ci sono tre linee d’azione per il potenziamento della produzione industriale di difesa: consegna immediata dalle scorte o ridefinizione delle priorità degli ordini, acquisto congiunto di munizioni calibro 155 mm, e aumento della capacità industriale europea. Per quanto riguarda i primi due rami dell’agenda a dodici stelle, sostiene Borrell, “la consegna di 1 milione di munizioni da artiglieria all’Ucraina continua ad essere un importante obiettivo politico“, anche alla luce della mancata promessa di farle avere a Kiev e alla sue forze armate entro fine 2023. Adesso si conta di farle avere “entro marzo 2024”, dopo aver già consegnato, sottolinea Borrell, “oltre 300mila munizioni terra-terra e 3.200 missili da febbraio 2023”.Anche sul fronte dei proiettili calibro 155 l’obiettivo temporale è quello del cambio di stagione. “Si stima che la capacità produttiva europea sia già aumentata del 20-30 per cento da febbraio 2023, e si prevede che raggiungerà la capacità di 1 milione l’anno nella primavera del 2024″. Un’evoluzione che si collega agli acquisti congiunti per rifornire l’Ucraina. “Secondo le stime attuali – dice sempre l’Alto rappresentante – sarebbero già ordinate circa 180mila munizioni per il periodo 2023-2024″, e inoltre “si prevedono ulteriori ordini nei prossimi mesi”.Al netto di questo, l’impegno dell’Ue è pronto a essere profuso anche in altri ambiti, sempre di difesa e sostegno all’Ucraina. Borrell tiene a precisare, nella sua risposta alle domande sollevate dai banchi del gruppo dei popolari (PPE), che tra Stati membri e di concerto con l’Ucraina “sono attualmente in corso discussioni sui futuri impegni di sicurezza dell’UE nei confronti dell’Ucraina e su come garantire un sostegno militare sostenibile e prevedibile all’Ucraina“. Un messaggio per Mosca. L’UE non cede.

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    Dall’industria all’agricoltura. Rischi e opportunità dell’allargamento Ue per l’economia italiana

    Bruxelles – Non è solo una questione politica, ma è soprattutto un tema che interessa il futuro assetto dell’Unione Europea anche sul piano economico e commerciale. L’allargamento Ue è tornato da più di un anno e mezzo – da quando la Russia ha iniziato la guerra di aggressione in Ucraina – in cima all’agenda dei Ventisette e dopo il cruciale Consiglio Europeo del 14-15 dicembre in cui i leader dell’Unione hanno deciso di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldova (con la Bosnia ed Erzegovina con riserva) e di concedere lo status di Paese candidato alla Georgia, il comparto economico italiano inizia a considerare rischi e opportunità future di questo processo. Con particolare attenzione al peso massimo dell’allargamento Ue, l’Ucraina.“Il nostro auspicio è che Paesi come l’Ucraina e quelli dei Balcani Occidentali, una volta raggiunti i prerequisiti e completati i passi necessari per l’adesione, possano presto entrare nell’Unione Europea“, sottolinea il Delegato del Presidente di Confindustria per l’Europa, Stefan Pan, contattato da Eunews. Confindustria rimane cauta sulle prospettive dell’allargamento Ue, ma riconosce la necessità di “riflettere sul futuro funzionamento delle istituzioni europee, che già ora avrebbero bisogno di un cambiamento nella governance” sia sul piano dell’efficacia dei processi decisionali sia per “rispondere meglio alle esigenze con cui si confronta il sistema Europa”, spiega Pan. Più nello specifico il comparto industriale italiano guarda a come l’allargamento Ue potrebbe incidere sul piano istituzionale, sulle politiche europee e a livello di bilancio: “Per questo servono riforme accompagnate da analisi approfondite, che tengano conto di tutti i diversi aspetti coinvolti e che rendano l’Unione idonea ad affrontare le sfide dei prossimi anni”.Anche