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    A Ginevra la diplomazia europea cerca di salvare l’accordo sul nucleare iraniano

    Bruxelles – La diplomazia inizia a muoversi, seppur timidamente, per provare a ricomporre la crisi mediorientale. Ad una settimana esatta dall’avvio dell’aggressione israeliana contro l’Iran, i ministri degli Esteri di Parigi, Berlino, Londra e Teheran si stanno incontrando a Ginevra insieme all’Alta rappresentante Ue per cercare di mantenere aperta la pista negoziale. Nel frattempo, gli Usa prendono tempo prima di scendere in campo a fianco dello Stato ebraico, mentre la Russia prova (almeno a parole) a fissare dei paletti all’escalation.Esattamente una settimana dopo l’inizio della guerra scatenata da Benjamin Netanyahu contro l’Iran, i titolari degli Esteri di Francia, Germania, Regno Unito e Iran – Jean-Noël Barrot, Johann Wadephul, David Lammy e Abbas Araghchi – si sono dati appuntamento oggi (20 giugno) a Ginevra, alla presenza anche del capo della diplomazia a dodici stelle, Kaja Kallas.L’incontro, che si sta svolgendo in queste ore presso la sede della rappresentanza tedesca alle Nazioni Unite, ha l’obiettivo di aprire un canale negoziale formale per cercare di fornire una risposta politica alla pericolosissima escalation che sta infiammando il Medio Oriente. Nessuno si aspetta svolte eclatanti dai colloqui, ma è sicuramente incoraggiante vedere che la diplomazia multilaterale prova a crearsi uno spazio e a mantenere attivo il dialogo mentre continuano a cadere le bombe da una parte e dall’altra.We, Europeans, are engaging in dialogue with Iran to de-escalate the situation.The only possible way forward is dialogue. pic.twitter.com/JjRA6E1ZV3— Jean-Noël Barrot (@jnbarrot) June 20, 2025Per ora, questo è il massimo che si può ottenere. È lo stesso Araghchi, del resto, a ribadire che Teheran non accetterà di negoziare con Washington finché lo Stato ebraico continua le sue operazioni, bollandole come un “tradimento” del processo diplomatico in corso tra Iran e Stati Uniti.Gli europei stanno cercando tra mille difficoltà di far ripartire le trattative sul binario, che sembrava morto, del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), lo storico accordo del 2015 stipulato da Usa e Iran con la mediazione di Francia, Germania e Regno Unito (il cosiddetto formato E3) più Unione europea, Russia e Cina. Nel 2018, fu Donald Trump a ritirare Washington dall’accordo: da quel momento le trattative entrarono in una fase di stallo prolungato, dalla quale il tycoon stava cercando di uscire prima dell’attacco israeliano.Le cancellerie del Vecchio continente provano così a smarcarsi e a definire una propria posizione autonoma dalla Casa Bianca, dopo essersi appiattiti per anni sulla linea dello zio Sam. Ma l’Iran non è un cliente facile per nessuno e in ogni caso gli ayatollah percepiscono gli europei come troppo vicini allo Stato ebraico.Difficile contestare quest’ultimo punto, se si considera la fatica che stanno facendo i Ventisette a rimettere in discussione l’accordo di associazione con Tel Aviv, per non parlare delle sanzioni ai membri più estremisti del governo israeliano o, addirittura, dell’arresto di Netanyahu in ottemperanza al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto via Imagoeconomica)Del resto, la posizione ufficiale di Bruxelles rimane sempre la stessa: lo Stato ebraico ha il diritto di difendersi – seppur entro i limiti del diritto internazionale, come è recentemente riuscita ad ammettere la stessa Kallas dopo sette mesi in carica – e l’Iran non può in alcun modo mettere le mani sull’arma atomica.Sull’altra sponda dell’Atlantico, intanto, Trump non ha ancora deciso se entrare in guerra al fianco del suo storico alleato e dice di voler rimandare la questione di un paio di settimane. Da un lato, il tycoon starebbe aspettando di vedere se quello di Ginevra è un bluff, sostenendo di voler lasciare spazio alla pista negoziale. Dall’altro, non vuole rischiare di perdersi per strada l’ala più oltranzista del popolo Maga, ferocemente contraria a qualunque intervento militare all’estero.Per il momento, il Pentagono ha iniziato a muovere i propri asset nell’Oceano Indiano, ottenendo da Londra l’autorizzazione ad utilizzare le basi militari di Sua Maestà nell’eventualità di dover impiegare i bombardieri B-2 Spirit, gli unici in grado di sganciare le bombe bunker buster per colpire gli impianti di arricchimento sotterranei di Fordo, protetti dalle montagne a sud di Teheran.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Il Cremlino nel frattempo indica la sua linea rossa. Se Israele procederà ad assassinare il leader supremo della Repubblica islamica Ali Khamenei (come suggerito dal ministro degli Esteri Israel Katz, per essere smentito nel giro di qualche ora dal capo dello Stato Isaac Herzog), ammonisce Vladimir Putin, verrà scoperchiato il “vaso di Pandora” e la situazione precipiterà in maniera incontrollabile. Lo zar, almeno stando alle ultime indiscrezioni mediatiche, avrebbe presentato alle dirigenze israeliana e iraniana delle proposte alternative a quelle in discussione a Ginevra per una soluzione negoziata della crisi.Sulla carta, la Russia è uno degli alleati più stretti dell’Iran, dal quale compra i famigerati droni suicidi Shahed con cui attacca quotidianamente l’Ucraina. Ma diversi osservatori mettono in dubbio la reale intenzione di Mosca – al netto delle sue concrete capacità – di scendere in campo in aiuto degli ayatollah se la situazione dovesse peggiorare ulteriormente.Non è detto, ad esempio, che la difesa dell’alleato sciita valga più del mantenimento di rapporti tutto sommato buoni con Tel Aviv, così come sarebbe problematico per Putin inimicarsi il presidente statunitense in una fase in cui si sta dimostrando particolarmente indulgente nei confronti della Federazione.

