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    Dialogo Serbia-Kosovo, si stringe la collaborazione tra UE e Stati Uniti per risolvere un confronto sempre più teso

    Bruxelles – Sembrano lontani i tempi in cui l’Unione Europea e gli Stati Uniti di Donald Trump si davano battaglia diplomatica sui Balcani. È passato solo un anno dai colloqui tra Serbia e Kosovo mediati da Washington che hanno rischiato di far saltare l’intero processo di mediazione UE, ma il clima politico è cambiato totalmente. “Con l’amministrazione di Joe Biden si apre uno degli scenari di cooperazione più stretta di sempre e abbiamo già visto che insieme possiamo stimolare progressi importanti nella regione”, ha confermato il rappresentante speciale dell’UE per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák.
    Parole che gettano un ponte tra le due potenze anche sul fronte della stabilizzazione dei Balcani Occidentali e che hanno trovato una sponda nella controparte statunitense durante l’evento online The Belgrade-Pristina dialogue: Getting back on track?, organizzato oggi (lunedì 13 settembre) dal think tank European Policy Centre (EPC). “Vogliamo vedere tutti i Paesi della regione entrare a far parte dell’Unione Europea, non solo Serbia e Kosovo”, ha dichiarato il vice-segretario aggiunto dell’Ufficio per gli Affari europei ed eurasiatici del Dipartimento di Stato, Gabriel Escobar.
    I relatori dell’evento organizzato dall’EPC The Belgrade-Pristina dialogue: Getting back on track? (13 settembre 2021)
    Per quanto riguarda il dialogo tra Pristina e Belgrado, Escobar ha promesso di sostenere “con tutti gli sforzi possibili” il lavoro dei colleghi europei, per “convincere le due parti che un accordo di normalizzazione dei rapporti è l’unico futuro auspicabile“. Nonostante ci sia preoccupazione “per i pochi progressi” nell’ultimo anno, Washington aiuterà il processo “sia con messaggi politici, sia vigilando che gli accordi raggiunti finora siano implementati”. In ultima battuta, il vice-segretario Escobar ha anticipato che potrebbe fare presto un viaggio in Serbia e in Kosovo con Lajčák, a seconda degli sviluppi della pandemia COVID-19.
    Proprio il rappresentante speciale dell’UE ha voluto ricordare i “risultati concreti per la vita delle persone” ottenuti in 10 anni di dialogo facilitato da Bruxelles: dalle elezioni municipali nel nord del Kosovo, al transito di merci e persone dalla frontiera, fino al controllo territoriale da parte delle autorità di Pristina e lo scambio di informazioni a livello giudiziario. Ma adesso arriva la parte più difficile: “Dobbiamo trovare un accordo sulla normalizzazione dei rapporti tra le due parti e implementare gli accordi già raggiunti”, ha indicato Lajčák.
    Più facile a dirsi che a farsi, considerati gli sviluppi politici degli ultimi mesi. Con l’elezione del nuovo primo ministro kosovaro, Albin Kurti, i rapporti tra Pristina e Belgrado sono diventati sempre più tesi, come hanno confermato gli ultimi due incontri di alto livello a Bruxelles. Il rappresentante speciale dell’UE cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno (“Dopo lo stop per le elezioni, ora abbiamo due interlocutori con mandati forti, con cui possiamo interfacciarci e trovare dei compromessi”), ma è innegabile che il confronto si stia incrinando come non succedeva da prima della ripresa dei colloqui nel luglio del 2020.
    Lo ha sottolineato anche l’eurodeputata tedesca e relatrice sul Kosovo per il Parlamento Europeo, Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/ALE), intervenuta nel corso dell’evento di EPC: “I due governi avranno anche un forte mandato, ma le elezioni municipali di metà ottobre in Kosovo e le elezioni presidenziali in Serbia del prossimo anno ci fanno temere che soprattutto da parte serba venga meno il supporto al compromesso con la controparte kosovara”. L’arma a disposizione dell’UE per stimolare la “volontà politica delle due parti” è l’erogazione dei fondi previsti dallo strumento di assistenza pre-adesione IPA III, che possono essere sospesi in caso di “regresso democratico”.
    La presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, con il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Non che le notizie che arrivano dai Balcani siano incoraggianti. In un’intervista per il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, la presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, ha ribadito il rifiuto di Pristina alla creazione della Comunità delle municipalità serbe nel Paese, prevista dall’accordo del 2013 del dialogo mediato dall’UE. Secondo Osmani, per la Serbia si tratterebbe solo della “fase preliminare della creazione di una seconda Republika Srpska” (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) e “noi non vogliamo un altro Stato che non funziona, come quello bosniaco”.
    La presidente kosovara ha poi ricordato l’illegittimità della decisione contenuta nell’accordo del 2013 secondo una sentenza del 2015 della Corte Costituzionale di Pristina e ha escluso che si formi “una struttura mono-etnica di potere nel nostro Paese”. Parole che provocheranno presto una scia di polemiche a Belgrado e che renderanno ancora più necessaria la pressione congiunta di Bruxelles e Washington per superare lo stallo sui Balcani.

    Durante un evento organizzato dall’European Policy Centre, il rappresentante speciale UE Lajčák e il vice-segretario del Dipartimento di Stato Escobar hanno confermato l’impegno congiunto per raggiungere un accordo di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado

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    Afghanistan, i corridoi umanitari UE restano un tabù: Austria, Slovenia e Ungheria vogliono frontiere chiuse ai profughi

