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    L’Ue sta cercando di coordinare gli sforzi in Africa per non far degenerare gli scontri in Sudan in una guerra civile

    Bruxelles – Non c’è pace per il Sudan e, a due anni dall’ultimo colpo di Stato che ha messo fine alla breve esperienza democratica nel Paese, a Khartum sono in corso duri combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf) per il controllo del potere politico e militare. “L’Unione Europea condanna fermamente l’esplosione di violenza”, è quanto si legge in una nota firmata dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in cui vengono esortate le due parti a “dare prova di leadership e impegnarsi per l’immediata cessazione delle ostilità”.
    Esplosioni nei pressi dell’aeroporto di Khartum (credits: Afp)
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e in altri centri abitati del Paese continua da sabato mattina (15 aprile) e ha già portato alla morte di almeno 60 civili, tra cui tre impiegati del Programma alimentare mondiale (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare). “Gli operatori umanitari lavorano spesso negli ambienti più pericolosi, quindi lo ricordo ancora una volta, non sono un obiettivo e il diritto internazionale umanitario deve essere sempre rispettato”, è il secco commento del commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič. Nonostante la situazione sul campo sia confusa e non ci siano stime affidabili né sul numero di perdite per ciascuna fazione né sul terreno effettivamente controllato dall’esercito regolare e dal gruppo paramilitare, il rischio maggiore è che la situazione possa degenerare in una nuova guerra civile.

    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e ha iniziato a bombardare anche nei centri abitati le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria anche a Port Sudan (sul mar Rosso) e nell’aeroporto di Khartoum, dove un aereo della compagnia aerea Saudia è rimasto coinvolto negli scontri a fuoco. “In questo momento critico la priorità dovrebbe essere far tacere le armi, smorzare la situazione e risolvere le divergenze attraverso il dialogo”, ha intimato l’alto rappresentante Borrell, facendo appello agli “enormi sforzi compiuti negli ultimi mesi per riportare il Paese sulla strada della democrazia attraverso un accordo generale, aprendo la strada a un governo a guida civile”.

    Ma gli scontri armati stanno “mettendo a rischio questi importanti risultati”, è l’allarme lanciato da Bruxelles, che proprio per questo motivo ha iniziato a coordinarsi con partner regionali e internazionali “per promuovere il percorso verso un accordo politico che porti pace, stabilità e sviluppo economico”. L’alto rappresentante Ue ha reso noto di essersi messo in contatto con i ministri degli Esteri di Egitto ed Emirati Arabi Uniti, e di aver contattato telefonicamente il presidente del Kenya, William Ruto, per discutere dell’impegno del Paese che confina a sud con il Sudan nell’assumere la guida degli sforzi di de-escalation: “Dobbiamo lavorare tutti per lo stesso obiettivo, la cessazione delle ostilità e il ritorno di una transizione guidata dai civili”, è l’esortazione di Borrell.
    Il Sudan tra i colpi di Stato
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e l’ex-primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok (29 febbraio 2020)
    Era l’ottobre del 2021 quando i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993).
    Dopo aver sciolto l’esecutivo in carica, il Consiglio sovrano e tutti gli organi di governo locali, i due generali hanno promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano di cui al-Burhan è presidente e Dagalo vicepresidente. L’alleanza tra i due generali però è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è però opposto e le accuse con il presidente sono diventate sempre più dure, fino a quando gli scontri politici si sono trasformati in violenti combattimenti armati.

