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    Trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”. Il piano shock che Trump ha esposto a Netanyahu

    Bruxelles – Donald Trump vuole mettere le mani su Gaza e trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”. In una conferenza stampa alla Casa Bianca con il primo ministro d’Israele, Benjamin Netanyahu (su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale), il presidente degli Stati Uniti ha esposto un piano che ha tutti i contorni di una vera e propria pulizia etnica. Acclamato immediatamente dall’élite politica israeliana, respinto dai principali alleati di Washington e dai suoi più importanti rivali, Russia e Cina. Da Bruxelles invece, per ora, non trapela nulla.Sono ripresi da pochissimo i negoziati tra Israele e Hamas per limare i dettagli della seconda fase della tregua, che dovrebbe portare alla liberazione di tutti gli ostaggi israeliani e al ritiro completo dell’esercito di Tel Aviv dalla Striscia, ma già il presidente americano rimescola le carte. E l’idea – finora – piace soltanto a Israele. Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti “prenderanno il controllo” della Striscia di Gaza: “Ne saremo proprietari e saremo responsabili dello smantellamento di tutte le pericolose bombe inesplose e di altre armi presenti sul posto”, ha affermato ai cronisti, aggiungendo inoltre che Washington “spianerà” gli edifici distrutti e “creerà uno sviluppo economico che fornirà un numero illimitato di posti di lavoro e di alloggi per la popolazione dell’area”.Di quale popolazione parla Trump non è dato sapere, ma sicuramente non i gazawi: Trump ha affermato che i quasi 2 milioni di palestinesi di Gaza dovrebbero trasferirsi nei Paesi vicini con “cuori umanitari” e “grandi ricchezze”. Ma né la Giordania, né l’Egitto, né tanto meno le monarchie del Golfo hanno mai aperto all’accoglienza della popolazione palestinese di Gaza. Nello scioccante piano della Casa Bianca, da “simbolo di morte e distruzione” la Striscia di Gaza diventerebbe una “Riviera del Medio Oriente”, dove “la gente del mondo” potrebbe andare a vivere.Sfollati palestinesi nella spiaggia di Deir el-Balah, nel centro della Striscia di Gaza (Photo by AFP) Il tycoon newyorkese non ha escluso l’invio di truppe statunitensi per mettere in sicurezza l’enclave palestinese. “Per quanto riguarda Gaza, faremo ciò che è necessario. Se sarà necessario, lo faremo”, ha risposto ad un cronista. Trump ha inoltre annunciato che il prossimo mese prenderà una posizione sulla sovranità israeliana sulla Cisgiordania, aggiungendo che intende visitare la Striscia di Gaza, Israele e l’Arabia Saudita. Il supporto al trasferimento forzato degli abitanti dall’enclave palestinese e l’eventuale riconoscimento dei territori israeliani occupati nella West Bank costituirebbero un drastico cambiamento nell’approccio che Washington – seppur strettissimo alleato di Israele – ha tenuto per decenni. Quello del sostegno per la soluzione dei due Stati, secondo i confini tracciati dalla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e con Gerusalemme Est capitale dello Stato di Palestina. Trump ha smentito in modo confuso: “Non significa nulla riguardo a due Stati o a uno Stato o a qualsiasi altro Stato. Significa che vogliamo dare alle persone una possibilità di vita, che non hanno mai avuto perché la Striscia di Gaza è stata un inferno per le persone che vi abitano”.Dalla Cina all’Egitto, il “sud del mondo” respinge il piano di TrumpPer quanto Trump abbia sostenuto che “tutti quelli con cui ho parlato amano l’idea che gli Stati Uniti possiedano quel pezzo di terra”, le reazioni alla proposta dell’uomo a capo dell’esercito più potente del mondo sembrano di tutt’altro tenore. A partire da Hamas, che l’ha definito “ridicolo”: il portavoce Sami Abu Zuhri ha dichiarato che “la nostra gente nella Striscia di Gaza non permetterà che questi piani vengano approvati”, ribadendo che “ciò che è richiesto è porre fine all’occupazione e all’aggressione contro la nostra gente, non espellerla dalla sua terra”.Il governo saudita, in una dichiarazione, ha minacciato che non ci sarà alcuna normalizzazione delle relazioni con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese indipendente. L’Arabia saudita ha respinto “qualsiasi tentativo di sfollare i palestinesi dalla loro terra”. Il ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdelatty, dopo aver discusso con il premier dell’Autorità palestinese, Mohamed Mostafa, ha sottolineato la necessità che “i palestinesi rimangano a Gaza, visto il loro fermo attaccamento alla loro patria e il rifiuto di abbandonarla”.Per la Turchia il piano è “inaccettabile”: il ministro degli Esteri di Ankara, Hakan Fidan, ha ricordato a Trump che “la guerra è iniziata proprio per questo motivo: la sottrazione di terra ai palestinesi” e assicurato che “non c’è nessuno spiraglio per una discussione su questo tema”. Contrari al trasferimento forzato dei palestinesi anche la Cina, che “ha sempre sostenuto che il dominio dei palestinesi sui palestinesi è il principio di base della governance post-bellica di Gaza”, e la Russia, secondo cui  “la soluzione in Medio Oriente può avvenire solo sulla base della presenza di due Stati”.L’Ue rimane in silenzio. Francia, Germania e Regno Unito: “Gaza è dei palestinesi”Se dalle istituzioni europee non trapela nulla, dalle capitali cominciano ad arrivare reazioni preoccupate. Il ministro degli Esteri del Regno Unito, David Lammy, ha dichiarato da Kiev che Londra rimane convinta che i palestinesi debbano “vivere e prosperare nelle loro terre d’origine a Gaza e in Cisgiordania”, mentre per Parigi l’avvenire di Gaza passa per “un futuro stato palestinese” e non dal controllo “di un paese terzo”. Il Quai d’Orsay, sede del ministero degli Esteri francese, ha ribadito “la sua contrarietà a qualsiasi trasferimento forzato della popolazione palestinese di Gaza, che rappresenterebbe una violazione grave del diritto internazionale, un attacco alle aspirazioni legittime dei palestinesi, ma anche un forte ostacolo alla soluzione a due stati e un fattore di destabilizzazione per i nostri partner vicini che sono l’Egitto e la Giordania, oltre che l’insieme della regione”.Perfino Annalena Baerbock, la ministra degli Esteri tedesca che qualche mese fa aveva dichiarato che la popolazione civile “perde il proprio status di protezione” quando è utilizzata come scudo umano, si è opposta con fermezza: “È chiaro che Gaza, come la Cisgiordania e Gerusalemme est, appartiene ai palestinesi. Esse costituiscono la base per un futuro stato palestinese”, ha affermato. Il vicepremier italiano, Antonio Tajani, ha sottolineato il no di Giordania ed Egitto che rendono “un po’ difficile” il piano di Trump. Ben più duro il capodelegazione del Partito Democratico al Parlamento europeo, Nicola Zingaretti, che ha definito la “folle proposta” di Trump “un insulto alla pace e ai diritti del popolo palestinese”.Dall’estrema destra all’opposizione, Israele con TrumpDa Netanyahu, agli esponenti dell’estrema destra sionista, al leader dell’opposizione israeliana Benny Gantz, Israele ha invece applaudito il piano di trasformazione della Striscia di Gaza suggerito da Trump. Un piano che “potrebbe cambiare la storia”, ha affermato il premier israeliano durante la conferenza stampa congiunta a Washington, definendo Trump “il più grande amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca” ed elogiandolo per aver “pensato fuori dagli schemi con idee nuove”. Netanyahu ha inoltre ringraziato l’amministrazione americana per aver interrotto i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi (Unrwa).Il piano di Trump rinvigorisce i leader dell’estrema destra. Itamar Ben-Gvir, ex ministro per la Sicurezza nazionale che si è dimesso dopo la firma della tregua con Hamas, ha rivendicato la paternità del piano e affermato che questa “è l’unica soluzione al problema di Gaza”, mentre Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, ha promesso che farà di tutto per “seppellire definitivamente” l’idea di uno Stato palestinese. Il piano è piaciuto anche al leader del partito di opposizione israeliano Unita’ nazionale, Benny Gantz, che ha elogiato le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti definendole “creative, originali e interessanti”.