    Bruxelles – L’Unione Europea si spacca e per l’ennesima volta dimostra di non essere in grado di trovare una linea comune sulla politica migratoria, anche quando si tratta di emergenze di portata storica. Si fanno sempre più insistenti le richieste di cittadini, di organizzazioni non governative e di deputati dei Paesi membri alle istituzioni europee di attivare corridoi umanitari per i profughi in arrivo dall’Afghanistan, a una settimana dalla presa di Kabul da parte dei talebani. Ma l’asse Lubiana-Vienna-Budapest fa muro contro quella che viene classificata come una riedizione della crisi migratoria di sei anni fa lungo la rotta balcanica.
    A sollevare le polemiche era stato ieri (22 agosto) il primo ministro sloveno, Janez Janša: “Non ripeteremo gli errori strategici del 2015, aiuteremo solo coloro che ci hanno supportato durante la missione NATO e i Paesi membri dell’UE che difendono i nostri confini esterni”. L’opposizione di Janša ha assunto particolare rilievo anche per il fatto che attualmente ricopre la carica di presidente di turno del Consiglio dell’UE (dal primo luglio fino a fine anno). “Non è compito dell’Unione o della Slovenia aiutare e pagare per tutti coloro che fuggono nel mondo“, ha rincarato la dose il premier sloveno, confermando di essersi completamente allineato alle posizioni del Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) per quanto riguarda le questioni migratorie.
    A nemmeno ventiquattr’ore di distanza è arrivata la sponda austriaca e ungherese, con un copione molto simile a quello del presidente di turno del Consiglio dell’UE. “Gli eventi in Afghanistan sono drammatici, ma non dobbiamo ripetere gli errori del 2015. La gente che esce dal Paese deve essere aiutata dagli Stati vicini”, ha commentato su Twitter il cancelliere austriaco, Sebastian Kurz. Per Vienna la priorità dell’UE deve essere “proteggere le frontiere esterne e combattere la migrazione illegale e i trafficanti di esseri umani“, anche considerata la situazione interna del Paese: “L’Austria ha accolto 44mila afghani, abbiamo una delle più grandi comunità pro-capite al mondo”, ha aggiunto il cancelliere. “Ci sono ancora grossi problemi con l’integrazione e siamo quindi contrari all’arrivo di altri profughi”.
    Da Budapest il premier ungherese, Viktor Orbán, ha fatto sapere che “proteggeremo l’Ungheria dalla crisi dei migranti” e che “deve essere evitato che i profughi lascino la regione”. Oltre a ciò, sarà poi necessario sostenere il ruolo “fondamentale” della Turchia e dei Paesi dei Balcani occidentali, per “evitare l’ingresso dei migranti nell’Unione Europea”.

    Österreich hat mit der Aufnahme von 44.000 Afghanen sehr viel geleistet. Wir haben pro Kopf eine der größten afghanischen Communities der Welt nach Iran, Pakistan & Schweden. Bei der Integration gibt es noch große Probleme & wir sind daher gegen eine zusätzliche Aufnahme.
    — Sebastian Kurz (@sebastiankurz) August 22, 2021

    In vista della riunione straordinaria del G7 convocata dal premier britannico, Boris Johnson, per domani (24 agosto), sembrano andare in frantumi le speranze dell’Unione Europea di presentarsi compatta di fronte agli interlocutori internazionali sulla questione dell’accoglienza dei profughi. Nel corso dell’audizione alla commissione Affari esteri (AFET) del Parlamento Europeo di lunedì scorso (16 agosto), l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, aveva aperto alla possibilità di applicare per la prima volta la Direttiva europea sulla protezione temporanea del 2001. Prima di essere immediatamente sconfessato proprio da un portavoce dell’esecutivo comunitario.
    Due giorni più tardi (mercoledì 18 agosto), al termine del vertice straordinario con i 27 ministri UE, la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, aveva però ammesso che Bruxelles si sta preparando “a tutti gli scenari”. Durante il vertice si era parlato della “priorità immediata”, ovvero l’evacuazione del personale e dei cittadini comunitari e del personale locale che ha lavorato con gli Stati membri in Afghanistan (è notizia dell’ultim’ora l’imbarco di oltre 170 collaboratori UE all’aeroporto di Kabul grazie alle forze speciali francesi).
    Ma è anche stata considerata “l’instabilità che porterà probabilmente a un aumento della pressione migratoria”. In questo senso sarà necessario un sostegno ai Paesi vicini (Iran e Pakistan) e trovare una quadra a livello comunitario per i richiedenti asilo: “Allo stato attuale la situazione nel Paese non è sicura e non lo sarà per un po’ di tempo”, erano state le parole di apertura della commissaria Johansson. “Non possiamo costringere le persone a tornare in Afghanistan“.
    Reazioni da Bruxelles
    Le prese di posizione dei governi di Lubiana, Vienna e Budapest sono state accolte da durissime critiche a Bruxelles. Il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, dai microfoni di Rainews24 ha risposto seccamente a Janša, ricordandogli che “non spetta all’attuale presidenza del Consiglio dire cosa farà l’Unione Europea“. Dal momento in cui “tutte le nostre istituzioni stanno lavorando per vedere quale solidarietà è necessaria per coloro che sono a rischio dal nuovo regime”, il presidente del Parlamento UE ha invitato il premier sloveno a “discutere con le istituzioni europee” per decidere insieme a riguardo. “Tutti i nostri Paesi si sentono coinvolti nella situazione in corso in Afghanistan“.

    It is not up to the Slovenian Presidency to say what the position of the EU is on the humanitarian crisis in Afghanistan.
    We invite PM Janša to discuss with the EU institutions what the next steps should be but it’s clear we need to show solidarity. https://t.co/sK15X3Q2fZ
    — David Sassoli (@EP_President) August 22, 2021

    Posizione ribadita anche dal commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, che ha ricordato che il presidente di turno “coordina l’attività, non ha poteri decisionali di alcun tipo” a livello di politica estera europea (un incidente tra Lubiana e Bruxelles a riguardo si era già consumato a pochi giorni dall’avvio del semestre sloveno). Ma c’è di più: “L’Unione deve lavorare sull’accoglienza e sulle quote di immigrazione legale di rifugiati afghani e deve farlo anche togliendosi l’alibi della unanimità nelle decisioni“. Considerato il fatto che “so che l’unanimità non ci sarà mai”, il Consiglio dovrà agire “a maggioranza, se si vuole dare una mano ai rifugiati”.
    Dall’Italia, il presidente della commissione Esteri della Camera dei Deputati, Piero Fassino, ha fatto appello al presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, perché “richiami immediatamente il premier sloveno ad attenersi rigorosamente ed esclusivamente alle sue titolarità”. Ma dal Consiglio, per il momento, tutto tace e le uniche notizie che trapelano sono di una discussione con con il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan. “Si tratta di una sfida comune per la Turchia e l’Unione Europea”, ha commentato Michel su Twitter.
    Tuttavia, Ankara ha più volte ribadito che non diventerà il “deposito dell’UE per i rifugiati” e nega di aver ricevuto richieste per la creazione di hub per la prima accoglienza dei richiedenti asilo afghani sul suo territorio. A causa delle sue divisioni interne, l’Unione Europea sta rischiando di rimanere sempre più isolata sullo scacchiere internazionale.