    Dal 15 aprile sono in corso duri combattimenti nel Paese tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces per il controllo del potere politico e militare. L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, in contatto con Egitto, Emirati Arabi Uniti e Kenya

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    L’Ue fornirà un milione di munizioni all’Ucraina, tra scorte e acquisti comuni. Il piano da 2 miliardi di euro sul tavolo del Vertice Ue

    Bruxelles – Una decisione storica. Tre parole con cui l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, annuncia che i 27 governi dell’Ue hanno raggiunto un accordo politico per consegnare all’Ucraina nei prossimi dodici mesi un milione di munizioni di armi per difendersi dall’aggressione della Russia cominciata il 24 febbraio di un anno fa.
    Mentre il Consiglio Affari Esteri è ancora in corso a Bruxelles, il capo della diplomazia europea ha spiegato che sulla base di una sua proposta, gli Stati membri “hanno accettato di consegnare un milione di munizioni di artiglieria entro i prossimi 12 mesi” a Kiev. Gli ambasciatori dei 27 Stati membri Ue riuniti al Coreper, comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue, hanno raggiunto ieri un’intesa sul piano da due miliardi euro per consegnare almeno un milione di proiettili da 155 mm all’Ucraina entro l’anno, attingendo alle proprie riserve e sbloccando l’iniziativa di appalti congiunti. Un’intesa formalizzata oggi dai ministri e che finirà sul tavolo dei capi di stato e governo al Vertice Ue di giovedì e venerdì.

    A historic decision.
    Following my proposal, Member States agreed to deliver 1 mio rounds of artillery ammunition within the next 12 months.
    We have a 3 track approach:1) €1 bn for immediate delivery 2) €1 bn for joint procurement3) commission to ramp up production capacity pic.twitter.com/CCNOaxE4bk
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) March 20, 2023

    L’approccio stabilito dai ministri dell’Ue sarà in tre fasi, ha riferito Borrell: “un miliardo di euro sarà mobilitato per la consegna immediata di munizioni attraverso le scorte degli Stati membri; un altro miliardo di euro sarà mobilitato per gli acquisti congiunti di armi; in terzo luogo, i ministri hanno acconsentito ad aumentare la capacità di produzione a livello europeo”, si legge nel tweet. La prima fase del piano prevede di fornire munizioni di emergenza all’Ucraina, che sta affrontando carenze, attingendo alle scorte esistenti degli eserciti europei. Per compensare le risorse militari mobilitate per Kiev, i ministri hanno deciso di mobilitare il miliardo di euro citato da Borrell mobilitando i fondi dello strumento europeo per la pace (European Peace Facility) , un fondo fuori dal bilancio europeo e utilizzato dall’inizio della guerra per rifornire di armi l’Ucraina.
    La svolta storica riguarda però la seconda componente del piano, che prevede di far acquistare agli Stati congiuntamente le munizioni, sul modello degli acquisti di vaccini e ora di riserve di gas. Sono 17 Stati membri Ue e la Norvegia ad aver firmato l’accordo di progetto dell’Agenzia europea per la difesa (AED) per l’approvvigionamento comune di munizioni, aprendo la strada agli Stati membri dell’Ue e alla Norvegia per procedere lungo due percorsi: una procedura accelerata di due anni per i proiettili di artiglieria da 155 mm e un progetto di sette anni per l’acquisizione di più tipi di munizioni. L’Italia per ora non ha firmato, ma lo hanno fatto Austria, Belgio, Croazia, Cipro, Cechia, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Slovacchia, Svezia e Norvegia. Borrell ha chiarito ch gli Stati membri hanno già espresso l’intenzione di aderire all’iniziativa presto seguendo le procedure nazionali.
    “I soldati ucraini stanno dimostrando grande coraggio e tenacia. Ma hanno bisogno di munizioni. Accolgo con favore l’accordo odierno che prevede la consegna di 1 milione di munizioni nei prossimi 12 mesi. Lavoreremo con gli Stati membri per aumentare la produzione industriale nel settore della difesa Ue, in modo da garantire la fornitura”, ha commentato su twitter la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.