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    Costa invita Starmer al vertice dei leader Ue di febbraio, prove generali di riavvicinamento tra Londra e Bruxelles

    Bruxelles – A Londra e Bruxelles si lavora per rinforzare la collaborazione tra Ue e Regno Unito nell’era post-Brexit, dopo lo storico cambio della guardia al governo britannico tra Conservatori e Laburisti. A dominare l’agenda del confronto è soprattutto il tema della sicurezza, visto il deterioramento del contesto internazionale. E, almeno a giudicare da un recente sondaggio, sia i cittadini britannici sia quelli europei sono d’accordo sulla necessità di ricucire i rapporti.Nel primo pomeriggio di oggi (12 dicembre) il presidente del Consiglio europeo, António Costa, ha incontrato a Downing Street il primo ministro di Sua Maestà, Keir Starmer, per delineare insieme alcune priorità intorno a cui imperniare la cooperazione tra le due sponde della Manica. Stando al resoconto ufficiale della riunione, i due hanno concordato “sull’importanza vitale di una più stretta collaborazione tra partner che condividono la stessa mentalità in un momento di crescente instabilità per il mondo”.Tradotto: con la guerra in Ucraina che si è ormai incancrenita, l’escalation in Medio Oriente che non accenna a placarsi e le crescenti tensioni nello spazio post-sovietico – il tutto a poco più di un mese dall’insediamento ufficiale di Donald Trump come 47esimo presidente degli Stati Uniti, in calendario per il prossimo 20 gennaio – le cancellerie europee e quella britannica non dormono sonni tranquilli.Come importante segnale di apertura da parte europea, Costa ha invitato sir Starmer a partecipare al vertice informale dei leader dei Ventisette che si terrà il 3 febbraio a Bruxelles. Il primo ministro britannico “è stato lieto di accettare l’invito e si è detto impaziente di discutere di una maggiore cooperazione strategica”, si legge nel comunicato, “in particolare in materia di difesa”. In aggiunta a quella riunione, già lo scorso ottobre i vertici comunitari e britannici avevano stabilito di convocare un primo summit Ue-Regno Unito per l’inizio del 2025, che dovrà essere il primo di una serie di appuntamenti di alto livello da tenersi a cadenza regolare.Great first meeting at Downing Street with PM @Keir_Starmer. Discussed ways to strengthen the relationship between the United Kingdom and the European Union. Very glad that the PM accepted my invitation to join us in a session of the informal meeting of EU leaders on 3 February. pic.twitter.com/A6QsjX48Iz— António Costa (@eucopresident) December 12, 2024Per quanto riguarda il delicato contesto geopolitico, i due hanno ribadito “il loro incrollabile impegno a fornire un continuo sostegno politico, finanziario, economico, umanitario, militare e diplomatico all’Ucraina e al suo popolo per tutto il tempo necessario e con l’intensità richiesta” e, con specifico riferimento agli ultimi drammatici sviluppi in Siria, sono convenuti “sull’importanza di garantire una transizione pacifica verso una stabilità politica a lungo termine dopo la caduta del brutale regime” di Bashar al-Assad.Costa e Starmer hanno inoltre ribadito l’impegno di entrambe le parti “per la piena e fedele attuazione” degli accordi faticosamente stipulati all’indomani della Brexit e che regolano i rapporti bilaterali tra Bruxelles e Londra, complessivamente noti sotto il titolo di Accordo di recesso (Withdrawal agreement in inglese) e di cui fanno parte il cosiddetto Quadro di Windsor (cioè il protocollo sull’Irlanda del Nord) e l’Accordo commerciale e di cooperazione.Il riavvicinamento tra le due sponde della Manica sembra del resto andare incontro alle mutate sensibilità dei cittadini di Sua Maestà, come evidenziato da un’indagine pubblicata oggi dallo European council on foreign relations, un think tank pan-europeo specializzato nella ricerca su temi di politica estera. Secondo la rilevazione, l’opinione pubblica britannica non è persuasa a seguire il neo-rieletto Trump su una serie di questioni chiave a livello internazionale, dall’Ucraina alla Cina passando per lo scacchiere mediorientale.Tanto nel Regno Unito quanto in Ue gli intervistati ritengono che le relazioni tra le due parti “dovrebbero diventare più strette”: un’affermazione valida, tra gli altri, per il 55 per cento dei britannici, il 45 per cento dei tedeschi e il 41 per cento degli italiani. In tutti i Paesi esaminati (Francia, Spagna e Polonia oltre a quelli menzionati), la percentuale di chi preferirebbe una relazione più blanda rispetto all’attuale non supera l’11 per cento.Screenshot dal sito di ECFRGli inglesi “guardano più all’Europa che all’America, non solo per il loro futuro economico e la migrazione, ma anche per la loro sicurezza”, mentre tra gli europei è diffusa l’opinione per cui “offrire al Regno Unito un migliore accesso al mercato unico sia un prezzo che vale la pena pagare per un partenariato più stretto in materia di sicurezza”.Lo studio evidenzia che Oltremanica esiste uno “spazio politico” più ampio di quanto si potrebbe pensare sia tra l’elettorato pro-Brexit sia tra i Remainers, e che per l’esecutivo laburista di Starmer c’è “la chiara opportunità di riconquistare gli elettori pro-europei senza alienare” il cosiddetto “muro rosso” rappresentato dalle fasce operaie della popolazione.Quanto ai temi specifici della cooperazione tra Londra e Bruxelles, la maggioranza assoluta degli intervistati britannici ritiene che una cooperazione più stretta tra Regno Unito e Unione Europea possa avvantaggiare il primo in termini di gestione dei flussi migratori (58 per cento) e di rafforzamento della sicurezza nazionale (53 per cento).