il responsabile dell’ufficio di rappresentanza di Coldiretti a Bruxelles, Paolo Di Stefano, mette in chiaro che “ci sono diversi elementi da considerare”, dal Mercato interno al bilancio Ue fino ai tempi dei negoziati. È soprattutto l’Ucraina sotto la lente, considerate le dimensioni (quasi 44 milioni di abitanti) e la struttura agricola “completamente diversa” da quella del resto d’Europa: “A fronte di dimensioni medie di 12/13 ettari della superficie occupata dalle aziende agricole europee, in Ucraina sale fino a 400 ettari”. Come fa notare a Eunews Di Stefano, Kiev “dovrà adattarsi agli standard produttivi europei, come sulla sicurezza alimentare, ambientale e dei consumatori”, perché un’Europa allargata “può essere un’opportunità”. Anche se al momento non si possono nascondere le “preoccupazioni economiche” legate all’allargamento Ue, a partire dal bilancio dell’Unione: “Come mostrato dal Segretariato generale del Consiglio, con le regole attuali di bilancio l’ingresso dell’Ucraina avrebbe un impatto notevole sui fondi della Politica Agricola Comune“. Si parla di una “riduzione complessiva del 20 per cento per le assegnazioni agli Stati membri” e “l’Italia, che è già un Paese contributore netto, dovrà aumentare i contributi“. Di fronte a queste preoccupazioni Coldiretti chiede “scelte importanti e coraggiose sul bilancio Ue” ma anche negoziati che “non creino troppi scompensi al mercato e alla protezione delle aziende agricole della ‘vecchia’ Europa”, è l’esortazione di Di Stefano.A tirare le fila del discorso, in una conversazione con Eunews sulle prospettive future dell’allargamento Ue per l’economia italiana e per l’assetto europeo, è l’eurodeputato Massimiliano Salini (Forza Italia), membro sostituto della commissione per l’Industria, la ricerca e l’energia (Itre). “L’allargamento Ue in quanto tale è un fatto positivo, perché è un segno di solidità del progetto europeo, ma per come è configurata oggi e per lo stato di salute, l’Unione sembra tutt’altro che pronta a un nuovo allargamento“. Ecco perché in primis “non c’è futuro politico senza una Costituzione, poi bisogna stabilire di cosa si deve occupare l’Ue a livello di bilancio” e infine si può “intervenire su governance e riforma dei Trattati”. Se questo è l’aspetto politico/istituzionale che interessa tutti i Ventisette, a livello economico nazionale “per l’Italia ci sono solo vantaggi dall’allargamento Ue, in quanto Paese esportatore con una manifattura brillante“. Salini riconosce sì che “alcuni settori hanno preoccupazioni legittime, come quello agricolo, per cui serve una valutazione”, ma nel suo complesso “l’Italia ne avrebbe solo da guadagnare” se si considera il maggiore spettro di Paesi “a cui rivolgere i propri prodotti senza ostacoli determinati da confini e dazi, la libera circolazione delle merci è sicuramente un fatto positivo”.A che punto è l’allargamento UeSui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre 2022 anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione e l’ultimo Consiglio Europeo di dicembre ha deciso che potranno essere avviati i negoziati di adesione “una volta raggiunto il necessario grado di conformità ai criteri di adesione”. Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue – Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia – continuano a non riconoscerlo come Stato sovrano.Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Di nuovo seguendo la raccomandazione contenuta nel Pacchetto Allargamento Ue, il vertice dei leader Ue del 14-15 dicembre ha deciso di avviare i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova e di concedere alla Georgia lo status di Paese candidato.I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è stato affrontato in una relazione strategica apposita a Bruxelles.