    Ukrainian soldiers are showing great courage and tenacity.
    But they need ammunition.
    I welcome today’s agreement aiming to deliver 1 million rounds of ammunition over the next 12 months.
    We will work with Member States to ramp up defence industrial production in 🇪🇺 to deliver.
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) March 20, 2023

    L’accordo tra i ministri degli Esteri a Bruxelles per inviare a Kiev un milione di proiettili da 155 mm all’Ucraina entro l’anno, attingendo alle proprie riserve o spingendo sugli acquisti comuni

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    Le 12 ore di Ohrid. L’Ue riesce a far trovare l’intesa a Serbia e Kosovo per l’attuazione dell’accordo di normalizzazione

    Bruxelles – Il diavolo sta nei dettagli, “ma a volte sta nel calendario e nelle tempistiche”. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha fornito una sua personalissima interpretazione della “lunga e difficile” discussione di 12 ore a Ohrid, sulle sponde del lago in Macedonia del Nord, teatro dell’ultimo round di alto livello del dialogo per la normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia. Un appuntamento atteso con particolare urgenza a Bruxelles, dopo il vertice del 27 febbraio decisivo per far trovare alle due parti una complicatissima intesa sulla proposta Ue in 11 punti. Mancava solo il via libera all’allegato di attuazione dell’accordo – la vera chiave di volta di tutta l’intesa che stabilisce “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come” – e ad Ohrid si può dire che quantomeno non c’è stata nessuna battuta di arresto.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (18 marzo 2023)
    Perché i due leader di Kosovo e Serbia, rispettivamente il premier Albin Kurti e il presidente Aleksander Vučić, hanno avallato l’allegato di attuazione, ma non l’hanno firmato. Il 18 marzo ad Ohrid è andato in scena un duello diplomatico, in cui l’alto rappresentante Borrell e il suo braccio destro, il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, hanno dovuto destreggiarsi per arrivare alle 23.10 e poter dire “abbiamo un accordo”. Tra luci e ombre. “Devo ammettere che inizialmente abbiamo proposto un annesso più ambizioso e dettagliato, ma sfortunatamente le parti non hanno trovato un accordo“, ha confessato Borrell, puntando il dito sulla responsabilità condivisa tra Pristina e Belgrado: “Da una parte, al Kosovo è mancata flessibilità nella sostanza, dall’altra parte, la Serbia aveva dichiarato a priori che non l’avrebbe firmato, anche se era pronta a implementarlo pienamente”. Ecco perché i due diplomatici europei hanno dovuto mettere sul tavolo “diverse proposte creative” – anche se “non così ambiziose come le prime” – e così, con la dichiarazione alla stampa dell’alto rappresentante Ue, “l’annesso è considerato adottato”.
    Non si tratta solo di parole o promesse, ma di un documento che ha un impatto concreto, anche senza firma. “Quello che hanno accettato – l’accordo e l’annesso di implementazione – diventeranno una parte integrante dei rispettivi percorsi verso l’adesione Ue“, ha puntualizzato l’alto rappresentante Borrell. In altre parole, se Pristina e Belgrado vorranno continuare a seguire la strada verso l’adesione Ue, è esplicito l’obbligo di mettere a terra tutti i punti concordati e adottati in principio. Anche senza firma. “Per renderlo