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    Kallas, la priorità Ue è la stabilizzazione della Siria: “Non vogliamo nuove ondate di rifugiati”

    Bruxelles – A pochi giorni dal suo insediamento a capo della diplomazia europea, il primo banco di prova di Kaja Kallas è uno dei più complessi: coordinare la strategia di Bruxelles nei confronti della nuova Siria che sorgerà dal crollo del regime di Bashar al Assad. In un confronto convocato d’urgenza con la commissione Affari Esteri (Afet) del Parlamento europeo, l’Alta rappresentante Ue ha tracciato quello che sarà il posizionamento iniziale. Fatto di sostegno al popolo siriano e alle sue minoranze, di rispetto per l’integrità e la sovranità della Siria, di attesa per capire che direzione prenderà il nuovo potere instaurato a Damasco. Per Kallas, l’azione Ue dovrà essere mirata alla stabilizzazione del Paese, la vera priorità. Perché Bruxelles “non vuole vedere nuove ondate di rifugiati dalla Siria”.In attesa del Consiglio Affari esteri del 16 dicembre, in cui i ministri dei 27 proveranno a fare il punto della situazione, a tenere banco ieri era stata soprattutto la decisione unilaterale presa da Germania, Austria, Italia, Grecia, Belgio, Svezia e Danimarca di sospendere l’esame delle richieste d’asilo dei cittadini siriani. E lo spiraglio che la caduta di Assad apre al ritorno dei rifugiati accolti in Europa dal 2011 a oggi, oltre un milione. “Quando parliamo di rimpatri, abbiamo bisogno di una stabilizzazione del Paese”, ha dichiarato Kallas. “Non ci siamo ancora, tutto è appena accaduto, ma dobbiamo supportare il Paese in modo che vada nella giusta direzione e che i rifugiati possano ritornare”, ha aggiunto.Nessuna parola riguardo la sospensione delle richieste d’asilo in corso in sette Paesi membri. Sul tema, è invece intervenuto oggi l’Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), attraverso le parole della portavoce Shabia Mantoo. “Alla luce della situazione incerta e molto fluida, la sospensione dell’esame delle domande di asilo dei siriani è accettabile finché le persone possono fare domanda di asilo e sono in grado di presentarla“, ha dichiarato Mantoo. Fermo restando che “chiunque cerchi protezione internazionale deve poter accedere alle procedure di asilo e vedere la propria domanda esaminata pienamente e individualmente nel merito“.L’Unhcr assicura che, “una volta che le condizioni in Siria saranno più chiare”, fornirà nuove indicazione agli Stati sulle “esigenze di protezione internazionale dei profili rilevanti di siriani a rischio”. Nel frattempo, i richiedenti asilo messi in attesa “devono continuare a godere degli stessi diritti di tutti gli altri richiedenti asilo, anche in termini di condizioni di accoglienza“.il leader della milizia islamista Hay’at Tahrir al-Sham(HTS), Abu Mohammed al-Jolani  (Photo by Aref TAMMAWI / AFP)A Damasco, nel frattempo, il leader della milizia islamista Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) che ha guidato il rovesciamento del regime, Abu Mohammed al-Jolani (che ha dismesso il nome da battaglia e si fa ora chiamare con il vero nome, Ahmad al Sharaa), ha incaricato formalmente l’ex capo del Governo di salvezza di Idlib, Mohammed al Bashir, di guidare un governo di transizione fino a marzo 2025. Secondo l’Alta rappresentante Ue per gli Affari Esteri, “le prossime settimane saranno cruciali per vedere la direzione” che imboccherà Damasco e per smentire le “preoccupazioni legittime che riguardano il rischio di violenza settaria, di recrudescenze estremiste e di vuoto di governance“. HTS “non è stata l’organizzazione più pacifica – ha ammesso la leader Ue -, la domanda per molti attori della regione è se ora siano veramente cambiati”.Per ora, Kallas non ha intavolato alcun contatto diretto con HTS e il suo leader. Ma ha concordato un messaggio unitario con i principali ministri degli Esteri della regione: HTS “sia giudicato dalle azioni” che intraprenderà ora che è al potere. Azioni che non possono prescindere dalla tutela dei diritti di tutti i cittadini siriani e che dovranno passare per un “processo di ricostruzione inclusivo che coinvolga tutte le minoranze, le donne e le ragazze”. E nella regione, è fondamentale che “nessun Paese tiri la coperta dalla propria parte”. La Turchia e Israele su tutti, i due Stati forti nell’area dopo la caduta del regime sostenuto dall’Iran.Sull’azione militare israeliana in territorio siriano, con bombardamenti sull’arsenale militare di Assad e l’occupazione dell’area demilitarizzata sulle Alture del Golan, Kaja Kallas però non ha alzato i toni. “Il ministro israeliano ha informato il Consiglio di sicurezza dell’Onu su ciò che sta facendo. Naturalmente tutti nella regione sono preoccupati per la propria sicurezza“, ha affermato l’Alta rappresentante Ue.