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    L’Ue rilancia la richiesta di rilascio del presidente del Niger Bazoum dopo 5 mesi di prigionia

    Bruxelles – Sono passati cinque mesi, ma il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, è ancora prigioniero della giunta militare che ha preso il potere a fine luglio con le armi. “Come l’Ecowas, l’Unione Europea continua a chiedere il suo rilascio e quello della sua famiglia“, è la costante esortazione dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in un quadro diplomatico nel Sahel altamente problematico e senza sviluppi positivi.L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, dopo un incontro con il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, a Niamey (5 luglio 2023)Dopo il golpe del 26 luglio scorso non c’è stato alcuno spazio per una mediazione diplomatica nell’ultimo dei Paesi della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) che hanno visto una presa di potere armata da parte della giunta militare. Al punto che la Francia, il maggiore attore europeo e occidentale a Niamey, è pronta ad abbandonare il Paese. Così come riportato dall’agenzia di stampa Afp, l’ambasciatore francese in Niger, Sylvain Itté, ha inviato una lettera al suo staff per annunciare che sarà chiusa presto l’ambasciata, dal momento in cui “non è più in grado di funzionare normalmente né di svolgere i suoi compiti” a causa del clima ostile esercitato dalla giunta militare. Da quando è stato deposto il presidente Bazoum, i golpisti si sono avvicinati esplicitamente alla Russia di Vladimir Putin e hanno ordinato l’espulsione dei 1.500 militari francesi impegnati sul suolo nigerino in operazioni di contrasto ai gruppi estremisti islamici affiliati allo Stato Islamico e ad Al-Qaeda. L’evacuazione si è conclusa venerdì scorso (22 dicembre), mentre per il momento i soldati statunitensi, italiani e tedeschi potranno rimanere in Niger.Ma il clima diplomatico rimane tesissimo anche per l’Unione Europea, in particolare dopo l’adozione del quadro di sanzioni autonomo contro la giunta militare in Niger (che si affianca a quello dell’Ecowas) di fine ottobre. “L’Ue si rammarica della decisione della giunta di denunciare l’accordo che stabilisce la base giuridica per il dispiegamento della missione Eucap Sahel Niger e della missione di cooperazione militare Eumpm”, è quanto denunciato a inizio mese dall’alto rappresentante Ue Borrell, avvertendo che Bruxelles “trarrà le necessarie conclusioni operative“. In 11 anni di presenza nel Paese, Eucap Sahel Niger ha sostenuto e formato le forze di sicurezza interne nella lotta contro il terrorismo, la criminalità organizzata e la migrazione irregolare su richiesta delle autorità nazionali con il dispiegamento di 130 soldati dei Paesi membri Ue. La missione Eumpm Niger – lanciata sempre su invito delle autorità nigerine – è stata invece progettata per sostenere l’esercito nazionale nella lotta contro il terrorismo.Il colpo di Stato in NigerLo scorso 26 luglio la Guardia presidenziale del Niger ha circondato il palazzo presidenziale e gli edifici di diversi ministeri a Niamey, arrestando il presidente Bazoum (in carica dal 2021), la sua famiglia e i membri dell’entourage. Lo stesso capo di quello che poi si è ribattezzato Consiglio nazionale per la salvaguardia del Paese (Cnsp), Abdourahmane Tchiani, si è autoproclamato nuovo leader del Paese: i golpisti hanno ordinato la sospensione di tutte le istituzioni, la chiusura delle frontiere aeree e terrestri e il coprifuoco notturno. Anche l’esercito del Niger – addestrato dall’Ue attraverso il partenariato militare Eumpm Niger – si è unito alla Guardia Presidenziale per “preservare l’unità” nazionale. Con un decreto annunciato il 7 agosto la giunta ha nominato l’ex-ministro delle Finanze, Ali Mahamane Lamine Zeine, come primo ministro di transizione e tre giorni più tardi la giunta militare ha formato un governo composto da 21 ministri.Negli ultimi due anni si sono susseguiti diversi colpi di Stato nei Paesi dell’Africa occidentali – in Mali, Guinea e Burkina Faso – le cui rispettive giunte militari oggi al potere hanno minacciato di difendere i golpisti in Niger in caso di un attacco armato da parte dell’Ecowas. Per l’Unione Europea Niamey era considerato un alleato-chiave soprattutto per la lotta contro il terrorismo di matrice islamista e in ottica di partenariato sulla migrazione. “La nostra partnership con il Niger è solida e non smette di rinforzarsi in tutti i settori: sicurezza, sviluppo, educazione, transizione energetica”, aveva dichiarato il 5 luglio scorso l’alto rappresentante Borrell dopo un incontro con Bazoum a Niamey. Dal 26 luglio tutti i fondi comunitari per la cooperazione con Niamey sono stati sospesi, compresi quelli mobilitati attraverso l’European Peace Facility per “rafforzare le capacità militari delle forze armate nigerine al fine di difendere l’integrità territoriale e la sovranità del Niger”.