    Credo che l’#UnioneEuropea abbia il dovere di lavorare sull’accoglienza e su quote di immigrazione legale dei rifugiati #afghani e abbia il dovere di farlo anche togliendosi l’alibi dell’unanimità nelle decisioni.@PaoloGentiloni al #meeting21. pic.twitter.com/WlNUqWWEAB
    — Meeting Rimini (@MeetingRimini) August 23, 2021

    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    In vista del vertice straordinario del G7 di domani, i primi ministri Janša (presidente di turno del Consiglio dell’UE) e Orbán e il cancelliere Kurz si sono opposti all’accoglienza per chi fugge dal regime dei talebani: “Non ripeteremo gli errori del 2015”

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    Montenegro, pagata la prima rata del debito da 809 milioni con la Cina grazie al supporto di tre banche occidentali

    Bruxelles – Dalle sabbie mobili del debito cinese il Montenegro potrebbe aver fatto il primo significativo passo per uscirne. Il condizionale è d’obbligo, perché la somma dovuta a Pechino è vertiginosa: 809 milioni di euro, un quinto del debito pubblico complessivo di 4,33 miliardi, il 103 per cento del prodotto interno lordo del Paese. Il governo di Podgorica ha annunciato mercoledì 21 luglio il pagamento della prima rata da 33 milioni all’Export-Import (Exim) Bank of China, ente di credito statale con vocazione internazionale, e spera di essersi messo alle spalle lo scenario peggiore: quello di cedere porzioni del territorio nazionale alla Cina.
    “L’incredibile successo”, come lo ha definito il ministro delle Finanze, Milojko Spajić, è un accordo di “copertura” con tre banche occidentali per proteggere il rischio valutario (perdita potenziale per chi investe all’estero) di un prestito contratto con la Cina nel 2014, che ha abbassato il tasso di interesse dal 2 allo 0,88 per cento (e scambiato da dollaro a euro). Il governo guidato da Zdravko Krivokapić non ha voluto rendere noto quali enti hanno sostenuto l’operazione, ma il ministro delle Finanze ha specificato che “il creditore è ancora la cinese Exim Bank, ma alla transazione hanno partecipato due banche americane e una banca francese“.
    Il percorso dell’autostrada A1 Bar-Boljare in costruzione, Montenegro (fonte: Il Post)
    Il finanziamento all’ente di credito cinese era stato chiesto sette anni fa dal governo di Milo Đukanović (allora premier, oggi presidente della Repubblica) per finanziare la costruzione del primo tratto dell’autostrada che collegherà il porto montenegrino di Antivari (Bar) alla località di Boljare, circa 160 chilometri dal Mar Adriatico al confine con la Serbia. I 41 chilometri in costruzione a nord di Podgorica costituiscono uno dei tratti autostradali più costosi al mondo: oltre 20 milioni di euro al chilometro, più di dieci volte il costo medio europeo.
    Gli altri 120 sono ancora da costruire e dipenderanno dalle capacità di Podgorica di ripagare il debito: la prossima rata è fissata a gennaio 2022, anche se potrebbe essere concessa una proroga per le difficoltà economiche causate dalla pandemia COVID-19. Secondo quanto riportato dal Financial Times, se Podgorica non fosse riuscita ad adempiere ai propri obblighi entro la fine di luglio, Pechino avrebbe avuto il diritto di acquisire il controllo di parte del territorio montenegrino, verosimilmente uno sbocco sul Mediterraneo.
    La notizia dell’intervento dei tre istituti di credito occidentali ha fatto tirare un sospiro di sollievo anche a Bruxelles, dove da mesi la questione è rimasta pendente. Le conseguenze di un’eventuale cessione parziale di sovranità da parte del governo di Podgorica alla Cina per insolvenza non coinvolgono direttamente l’Unione Europea, ma gli effetti indiretti sarebbero molto gravi sul piano dell’allargamento UE nella regione balcanica.
    Attualmente il Montenegro è il Paese allo stadio più avanzato nel processo di adesione all’UE tra i sei dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Serbia, Macedonia del Nord). Tuttavia, la presenza e il controllo diretto di una porzione del territorio nazionale da parte di uno degli avversari geopolitici più temuti dall’Unione nell’area balcanica potrebbe mettere a serio rischio l’intero progetto di fare del Montenegro il ventottesimo Paese membro UE. Rischio noto sia al Parlamento Europeo, che già a maggio chiedeva un intervento a sostegno del vicino balcanico, sia alla Commissione UE.
    Il ponte Moracica, presso Podgorica, lungo l’autostrada A1 Bar-Boljare, Montenegro
    La richiesta di assistenza inviata in primavera dal vicepremier del Montenegro, Dritan Abazović, è rimasta solo all’apparenza inascoltata (anche perché l’Unione non era tenuta a pagare di tasca propria il debito di un Paese non-membro). È già in campo uno schema di aiuti finanziari da 60 milioni di euro, oltre al Piano economico e di investimenti da 29 miliardi per la regione sbloccato dall’accordo sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III. Parallelamente, fonti a Bruxelles hanno fatto sapere che erano state sondate le piste del Kreditanstalt für Wiederaufbau (istituto di credito per la ricostruzione tedesco), dell’Agenzia di sviluppo francese e della Cassa Depositi e Prestiti italiana, per guidare gli aiuti finanziari europei. Tutto questo prima dell’intervento dei tre istituti di credito di cui ancora non si conoscono i dettagli.
    In attesa di avere più informazioni a disposizione, la Commissione Europea “continuerà a sostenere il Montenegro nel suo percorso verso l’adesione”, ha assicurato la portavoce per la Politica di vicinato e l’allargamento, Anna Pisonero. “In questo contesto lavorerà con il Paese per trovare soluzioni finanziarie per i suoi progetti di investimento e per garantire anche la sostenibilità del suo debito pubblico”. In cantiere per il governo Krivokapić c’è la rivalutazione dei beni dello Stato, con l’obiettivo di venderne alcuni per raccogliere soldi da destinare al ripianamento dei debiti.
    È comunque difficile che la sola vendita di asset statali – di cui il ministro delle Finanze non ha saputo dare una stima – e le privatizzazioni possano essere sufficienti per colmare il buco da 809 milioni di euro con Pechino. Ecco perché dovrà mettersi in moto un circolo virtuoso nell’economia del Paese. Le sabbie mobili del debito cinese non sono ancora superate e la strada verso l’adesione all’Unione Europea chiede continui sforzi politici e finanziari al Montenegro.
    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Podgorica ha raggiunto un accordo di “copertura” con due istituti di credito statunitensi e uno francese, rimettendosi sulla strada dell’adesione all’Unione Europea. Il prestito era stato chiesto nel 2014 per la costruzione dell’autostrada A1 Bar-Boljare