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    Medio Oriente, l’Europa tenta la carta negoziale. Convocati a Ginevra colloqui diretti con l’Iran sul programma nucleare

    Bruxelles – La diplomazia prova a battere un colpo. A una settimana dall’inizio della guerra di Israele contro l’Iran, gli europei cercano di far ripartire le trattative sul nucleare di Teheran, convocando a Ginevra un round di negoziati con gli emissari della Repubblica islamica. È una corsa contro il tempo per scongiurare il rischio, sempre più reale, che l’intero Medio Oriente esploda nuovamente in un’escalation incontrollabile.La notizia è arrivata nel cuore della notte, nelle prime ore di oggi (19 giugno): i ministri degli Esteri di Parigi, Berlino e Londra (rispettivamente Jean-Noël Barrot, Johann Wadephul e David Lammy) hanno dato appuntamento al loro omologo iraniano Abbas Araghchi per domani a Ginevra, nel tentativo di riportare la Repubblica islamica al tavolo delle trattative e ridare vita al processo negoziale sul suo programma nucleare. Ai colloqui, confermati da Teheran in mattinata, prenderà parte anche Kaja Kallas, la responsabile dell’azione esterna dell’Ue.L’Europa cerca uno spazio diplomaticoSi tratta della prima iniziativa diplomatica dall’inizio della guerra, innescata dall’aggressione israeliana dello scorso 13 giugno. “La diplomazia europea è completamente mobilitata“, affermano i portavoce dell’esecutivo comunitario, i quali fanno sapere che l’Alta rappresentante è in contatto costante con tutti gli interlocutori regionali, inclusi i Paesi arabi del Golfo. “L’Ue contribuirà a tutti gli sforzi diplomatici volti a ridurre le tensioni e a trovare una soluzione duratura alla questione nucleare iraniana, che potrà essere raggiunta solo attraverso un accordo negoziato”, ripetono dal Berlaymont.Kallas, insieme ai suoi omologhi francese, tedesco e britannico, ha sentito al telefono Araghchi lunedì (16 giugno) per ribadirgli le “preoccupazioni di lunga data” riguardo al programma di arricchimento dell’uranio degli ayatollah, che “supera ampiamente qualsiasi scopo civile credibile, e al continuo mancato rispetto da parte dell’Iran dei suoi obblighi” nel quadro degli accordi multilaterali cui si è vincolato, nello specifico il Joint comprehensive plan of action (Jcpoa) e il trattato di non-proliferazione nucleare.Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi (foto: Anwar Amro/Afp)Il confronto è avvenuto il giorno prima del Consiglio Affari esteri straordinario dedicato specificamente all’escalation in Medio Oriente. Secondo l’ex premier estone una composizione politica della crisi è l’unica possibilità, poiché una continuazione delle operazioni militari – o peggio ancora un loro allargamento, nel caso di un coinvolgimento statunitense – diventerebbe incontrollabile e “non è nell’interesse di nessuno”. La posizione ufficiale di Bruxelles rimane dunque la stessa: no ad un Iran con la bomba atomica, sì alla de-escalation.Il dialogo sul programma atomico di Teheran procedeva con alti e bassi da un paio di decenni – dopo che la guida spirituale iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, vietò tramite fatwa lo sviluppo di ordigni nucleari – e sembrava essere giunto ad una svolta storica nel 2015, quando gli Stati Uniti di Barack Obama stipularono con la Repubblica islamica il Jcpoa, mediato dagli europei (Francia, Germania e Regno Unito, nel cosiddetto formato E3, più l’Ue) insieme a Russia e Cina. Fu proprio Donald Trump, nel 2018, a ritirare Washington dall’accordo. Le trattative con l’Iran entrarono a quel punto in una fase di stallo prolungato, dalla quale il tycoon stava cercando di uscire prima dell’attacco israeliano.Il fattore TrumpIn questa fase, tuttavia, Trump non sembra particolarmente interessato a riprendere il dialogo con Teheran. Stando alle ricostruzioni mediatiche circolate nelle ultime ore, il presidente (trinceratosi nella situation room della Casa Bianca per una serie di incontri col suo Stato maggiore) starebbe valutando un potenziale intervento militare al fianco di Israele.Sarebbe dubbioso, pare, circa l’utilizzo degli ordigni cosiddetti bunker buster (nome tecnico GBU-57A/B MOP) per colpire gli impianti sotterranei di Fordo, ad una sessantina di metri di profondità in mezzo alle montagne a sud di Teheran. Gli Usa sono i soli al mondo a possederli e a poterli trasportare, tramite i bombardieri stealth B-2 Spirit, quelli già visti in azione in Iraq nel 2003.Il presidente statunitense Donald Trump (foto: Brendan Smialowski/Afp)Per ora si tiene strette le sue carte, il tycoon, mantenendo l’ambiguità strategica attraverso una comunicazione volutamente contraddittoria. Del resto, lo stesso popolo Maga è spaccato sulla questione. Ma il tempo stringe e aumenta la pressione sull’uomo più potente del mondo perché prenda una decisione. “Potrei farlo, potrei non farlo. Nessuno sa cosa farò“, ha tagliato corto Trump rispondendo ai giornalisti che ieri gli chiedevano se intendesse unirsi ai bombardamenti dello Stato ebraico.D’altra parte, la dirigenza iraniana ha minacciato cruenti rappresaglie contro le basi Usa nella regione se Washington prenderà parte al conflitto: “Se gli Stati Uniti intendono entrare in campo al fianco del regime sionista”, ha ammonito il viceministro degli Esteri Kazem Gharibabadi, Teheran “insegnerà una lezione agli aggressori e difenderà la propria sicurezza nazionale”. Un’altra opzione sul tavolo della Repubblica islamica potrebbe essere la chiusura dello Stretto di Hormuz, attraverso il quale passa circa un quinto del commercio globale di petrolio e gnl, ma sarebbe probabilmente un’extrema ratio che finirebbe per danneggiare la stessa economia iraniana.Teheran verso la bomba?Per il sesto giorno di fila, intanto, i due belligeranti continuano a scambiarsi missili colpendo obiettivi militari, infrastrutture strategiche e strutture civili. La fine delle ostilità non appare in vista, mentre il ministro degli Esteri di Tel Aviv, Israel Katz, esce allo scoperto e conferma esplicitamente che l’eliminazione del leader supremo Khamenei “fa parte della campagna militare” dello Stato ebraico: “Quest’uomo, che intende attaccarci, non deve restare vivo“, ha detto.Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha giustificato l’attacco preventivo – una pratica estremamente controversa sotto il profilo del diritto internazionale – sostenendo che l’Iran, acerrimo nemico di Israele, fosse prossimo a costruire (almeno) un ordigno nucleare, senza fornire alcuna prova. Richiamando pertanto il parallelo con la fialetta di antrace agitata all’Onu 22 anni fa dall’allora segretario di Stato Usa Colin Powell, mentre accusava l’Iraq di Saddam Hussein di possedere armi chimiche di distruzione di massa. Che in realtà, come si scoprì in seguito, non erano mai esistite.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Menahem Kahana/Afp)Rafael Grossi, il capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), si sta sperticando da giorni precisando di non aver mai asserito che l’Iran stesse assemblando testate atomiche. “Non abbiamo prove di un programma sistematico per una bomba”, ha dichiarato. Gli ispettori Onu avevano rilevato che la percentuale di arricchimento dell’uranio stava superando il 60 per cento e si avvicinava al 90 per cento (la soglia fatidica per produrre le testate nucleari), ha concesso Grossi, “ma per l’arma servono altri passaggi”. “Non è questione di giorni, ma di anni, forse non pochi“, osserva.Peraltro, le dichiarazioni del premier israeliano erano state smentite mesi fa dagli stessi servizi a stelle e strisce. La direttrice dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard aveva riferito lo scorso marzo di non essere a conoscenza di piani operativi della Repubblica islamica per costruire la bomba, e che se anche ci fossero stati ci sarebbero voluti, appunto, diversi anni per realizzarli. Trump, che ha spalleggiato Netanyahu sulla questione, ha liquidato il rapporto di Gabbard in questi termini: “Non m’interessa cos’ha detto, io credo che (gli iraniani, ndr) fossero molto vicini” a confezionare l’ordigno.