concreto, lancerò immediatamente i lavori per includere gli emendamenti nel capitolo di negoziazione 35 con la Serbia [sulle relazioni esterne, ndr] e nell’agenda del gruppo speciale sulla normalizzazione del Kosovo”, e da questo momento “entrambe le parti saranno legate dall’accordo”. Il retro della medaglia è perfettamente intuibile: “Ora gli obblighi sono parte del percorso europei, non rispettarli avrà conseguenze“. Anche perché il dialogo Pristina-Belgrado “non riguarda solo Kosovo e Serbia”, ha spiegato ancora Borrell, facendo riferimento alla “stabilità, sicurezza e prosperità” dell’intera regione dei Balcani Occidentali.
    Cosa prevede l’allegato di attuazione dell’accordo tra Serbia e Kosovo
    L’allegato di attuazione dell’accordo sul percorso di normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia è composto di 12 punti, che costituiscono “parte integrante dell’accordo” stesso. Le due parti si impegnano “pienamente” a rispettare tutti gli articoli non solo dell’intesa del 27 febbraio, ma anche dell’allegato che mette nero su bianco i “rispettivi obblighi da adempiere tempestivamente e in buona fede“. Il presupposto è proprio il fatto che entrambi i documenti sono ora “parte integrante dei rispettivi processi di adesione all’Ue“, con le misure annunciate dall’alto rappresentante per rendere questo punto effettivo nei rapporti bilaterali tra Bruxelles e Pristina e tra Bruxelles e Belgrado.
    Come obblighi da attuare, Kosovo e Serbia “convengono di approvare con urgenza la Dichiarazione sulle persone scomparse“, negoziata nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue e Pristina deve “avviare immediatamente negoziati per la definizione di accordi e garanzie specifici che assicurino un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo“, così come già concordato 10 anni fa. Si tratta dell’Associazione delle municipalità serbe nel Paese prevista dall’accordo del 2013, mai implementato. Sul piano dell’attuazione di tutte le disposizioni sia dell’accordo sia dell’allegato, le due parti istituiranno un Comitato congiunto di monitoraggio presieduto dall’Ue, da istituire “entro 30 giorni”. Tra le scadenze viene inclusa anche quella di metà agosto 2023 (“entro 150 giorni) per l’organizzazione di una Conferenza dei donatori per definire un pacchetto di investimenti e aiuti finanziari per Kosovo e Serbia, in modo da attuare l’articolo 9 sull’impegno dell’Ue “in materia di sviluppo economico, connettività, transizione ecologica e altri settori chiave”. In ogni caso l’Unione Europea “non effettuerà alcun esborso prima di aver accertato la piena attuazione di tutte le disposizioni dell’accordo”.
    Il rispetto dei due documenti implica il fatto che “tutti gli articoli saranno attuati indipendentemente l’uno dall’altro“, che l’ordine dei paragrafi dell’allegato “non pregiudica l’ordine di attuazione” e che non dovrà essere bloccata l’attuazione di “nessuno degli articoli”. Le discussioni tra le parti per l’attuazione dell’accordo continueranno “nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue” e il mancato rispetto degli obblighi derivanti “dall’accordo, dal presente allegato o dai precedenti Accordi di dialogo” può avere “conseguenze negative dirette sui rispettivi processi di adesione e sugli aiuti finanziari che ricevono dall’Ue“, è quanto si legge a chiare lettere nel documento avallato da Kurti e Vučić..