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    Bielorussia, l’Unione Europea alza la voce contro Lukashenko: “Il popolo di Minsk deve sapere che li stiamo sostenendo già ora”

    Bruxelles – Non è solo il tempo delle denunce e delle sanzioni economiche. Contro il regime del presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, l’Unione Europea vuole dimostrare che già adesso è impegnata a sostegno della società civile e dell’opposizione democratica: una questione che spesso si sente dire o si legge alla voce “cose che Bruxelles non fa a sufficienza”. Proprio nei giorni in cui si è riaccesa la tensione tra l’UE e Minsk sulla questione della migrazione irregolare verso la Lituania, il Parlamento Europeo ha organizzato audizioni e attività nelle commissioni per accendere i riflettori sulla situazione nel Paese in tutta la sua drammaticità e per chiarire in che modo la macchina comunitaria si sia attivata per non lasciare soli i cittadini bielorussi.
    “Lo spazio per le libertà della società civile in Bielorussia si sta riducendo in maniera sempre più significativa”, ha avvertito Vassilis Maragos, capo unità per il Partenariato Orientale di DG Near (dipartimento della Commissione Europea deputato alle politica di vicinato e dei negoziati di allargamento), durante il confronto odierno con gli eurodeputati della commissione Cultura (CULT). “Non smettiamo però di mantenere aperti i canali con attivisti e giornalisti, per condividere lo sforzo verso una transizione democratica nel Paese”. Tra le modalità di assistenza offerta da Bruxelles compare il “potenziamento della rete degli attuali 13 media indipendenti che sono dovuti fuggire dalla Bielorussia, o che dall’interno stanno creando una narrazione per i cittadini diversa da quella di Stato”.
    Nonostante le sanzioni economiche imposte a Minsk, l’UE sta cercando per quanto possibile di non abbattere il sistema produttivo del Paese, soprattutto quello formato dalla maggioranza di imprenditori che non hanno nulla a che fare con il regime: “Da marzo stiamo sostenendo finanziariamente le piccole e medie imprese con prestiti, ma solo quelle che possiamo individuare prive di legami con lo Stato”, ha spiegato Maragos. Importante anche la solidarietà nel contesto COVID-19: “Non abbiamo mai smesso di fornire apparecchiature e materiale sanitario agli ospedali“, anch’essi spesso colpiti dalla scure della repressione, come ha dimostrato il caso dell’Ospedale dei Bambini di Grodno.
    C’è poi il capitolo degli studenti universitari, “presi di mira, sospesi o incarcerati” per aver manifestato le proprie posizioni politiche ed essere scesi nelle piazze a protestare. “Per loro abbiamo previsto un regime di borse di studio per il prossimo anno accademico nelle università europee nelle quali hanno trovato rifugio”. Infine Maragos ha ricordato agli europarlamentari il pacchetto di investimenti da 3 miliardi di euro per il futuro della Bielorussia: “Non appena si metterà in moto un vero sistema democratico, saranno già pronti investimenti per la connettività e le PMI, per il sostegno ai media indipendenti e alle istituzioni democratiche”.
    Il relatore sulla Bielorussia per il Parlamento UE, Petras Auštrevičius (Renew Europe)
    Il relatore sulla Bielorussia per il Parlamento UE, Petras Auštrevičius, ha riconosciuto che “solidarietà e sanzioni devono andare di pari passo fino a quando non riusciremo ad annullare il regime di Lukashenko”. Ricordando il rapporto che deve essere rinsaldato con la società civile (“i nostri interlocutori per il futuro sono loro”), l’eurodeputato lituano ha voluto porre l’attenzione sulla situazione dei media: “La Bielorussia è il Paese più pericoloso per i giornalisti“. Lo dimostrano le 480 detenzioni nel 2020 e i 147 incidenti – tra vessazioni, perquisizioni o incarcerazioni – solo a giugno di quest’anno. “La libertà di stampa non c’è più da tempo”, ha ribadito uno sconsolato Auštrevičius, “tutte le testate che si discostano dalla posizione dei media statali vengono represse dalla legge sugli estremismi”.
    Proprio su questo tema ieri (lunedì 12 luglio) si è focalizzata l’attenzione della commissione Affari esteri (AFET). “Il giornalismo in Bielorussia è a rischio di estinzione“, è stato il grido di aiuto di Natalia Belikova, rappresentante dell’organizzazione Belarus in Focus. “Senza il sostegno della comunità internazionale non sopravviveremo, abbiamo bisogno della vostra solidarietà e del vostro aiuto”. Cosa significa in termini pratici “rischio di estinzione” lo ha messo in chiaro Daria Losik, moglie del blogger bielorusso Igor, detenuto dal giugno dello scorso anno: “Mio marito si trova nella prigione di Gomel in condizioni disumane, la sua cella è una cassa di cemento vuota. È in una situazione allucinante sia a livello fisico che psichico“, che ha portato l’uomo a tentare il suicidio e ora lo sciopero della fame.
    Il dramma del giornalismo bielorusso è stato descritto in prima persona anche da Stanislav Ivashkevich, reporter di Belsat TV, televisione indipendente con sede in Polonia. Due colleghe – Katsiaryna Andreyeva e Darya Chultsova, condannate a febbraio a due anni di carcere – già da otto mesi si trovano dietro le sbarre: “La vita in prigione significa tortura”, è stato il commento lapidario del relatore. “Contro i giornalisti in prigione si usano tentativi di soffocamento“, come “chiudere cinque persone in una cella di due metri quadrati per far loro mancare l’aria necessaria e cospargerla di cloro”, ufficialmente per disinfezione, “ma in realtà per rendere ancora più difficile la respirazione”.
    Il tentativo di Lukashenko è quello di “distruggere tutti i media, uno per uno, cominciando con i giornalisti più visibili”. Per questo motivo è stato chiesto “più sostegno ai media liberi”, perché non si zittiscano le voci critiche dentro i confini nazionali, quelle che ancora non sono state piegate dalla violenza dell’ultimo dittatore d’Europa. L’Unione sta facendo molto a sostegno della società civile bielorussa. Ma per dire “abbastanza” è necessario che anche l’ultimo prigioniero politico ingiustamente incarcerato sia fuori dalle sbarre e possa godere dei diritti fondamentali dell’essere umano.