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    Alla fine Kallas critica Netanyahu: “Israele deve difendersi, ma è andato oltre”

    dall’inviato a Strasburgo – “Quando è troppo è troppo. Israele ha il diritto di difendersi, ma quanto vediamo va al di là di questo diritto“. Alla fine Kaja Kallas riconosce pubblicamente le responsabilità dello Stato ebraico nella gestione della risposta agli attacchi di Hamas. L’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue critica l’operato del governo di Benjamin Netanyahu nell’Aula di un Parlamento europeo che su questo l’ha incalzata, costringendola di fatto a esprimersi. All’orizzonte, c’è il Consiglio Ue Affari Esteri del prossimo 23 giugno, in cui Kallas svelerà le conclusioni sulla possibile revisione dell’accordo di associazione Ue-Israele.Il dibattito tematico sulla situazione a Gaza è stato chiesto e ottenuto dal gruppo de laSinistra, che da Kallas ottiene quelle parole dure poco udite finora. Sì, l’Alta rappresentante ribadisce che “Israele ha il diritto di vivere, ma nessuno deve vivere nel terrore”. Una critica ad Hamas, che l’Ue riconosce come organizzazione terroristica, e dunque, sì, parole a sostegno dello Stato ebraico. “Dobbiamo fare pressione su Hamas, e in tal senso il mondo arabo può giocare un ruolo” importante, continua Kallas, attenta a usare toni comunque concilianti nei confronti del partner israeliano, a cui comunque non risparmia critiche e condanne.Il re di Giordania critica Israele e sprona l’Ue: “A Gaza una versione vergognosa dell’umanità”“Fermare gli aiuti mina decenni di impegni per il diritto umanitario”, scandisce. E’ questa una censura al governo di Netanyahu per il blocco di ciò che serve per la popolazione civile. “C’è un inaccettabile numero di morti”, continua l’Alta rappresentante. Che critica ancora: “Israele ha dichiarato che vuole il completo controllo della Striscia di Gaza, e questo è violazione del diritto internazionale, e va chiamato con il suo nome“. Vanifica anche gli sforzi diplomatici della stessa Ue per una pace duratura in Medio Oriente. “La soluzione a due Stati è l’unica possibile“.C’è poi la questione del fanatismo ebraico, che a detta di Kallas non viene affrontato da chi di dovere, vale a dire il capo di governo israeliano e il collegio dei ministri. “La violenza dei coloni sta aumentando, e questo è inaccettabile”, affonda ancora, e ricorda che “la distruzione delle case sta portando a sfollati” palestinesi. “Israele deve contrastare i suoi stessi estremisti“.Gli affondi di Kallas contro l’attuale leadership israeliana non impediscono all’Alta rappresentante di uscire dall’emiciclo senza critiche. Al contrario, si abbattono su di lei con forza. Inizia Manon Aubry, la co-presidente de laSinistra, che apre il dibattito in quanto rappresentante del gruppo che ha richiesto la discussione. “Genocidio. Genocidio. Lo ripeto perché in questi mesi non avete mai usato questo termine”, l’esordio della francese, che quindi accusa: “Basta con questa complicità, perché lei è complice di tutto questo, con il suo silenzio“. In realtà, precisa immediatamente dopo la stessa Aubry, “l’Ue e i leader europei sono direttamente complici di genocidio”, e responsabili di ipocrisia: “Contro la Russia sono stati adottati 17 pacchetti di sanzioni, contro Israele, che sta compiendo genocidio, neanche un pacchetto. Questo è il doppio standard dell’Ue”.L’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Kaja Kallas [Strasburgo, 18 giugno 2025]Per i socialisti è l’occasione per tornare a chiedere interventi seri. “Netanyahu deve smetterla con questa carneficina. Dobbiamo imporre sanzioni a tutti i membri del governo”, sostiene Evin Incir. Richieste di sanzioni arrivano, con altri toni, dal collega di partito Nacho Amor Sanchez: “Si possono chiudere gli occhi davanti a tutto quello che sta accadendo? Il doppio standard è il cancro di questa Unione”.Anche i liberali europei non risparmiano critiche, che sono per Kallas e la linea morbida dell’esecutivo comunitario di cui l’Alta rappresentante fa parte. “Ogni giorno che passa l’Ue diventa complice di un genocidio“, lamenta Hilde Vautmans (Re). “Si, Israele può usare la forza per liberare gli ostaggi, ma Netanyahu sta punendo tutti i palestinesi, la fame è usata come strategia. Questa non è difesa. E’ tempo per sanzioni mirate sul governo, su chi impedisce agli aiuti di entrare, sospende l’accordo con Israele”. Si unisce Tieneke Strik (Verdi) a ricordare a Kallas che “Netanyahu commette crimini di guerra, e attacca l’Iran”, ed evidenziando che “questa non è difesa, è prevaricazione del diritto internazionale”. Chiede “azioni concrete”, che vuol dire sanzioni, contro Israele. Persino il Ppe chiede un cambio di passo: “Non possiamo essere l’Europa dei valori solo a parole”, incalza Sean Kelly, anch’egli convinto che “ignorare quanto accade a gaza sarebbe tradire tutto ciò per cui l’Ue è stata creata”.Kallas ascolta tutti gli interventi, e attende il momento della replica. Innanzitutto ricorda all’intera Aula che “non rappresento me stessa, ma 27 Stati membri“. Lo ricorda a quanti invocano misure restrittive. “Sulle sanzioni decidono gli Stati all’unanimità”, ricorda, e nel farlo spiega che prima di promettere qualcosa occorre avere la certezza che esistano le condizioni per potersi esporre. “Perché dovrei spingere per qualcosa che poi non avverrà?”, chiede, a proposito di un’unità che non c’è. “Fate pressione sui vostri governi”, l’invito agli europarlamentari. Quindi prova a difendere sé stessa: “Non sono mai stata in silenzio. Ho lavorato per alleviare le sofferenze di quanti vivono in Palestina”.