    Sulle sponde del lago macedone il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, hanno avallato (ma non firmato) l’allegato di implementazione del vertice di Bruxelles. Un vincolo per i rispettivi percorsi Ue su “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come”

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    L’Ue punta sul gas algerino, ma Algeri lo sta già usando come arma politica

    Bruxelles – L’Algeria è la nuova Russia, con risorse energetiche pronte da essere usate come arma politica contro l’Unione europea? Il rischio, in Europa, c’è chi lo vede e non può fare a meno di porre la questione ad una Commissione che però tira dritto e rinnova la fiducia ad un partner diventato ancor più strategico alla luce della guerra in Ucraina e la necessità di affrancarsi dalle forniture di Gazprom. Susana Solís Pérez, europarlamentare liberale (Re) vede però sullo sfondo un nuovo problema di indipendenza geopolitica per l’Unione, per effetto di questioni tutte regionali.
    C’è la questione del Sahara occidentale a dividere Algeria e Marocco. Rabat rivendica come propri i territori che invece la repubblica araba democratica di Saharawi (Rads) considera come parte integrante del Paese. Algeri sostiene la Rads e il suo movimento politico di riferimento, il Fronte polisario. Divergenze di vedute che hanno portato all‘interruzione delle relazioni diplomatiche nel 2021, e le tensioni in nord Africa hanno già avuto ripercussioni per l’Europa.
    Nella sua interrogazione, Susana Solís Pérez, ricorda che il gasdotto Maghreb-Europa (Mge) rifornisce la penisola iberica di gas algerino attraverso il Marocco. Una conduttura lunga 1.400 chilometri che dal 1996 trasporta oltre 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno nell’Europa occidentale. “A seguito della rottura delle relazioni diplomatiche tra Algeria e Marocco nell’agosto 2021, l’Algeria ha deciso di non rinnovare il contratto di 25 anni di Mge”, rileva l’europarlamentare. Preoccupata non a torto, visto che l‘Algeria ha sospeso l’accordo di amicizia con la Spagna per il sostegno dato a Madrid alle rivendicazioni marocchine sul Sahara occidentale.
    “L’Algeria ha aumentato il prezzo delle forniture di gas alla Spagna attraverso il gasdotto Medgaz“, denuncia ancora la parlamentare liberale. Medgaz è un’infrastruttura sottomarina lunga circa 757 chilometri, con una capacità massima annuale di 10,5 miliardi di metri cubi di gas. Una scelta, quella di rivedere i listini nei confronti di Madrid, che mostra “l‘uso dell’approvvigionamento energetico da parte dell’Algeria come arma politica“.
    La Commissione europea lascia all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, il compito di rassicurare sulla questione. “L’Ue ha costantemente lavorato per rafforzare il suo partenariato con l’Algeria, concentrandosi sulle priorità indicate nell’accordo di associazione”, ricorda il membro del collegio dei commissari. Inoltre, “a seguito della decisione dell’Ue di tagliare le sue importazioni di gas dalla Russia, l’Algeria si è impegnata ad aumentare le sue forniture di gas all’Europa nel 2022 e negli anni successivi”. Tradotto: Algeri è un partner affidabile, non è una nuova Russia, “l‘Unione europea apprezza molto la cooperazione energetica con l’Algeria ed è pronta ad approfondirla ed espanderla ulteriormente”.
    La strategia Ue ha una sua logica. L‘Algeria resta comunque parte dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec). E’ vero che l’Unione ha scelto la strada della sostenibilità e del superamento dei combustibili fossili, ma nella transizione avere interlocutori privilegiati all’interno del gruppo che fissa i prezzi del barile di greggio può rappresentare un punto di forza. Un orientamento che suona però da scommessa.
    La questione è sul tavolo anche da prima dello scoppio della guerra in Ucraina. Antonio Tajani, ora ministro degli Esteri ma allora in veste europarlamentare, sollevò la stessa questione sempre via interrogazione scritta. La decisione di Sonatrach di interrompere ogni tipo di attività in Marocco e con il Marocco “pone quesiti importanti sulla dipendenza energetica dell’Unione”. Scrisse così Tajani, a riprova del fatto che già prima di un riposizionamento sul mercato l’opzione algerina non sembra delle migliori.
    Borrell ha provato a rassicurare anche in quel frangente: “Per quanto riguarda le attuali tensioni diplomatiche tra Algeria e Marocco, l’Ue è pronta a fornire tutto il sostegno necessario al processo guidato dalle Nazioni Unite per trovare una soluzione politica giusta e reciprocamente accettabile al caso del Sahara occidentale”. Ma fino ad oggi l’Ue ha sempre privilegiato la parte marocchina nel confronto con i Saharawi, il che la potrebbe esporre alle ripicche energetiche algerine. 

    La questione del Sahara occidentale è motivo di scontro tra Algeria e Marocco, e le posizioni spagnole a sostegno di Rabat ridisegnano i contratti di Sonatrach. La questione già nota prima dello scoppio delle guerra in Ucraina

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    L’Ue potrebbe mobilitare 2 miliardi di euro per munizioni a Ucraina. Cautela sulle notizie del sabotaggio di Nord Stream