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    L’Ue saluta la caduta della dittatura in Siria: “Opportunità di libertà e pace”

    Bruxelles – L’Unione europea sorride alla fine del regime di Bashar al-Assad, rovesciato con un’improvvisa offensiva di dodici giorni da gruppi di ribelli guidati dalla milizia islamista, Hay’at Tahrir al-Sham (HTS). E con una buona dose di ottimismo, i leader delle istituzioni Ue parlano di “un’opportunità di libertà e pace” per la Siria. “Non priva di rischi”, avverte Ursula von der Leyen.La clamorosa caduta di Assad e la sua fuga a Mosca, che mette fine ad una dinastia sanguinaria di oltre mezzo secolo, è avvenuta per mano di HTS e da una serie di gruppi armati riuniti sotto il nome di Esercito Nazionale Siriano. Il leader di HTS, Abu Mohammed al-Jolani, ha incaricato l’ex primo ministro Mohammed Ghazi al-Jalali di supervisionare le istituzioni statali e garantire la continuità dei servizi sociali fino alla fine del periodo di transizione. Sulla rete televisiva nazionale, domenica pomeriggio (8 dicembre) un portavoce dei ribelli ha dichiarato: “A coloro che hanno scommesso su di noi e a coloro che non l’hanno fatto, a coloro che un giorno hanno pensato che fossimo distrutti, vi annunciamo la vittoria della grande rivoluzione siriana dopo 13 anni di pazienza e sacrificio”.Profughi siriani in un campo nel sud della TurchiaTredici anni di atroce guerra civile, durante i quali sono state uccise almeno 300 mila persone e 100 mila sono scomparse. Metà del Paese – circa 12 milioni di persone – è stata sfollata dalle proprie case e circa 5,4 milioni hanno cercato rifugio all’estero. La maggior parte nei Paesi vicini, Turchia, Libano e Giordania, ma secondo le stime dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), i Paesi europei ospitano oltre un milione di richiedenti asilo siriani.Anche per questo motivo sulle due sponde dell’Atlantico, le reazioni sono differenti. A Washington, dove il gruppo islamista una volta noto con il nome di Fronte al-Nusra è considerato un’organizzazione terroristica, il presidente uscente Joe Biden ha avvertito che gli Usa “non permetteranno all’Isis di ristabilire le proprie capacità in Siria“. Il suo omologo eletto, Donald Trump, si è sfilato senza tanti giri di parole: “Gli Stati Uniti non dovrebbero avere nulla a che fare con questo. Questa non è la nostra guerra, lasciate che si svolga“, ha dichiarato in un post sul suo account X il prossimo inquilino della Casa Bianca.A Bruxelles, la preoccupazione è palpabile e i commenti sono più cauti. I leader Ue provano a lanciare un segnale ad al-Jolani, gli tendono la mano. “L’Europa è pronta a sostenere la salvaguardia dell’unità nazionale e la ricostruzione di uno Stato siriano che protegga tutte le minoranze”, ha affermato Ursula von der Leyen. “L’Ue è pronta a collaborare con il popolo siriano per un futuro migliore”, le ha fatto eco il neo presidente del Consiglio europeo, António Costa. Per Kaja Kallas, subentrata a Josep Borrell nel ruolo di Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, “la fine della dittatura di Assad è uno sviluppo positivo e atteso da tempo”, che “mostra anche la debolezza dei sostenitori di Assad, Russia e Iran“. In una nota a nome dell’Ue, Kallas ha esortato “tutti gli attori a evitare ulteriori violenze, a garantire la protezione dei civili e a rispettare il diritto internazionale, compreso il diritto umanitario internazionale”.The cruel Assad dictatorship has collapsed.This historic change in the region offers opportunities but is not without risks.Europe is ready to support safeguarding national unity and rebuilding a Syrian state that protects all minorities.We are engaging with European and…— Ursula von der Leyen (@vonderleyen) December 8, 2024In un Medio Oriente logorato da tensioni locali e regionali, sui quali il conflitto tra Israele e Hamas ha funzionato come benzina sul fuoco, il timore principale dei Paesi europei è il rischio della ‘cancrenizzazione’ di una catastrofe umanitaria iniziata con l’arrivo del terzo millennio e mai realmente interrotta. Di fronte all’escalation tra Israele ed Hezbollah in Libano e alle potenziali conseguenze sulla gestione dei profughi siriani nel sud del Paese, negli scorsi mesi Bruxelles si era messa al lavoro per ipotizzare una pragmatica revisione della Strategia Ue sulla Siria, con l’obiettivo di creare le condizioni per il “rimpatrio sicuro, volontario e dignitoso” dei rifugiati siriani. Ma senza “legittimare in alcun modo il regime” di Assad.Il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), Abu Mohammed al-Jolani, tiene un discorso a Damasco, 8/12/2024 (Photo by Aref TAMMAWI / AFP)Il golpe dei ribelli islamisti a Damasco cambia tutto, e i leader europei osservano con attenzione se al-Jolani manterrà le sue promesse di una transizione pacifica. In passato la milizia HTS è stata affiliata ad al-Qaeda, per poi prenderne le distanze nel 2016. È attualmente la fazione ribelle più potente in Siria e – prima dell’offensiva che ha rovesciato Assad – controllava già un vasto territorio nella provincia di Idlib, al confine con la Turchia. Nell’area sono state denunciate gravi violazioni di diritti umani, tra cui le esecuzioni di persone accusate di affiliazione a gruppi rivali e per accuse di blasfemia e adulterio.In un comunicato pubblicato nella giornata di ieri, l’ong Human Rights Watch ha ricordato a tutti che “anche i gruppi armati non statali che operano in Siria, tra cui Hay’at Tahrir al Sham e le fazioni dell’Esercito nazionale siriano che hanno lanciato l’offensiva del 27 novembre, sono responsabili di violazioni dei diritti umani e crimini di guerra“. Insomma, non è detto che la Siria del dopo Assad sia il ‘Paese sicuro’ che le capitali europee vorrebbero, in modo da poter facilitare un rientro in patria dei milioni di profughi della guerra civile. Ne è consapevole il ministro degli Esteri francese, Jean-Noel Barrot, che in un intervento su France Info ha assicurato che il sostegno della Francia alla transizione politica in Siria “dipenderà dal rispetto dei diritti delle donne, delle minoranze e del diritto internazionale“.Sui possibili rientri di profughi siriani che la caduta di Assad potrebbe innescare, il portavoce del Servizio Ue per l’Azione esterna, Anouar El Anouni, ha dichiarato: “Spetterà a ogni individuo e a ogni famiglia decidere cosa desidera fare, tuttavia, per il momento, sosteniamo, in linea con l’Unhcr, che non ci sono le condizioni per rimpatri sicuri, volontari e dignitosi in Siria“.