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    La giravolta dell’Ue: gli euroscettici difendono il progetto originario di pace, gli europeisti si preparano alla guerra

    dall’inviato a Strasburgo – I principali gruppi politici in Parlamento, quelli tradizionalmente più intrisi di europeismi, spingono per un confronto deciso e muscolare con la Russia, mentre le forze più euro-scettiche invitano a restare ancorati al progetto di pace dei padri fondatori: il dibattito d’Aula sul vertice dei leader della Nato produce un testa-coda politico non indifferente, con ruoli che si scambiano e posizioni che si confondono. Il ‘la’ lo offre l’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Kaja Kallas, quando afferma che “la Russia è una minaccia diretta per l’Europa, pone una minaccia globale a 360 gradi”, e che per effetto delle manovra del Cremlino “siamo in guerra“.L’estone infiamma il dibattito, inevitabilmente. Come sempre, in questi casi, il palcoscenico politico si divide tra chinritiene necessario armarsi e pacifisti: tra i primi figurano popolari (Ppe), socialisti (S&D), liberali (Re), conservatori (Ecr) verdi; tra i secondi la sinistra radicale (laSinistra), sovranisti (Pfe), euro-scettici (Esn).Kubilius: “Dobbiamo essere pronti per la difesa in tutti i campi, mettere da parte i tempi di pace”“Dobbiamo condividere responsabilità e costi, l’Ue deve contribuire di più”, sottolinea Michael Gahler (Ppe), che sposa la linea e la visione di Kallas. Il belga Wouter Beke (Ppe), lo fa anche di più: “Il vertice Nato si terrà a l’Aia, dove nel 1948 Winston Churchill invitò a creare un esercito comune. La maniera migliore per garantire la nostra sicurezza è ascoltare quelle parole”. “Spero che i leader si accordino per aumento delle spese in difesa”, auspica il socialista Sven Mikser (S&D), a cui fa eco il conservatore Adam Bielan: “Sosteniamo il dibattito sull’aumento della spesa del 5 per cento di Pil, perché dobbiamo fare di più per la nostra difesa”. Anche i liberali, attraverso Dan Barna, spingono per un’Europa di guerra: “Dobbiamo spendere di più. E’ ciò che dobbiamo pagare per la nostra libertà”. Per Lucia Yar “non è più una questione di ‘se’, è una questione di ‘quanto rapidamente’ sapremo aumentare la nostra spesa militare: la nostra sicurezza non è gratis”. La presidente di Re, Valery Hayer, aggiunge: ” Il 5 per cento di spesa non è abbastanza per la nostra strategia: serve un mercato unico, risorse per l’ingresso dell’ucraina”. Anche tra i Verdi c’è chi dà ragione all’Alta rappresentante: “La nostra minaccia si chiama Russia, e dobbiamo fare come l’ucraina: avere determinazione”, sottolinea  Martins Stakis. Il verde olandese Reinier Van Lanschot rilancia: “Serve un deterrente nucleare europeo, e un comando militare europeo” all’interno della Nato.Harald Vilimsky, dei Patrioti, non ci sta: “L’Ue è basata sulla pace, non è un’alleanza militare. Dobbiamo riportare l’Ue alla sua versione originale di pace“. E attacca l’intero blocco euro-atlantico: “L’espansione della Nato verso est ha prodotto la guerra russo-ucraina”. L’euro-scettico Milan Uhrik (Esn), invece, attacca direttamente l’Alta rappresentante: “Kallas, lei è conosciuta per il suo fanatismo e il suo spirito anti-russo, e viene qui a chiedere di spendere soli per armi. Chi paga? Non possiamo sostenere questa spesa se riduce lo standard di vita”. Il collega Petar Volgin ragiona a voce alta: “Dopo la fine della guerra fredda la Nato si sarebbe dovuta sciogliere, come il patto di Varsavia. Se l’avessimo fatto, evitando di espanderci a est, oggi non avremmo il rischio di una terza guerra mondiale”.La liberale Lucia Yar durante il suo intervento in Aula [Strasburgo, 18 giugno 2025]Dai banchi de laSinistra giungono le critiche di Ozlem Demirel: “Von der Leyen vuole migliaia di miliardi spesi in difesa nei prossimi anni, quanti ne servono per combattere la povertà. Vogliamo guerra e debito, che poi verrà pagato dalle generazioni future. Non è giusto”. Ancora più duro il collega di gruppo Marc Botenga: “Dobbiamo essere onesti: la spesa in armi non è per la difesa, ma per l’attacco. Iran oggi, Cina domani. Questa non è la nostra guerra!”. Quindi l’avvertimento agli strenui difensori delle ‘ragioni’ della linea dura: “La Nato è guidata da una persona che si atteggia a gangster”, ricorda Botenga, in una chiara critica al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Rincara la dose Irene Montero (laSinistra): “Oggi sono Israele gli Stati Uniti la vera minaccia”.Verdi e socialisti, i tentennamenti interniNel dibattito accesso filtrano comunque le divisioni interne ai partiti. Il primo a mostrare le incertezze politiche e di coscienza è Bas Eickhout, co-presidente del Verdi: “Possiamo spendere quanto vogliamo in armi e carrarmati ma non avremo vera sicurezza finché non avremo il sostegno dei nostri cittadini, finché loro avranno un tetto sulla testa e potranno pagare le bollette”. C’è sempre più una realtà che avanza, fatta di tagli di spesa dove la gente comune toccherà con mano il cambio di passo dell’Europa. Da qui l’dea dei greens: “Dobbiamo imporre tasse sugli extra-profitti dell’industria della difesa“, così da non gravare sulla cittadinanza.Riflessione analoga quella di Irene Tinagli (S&D). La presidente della commissione speciale per la Crisi abitativa spiega a Eunews che “la sicurezza è importante, ma se non risponde alle esigenze delle persone si perde il consenso e investire nel militare diventa inutile”.

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    Israele-Iran, Kallas predica “de-escalation” e “diplomazia”. Ma l’Ue non ha una vera strategia