    Intensa attività nelle commissioni del Parlamento UE per denunciare i soprusi del regime Lukashenko verso società civile, studenti e giornalisti. Attivate borse di studio universitarie e supporto finanziario a PMI e media indipendenti

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    Migranti, è sempre più l’Europa dei muri: la Lituania pronta a spendere 41 milioni lungo il confine con la Bielorussia

    Bruxelles – L’annuncio era nell’aria da una settimana, dal giorno della visita del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, al valico di frontiera di Padvaronys, in Lituania. Si attendeva solo la conferma. Vilnius costruirà un muro al confine con la Bielorussia per contenere la nuova ondata migratoria favorita dal regime del presidente Alexander Lukashenko, come ricatto nei confronti delle sanzioni economiche imposte al Paese dall’Unione Europea.
    È un nuovo, pressoché inevitabile, mattoncino della fortezza Europa. Un’Unione che non sa come affrontare la gestione delle migrazioni sul Vecchio Continente, se non militarizzando ed ergendo barriere alle frontiere (dall’Ungheria alla Bulgaria, fino alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla), stringendo accordi con regimi quantomeno discutibili per il rispetto dei diritti umani (vedi Turchia e Libia) e litigando per anni in seno al Consiglio Europeo sull’impostazione di una politica comune sull’asilo.
    In questo quadro non può stupire la decisione del governo lituano di innalzare una barriera di filo spinato e una recinzione parallela per evitare l’ingresso irregolare di centinaia di persone in transito dal territorio bielorusso. L’annuncio è arrivato dalla ministra degli Interni, Agnė Bilotaitė, che ha poi precisato che “saranno spesi circa 41 milioni di euro” per questa doppia recinzione da costruire “nel più breve tempo possibile”. In totale sono 678,8 i chilometri di confine con la Bielorussia da coprire, per un piano articolato in due fasi: prima la barriera di filo spinato costruita dall’esercito, poi il muro vero e proprio.
    Tutto questo per impedire l’accesso al territorio lituano – e di rimando a quello dell’Unione – se non dai valichi regolari  di frontiera. I numeri non lasciano spazio a dubbi: se solo 10 giorni fa la guardia di frontiera della Lituania riportava l’arrivo di 672 migranti nei primi sei mesi del 2021 (più del doppio rispetto ai quattro anni precedenti messi insieme), nella prima settimana di luglio sono stati registrati più di 800 attraversamenti illegali. Nella prima metà dell’anno la maggior parte delle persone extra-comunitarie arrivate alla frontiera lituana provenivano da Iraq, Iran e Siria, mentre più di recente sembra essere cambiata la composizione dei flussi migratori: a luglio la maggioranza degli arrivi era di cittadini della Repubblica del Congo, del Gambia, della Guinea, del Mali e del Senegal.
    La commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, durante l’audizione in commissione LIBE (12 luglio 2021)
    Nel corso di un’audizione alla commissione per le Libertà civili (LIBE) del Parlamento Europeo, in cui sono stati ascoltati anche la ministra lituana Bilotaitė e il direttore esecutivo dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex), Fabrice Leggeri, la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, ha avvertito che “la situazione peggiora di settimana in settimana”. Ma per l’Unione Europea l’unica cosa che importa adesso è bloccare il flusso e denunciare la complicità di Minsk. Dura l’accusa nei confronti delle autorità bielorusse, che “sembrano facilitare la migrazione irregolare come rappresaglia alle nostre misure”. Nonostante non sia ancora chiaro il modo in cui opererebbero, “sembra ci siano dei voli commerciali che arrivano da Istanbul e da Baghdad ogni giorno” e in un secondo momento “i migranti vengono portati alla frontiera, dopo aver pagato circa 15 mila euro”, ha spiegato Johansson. Il tentativo di attraversamento avviene poi a piedi, “ma ci sono stati casi in cui è stato utilizzato addirittura il servizio Uber” per arrivare a Vilnius.
    È pronto il supporto da parte di Bruxelles al Paese baltico che sabato scorso (10 luglio) ha richiesto l’attivazione del meccanismo d’emergenza per la creazione di squadre Frontex di intervento rapido. Il direttore esecutivo Leggeri ha confermato che “sarà sostenuta la crescente pressione migratoria e rafforzato il confine esterno dell’UE”. Questo tipo di intervento di Frontex è progettato per fornire assistenza immediata a uno Stato membro sottoposto a pressioni urgenti ed eccezionali alle sue frontiere esterne. “Nei prossimi giorni dispiegheremo le nostre guardie di frontiera, insieme a funzionari degli Stati membri”, ha garantito Leggeri. Ma non è tutto. La commissaria Johansson ha anticipato che “supporteremo la sfida sproporzionata per il governo lituano con 10 milioni di euro già ad agosto“, che dovrebbero essere resi disponibili dal Fondo asilo migrazione e integrazione.

    The Executive Director of #Frontex has agreed to launch a rapid border intervention at Lithuania’s border with Belarus to assist with the growing migration pressure https://t.co/Aw0l30TV4i pic.twitter.com/MVW9dSSYdn
    — Frontex (@Frontex) July 12, 2021

    Lo ha annunciato la ministra degli Interni, Agnė Bilotaitė. Frontex ha accettato di attivare squadre di intervento rapido sulla nuova frontiera calda dell’UE, mentre la commissaria Johansson garantisce supporto economico al Paese “entro agosto”

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    Disinformazione online, scontro al Parlamento UE tra PD e Lega su ingerenze di Mosca nelle democrazie europee