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    Cessate il fuoco tra Israele ed Hezbollah, il “sollievo” di Bruxelles

    Bruxelles – Dopo intensi negoziati, il cessate il fuoco tra Israele ed Hezbollah è entrato in vigore nelle prime ore di mercoledì mattina (27 novembre), mettendo in pausa per 60 giorni i combattimenti che dallo scorso ottobre stanno sconvolgendo il sud del Libano e che rischiavano di destabilizzare ulteriormente un Medio Oriente già in fiamme. L’accordo, mediato da Washington e Parigi, prevede la demilitarizzazione del lembo di terra che separa lo Stato ebraico dal Paese dei cedri ed è stato salutato dai leader europei come un successo diplomatico per provare a rispondere alla grave crisi umanitaria in corso. Ma resta da vedere quanto a lungo reggerà la fragile tregua prima che riprendano gli scontri in quel martoriato angolo di mondo.Il contenuto dell’accordoNella serata di martedì (26 novembre), il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accettato le condizioni del patto stipulato con le milizie libanesi filo-iraniane di Hezbollah, alla cui formulazione hanno lavorato alacremente Stati Uniti e Francia. Una tregua di 60 giorni, il ritiro dei combattenti del Partito di Dio a nord del fiume Litani (circa 25 km a nord della cosiddetta Linea blu, che segna il confine tra Stato ebraico e Paese dei cedri) e lo smantellamento delle infrastrutture dei miliziani, il parallelo ritiro delle forze armate israeliane (Idf) dal Libano meridionale contestuale all’arrivo, sempre a sud del fiume, dell’esercito regolare di Beirut, e infine la creazione di un comitato internazionale di implementazione, presieduto da Washington, sono i punti principali dell’accordo.Il patto arriva nell’ultimo spiraglio della presidenza di Joe Biden e costituisce – almeno potenzialmente – un significativo punto di svolta nell’ultima drammatica fase della decennale crisi mediorientale, iniziata con gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 che sono immediatamente riverberati anche al confine tra Israele e Libano, un’area controllata da Hezbollah e dove Tel Aviv ha avviato un’invasione terrestre lo scorso mese in risposta al lancio di razzi sul nord di Israele. Le ostilità degli ultimi 13 mesi sono costate la vita a circa 4mila civili libanesi, secondo le autorità di Beirut, mentre almeno 300mila cittadini hanno dovuto abbandonare le loro case.Dei militari della missione Unifil nel sud del Libano (foto: Afp)Ma, per ammissione dello stesso Netanyahu, “la durata del cessate il fuoco dipende da cosa accadrà in Libano”, poiché, “in pieno accordo con gli Stati Uniti, manteniamo totale libertà di agire militarmente” se cambierà la situazione sul campo. L’esercito israeliano attaccherà (supportato da Washington), ha ammonito il capo del gabinetto di guerra, se Hezbollah “tenterà di riarmarsi” e se “cercherà di ricostruire le infrastrutture terroristiche vicino al confine”.Le reazioni europeeLe reazioni internazionali non si sono fatte attendere. In un comunicato congiunto, il presidente francese Emmanuel Macron e il suo omologo statunitense hanno celebrato il raggiungimento dell’accordo che “farà cessare i combattimenti in Libano e metterà Israele al sicuro dalla minaccia di Hezbollah e di altre organizzazioni terroristiche che operano dal Libano”, e “creerà le condizioni per ripristinare una calma duratura e consentire ai residenti di entrambi i Paesi di tornare in sicurezza alle loro case”. “Gli Stati Uniti e la Francia”, si legge ancora, “lavoreranno con Israele e il Libano per garantire che questo accordo sia pienamente attuato e fatto rispettare”, e “si impegnano inoltre a guidare e sostenere gli sforzi internazionali per il rafforzamento delle capacità delle forze armate libanesi e per lo sviluppo economico in tutto il Libano, al fine di promuovere la stabilità e la prosperità nella regione”.“L’accordo sul cessate il fuoco in Libano è un sollievo nella devastante situazione in Medio Oriente”, ha commentato l’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell, ringraziando l’Eliseo e la Casa Bianca per la loro mediazione. Ora, ha sottolineato il capo della diplomazia a dodici stelle, è però necessario che l’accordo regga e che gli attacchi vengano effettivamente sospesi da entrambe le parti, “per garantire la sicurezza dei cittadini libanesi e israeliani e il rientro degli sfollati”.The agreement on a ceasefire in Lebanon is a relief in the devastating situation in the Middle East.I want to praise France and the US for their mediation.It is now crucial that the ceasefire holds, to guarantee the safety of both LEB & IL citizens, & the return of IDPs. 1/2— Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) November 26, 2024Altrettanto indispensabile, secondo Borrell, è la “piena implementazione” della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza Onu. La risoluzione, adottata nell’agosto 2006, pone le basi per la cessazione delle ostilità tra Israele ed Hezbollah, che fa parte della galassia di proxies iraniane nella regione. I suoi punti cardine, ripresi dal cessate il fuoco siglato ieri, sono il disarmo del Partito di Dio, il ritiro dell’Idf dal sud del Libano e il mantenimento della sicurezza nell’area da parte delle forze di sicurezza libanesi e dei caschi blu della missione Unifil a guida italiana, che pure è stata coinvolta negli scontri.Anche la presidente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen, la cui seconda Commissione è stata approvata oggi in un voto dell’Eurocamera a Strasburgo, ha dichiarato che quella del cessate il fuoco “è una notizia molto incoraggiante”, sottolineando che “il Libano avrà un’opportunità di aumentare la sicurezza e la stabilità interne grazie alla ridotta influenza di Hezbollah”.Il presidente uscente del Consiglio europeo Charles Michel ha rimarcato l’importanza dell’accordo di ieri sera come “un passo necessario verso la de-escalation” nello scacchiere mediorientale. Diversi osservatori ritengono, a tal proposito, che il cessate il fuoco con le milizie sciite libanesi possa preludere ad un esito analogo nella guerra di Israele contro Hamas, che da 13 mesi continua a mietere decine di migliaia di vittime (in larghissima parte civili) nella Striscia di Gaza e per la quale la Corte penale internazionale ha recentemente spiccato due mandati di cattura per Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant, accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, che proprio nelle ore precedenti l’annuncio del cessate il fuoco presiedeva la riunione dei suoi omologhi del G7 a Fiuggi, si è detto orgoglioso “di aver dato un contributo determinante a questo importante risultato”.