    Bruxelles – Mentre non accenna a fermarsi l’escalation in Medio Oriente, l’Ue tenta di trovare un punto di caduta. Ma non c’è nulla di nuovo sul piatto dei ministri degli Esteri, riunitisi oggi per una sessione d’emergenza, oltre alle solite dichiarazioni trite e ritrite. Kaja Kallas parla di de-escalation e moderazione nello stesso momento in cui Benjamin Netanyahu minaccia di assassinare il leader iraniano Ali Khamenei e Donald Trump ingiunge alla Repubblica islamica di abbandonare completamente qualsiasi programma nucleare.Parlando ai giornalisti al termine del Consiglio Affari esteri straordinario riunitosi stamattina (17 giugno) in formato virtuale per discutere della guerra scatenata da Israele contro l’Iran, l’Alta rappresentante Kaja Kallas ha reiterato per l’ennesima volta le stesse formule, ormai quasi stucchevoli, che i vertici comunitari, gli Stati membri e i leader del G7 stanno ripetendo da giorni.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Consiglio europeo)L’Ue, ha detto l’ex premier estone, “chiede a entrambe le parti di rispettare il diritto internazionale e dare prova di moderazione“. La riunione odierna è stata utile, ha spiegato Kallas, anche per “coordinare gli Stati membri nell’evacuazione dei nostri cittadini dalla regione“, scopo per cui l’Ue ha attivato il meccanismo di protezione civile.La pista negoziale: il nodo del nucleare iranianoLe discussioni si sono incentrate “su cosa possiamo fare per facilitare la de-escalation“, ha spiegato. Bruxelles, sottolinea Kallas, “sostiene una soluzione diplomatica” su tutti i fronti: sia per quel che riguarda la guerra in corso, ormai al suo quinto giorno, sia per riportare in carreggiata il processo negoziale relativo al programma nucleare di Teheran. “Ora che i colloqui tra Iran e Stati Uniti si sono interrotti, l’Ue ha un ruolo da giocare“, dice, annunciando di essere in contatto con le controparti israeliana e iraniana nonché coi partner locali, poiché “la stabilità della regione è nell’interesse di tutti“. E tale stabilità, osserva, passa per un Iran senza bomba atomica.Sul tema, l’approccio di Bruxelles pare meno tranchant rispetto a quello di Washington. Se l’inquilino della Casa Bianca ha intimato alla dirigenza di Teheran di rinunciare completamente a qualunque forma di arricchimento dell’uranio (incluso per scopi civili), Kallas ammette di aver “avuto discussioni con l’Iran riguardo al suo programma nucleare“, dando conto delle diverse sensibilità sulle due sponde dell’Atlantico: “Gli Stati Uniti parlano per sé“, rimarca, e non anche per i Ventisette.Il presidente statunitense Donald Trump (foto: Brendan Smialowski/Afp)L’Alta rappresentante ha definito “deplorevole” il ritiro degli Usa dal Joint comprehensive plan of action (Jcpoa) nel 2018, deciso dallo stesso Donald Trump durante il suo primo mandato. Le trattative bilaterali tra Washington e Teheran per trovare una nuova intesa, in sostituzione dello storico accordo del 2015 (mediato proprio dall’Ue), erano giunte ad un punto morto nelle scorse settimane. Un paio di mesi fa, il presidente statunitense aveva lanciato un ultimatum alla dirigenza iraniana, allo scadere del quale sono arrivate, puntuali, le bombe dello Stato ebraico.Il fronte militareBenjamin Netanyahu ha giustificato quell’attacco preventivo – una pratica controversa sotto il profilo del diritto internazionale – sostenendo che la Repubblica islamica sarebbe stata ad un passo dalla bomba atomica, con la quale avrebbe minacciato direttamente l’esistenza di Israele. Ma la stessa intelligence a stelle e strisce segnalava da mesi che sarebbero serviti almeno tre anni agli ayatollah per costruire un ordigno e usarlo contro i propri nemici.Ad ogni modo, l’Alta rappresentante considera che un intervento diretto degli Stati Uniti a fianco dello Stato ebraico “trascinerebbe l’intera regione in un conflitto più ampio e questo non è nell’interesse di nessuno“, ricordando che da Teheran è giunta la disponibilità a fermare i missili se Israele sospende i bombardamenti.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto via Imagoeconomica)Ma Kallas non è stata in grado di definire nello specifico quali iniziative diplomatiche l’Ue abbia in programma, o in quali modi intenda “esercitare pressione” sui belligeranti per ottenere la conclamata de-escalation. Nel frattempo, nonostante il “veto” che Trump sostiene di aver posto su un’operazione simile, le alte sfere di Tel Aviv continuano ad accarezzare l’idea di assassinare la guida suprema iraniana Ali Khamenei.Per quest’ultimo, dicono, potrebbe essere in serbo una sorte simile a quella di Saddam Hussein, il dittatore iracheno deposto e giustiziato in seguito all’invasione del 2003 del Paese del Golfo ad opera della coalizione dei volenterosi – l’originale – guidata dagli Stati Uniti. Un parallelo interessante, considerato che quella guerra fu giustificata con il presunto possesso da parte di Baghdad di armi di distruzione di massa che in realtà non erano mai esistite.Da Gaza a Kiev (e Mosca)I ministri degli Esteri hanno anche discusso, brevemente, della catastrofe umanitaria che continua a consumarsi nella Striscia, messa in secondo piano dall’escalation militare ordinata da Netanyahu. “Non lasceremo cadere l’attenzione su Gaza“, ha ribadito il capo della diplomazia a dodici stelle, ripetendo la necessità che venga “garantito immediatamente l’ingresso degli aiuti umanitari e messo in piedi un cessate il fuoco completo” che includa il rilascio di tutti gli ostaggi. La revisione dell’accordo di associazione Ue-Israele, su cui stanno lavorando i servizi della Commissione, sarà invece sul tavolo del Consiglio Affari esteri di lunedì prossimo (23 giugno).Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Infine, c’è stato tempo anche per menzionare la guerra in Ucraina. Nelle scorse ore, ha detto Kallas, la Russia ha condotto su Kiev uno dei raid più devastanti da oltre tre anni a questa parte, dimostrando di non essere interessata ad alcuna tregua. Pertanto, taglia corto l’Alta rappresentante, Vladimir Putin non può in alcun modo essere investito del ruolo di mediatore nel conflitto tra Tel Aviv e Teheran, come recentemente suggerito da Trump e, anzi “dobbiamo mantenere la pressione” sul Cremlino.Tradotto: avanti tutta con l’approvazione del 18esimo pacchetto di sanzioni. Che però è destinato a rimanere zoppo, dato che il tycoon ha confermato di non appoggiare una delle sue componenti centrali, cioè l’abbassamento del tetto al prezzo del greggio russo da 60 a 45 dollari al barile (sul quale devono essere d’accordo tutti i partner G7). Secondo Kallas, “dovremmo andare avanti” sul price cap, e l’escalation mediorientale fornisce una ragione in più: “Proteggere la stabilità dei mercati globali dell’energia“. Non è chiaro, tuttavia, come i Ventisette possano implementare autonomamente una misura del genere senza coordinarsi con Washington.