    Bruxelles – Il palcoscenico è quello di Strasburgo, l’emiciclo del Parlamento Europeo. Lo scenario, il dibattito odierno (martedì 6 luglio) in sessione plenaria sulle interferenze straniere nei processi democratici dell’Unione Europea. Ad affrontarsi, uno dopo l’altro sul podio al centro dell’Aula, Pierfrancesco Majorino, con la casacca del Partito Democratico, e Marco Dreosto, in verde Lega. Uno scontro verbale che dalla dimensione europea si è spostata a quella nazionale e viceversa, seguendo il filo della polemica sulle ingerenze di Mosca attraverso campagne di disinformazione online e finanziamenti a partiti e fondazioni nei Paesi membri UE.
    L’eurodeputato in quota PD, Pierfrancesco Majorino
    “Tanti sono gli strumenti messi in campo contro di noi, ma hanno tutti due cose in comune: tendono a favorire i sovranismi e hanno come obiettivi preferiti minoranze o soggetti più vulnerabili, come migranti, donne e comunità LGBT”, è stato il preambolo di Majorino, prima di lanciare la sua stoccata. “Vogliamo smascherare i complici presenti tra le forze di estrema destra europea, che sventolano ipocritamente bandiere nazionali, ma prendono ordini da Mosca”, ma anche quei “partiti che hanno intrattenuto relazioni ambigue con i vertici russi, come la Lega di Salvini“.
    Veemente la risposta di Dreosto, che si è scagliato contro la fonte stessa dell’accusa: “Sarebbe necessario collaborare tutti assieme per dare all’Europa gli strumenti necessari di contrasto, invece di venire a prendere lezioni da chi ha origini dal Partito comunista italiano, che per oltre 50 anni è stato finanziato da Mosca“. Il riferimento è alle antiche radici non solo di una parte del Partito Democratico, ma soprattutto a quelle dello stesso eurodeputato milanese, in politica dal 1998 con i Democratici di Sinistra (proveniente prevalentemente dalla cultura politico-sociale del PCI, poi confluito nel PD). Forse dimenticando le origini del leader del suo stesso partito – che con Majorino condivide l’anno di nascita, il 1973 – quel Matteo Salvini entrato nel Movimento dei comunisti padani all’età di 24 anni.
    L’eurodeputato in quota Lega, Marco Dreosto
    Ere geologiche fa, politicamente parlando, ma il filo rosso nell’intervento dell’europarlamentare leghista è proprio il comunismo: “Non vogliamo rimanere inermi contro le minacce alle nostre democrazie”, soprattutto contro quelle “portate dallo Stato gestito dal più grande partito comunista al mondo, che massacra gli iuguri, perseguita i cristiani, minaccia militarmente Taiwan e calpesta libertà civili a Hong Kong”. Per rispondere alla Cina e a “chi viola i nostri principi democratici”, la posizione della Lega “è molto chiara: noi stiamo dalla parte della democrazie occidentali, senza se e senza ma”. In questo quadro sono gli Stati Uniti il referente privilegiato: “L’Unione Europea non può fare da sola, non possiamo escludere il nostro partner più importante in questa battaglia”.
    Sul fronte PD, l’attenzione rimane invece incentrata sul rafforzamento della strategia europea di difesa della propria democrazia: “È un bene prezioso da difendere in tutti i modi da attori stranieri, statali e non, che vogliono indebolire il nostro progetto e i valori su cui si fonda“. Rischi di interferenze che, nella panoramica fornita da Majorino, hanno contorni più sfumati e non riguardano solo Russia e Cina: “Ci sono regimi e sistemi antidemocratici che cercano e intrattengono pericolosi contatti con esponenti politici europei, penso per esempio all’Arabia Saudita“. Nessun nome e cognome, questa volta, ma non rimane nemmeno troppo tra le righe il riferimento all’altro Matteo, il leader di Italia Viva, Renzi, e al suo rapporto privilegiato con il “nuovo Rinascimento” del principe saudita, Mohamed bin Salman.
    Sullo sfondo, il più ampio dibattito che non coinvolge certamente solo l’Italia, ma tutta l’Unione. “Non ci sono più linee di demarcazione chiare, perché affrontiamo nemici che corrompono e indeboliscono, ma non distruggono interamente”, ha avvertito Raphaël Glucksmann, presidente della commissione speciale sulle ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell’Unione europea, inclusa la disinformazione (INGE) del Parlamento UE. Il rischio è concreto – “siamo permeabili e vulnerabili e la nostra democrazia è davvero a rischio” – ma al momento si attende ancora una “strategia ambiziosa” da parte delle istituzioni europee, perché “non disponiamo di risorse a sufficienza per affrontare tutti gli attacchi e le campagne di disinformazione”.
    Una prima risposta è arrivata dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “Per il momento il nostro obiettivo fondamentale è contrastare la disinformazione che arriva dalla Russia” e proteggere la democrazia, “un sistema che funziona sulla base della capacità dei cittadini di scegliere ciò che è meglio sulla base di buone informazioni“. A questo proposito, Borrell ha confermato il lavoro “in concerto con i partner affini nel mondo”, in particolare quelli della NATO del G7, con cui è stato trovato a maggio un accordo per il rafforzamento del Meccanismo di risposta rapida per bloccare le fake news: “Tutto ciò è vera e propria politica estera, perché la disinformazione online che arriva da soggetti terzi limita lo spazio dell’Unione Europea di avere un influsso sul mondo”, ha concluso l’alto rappresentante UE.

    Protagonisti gli eurodeputati Pierfrancesco Majorino e Marco Dreosto, durante il dibattito sulle interferenze straniere nei processi democratici. “Smaschereremo le relazioni tra sovranisti e vertici russi”. “Nessuna lezione da chi ha origini nel PCI”

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    Allargamento UE, Sassoli riceve presidenti dei Parlamenti balcanici: “Istituzioni siano motore di pace e democrazia”