    Bruxelles – Un piano in tre passi, per uno stanziamento complessivo da due miliardi di euro per la fornitura di munizioni. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha anticipato oggi (8 marzo) alla stampa le intenzioni della Commissione Europea per un ulteriore sostegno all’Ucraina sul piano del sostegno militare, proprio mentre “la situazione militare sul campo rimane molto difficile, in particolare a Bakhmut, dove continuano le battaglie strada per strada, e le prossime settimane saranno critiche”.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Dal momento in cui Kiev “ha bisogno di continuo supporto, soprattutto di munizioni per l’artiglieria”, la soluzione a inizio 2023 da Bruxelles è un piano di “tre fasi complementari, che vanno insieme e non in modo isolato”, ha precisato con forza l’alto rappresentante Borrell. In primis una donazione di munizioni di artiglieria da 152/155 millimetri “dagli stock già esistenti”, il cui “rimborso arriverà attraverso un miliardo di euro dall’European Peace Facility”, lo strumento fuori bilancio per la prevenzione dei conflitti, la costruzione della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale. In secondo luogo, un altro miliardo per il “coordinamento della domanda per gli ordini di altre munizioni attraverso l’Agenzia Europea della Difesa”, per cui è necessaria “una procedura veloce, per abbattere il prezzo e i tempi di consegna”. E infine un “aumento della capacità manifatturiera europea e la diminuzione dei tempi di produzione”.
    Nel corso del Consiglio Difesa informale a Stoccolma è stata raggiunta “un’intesa in linea generale” a proposito della fornitura di munizioni all’Ucraina, ma “ci sono ancora questioni da discutere“, ha confessato Borrell: “Spero che al prossimo Consiglio [al momento calendarizzato per il 23 maggio, ndr] si raggiunga un accordo formale”. Le parole dell’alto rappresentante sono dure: “Serve una mentalità da guerra, perché siamo in guerra, sfortunatamente dobbiamo parlare così perché il conflitto continua”, anche se “dobbiamo tenere aperta la porta per ogni negoziato di pace“. Intanto gli ambasciatori dell’Ue hanno approvato l’ulteriore stanziamento da 2 miliardi di euro per il Fondo europeo per la pace, dando seguito all’intesa politica di dicembre tra i ministri Ue della Difesa.

    #COREPERII Today, EU Ambassadors approved an additional €2 billion to the European Peace Facility. This decision sends a clear signal of the EU’s enduring commitment to military support for Ukraine and other partners. pic.twitter.com/T4U44gak4Q
    — Swedish Presidency of the Council of the EU (@sweden2023eu) March 8, 2023

    Oltre le munizioni, le notizie su Nord Stream
    Fuoriuscita di gas metano nel Mar Baltico dal gasdotto Nord Stream 1 (27 settembre 2022)
    “È una cosa molto seria, ma non bisogna mai avere paura della verità, di nessuna verità”, è la cauta presa di posizione dell’alto rappresentante Borrell a proposito dell’altro tema che ha agitato i 27 ministri Ue a Stoccolma. Secondo quanto riportano il quotidiano tedesco Die Zeit e lo statunitense New York Times, dietro al sabotaggio dei due gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2 con la fuoriuscita di metano nel Mar Baltico di fine settembre dello scorso anno ci sarebbe un gruppo filo-ucraino. “Stiamo parlando di speculazioni, le indagini stanno ancora andando avanti in Svezia, Germania e Danimarca”, ha cercato di gettare acqua sul fuoco Borrell. Fino a quando non si arriverà alla fine delle investigazioni, “non possiamo giungere a conclusioni affrettate“.
    Secondo le rivelazioni dei due quotidiani, l’operazione potrebbe essere stata condotta in modo non ufficiale da un gruppo con legami con il governo o con i servizi di sicurezza ucraini. Anche se ci sono ancora molti buchi nella versione trapelata sulla stampa, gli investigatori tedeschi avrebbero identificato un’imbarcazione utilizzata per piazzare gli esplosivi, appartenente a una società registrata in Polonia e di proprietà di due cittadini ucraini. La squadra che avrebbe condotto l’operazione di sabotaggio ai danni dei due gasdotti sarebbe stata composta da sei individui di nazionalità sconosciuta. “Non c’entriamo nulla con l’operazione di sabotaggio ai danni dei gasdotti Nord Stream, sarebbe un bel complimento per i nostri servizi speciali ma quando si concluderanno le indagini si vedrà che l’Ucraina non ha nulla a che fare con tutto ciò“, si è smarcato da ogni tentativo di accusa il ministro della Difesa ucraino, Oleksii Reznikov, arrivando a Stoccolma, dove ha partecipato al vertice informale.
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    L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, ha anticipato il piano in tre step, che prevede donazioni immediate e coordinazione della domanda futura. Sulle speculazioni di gruppo pro-Kiev dietro al sabotaggio “non bisogna avere paura della verità, ma aspettare la fine delle indagini”