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    Israele attacca l’Iran: “Stanno costruendo la bomba”. L’Ue non condanna Tel Aviv ma esorta alla de-escalation

    Bruxelles – Israele alza la posta e allarga la già acuta crisi in Medio Oriente, attaccando direttamente l’Iran. La notte scorsa, Tel Aviv ha avviato un’azione militare su larga scala contro il suo storico rivale regionale che, nelle parole dello stesso Benjamin Netanyahu, durerà per tutto il tempo necessario. Con i suoi “attacchi preventivi”, lo Stato ebraico starebbe puntando ad impedire alla Repubblica islamica di costruire la bomba nucleare. Dall’Ue arrivano reazioni miste, ma tutti esortano le parti ad impegnarsi nella de-escalation.L’attacco di Tel Aviv (e la risposta di Teheran)Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, le forze armate israeliane (Idf) hanno avviato una pesante campagna di bombardamenti sull’Iran, allargando pericolosamente l’escalation militare all’intera regione mediorientale. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha presentato l’operazione Leone rampante come un’azione preventiva per garantire la sicurezza dello Stato ebraico, che sarebbe minacciata dall’avanzamento del programma nucleare militare di Teheran.Moments ago, Israel launched Operation “Rising Lion”, a targeted military operation to roll back the Iranian threat to Israel’s very survival.This operation will continue for as many days as it takes to remove this threat.——Statement by Prime Minister Benjamin Netanyahu: pic.twitter.com/XgUTy90g1S— Benjamin Netanyahu – בנימין נתניהו (@netanyahu) June 13, 2025L’operazione continuerà “per tutti i giorni necessari”, ha dichiarato Netanyahu (sul cui capo pende dallo scorso novembre un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale): se lasciata incontrollata, sostiene, “la crescente gittata dei missili balistici iraniani porterebbe l’incubo nucleare nelle città europee e, alla fine, anche in America“.L’esercito di Tel Aviv ha fatto alzare in volo più di 200 aerei, colpendo un centinaio di obiettivi tra siti nucleari (incluso quello di Natanz, il più grande del Paese), impianti missilistici e della contraerea, depositi di armi ma anche zone residenziali in tutta la Repubblica islamica. L’Idf ha confermato di aver assassinato “i tre più alti comandanti militari” di Teheran, tra cui il comandante delle Guardie rivoluzionarie Hossein Salami e il capo di Stato maggiore dell’esercito Mohammad Bagheri, nonché una mezza dozzina di scienziati sospettati di avere un ruolo chiave nell’arricchimento dell’uranio degli ayatollah.Per l’ennesima volta, Tel Aviv aumenta così drasticamente la tensione nell’intera regione, dopo oltre un anno e mezzo di crimini di guerra e contro l’umanità portati avanti nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania accompagnati da bombardamenti a tappeto e incursioni terrestri in Libano e Siria.Uno degli edifici colpiti dagli attacchi israeliani a Teheran, il 13 giugno 2025 (foto: Atta Kenare/Afp)In risposta ai bombardamenti notturni, Teheran ha promesso un’immediata rappresaglia che è in effetti già in corso, affidata ad almeno un centinaio di droni. Il leader supremo Ali Khamenei ha annunciato “una punizione severa”, mentre l’esercito iraniano ha parlato di una risposta “letale”. Israele è entrato stamattina in lockdown, con le strade delle principali città deserte e le autorità che suggeriscono agli abitanti di rimanere chiusi in casa e dotarsi di scorte di cibo sufficienti per un paio di settimane. Lo Stato ebraico e la vicina Giordania stanno al momento intercettando i droni iraniani nei rispettivi spazi aerei.Le reazioni dai leader mondiali e dall’UeNelle ultime ore si sono moltiplicate le reazioni da parte dei leader mondiali, che richiamano entrambi i Paesi alla moderazione per prevenire l’ennesima, devastante escalation. La Turchia condanna le “azioni aggressive” di Israele, mentre il premier britannico Keir Starmer (il cui governo ha recentemente sanzionato due membri dell’esecutivo israeliano) ha definito “preoccupanti” gli attacchi.Dai vertici dell’Ue arrivano commenti decisamente più indulgenti. Per la presidente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen, tutte le parti devono “dare prova di massima moderazione, allentare immediatamente la tensione e astenersi da ritorsioni“. Un messaggio replicato anche dal presidente del Consiglio europeo, António Costa, secondo cui “è necessario evitare un’ulteriore pericolosa escalation“, mentre l’Alta rappresentante Kaja Kallas si dice “pronta a sostenere qualsiasi sforzo diplomatico volto a ridurre la tensione“. I portavoce della Commissione e del Servizio di azione esterna (Seae) hanno confermato di essere in contatto con entrambe le parti (Kallas avrebbe avuto un colloquio in mattinata con il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar), ma si sono rifiutati di fornire “qualsiasi valutazione sulla compatibilità degli attacchi israeliani con il diritto internazionale“.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Consiglio europeo)Più critici gli eurodeputati italiani di centro-sinistra, che da qualche tempo stanno alzando la voce sulla necessità che Bruxelles sospenda l’accordo di associazione con Tel Aviv: quest’ultimo si trova attualmente in fase di revisione, ma per metterlo in pausa serve l’unanimità dei Ventisette, che rimane una chimera. Pierfrancesco Maran (Pd) suggerisce di “interrompere le forniture militari ad Israele“, mentre il suo gruppo (S&D) si limita a chiedere la sospensione delle relazioni commerciali con lo Stato ebraico. Leoluca Orlando (Avs) predice “effetti più imprevedibili ed estesi di quelli della guerra in Ucraina“, bollando l’esecutivo di Netanyahu come “un insulto alla cultura ebraica”.Per la delegazione del M5s, “Israele usa le bombe (metà delle quali sono prodotte in Europa, ndr) per sfidare il diritto internazionale e mettere in pericolo la sicurezza globale“, e Bruxelles dovrebbe smettere “di tollerare l’arroganza del governo Netanyahu“. Il gruppo dei pentastellati a Strasburgo, la Sinistra, chiede l’embargo sulle armi, la sospensione immediata dell’accordo di associazione Ue-Israele e di dare seguito al mandato di arresto emesso dalla Cpi.La posizione di Washington (e gli avvertimenti dell’Aiea)Diversamente dal solito, l’amministrazione statunitense – avvertita in anticipo dell’attacco – ha cercato di distanziarsi dalle azioni di Tel Aviv, sottolineando che si è trattato di una decisione unilaterale. “Non siamo coinvolti in attacchi contro l’Iran e la nostra priorità è proteggere le forze americane nella regione”, si legge in una nota diffusa da Marco Rubio, il capo della diplomazia a stelle e strisce, che insolitamente non include nessuna generica formula di sostegno allo Stato ebraico.La relativa freddezza dello zio Sam (tradizionalmente il più solido alleato dello Stato ebraico) sarebbe dovuta al fatto che Donald Trump nutriva ancora delle speranze di poter raggiungere un accordo con la dirigenza iraniana sul suo programma nucleare. I colloqui tra le parti vanno avanti da mesi ma si stavano arenando nelle ultime settimane, anche se il tycoon sembra sperare ancora in una ripresa delle trattative con la Repubblica islamica. Il sesto round di negoziati era previsto per questo weekend, ma gli eventi di stanotte hanno probabilmente azzerato ogni possibilità di raggiungere una svolta in tempi brevi.Il presidente statunitense Donald Trump (foto: Roberto Schmidt/Afp)Rafael Grossi, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), ha reiterato gli appelli alla moderazione per evitare un disastro nucleare nella regione e si è reso disponibile “a recarmi sul posto al più presto per valutare la situazione e garantire la sicurezza, la protezione e la non proliferazione in Iran”. Giusto ieri, l’agenzia dell’Onu ha censurato per la prima volta in 20 anni il governo di Teheran, sostenendo che le autorità iraniane non stanno rispettando i loro impegni per quanto riguarda le “salvaguardie nucleari internazionali“.Nel 2015, l’Iran aveva siglato uno storico accordo multilaterale mediato dall’Ue sul proprio programma nucleare, noto come Joint common plan of action (Jcpoa), che prevedeva tra le altre cose un controllo internazionale sull’arricchimento dell’uranio della Repubblica islamica, permesso unicamente per usi civili. Il trattato è poi saltato nel 2018, durante il primo mandato di Trump alla Casa Bianca. Dal Berlaymont si ribadisce che “l’Ue non abbandona il Jcpoa“.