    Bruxelles – Se la politica di allargamento dell’UE rispecchiasse fedelmente le espressioni di intenti, l’Unione sarebbe già da tempo ben avviata sulla strada dei trentatré Paesi membri. I progressi dei sei Stati dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Eerzegovina, Macedonia del nord, Montenegro, Kosovo, Serbia), in materia di riforme e cooperazione regionale sono stati evidenziati a più riprese a Bruxelles ma, per motivazioni che variano da caso a caso, l’orizzonte dell’adesione è ancora lontano. Rimane però una certezza: se le promesse non saranno seguite da fatti concreti, l’entusiasmo cederà il passo alla disillusione e i Balcani guarderanno con sempre più interesse ad altre potenze, come Russia e Cina.
    Di tutto questo si è parlato nel corso del secondo vertice del Parlamento Europeo e dei presidenti dei Parlamenti dei Balcani Occidentali (lunedì 28 giugno), a distanza di un anno e cinque mesi dal primo incontro di questo tipo a Bruxelles. Un’occasione per ribadire il ruolo centrale delle istituzioni democratiche nel processo di allargamento UE nella regione, con l’impegno a rafforzarne la dimensione parlamentare.
    Il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, firma la dichiarazione congiunta durante il secondo vertice con i presidenti dei Parlamenti dei Balcani Occidentali (28 giugno 2021)
    Tutto ciò è emerso non solo dallo scambio di vedute durante la riunione, ma anche da quanto messo nero su bianco nella dichiarazione congiunta del presidente del Parlamento UE, David Sassoli, degli omologhi dei Parlamenti portoghese e sloveno (rispettivamente Igor Zorčič ed Eduardo Ferro Rodrigues), in rappresentanza delle presidenze attuali e future del Consiglio dell’UE, e di quelli balcanici: Gramoz Ruçi (Albania), Bakir Izetbegović (Bosnia ed Erzegovina), Glauk Konjufca (Kosovo), Talat Xhaferi (Macedonia del Nord), Aleksa Bečić (Montenegro) e Ivica Dačić (Serbia).
    Anche in vista del summit UE-Balcani Occidentali che dovrebbe tenersi a Lubiana durante il semestre di presidenza slovena, la prospettiva dei Parlamenti nazionali dovrà essere sempre più quella di uno “spazio inclusivo di dialogo”, con l’obiettivo di “favorire la riconciliazione” e di “fornire un contributo diretto alla pace, alla stabilità, alla prosperità e al rafforzamento della democrazia” in tutta la regione. Il focus su cui lavorare rimane l’attuazione delle riforme richieste da Bruxelles, dallo Stato di diritto all’indipendenza della magistratura, dal pluralismo all’indipendenza del media e della magistratura, fino alla parità di genere e alla lotta contro i cambiamenti climatici.
    Ma se le istituzioni balcaniche dovranno dimostrare un vero impegno su questi punti, altrettanto fondamentale sarà quello che l’Unione Europea dovrà mettere in campo. Non solo attraverso il dialogo interparlamentare con l’Eurocamera e il coinvolgimento della società civile dei Balcani durante la Conferenza sul futuro dell’Europa, ma soprattutto “tenendo fede alle promesse” del Consiglio dell’UE. L’invito è ad accelerare il processo di allagamento, “un interesse politico, economico e di sicurezza della stessa Unione”, conclude la dichiarazione congiunta.

    Very positive 2nd summit with the speakers from the #WesternBalkans!
    Enlargement means hope, for all sides! We call on the Council to keep its promises and speed up the enlargement process.
    This is a geostrategic investment, for a strong, united Europe. https://t.co/znHkqeU1NH pic.twitter.com/ounhDFgGXS
    — David Sassoli (@EP_President) June 28, 2021

    L’esortazione ai governi dei Ventisette nel rispettare le promesse fatte ai Paesi balcanici è stata ribadita con forza anche dal presidente del Parlamento UE, che dopo l’incontro ha parlato di “speranza per tutte le parti” se si procederà sulla strada dell’allargamento dell’Unione. Il processo di adesione dei Balcani occidentali “basato sul merito” rappresenta un “investimento geostrategico, per un’Europa forte e unita“, ha commentato su Twitter.
    Secondo Sassoli, questa consapevolezza scaturisce dalle conseguenze della pandemia COVID-19, che “ha ulteriormente evidenziato quanto dipendiamo gli uni dagli altri per affrontare le sfide attuali e future”. In questo senso, gli atti di solidarietà e cooperazione a livello finanziario e umanitario confermano gli sforzi dell’UE per “contribuire allo sviluppo sostenibile e alla ripresa socio-economica a lungo termine” della regione.
    Ma il vero “motore di pace e democrazia” sono proprio i Parlamenti nazionali, che “possono favorire la comprensione reciproca e la riconciliazione nei Balcani occidentali”. Con questo obiettivo, l’Eurocamera “rimarrà un partner impegnato verso un futuro europeo comune” e offrirà sostegno in diversi modi: sia nell’area della “mediazione e dialogo”, sia nel “rafforzamento delle capacità parlamentari”, ma anche attraverso “l’osservazione elettorale e le azioni per i diritti umani”, è stata la promessa del presidente del Parlamento Europeo al termine del vertice.
    Da sinistra, i presidenti: Igor Zorčič (Assemblea nazionale slovena), Talat Xhaferi (Assemblea della Macedonia del Nord), Aleksa Bečić (Assemblea del Montenegro), Bakir Izetbegović (Camera dei Popoli della Bosnia ed Erzegovina), David Sassoli (Parlamento Europeo), Gramoz Ruçi (Assemblea di Albania), Ivica Dačić (Assemblea nazionale della Serbia) e Glauk Konjufca (Assemblea del Kosovo)

    Nella dichiarazione congiunta firmata durante il secondo vertice interparlamentare è stato ribadito l’impegno a collaborare per “favorire la riconciliazione nella regione”. Dal presidente dell’Eurocamera l’invito al Consiglio dell’UE a “rispettare le promesse” per l’adesione dei sei Paesi

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    Bosnia ed Erzegovina, la prospettiva UE è un “atto di fede”: servono ancora riforme strutturali e riconciliazione etnica