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    Al G7 Esteri tiene banco il rispetto del mandato d’arresto contro Netanyahu. Borrell: “Non è una scelta, ma un obbligo”

    Bruxelles – Dopo giorni di ambiguità da parte dell’Occidente, i sette grandi del mondo sono chiamati a lanciare un segnale chiaro sul mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte penali internazionale (Icc) nei confronti di Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro per la Difesa di Israele, Yoav Gallant. A incalzarli, nella riunione del G7 Esteri a Fiuggi, l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell: Per i 27 Ue “non si può scegliere”, attuare la decisione della Corte de l’Aia “è un obbligo”.Al suo arrivo al vertice, Borrell è stato chiaro: Washington può avere una posizione differente perché gli Stati Uniti non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma, fondativo dell’Icc, ma “tutti i membri dell’Unione europea l’hanno fatto e non è qualcosa che si può scegliere”. Non esiste un diritto internazionale a intermittenza: “Non si può applaudire quando la Corte va contro Putin e rimanere in silenzio quando va contro Netanyahu“, ha proseguito Borrell. Le reazioni prudenti di diversi governi occidentali – se non proprio il silenzio, scelto ad esempio dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel – sono ” il tipico esempio di due pesi e due misure per cui siamo tanti criticati”, ha sbottato il capo della diplomazia europea uscente.Finora i tre Paesi Ue nel gruppo del G7 hanno dato risposte enigmatiche. Francia e Germania su tutte, mentre oggi il padrone di casa, Antonio Tajani, ha ammesso: “Siamo amici di Israele ma penso che dobbiamo rispettare il diritto internazionale“. L’obiettivo di Borrell è tornare a Bruxelles con un messaggio unitario: “Non c’è alternativa, spero che alla fine saremo in grado di dire chiaramente che gli europei rispetteranno gli obblighi del diritto internazionale”. In gioco c’è la credibilità stessa dell’Occidente, che non può permettersi di bollare come ‘politica’ la decisione giuridica di una Corte internazionale che per la prima volta sanziona i membri di un governo di una ‘democrazia occidentale’.Tregua tra Israele e Hezbollah in Libano, Borrell: “Non ci sono scuse”Josep Borrell e Antonio Tajani al G7 Esteri a Fiuggi, 26/11/24La due giorni dei ministri degli Esteri di Stati Uniti, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Canada e Giappone a Fiuggi e Anagni si concentra inevitabilmente sulle due maggiori crisi internazionali. Ucraina e Medio Oriente. Su quest’ultimo, a tenere banco non è solo il mandato d’arresto emesso dall’Icc, ma anche la prospettiva di un cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah in Libano.Gli occhi sono puntati sulla riunione del gabinetto di sicurezza di Tel Aviv, che già questa sera è chiamato a dare l’ok alla proposta di tregua franco-americana. La proposta “dà a Israele tutti gli impegni di sicurezza che ha chiesto”, ha sottolineato Borrell, “non ci sono scuse per rifiutarla”. Tutto dipenderà dalla volontà politica del governo di Netanyahu.Il piano mediato da Eliseo e Casa Bianca prevede una tregua di 60 giorni, durante la quale le forze israeliane si ritirerebbero dal Libano del sud e i militanti di Hezbollah si ritirerebbero a nord del fiume Litani, circa 25 km a nord del confine israeliano. L’accordo prevede la creazione di un comitato di implementazione presieduto da Washington e con la partecipazione di Parigi. In modo da garantire un equilibrio tra le parti. Beirut ha accettato che gli Stati Uniti presiedano il comitato di controllo dell’applicazione del cessate il fuoco, ma ha chiesto espressamente la presenza della Francia. È questo il punto ancora in discussione, perché Israele non vuole che la Francia partecipi.Ricordando le 4 mila vittime civili e le ampie porzioni del sud del Libano rase al suolo dai bombardamenti israeliani, Borrell ha intimato: “Basta combattimenti, basta altre richieste, spero che il governo Netanyahu accetti la proposta”. L’Alto rappresentante Ue chiede onestà intellettuale da parte del G7 anche su Gaza, dove “gli aiuti sono totalmente impediti” dall’esercito israeliano. “Dobbiamo dire la verità, diamo un nome alle cose”, ha concluso Borrell.