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    L’Ue mette in cantiere un piano B per il sostegno all’Ucraina a 26

    Bruxelles – La data segnata sul calendario è quella del 1 febbraio 2024, giorno in cui il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha convocato il vertice straordinario dei capi di stato e di governo dell’Ue per sbloccare lo stallo sulla revisione del bilancio pluriennale dell’Unione. Il nodo da sciogliere riguarda i 50 miliardi per tenere a galla l’Ucraina: se il piano A rimane convincere l’Ungheria e raggiungere l’unanimità, a Bruxelles si lavora a ranghi serrati per un piano di riserva.Lo scorso 15 dicembre il premier ungherese, Viktor Orban, è stato protagonista assoluto del vertice europeo: prima cedendo sull’apertura dei negoziati per l’adesione di Kiev all’Ue, poi battendo i pugni sul tavolo sul sostegno finanziario al Paese aggredito da Mosca. In 26 erano d’accordo per garantire a Volodymyr Zelensky 33 miliardi di euro di prestiti e 17 miliardi di sussidi a fondo perduto fino al 2027, ma dopo una trattativa durata ore, Michel ha preferito congelare il dossier e rimandarlo al nuovo anno. Senza rinunciare a convincere Budapest: “Torneremo sulla materia a inizio del prossimo anno per cercare di raggiungere l’unanimità per attuare questo accordo”, aveva dichiarato il leader Ue a margine del Consiglio europeo.Charles Michel (di spalle) accoglie Viktor Orban al Consiglio europeo del 14-15 dicembre 2023Ma l’Ue non può rischiare di svegliarsi il 2 febbraio senza un piano di finanziamenti per l’Ucraina. Secondo il Financial Times sarebbero in corso colloqui per un piano B, che possa essere approvato a 26 nell’eventualità che Orban ribadisca il suo no a utilizzare il bilancio comunitario per Kiev. Un piano dal valore massimo di 20 miliardi di euro, sganciati dal bilancio Ue, che la Commissione europea potrebbe prendere in prestito sui mercati di capitali grazie al rilascio di garanzie da parte degli Stati membri.L’aspetto cruciale è che l’opzione non richiederebbe l’approvazione da parte di tutti i 27 Stati membri, a condizione che tra i partecipanti principali vi siano Paesi con il miglior rating creditizio. Lo schema è simile è quello utilizzato in piena crisi pandemica, quando la Commissione fornì fino a 100 miliardi di euro di finanziamenti a basso costo ai 27 per programmi di sostegno al lavoro a breve termine. La principale pecca rispetto alla proposta originale basata sul bilancio dell’Ue, è che il piano sarebbe limitato ai prestiti e non includerebbe le sovvenzioni. Anche se gli Stati membri potrebbero comunque decidere di fornire sovvenzioni a livello bilaterale.Esiste un altro scoglio a livello temporale: la Commissione europea vorrebbe sbloccare i fondi per Kiev il più presto possibile, al più tardi nel mese di marzo, ma per il rilascio di garanzie nazionali alcuni Paesi avrebbero bisogno di un iter di approvazione parlamentare. Per questo, secondo il Ft, a Bruxelles non smettono di puntare all’opzione A, quella di riuscire a far salire sul carro anche l’Ungheria e approvare la revisione del budget comunitario.

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    A Gaza lo spettro della fame. L’Ue chiede un “accesso umanitario continuo”, ma senza nominare Israele

    Bruxelles – “Profondamente scioccati” dai risultati della valutazione dell’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc) sulla crisi alimentare a Gaza. L’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, e il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, parlano di un “campanello d’allarme per il mondo intero affinché agisca ora per prevenire una catastrofe umana mortale“. Ma non chiamano mai in causa Israele.Secondo il sistema di  classificazione sviluppato nel 2004 dalla Fao, l’Agenzia dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, tra l’8 dicembre 2023 e il 7 febbraio 2024, l’intera popolazione della Striscia di Gaza – circa 2,2 milioni di persone – si trova almeno nella Fase 3 dell’Ipc, quella che viene chiamata fase di crisi. “Si tratta della percentuale più alta di persone che affrontano livelli elevati di insicurezza alimentare acuta che l’Ipc abbia mai classificato per una determinata area o paese”, viene sottolineato nella valutazione.La scala del rischio alimentare utilizzata nelle valutazioni dell’IpcMa lo scenario è ancora