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    A Roma il vertice Weimar Plus in sostegno di Kiev. Rutte: “All’Aia la Nato concorderà il 5 per cento”

    Bruxelles – Sostegno incrollabile all’Ucraina e aumento delle spese per la difesa in ambito Nato. Sono i punti principali affrontati alla riunione del gruppo Weimar Plus, presieduto oggi a Roma da Antonio Tajani. Sul nuovo target del 5 per cento dell’Alleanza nordatlantica, il vicepremier forzista assicura l’impegno dell’Italia ma chiede più flessibilità. Nel frattempo, l’Ue spinge per adottare nuove sanzioni contro il Cremlino.I pesi massimi della difesa europea si sono riuniti oggi (12 giugno) a Villa Madama, a Roma, per discutere di sostegno a Kiev e di sicurezza euro-atlantica, inclusi i nuovi impegni di spesa militare dell’Alleanza nordatlantica. Alla Farnesina, il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha accolto gli omologhi di Francia, Germania, Polonia, Spagna, Regno Unito e Ucraina, insieme all’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas e, per la prima volta, alla presenza del Segretario generale della Nato Mark Rutte.Focus sulla difesaSul versante sicurezza, il tema centrale è senza dubbio la necessità di aumentare massicciamente le spese militari nel Vecchio continente. Nella loro dichiarazione congiunta, i ministri hanno riconosciuto che gli alleati europei devono “assumersi maggiori responsabilità all’interno della Nato” e auspicato “un ambizioso rafforzamento delle capacità di difesa europee, intensificando in modo flessibile e sostenibile le spese per la sicurezza e e la difesa nazionali“.A Villa Madama con i Ministri dei Paesi Weimar+ per un importante confronto sulla sicurezza euroatlantica e sul sostegno all’#Ucraina.Abbiamo concordato di rafforzare il nostro impegno per un’Europa più forte, capace di difendere i propri cittadini e di contribuire alla pace e… pic.twitter.com/6IC639JRDc— Antonio Tajani (@Antonio_Tajani) June 12, 2025Il riferimento è duplice. Da un lato, c’è il colossale piano ReArm Europe proposto dall’esecutivo comunitario: fino a 800 miliardi di potenziali investimenti nazionali da parte dei Ventisette (derivanti dal rilassamento delle regole del Patto di stabilità) più altri 150 miliardi in appalti congiunti dal fondo Safe, cui potranno partecipare anche Paesi extra-Ue come Regno Unito e Ucraina.Dall’altro lato, c’è il nuovo obiettivo del 5 per cento che sta per essere concordato dai leader dell’Alleanza al summit dell’Aia, in calendario per fine mese. Ma la parola d’ordine, appunto, è flessibilità. A sottolinearlo è lo stesso padrone di casa: “L’Italia è favorevole” ad alzare l’asticella, ha dichiarato il vicepremier, “ma bisogna programmarlo in almeno 10 anni“. Il Belpaese ha raggiunto solo recentemente il target del 2 per cento deciso nel 2014.Sul nodo cruciale delle tempistiche è arrivata la sponda di Rutte, che prima della ministeriale ha incontrato Giorgia Meloni per un bilaterale. “Non ho comunicato nulla riguardo a una data di scadenza” per tradurre in pratica il nuovo target (composto da 3,5 punti di Pil per le spese militari e un ulteriore 1,5 per cento in investimenti collegati in senso lato alla sicurezza), ha affermato il capo della Nato, in un’apertura agli alleati coi conti pubblici sotto pressione come l’Italia.La premier italiana Giorgia Meloni accoglie a Palazzo Chigi il Segretario generale della Nato, Mark Rutte, il 12 giugno 2025 (foto: Chigi)Ma non c’è dubbio, ha tenuto il punto l’ex premier olandese, sulla necessità di “spendere di più” e di farlo massicciamente, a partire dalla produzione di munizioni e dall’aumento delle capacità di difesa antiaeree. Perché, sostiene, la Russia potrebbe attaccare direttamente il territorio Nato “entro il 2029 o al massimo al 2030”. Tutti d’accordo: per il titolare degli Esteri tedesco Johann Wadephul, “la capacità di difesa non deve essere un dibattito teorico, è un’amara necessità”, mentre Kallas ha ribadito che “un’Europa più forte significa anche una Nato più forte“.Sostegno a Kiev (e sanzioni su Mosca)Quanto al dossier Ucraina, i partecipanti hanno ribadito il sostegno al Paese aggredito, accogliendo con favore “gli sforzi di pace guidati dagli Stati Uniti e i recenti colloqui” tra le squadre negoziali di Kiev e Mosca (l’ultimo a Istanbul a inizio mese) ma deplorando l’approccio tutt’altro che costruttivo di Vladimir Putin.“Siamo pronti per la pace, vogliamo finire la guerra quest’anno“, ha dichiarato il titolare degli Esteri di Kiev, Andrij Sybiha. Ma, secondo il suo omologo polacco Radoslaw Sikorski, lo zar “si sta prendendo gioco” delle aperture concesse sia da Volodymyr Zelensky sia da Donald Trump (la cui mediazione non sembra finora portare da nessuna parte).Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Per costringere l’inquilino del Cremlino a sedersi al tavolo delle trattative, i partecipanti al vertice odierno hanno ribadito la “disponibilità a intensificare la pressione sulla Russia“, anche ricorrendo all’imposizione di nuove sanzioni. In tal senso si sta già lavorando a Bruxelles, dove gli ambasciatori dei Ventisette stanno discutendo sul 18esimo pacchetto presentato a inizio settimana dalla Commissione.Sulle nuove misure – che vanno adottate all’unanimità dalle cancellerie – aleggia il veto del primo ministro slovacco Robert Fico, ufficialmente per timori relativi alla sicurezza energetica di Bratislava. Da Roma, Kallas si è detta “abbastanza ottimista su un accordo finale“, mentre i portavoce del Berlaymont continuano a ripetere che “la Commissione discute costantemente con gli Stati membri” su come le sanzioni possano “funzionare nell’interesse di tutti”.