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    Kallas, la priorità Ue è l’Ucraina: “La Russia non può vincere”. E respinge le accuse di doppi standard in Medio Oriente

    Bruxelles – Due priorità urgenti, la guerra della Russia in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente. Sulla prima pochi dubbi, Kiev “deve vincere con l’assistenza militare ed economica necessaria“, sul secondo tante incognite. Kaja Kallas, indicata dai governi dei 27 per sostituire Josep Borrell come Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, si è sottoposta questa mattina (12 novembre) allo scrutinio dell’Eurocamera, in contemporanea con l’audizione di Raffaele Fitto. Insieme all’italiano e agli altri vicepresidenti esecutivi della Commissione europea designati, Kallas dovrà attendere fino a domani – o addirittura la settimana prossima – per conoscere l’esito del suo ‘esame’.Sulla vocazione europeista dell’ex eurodeputata liberale, che a Bruxelles fa parte della famiglia politica di Renew, e sulla conoscenza del palcoscenico internazionale acquisita nei quattro anni da primo ministro dell’Estonia, nessuna perplessità. Ma il via libera a Kaja Kallas non arriverà oggi: fonti parlamentari confermano che i gruppi politici hanno deciso di valutare le audizioni dei sei vice di von der Leyen a pacchetto, per scongiurare eventuali pugnalate alle spalle, in particolare su Fitto e sulla socialista spagnola Teresa Ribera.Per Kallas, quarantasettenne “cresciuta dietro la cortina di ferro”, nell’allora repubblica sovietica di Estonia, il nemico pubblico numero uno non può che essere la Russia di Vladimir Putin. Insieme a Cina, Corea del Nord e Iran, gli attori che “mirano a cambiare l’ordine internazionale“. In quattro, producono “più munizioni dell’intera alleanza euroatlantica”, ha evidenziato la liberale estone, annunciando la stesura di un libro bianco sulla difesa nei primi cento giorni del suo mandato e una stretta collaborazione con il futuro commissario Ue alla difesa.Sull’Ucraina, Kallas si pone in piena continuità rispetto alla linea tracciata dal predecessore Borrell, fatta di sostegno economico e militare da un lato, politico e diplomatico dall’altro. “La guerra finirà quando la Russia si renderà conto di aver commesso un errore“, ha affermato Kallas, fugando ogni dubbio sulla possibilità che l’Ue avalli una trattativa di pace con Mosca che non sia “una pace sostenibile”, alle condizioni di Kiev.Anzi, secondo l’ex premier estone il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, “dovrebbe preoccuparsi di come rispondiamo alla guerra della Russia in Ucraina”, perché strettamente legata all’antagonismo tra Washington e Pechino. Per Kallas, il legame transatlantico resterà imprescindibile, perché “siamo l’alleanza più forte e dobbiamo rimanere vicini”. Agli eurodeputati sovranisti della commissione Affari Esteri (Afet) che la incalzavano sulla politica definita “fallimentare” delle sanzioni europee a Mosca, Kallas ha risposto duramente: “State solo ripetendo le false narrazioni russe”.Per Kallas, la ragione per cui non l’Ue non deve cedere e fare concessioni a Mosca è naturale: “Se l’aggressione paga da qualche parte”, sarebbe “un invito ad altri a farlo altrove”. Se la Russia ottenesse qualcosa, allora “tutti potrebbero fare guerre e prendere ciò che vogliono“. Chiarendo questo punto, Kallas ha inevitabilmente prestato il fianco alle accuse di applicare doppi standard in Ucraina e in Medio Oriente.Kallas sulla sospensione dell’Accordo Ue-Israele: “Discuterne con Tel Aviv”Accuse prontamente respinte: “Siamo il più grande donatore per l’Autorità Nazionale Palestinese e in supporto al popolo palestinese”, ha rivendicato Kallas. L’impressione però è che, proprio sulla posizione rispetto alla sproporzionata risposta militare israeliana, possa consumarsi una rottura tra il corso di Borrell e quello di Kallas a capo della diplomazia europea. Il primo che dal 7 ottobre 2023 cerca di spingere costantemente gli Stati membri ad aumentare la pressione sul governo di Netanyahu, la seconda più prudente sulle critiche a Tel Aviv.L’ex premier estone ha elencato su quali punti si basa la posizione comune Ue -“il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, l’azione umanitaria, il sostegno all’Anp e il diritto di Israele a esistere, la soluzione dei due Stati” -, ma ha preferito non rispondere a chi le chiedeva quali strumenti ha in mano Bruxelles per fare sì che Israele metta fine alla mattanza a Gaza e all’occupazione coatta dei territori palestinesi.“Sono una forte sostenitrice del diritto internazionale e umanitario, che significa proteggere la popolazione e non attaccare le infrastrutture civili”, si è difesa Kallas, che ha poi proseguito: “Siamo concentrati nel portare aiuti umanitari a Gaza, ma stiamo anche sollevando la questione con Israele“. Di mezzo c’è l’Accordo di associazione Ue-Israele, uno dei più comprensivi mai siglati da Bruxelles con un Paese partner, che prevede chiari vincoli sul rispetto dei diritti umani. E che l’Ue potrebbe sospendere alla luce delle decine di rapporti di organizzazioni internazionali che documentano le atrocità di guerra israeliane.“Dovrebbe tenersi un Consiglio di associazione con Israele in cui tutti gli Stati membri possano sollevare la questione”, ha affermato Kallas. Omettendo che lo stesso Borrell sta spingendo per discuterne senza Tel Aviv, perché il governo di Benjamin Netanyahu si è già rifiutato di partecipare a un Consiglio di Associazione dedicato al rispetto dei diritti umani. Il momento forse più controverso è però stato quando Kallas – per ben due volte – ha scelto di citare David Ben Gurion, storico primo ministro dello Stato di Israele, per dimostrare il suo attaccamento ai diritti del popolo palestinese. Lo Stato di Israele si fonda “sulla sicurezza e sulla giustizia”, Kallas ha riportato da Ben Gurion. Che però, già dopo la Nakba palestinese, si rifiuto sempre di considerare definitive le frontiere dello Stato di Israele, aprendo la strada alle annessioni successive.