più drammatico. Perché circa il 50 per cento della popolazione (1,17 milioni di persone) è già nella Fase 4, in una situazione di emergenza e almeno una famiglia su quattro – più di mezzo milione di persone – è al gradino finale della scala: chi è nella fase 5 si trova ad affrontare “condizioni catastrofiche” e  “un’estrema mancanza di cibo”.Non è frutto di un disastro naturale, di un’estrema siccità o di un impressionante alluvione: “Le ostilità, i bombardamenti, le operazioni di terra e l’assedio dell’intera popolazione, la riduzione dell’accesso al cibo, ai servizi di base e all’assistenza salvavita, e l’estrema concentrazione o isolamento delle persone in rifugi inadeguati o in aree prive di servizi di base sono i principali fattori” che contribuiscono a raggiungere questi livelli catastrofici di insicurezza alimentare acuta in tutta la Striscia di Gaza, con un rischio sempre più palpabile di carestia.(Photo by MOHAMMED ABED / AFP)È dunque la strategia militare messa in campo da Israele che ha ridotto gli abitanti di Gaza alla fame, denuncia l’IPC. Eppure, nonostante ciò, l’Unione europea sceglie di non chiamare direttamente in causa Israele.  La dichiarazione congiunta di Borrell e Lenarčič, che nel gabinetto di Ursula von der Leyen sono comunque le voci più critiche sul trattamento che Israele sta riservando alla popolazione palestinese, lo dimostra un’altra volta.“Abbiamo urgentemente bisogno di un accesso umanitario continuo, rapido, sicuro e senza ostacoli per evitare un ulteriore peggioramento di una situazione già catastrofica – avvertono Borrell e Lenarčič –. Ribadiamo l’urgente appello al rispetto del diritto internazionale umanitario. Gli aiuti devono raggiungere coloro che ne hanno bisogno attraverso tutti i mezzi necessari, compresi corridoi e pause umanitarie“. Non una volta la responsabilità è attribuita a Israele.I due passano poi in rassegna i numeri della mobilitazione europea: 100 milioni di euro di aiuti umanitari a Gaza, di cui 46 milioni “specificamente destinati all’assistenza alimentare e alla copertura sanitaria e di altri bisogni primari”. E 125 milioni già stanziati per il 2024. Risorse mobilitate per la sopravvivenza di un popolo che forse avrebbe altrettanto bisogno di parole più dure nei confronti di Israele.

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    L’Ambasciatore dell’Autorità Palestinese a Bruxelles: “L’Ue è complice del massacro di Gaza, sta perdendo la propria credibilità”

    Bruxelles – Non sono l’autorità o gli strumenti che mancano, ma “la volontà politica”. Mentre nella Striscia di Gaza si scende ogni giorno un gradino verso l’inferno, con 20 mila vittime in poco più di due mesi a causa dei bombardamenti a tappeto israeliani e oltre un quarto della popolazione che rischia la fame, l’Unione Europea non si schioda da un supporto all’azione militare di Tel Aviv che nel resto del mondo risulta sempre più ambiguo.“Oggi chi crede più all’Europa quando dichiara di difendere il diritto internazionale?”, si chiede Adel Atieh, ambasciatore dell’Autorità Nazionale Palestinese presso l’Ue. In un’intervista a Eunews, il diplomatico palestinese ha spiegato la frustrazione di un popolo che “non ha più un orizzonte politico” e che sta vivendo una delle pagine più drammatiche della sua storia.Eunews: Ambasciatore Atieh, cosa ne pensa della posizione espressa dai Paesi Ue sul conflitto tra Israele e Hamas all’ultimo Consiglio europeo?Adel Atieh: “Sono rimasto sorpreso che non ci fossero conclusioni sul Medio Oriente. La situazione sul campo si è evoluta in modo drammatico e davanti ai bombardamenti massivi sui civili a Gaza mi aspettavo che l’Ue adottasse quanto meno delle conclusioni per chiedere un cessate il fuoco. La situazione è drammatica e la crisi umanitaria necessita di una presa di posizione chiara da parte dell’Unione europea. Se non c’è un appello per il cessate il fuoco, significa che si è d’accordo con quello che fa Israele sul campo”.Eunews: Ma lei vede una qualche evoluzione nelle dichiarazioni dell’Ue sul conflitto dal 7 ottobre a oggi?Il campo profughi di Jabalia, nella Striscia di Gaza, devastato dai bombardamenti israeliani (credits: Yahya Hassouna / Afp)Atieh: “Se misuriamo la posizione attuale dell’Ue in rapporto a quella iniziale, si nota effettivamente un’evoluzione: all’inizio un supporto incondizionato a Israele e al suo diritto di difendersi, poi un sì ma rispettando il diritto internazionale umanitario. Ma non è sufficiente, vista la dimensione del massacro. Oggi siamo vicini a 20 mila morti, l’1 per cento della popolazione di Gaza, e più di 7 mila dispersi sotto le macerie. La posizione dell’Ue non è all’altezza della sua responsabilità politica e morale.