    Bruxelles – L’allargamento dell’Unione Europea ai Balcani occidentali procede come un elastico: il cammino è tracciato, ma non sono rari né gli slanci di entusiasmo improvviso né la sensazione che tutto il processo stia ristagnando. Talvolta la prospettiva europea dei Balcani può essere considerata come vero e proprio “atto di fede”, prendendo in prestito l’espressione usata dall’eurodeputato Paulo Rangel (PPE) durante la presentazione della relazione sul rapporto 2019/2020 della Commissione UE sulla Bosnia ed Erzegovina.
    In plenaria il testo è stato approvato con 483 voti a favore, 73 voti contrari e 133 astenuti, l’ultimo delle sei relazioni sui progressi dei Paesi dei Balcani occidentali (il primo dibattito su Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Serbia si era tenuto lo scorso 25 marzo, il secondo sul Montenegro il 18 maggio). L’impressione rimane quella di un sostegno diffuso del Parlamento Europeo alle aspirazioni di adesione all’UE della Bosnia ed Erzegovina, anche se le condizioni in cui versano la società e le istituzioni del Paese pongono una serie di paletti sulle modalità e le tempistiche con cui questo processo potrà avere luogo.
    Il relatore per la Bosnia ed Erzegovina, Paulo Rangel (PPE)
    “La diversità etnica e religiosa è parte del DNA dell’Unione Europea, perciò la futura integrazione della Bosnia ed Erzegovina non può che essere un fenomeno naturale”, ha spiegato il relatore Rangel. Se gli eurodeputati sono “grandi sostenitori” del commino europeo di Sarajevo, servono però “riforme profonde e un impegno di riconciliazione etnica” per aspirare allo status di Paese candidato all’adesione all’UE. C’è molto da fare sui 14 criteri di Copenaghen, che disciplinano le condizioni base per iniziare il processo negoziale: dal rispetto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, alle garanzie per la democrazia in una società multietnica, passando per le fondamentali riforme costituzionali, elettorali, della giustizia e del sistema scolastico.
    Allo stesso tempo, quel “crediamo nei cittadini bosniaci e nel futuro europeo della Bosnia” prende le mosse da alcuni piccoli passi in avanti. Il vicepresidente del gruppo del PPE ha sottolineato che “nonostante la difficile situazione causata dalla pandemia COVID-19, abbiamo registrato progressi”, come le elezioni nella città di Mostar (le prime dal 2008) e la ripresa dei lavori del comitato parlamentare di stabilizzazione e di associazione UE-Bosnia Erzegovina. “I leader bosniaci devono garantire che la popolazione sia cosciente del nostro sostegno e delle prospettive europee, nell’ottica della riconciliazione”, ha concluso l’europarlamentare portoghese.
    Parola a Commissione e Consiglio
    Parole di supporto sono arrivate anche da Consiglio e Commissione UE, anche se “i progressi dipendono dal rispetto dei 14 criteri”, ha sottolineato la segretaria di Stato portoghese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Ana Paula Zacarias. In primis, la questione della “piena cooperazione con la Corte internazionale di giustizia” e la “fine della glorificazione dei criminali di guerra condannati“, come ha dimostrato la sentenza sul caso Ratko Mladić, comandante militare dei serbo-bosniaci durante la guerra del 1992-1995.
    La segretaria di Stato portoghese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Ana Paula Zacarias
    Sul fronte delle riforme, “rileviamo slanci solo in tempi più recenti”, ha precisato Zacarias: “La Costituzione continua a non essere in linea con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo” e per questo si deve “puntare sulle riforme costituzionali, che spazzino via tutte le discriminazioni ancora esistenti”. Visione condivisa dal commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi: “Come ho detto ai leader bosniaci nell’ultimo anno, ci sono ancora molte questioni in sospeso e dovranno fare la loro parte”, anche sul fronte della parità di rappresentanza, del funzionamento degli organi dello Stato, del conflitto di interessi e degli appalti pubblici. Ma soprattutto, “deve finire il negazionismo sui crimini di guerra e la retorica divisiva degli ultimi mesi“, ha avvertito il commissario Várhelyi. “L’unica prospettiva della Bosnia nell’UE è quella di un Paese unico, unito e sovrano“.
    L’Unione Europea rimane però particolarmente impegnata in tutta la regione, Bosnia compresa. L’approvazione dello strumento IPA III, per Sarajevo, significa investimenti in infrastrutture, “come il corridoio 5G, i collegamenti stradali ed energetici con Serbia e Montenegro e lo sminamento del fiume Sava per rilanciare gli scambi commerciali fluviali”, ha assicurato Várhelyi. C’è poi il capitolo della lotta al COVID-19: “Dall’inizio della pandemia abbiamo stanziato 80,5 milioni di euro in sovvenzioni immediate e 250 milioni in micro-finanziamenti”. Ma tra maggio e agosto sono in arrivo anche 651 mila dosi di vaccino Pfizer/BioNTech dall’UE (di cui 213.800 alla Bosnia), 952 mila dal programma COVAX (177 mila alla Bosnia), oltre alle 30 mila dalla Croazia e 4.500 dalla Slovenia direttamente a Sarajevo: “Non ci fermiamo qui, mobiliteremo sempre più Stati membri perché mettano a disposizione vaccini non appena saranno disponibili”.
    Il confronto in Aula
    Animato il confronto in plenaria, con i gruppi politici che hanno espresso posizioni diverse sulla strategia da adottare nei confronti del cammino europeo del Paese balcanico. “La Bosnia appartiene all’UE, perciò lanciamo un appello agli Stati membri perché le concedano lo status di Paese candidato“, è stata l’esortazione di Dietmar Köster (S&D). “Vanno però rafforzate le libertà dei media, il contrasto a ogni discriminazione e il superamento delle tensioni etniche”. Klemen Grošelj (Renew Europe) ha sottolineato che gli accordi di Dayton del 1995 avevano come priorità la pace, “non il funzionamento Stato”, ma ora la Bosnia “si trova di fronte alla scelta se continuare a basarsi sulla divisione etnica o sui principi comunitari“.
    L’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento UE, Fabio Massimo Castaldo
    A questo proposito, l’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento UE, Fabio Massimo Castaldo, ha avvertito che “non possiamo nasconderci dietro un dito, accettando questo precario status quo” e non appoggiando “soluzioni condivise da autorità politiche e società civile, per elaborare una nuova Costituzione”. L’UE non deve avere la “presunzione di imporre le 14 priorità, perché il dialogo si costruisce anche e soprattutto facilitandolo“. Ecco perché Castaldo ha accolto “con grande favore” la proposta di accogliere i Balcani occidentali nella Conferenza sul futuro dell’Europa, “per rinnovare quello slancio e quella promessa di prospettiva europea che spesso i nostri partner non hanno visto così decisa e così determinata come avrebbero dovuto”.
    Željana Zovko (PPE) ha però avvertito che “potrebbe essere un grave danno, se sarà negato il concetto dei popoli costituenti”, così come stabilito dagli accordi di pace di Dayton (ovvero bosgnacchi musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi). Dure le destre, con Dominique Bilde (ID) che ha parlato di un “rischio di diminuire la fiducia dei cittadini europei“, se l’UE insiste “acriticamente” con l’allargamento, “non considerando le questioni di sicurezza sul rimpatrio degli jihadisti nei Balcani e la crisi migratoria”. Ruža Tomašić (ECR) ha invece attaccato la linea del Parlamento Europeo di “negare l’identità di chi non vuole ascoltare e ignorare la questione dei tre popoli costituenti secondo gli accordi di Dayton”.

    Approvata dagli eurodeputati in plenaria la relazione sui progressi di Sarajevo verso l’adesione all’UE. Ma rimane ancora lunga la strada per soddisfare i 14 criteri su Stato di diritto e rispetto delle minoranze