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    L’Ue annuncia il 18esimo pacchetto di sanzioni contro la Russia. Nel mirino le esportazioni energetiche e il settore bancario

    Bruxelles – Non c’è 17 senza 18. A nemmeno due settimane dall’adozione dell’ultimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, la Commissione Ue mette sul tavolo nuove misure restrittive per costringere il Cremlino ad accettare una tregua in Ucraina. Nel mirino di Bruxelles sono finiti stavolta i settori energetico e bancario, ma non è scontata la sponda di Washington sul tetto al prezzo del petrolio. E, a dirla tutta, nemmeno l’unità interna dei Ventisette.Era il 20 maggio scorso quando i ministri degli Esteri dei Ventisette approvavano il 17esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca, puntando a colpire soprattutto la “flotta ombra” con cui la Federazione continua ad esportare il suo greggio in giro per il mondo. Oggi (10 giugno), i due papaveri più alti del Berlaymont hanno presentato un nuovo round di misure restrittive. “L’obiettivo della Russia non è la pace, bensì imporre il dominio della forza”, ha scandito Ursula von der Leyen presentando insieme a Kaja Kallas il 18esimo pacchetto sanzionatorio dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina.Secondo la presidente dell’esecutivo comunitario, “la forza è l’unica lingua che la Russia è in grado di comprendere” e dunque va mantenuta alta la pressione su Vladimir Putin affinché accetti di sedersi al tavolo negoziale, finora disertato dallo zar. Per l’Alta rappresentante, “nulla suggerisce che la Russia sia pronta per la pace”, anzi. Mosca, dice il capo della diplomazia a dodici stelle, è “crudele, aggressiva, una minaccia per tutti noi“.Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)I due binari lungo i quali si muoveranno le prossime sanzioni saranno quelli dell’energia e delle transazioni finanziarie. Quanto al primo ramo, l’obiettivo è l’export di petrolio russo, che rappresenta ancora circa un terzo delle entrate del Cremlino. Per raggiungerlo, la Commissione propone tre diverse misure. Anzitutto, verranno vietate tutte le operazioni connesse ai Nord Stream 1 e 2: “Nessun operatore dell’Ue potrà effettuare, direttamente o indirettamente, alcuna transazione” relativa al doppio gasdotto che collega la Federazione alla Germania, spiega von der Leyen. Attualmente, nessuna delle due arterie sul fondale del Mar Baltico è in funzione.Un’ulteriore misura sarà poi l’abbassamento del tetto al prezzo del petrolio a 45 dollari al barile dai 60 attuali, concordati dai partner del G7 nel dicembre 2022. A sentire la popolare tedesca, “abbassando il tetto lo adattiamo alle mutate condizioni del mercato e ne ripristiniamo l’efficacia”. Contemporaneamente, la lista dei vascelli ombra del Cremlino si allunga ancora per includere altre 77 imbarcazioni, portando il totale a quota 419.Infine, l’Ue vorrebbe introdurre “un divieto di importazione di prodotti raffinati a base di petrolio greggio russo“, onde impedire che quest’ultimo raggiunga il mercato unico “per vie traverse”. Dopo l’adozione del 17esimo pacchetto di sanzioni, certifica Kallas, “le esportazioni di petrolio della Russia tramite le rotte del Mar Nero e del Mar Baltico sono diminuite del 30 per cento in una sola settimana”. Anche le cifre snocciolate da von der Leyen parlano di un crollo verticale degli introiti ottenuti da Mosca con i suoi idrocarburi: da 12 a 1,8 miliardi mensili.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Per quel che riguarda il settore bancario, l’idea è quella di “trasformare l’attuale divieto di utilizzare il sistema Swift in un divieto totale di effettuare transazioni” con entità ed istituti finanziari russi. Tale divieto, assicura von der Leyen, verrà esteso non solo ad altre 22 banche russe ma anche, soprattutto, “agli operatori finanziari di Paesi terzi che finanziano il commercio con la Russia eludendo le sanzioni”.Colpito anche il Fondo russo per gli investimenti diretti, che sovvenziona progetti e interventi di vario tipo in giro per il mondo, mentre vengono introdotti anche ulteriori limitazioni sulle esportazioni di “tecnologie e beni industriali fondamentali” verso la Federazione per un valore complessivo di oltre 2,5 miliardi di euro. Si tratta di macchinari, metalli, plastica e prodotti chimici ma anche beni e tecnologie a duplice uso (sia civile sia militare) cruciali per il complesso militare-industriale russo.Ci sono, tuttavia, giusto un paio di nodi politici che potrebbero rallentare (o addirittura far deragliare) l’adozione delle sanzioni comunitarie. Da un lato, il price cap sul greggio russo, come ricordato dalla stessa von der Leyen, è stato stabilito a livello del G7 e dunque, per modificarlo, serve l’accordo dei membri della coalizione. “Discuteremo come agire insieme” al vertice in programma per il 15-17 giugno a Kananskis (in Canada), ha promesso von der Leyen, che si dice “molto fiduciosa”.Ma il presidente statunitense Donald Trump non ha mostrato fin qui grande appetito per un nuovo giro di vite contro Mosca, per quanto i suoi alleati europei gli stiano tirando la giacca in tal senso fin dal suo ritorno alla Casa Bianca a gennaio. “Insieme agli Stati Uniti possiamo davvero forzare Putin a negoziare seriamente“, ha ripetuto per l’ennesima volta Kallas. Per ora, però, sembra che Bruxelles e Washington non stiano riuscendo a coordinarsi alla grande.Il presidente statunitense Donald Trump (foto: Brendan Smialowski/Afp)Al Congresso si discute molto della proposta, avanzata dal senatore repubblicano Lindsey Graham, di imporre dazi del 500 per cento sulle importazioni da qualunque Paese che continui a commerciare con la Russia, esentando chi sostiene la resistenza di Kiev (come gli Stati Ue). Ma un regime di sanzioni secondarie così drastico potrebbe rivelarsi un boomerang pericoloso per gli stessi States, peraltro impegnati proprio in questi giorni in complessi negoziati con la Cina per disinnescare la guerra commerciale scatenata da Trump un paio di mesi fa.D’altra parte, nemmeno tra i Ventisette pare esserci accordo totale sulla questione sanzioni. Oltre alla consueta opposizione dell’Ungheria di Viktor Orbán, ora sta alzando la voce anche la Slovacchia di Robert Fico. La scorsa settimana, il Parlamento di Bratislava ha approvato una risoluzione che impegna il governo a non appoggiare nuove sanzioni comunitarie contro la Russia. “Se ci sarà una sanzione che ci danneggerà, non voterò mai a favore”, ha dichiarato l’altroieri il primo ministro slovacco.