È inaccettabile che nel 21esimo secolo l’Unione europea chiuda gli occhi sul genocidio in corso a Gaza. Fino ad oggi l’Ue ha scelto di seguire la posizione americana. Bisogna che l’Ue si smarchi dagli Stati Uniti e provi a parlare con una voce ragionevole. L’Ue ha l’autorità e i mezzi per fare pressione su Israele, ma non ha la volontà politica”.Eunews: Lei parla di mancanza di volontà politica. Non è che l’Unione europea è diventata insignificante in Medio Oriente?Atieh: “Israele ha imparato a disprezzare le posizioni della comunità internazionale e dell’Ue perché sa che sono dichiarazioni senza azioni. Per questo Israele se ne frega, perché sa bene che l’Ue adotterà dichiarazioni ma non misure concrete per imporre qualcosa. Al contrario, l’Ue è complice di quel che fa Israele, perché non solo non chiede un cessate il fuoco, ma fornisce la protezione politica e diplomatica a Israele nelle istituzioni internazionali”.Crediamo che l’Ue ha le possibilità e gli strumenti di impattare sul comportamento dello stato di Israele. l’Ue è il primo partner commerciale per Israele: se minacciasse di sospendere l’accordo di associazione, Israele reagirebbe immediatamente. Se incoraggiasse il lavoro della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra commessi da Israele, Israele si fermerebbe a riflettere”.Eunews: Quindi lei è d’accordo con l’accusa mossa all’Ue di utilizzare doppi standard in Ucraina e a Gaza?Atieh: “C’è una politica di doppi standard politici e morali. L’Ue ha degli strumenti potenti per sanzionare Israele, sul piano economico, politico e diplomatico. Ma non solo non fa niente per fermare la guerra, incoraggia anche Israele a continuare il massacro. Per sostenere l’Ucraina l’Ue si è mobilitata in difesa del diritto internazionale, mentre dall’altra parte si mette dietro una potenza occupante che viola tutte le regole del diritto internazionale. L’Ue sta perdendo la propria credibilità e legittimità come attore politico globale che pretende di difendere la legge, è vittima del disequilibrio delle sue posizioni. Oggi chi crede più all’Europa quando dichiara di difendere il diritto internazionale?”Eunews: Però Gaza è governata da un gruppo estremista che l’Ue riconosce come organizzazione terroristica.Atieh: “È completamente ridicolo dire che non si può chiedere un cessate il fuoco perché bisogna eliminare Hamas. È la quinta guerra di Israele a Hamas e non c’è mai riuscita. E anche se riuscisse a eliminare le sue infrastrutture militari, non significa che Hamas scomparirà. Hamas è un’idea, un’ideologia che trova la sua credibilità nel fallimento del processo di pace. La sola fonte di legittimazione di Hamas oggi è il fallimento della soluzione a due Stati: da trent’anni cerchiamo di negoziare con Israele per mettere fine all’occupazione, ma Israele l’ha solo rinforzata. Nel 1993 c’erano 250 mila coloni, ora sono 750 mila. Dal momento che Israele ha portato al fallimento il processo di pace, le persone cominciano a riflettere su altri modi per mettere fine all’occupazione. Non amiamo questi altri modi, non siamo d’accordo con Hamas, ma quel che fa Israele da 75 anni è mille volte più grave”.Eunews: Ha provato a spiegarsi il perché dell’attacco messo in atto da Hamas il 7 ottobre?Ursula von der Leyen e Roberta Metsola al kibbutz di Kfar Azza, dove Hamas ha massacrato oltre 100 civili israeliani il 7 ottobreAtieh: “Da quattro anni dico agli ambasciatori dei 27 al Comitato politico e di sicurezza di fare attenzione: le provocazioni sistematiche del governo israeliano e dei suoi estremisti, le violazioni dei luoghi santi musulmani a Gerusalemme, i prigionieri palestinesi, i pogrom e le aggressioni dei coloni, la politica di confisca della terra, la repressione quotidiana dell’esercito israeliano nei villaggi palestinesi. Tutto questo porterà ad un’esplosione. Non si può pensare che la popolazione palestinese possa accettare tutto questo. Questo ha provocato la reazione di Hamas. Chiunque sotto questa pressione reagirebbe. Non sono per