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    L’Ue al lavoro per rimpatriare i rifugiati siriani, ma le ong avvertono: “Rischiano persecuzioni, la Siria non è sicura”

    Bruxelles – Creare le condizioni per il “rimpatrio sicuro, volontario e dignitoso” dei rifugiati siriani. Una strada che i governi europei sono sempre più decisi a percorrere, ora più che mai, in vista di un’eventuale ondata di arrivi di profughi siriani che scappano dal sud del Libano dilaniato dalle bombe israeliane. Il problema però – come denunciano le organizzazioni che vigilano sui diritti umani – è che la situazione a Damasco non è cambiata e i siriani che rientrano rischiano violenze e persecuzioni da parte del regime di Bashar al-Assad. O dei gruppi armati che controllano parte del territorio.L’idea di rivedere la Strategia Ue sulla Siria, relativa al 2017, circola da tempo a Bruxelles. Secondo le stime dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), i Paesi europei ospitano oltre un milione di richiedenti asilo siriani, di cui il 59 per cento solo in Germania. E il tema del rimpatrio dei rifugiati siriani “è reso ancora più urgente dell’evoluzione delle ostilità nel Medio Oriente e nel Libano”, ammettono fonti diplomatiche. Perché sempre secondo l’Unhcr, il Paese dei Cedri ospiterebbe più di un milione e mezzo di profughi dalla Siria.Già al Consiglio europeo dello scorso aprile, i leader avevano messo nero su bianco la “necessità” di mettere in moto i rimpatri “in linea con le condizioni definite dall’Unhcr“, invitando la Commissione europea a “esaminare e rafforzare l’efficacia dell’assistenza dell’Ue ai rifugiati siriani e agli sfollati in Siria e nella regione”. A luglio poi, otto Paesi membri – Italia, Austria, Croazia, Cipro, Cechia, Grecia, Slovacchia e Slovenia – hanno presentato durante una riunione dei ministri degli Esteri Ue un non paper (un documento informale) per chiedere di riconsiderare la Strategia sula Siria “nel mutato contesto regionale”, senza “legittimare in alcun modo il regime” di Assad e “senza compromessi su democrazia e diritti umani”.Bashar al-Assad, presidente della Siria dal 2000La Commissione europea sembra determinata a dare seguito alla richiesta di impostare un “approccio più realistico” alle relazioni con Damasco, una strategia “più attiva, orientata ai risultati e operativa”, con l’obiettivo di garantire il rientro sicuro dei profughi della guerra cominciata nel 2011: a quanto si apprende, nella giornata di ieri (30 ottobre), durante una riunione con gli ambasciatori dei Paesi membri, l’esecutivo Ue ha presentato un nuovo documento informale per tastare le posizioni dei 27 sul tema. Il non paper di Bruxelles rifletterebbe “in larga misura” le proposte lanciate a luglio dai governi italiano e austriaco, in particolare l’ipotesi di un Inviato speciale Ue nel Paese, il sostegno al settore privato, la cooperazione con l’Unhcr sul campo per favorire i rimpatri volontari e per sostenere l’emergenza attraverso progetti di ‘early recovery‘.Dallo scambio di opinioni tra i corpi diplomatici Ue, sarebbe emerso “ampio sostegno per il piano d’azione delineato – confermano fonti Ue -, sottolineando il coordinamento con l’Unhcr, ma anche la cautela nell’evitare qualsiasi percezione di normalizzazione delle relazioni con il regime di Assad”.D’altra parte però, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati fa notare che “nonostante una serie di iniziative politiche nell’arco del 2023, le condizioni all’interno della Siria non sono ancora favorevoli per facilitare i rimpatri volontari su larga scala in sicurezza e dignità”. Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2023 sono rientrati in Siria circa 38.300 rifugiati, in calo rispetto ai quasi 51 mila che avevano scelto di rientrare nel 2022. Per ora, l’Unhcr non ha modificato la sua posizione aggiornata al marzo 2021, secondo cui la Siria non è un Paese sicuro per i rimpatri.Una donna in un campo per gli sfollati interni siriani a Raqa (Photo by Delil SOULEIMAN / AFP)Una posizione condivisa e rilanciata da diverse organizzazioni internazionali, tra cui Human Rights Watch, che in un rapporto pubblicato ieri ha sottolineato che “i siriani che fuggono dalle violenze in Libano rischiano la repressione e la persecuzione da parte del governo siriano al loro ritorno”. Secondo la Mezzaluna Rossa Araba Siriana (Sarc), tra il 24 settembre e il 22 ottobre circa 440 mila persone – più dei due terzi siriani e i restanti libanesi – sono fuggiti dal Libano in Siria. Nonostante Damasco abbia finora mantenuto “aperte le frontiere e alleggerito le procedure di immigrazione”, Human Rights Watch sostiene che “il governo siriano e i gruppi armati che controllano alcune zone della Siria continuano a impedire alle organizzazioni umanitarie e per i diritti umani di accedere pienamente e senza ostacoli a tutte le aree, compresi i siti di detenzione, ostacolando gli sforzi di documentazione e oscurando la reale portata degli abusi”.Secondo l’organizzazione per i diritti umani chi rientra in Siria, “in particolare gli uomini, rischia detenzioni arbitrarie e abusi da parte delle autorità”. Human Rights Watch ha documentato numerosi casi di detenzioni arbitrarie, torture e uccisioni di rifugiati di ritorno dal 2017. Il rapporto punta il dito contro “alcuni leader europei” che sostengono “sempre più spesso che la Siria è sicura per i rimpatri, promuovendo politiche che potrebbero revocare le protezioni per i rifugiati, nonostante le continue preoccupazioni per la sicurezza e i diritti umani”.