niente d’accordo con la reazione, ma come esigere da un popolo sotto occupazione da 75 anni di continuare a essere umiliato?Io avevo avvertito che l’assenza di un orizzonte politico avrebbe portato qualcun altro con un’alternativa, qualcuno che dice che lanciando razzi si potrà cacciare gli occupanti. Anche Israele sa che la soluzione a Gaza non è una soluzione militare, e il solo modo di delegittimare l’altra parte e rinforzare la credibilità dell’Anp è creare un orizzonte credibile per la soluzione a due Stati”.Eunews: Se l’Unione europea non sta facendo abbastanza, cosa pensa della posizione dei Paesi arabi della Regione? Atieh: “È una posizione responsabile perché evita l’escalation del conflitto. Ma sul piano politico sono molto attivi, bisogna riconoscerlo. E sul piano popolare c’è una grande mobilitazione e solidarietà nel mondo arabo. Alcuni rimproverano ai Paesi arabi di non dichiarare guerra a Israele, ma cosa dovrebbero fare? Mettere un embargo sul petrolio contro il mondo occidentale? Sostenere o inviare munizioni a Hamas? Sicuramente non possiamo chiedere ai Paesi arabi di aprire le frontiere e accogliere i rifugiati palestinesi. No. Sarebbe un altra Nakba”.Eunews: E l’Autorità Nazionale Palestinese, sta facendo abbastanza?Bill Clinton, il leader dell’OLP Yasser Arafat (R) e il primo ministro israeliano Yitzahk Rabin alla Casa Bianca dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993 (Photo by J. DAVID AKE / AFP)Atieh: “La nostra preoccupazione è come preservare e portare ad un applicazione la soluzione a due Stati. È il nostro progetto e la nostra priorità. Si può accusare l’Anp di qualsiasi cosa, ma chi sta uccidendo la soluzione a due Stati è chi sta costruendo insediamenti, facendo apartheid, bombardando la popolazione civile. È Israele. Oggi Netanyahu non smette di ripetere di essere fiero di aver sabotato la soluzione a due Stati. Non è l’azione o il comportamento dell’Anp che stanno rovinando la soluzione a due Stati. Se siamo d’accordo su questo, possiamo andare oltre e parlare di alcune cose, la performance delle nostre istituzioni, la democratizzazione, quello che volete. Ma non è questo che distrugge la soluzione a due Stati.Anche la soluzione a Gaza passa per la Soluzione a due stati. Non c’è separazione tra Gaza e Cisgiordania, l’Anp può controllare tutte e due, ma serve un piano d’azione e delle tempistiche chiare per mettere fine all’occupazione”.Eunews: A proposito della West Bank, la Commissione europea è al lavoro su una proposta di sanzioni contro i coloni israeliani ritenuti violenti. È d’accordo?Atieh: “È una proposta molto buona, ma bisognerebbe sanzionare tutti i coloni che stanno illegalmente nei territori palestinesi. È da quattro anni che ne parlo e che spingo i Paesi membri a prendere azioni concrete. Non hanno mai fatto niente, ma ora hanno visto che gli Usa imporranno sanzioni e le vogliono imporre. È ancora la politica del seguire gli Stati Uniti: l’Ue non ha una politica estera indipendente, almeno in Medio Oriente”.Eunews: Ma le cifre sulle vittime rese pubbliche dal Ministero della Sanità di Gaza, controllato da Hamas, vanno messe in dubbio?Atieh: “Siamo noi, l’Anp, che gestiamo il sistema della sanità a Gaza. E come in tutti i Paesi del mondo contiamo i morti e attestiamo i decessi. L’educazione e la sanità sono ancora in mano a funzionari dell’Anp, che ricevono salari dall’Anp. E comunque penso che le cifre sulle vittime fornite dagli ospedali siano troppo basse, si vedrà una volta che la guerra sarà finita e si conteranno i dispersi”.Eunews: Ambasciatore, un’ultima domanda. Cosa ne pensa della posizione del governo italiano?Giorgia Meloni con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a Palazzo Chigi nel marzo 2023 (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP)Atieh: “La posizione attuale dell’Italia non aiuta né gli israeliani né i palestinesi. Aiuta solo gli estremisti e allontana ancora di più israeliani e palestinesi. La signora Meloni può continuare a dire che Israele ha il diritto di difendersi, ma dov’è l’assoluto diritto di difendersi del popolo sotto occupazione? Non fa onore all’Italia e al popolo italiano. È molto deludente, perché storicamente l’Italia ha sempre tenuto una posizione equilibrata che ha aiutato entrambe le parti. Ma oggi la posizione del governo è un ostacolo alla fine della guerra”.