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    Borrell: “Esercitazione militare Sudafrica-Cina-Russia grave preoccupazione”

    Bruxelles – Alleanze militari e geopolitiche, l’Ue guarda con preoccupazione le scelte del Sudafrica e la presenza di Russia e Cina nel quadrante africano. La decisione del governo di Pretoria di tenere esercitazioni militari congiunte non è passata inosservata a Bruxelles. L’operazione Mosi, che vede esercitazioni navali congiunte tra le tre diverse forze armate, viene considerata come “simulazione di guerra” in Parlamento Ue ed è fonte di inquietudine in Commissione europea. “Sebbene queste esercitazioni non rappresentino una minaccia diretta alla sicurezza europea, lo svolgimento di esercitazioni militari navali con Russia e Cina nell’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina è motivo di grave preoccupazione“, riconosce l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell.
    L’operazione Mosi è stata condotta per la prima volta nel 2019, a largo delle coste di Città del Capo. Un momento comunque carico di tensioni tra oriente e occidente per via della questione della Crimea. La seconda edizione di questa cooperazione, tenuta a febbraio di quest’anno, si colloca però in uno scenario internazionale completamente diverso, contraddistinto dalla guerra russo-ucraina e due Paesi, Cina e Sudafrica, che non hanno mai pubblicamente condannato l’aggressione del Cremlino. Sono gli stessi Paesi a essersi astenuti sul voto in sede Onu per la pace giusta in Ucraina.
    L’Unione europea non può fare molto al riguardo. “Il Sudafrica – ricorda Borrell  – come tutti gli altri Paesi, ha il diritto di perseguire la politica estera secondo i propri interessi”. In quanto nazione indipendente e sovrana resta libera di fare le scelte che ritiene più opportune. Per questo motivo “l’Ue non chiede al Sudafrica di schierarsi” tra oriente e occidente: “Ciò che l’Ue chiede al Sudafrica è di schierarsi dalla parte dei principi e dei valori della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale“.
    C’è anche un altro aspetto che emerge della considerazioni dell’Alto rappresentante su scelte e manovre sudafricane: un cambio di rotta chiaro nelle scelte di cooperazione militare. Per quanto riguarda le esercitazioni in mare, “in passato il Sudafrica le condotte anche con Stati membri dell’Ue”. Si prende atto dunque di un cambio di alleanze che non viene accolto con particolare favore.
    Gli Stati Uniti hanno visto questa seconda edizione di Mosi come un atto contrario alle politiche dell’occidente. Un aspetto, questo, sottolineato anche dall‘Atlantic Council, il think-tank statunitense con sede a Washington D.C. che promuove l’atlantismo e serve da centro studi di sostegno alla politica. “Le relazioni amichevoli e di routine del Sudafrica sono antitetiche agli obiettivi dell’Occidente di isolare, scoraggiare e sconfiggere la Russia“, sottolineano gli esperti del think-tank. Che avvertono: “In un ambiente diplomatico sempre più polarizzato, il non allineamento può sembrare di fatto un allineamento con la Russia“.
    Il Sudafrica è una delle principali potenze militari del continente africano per capacità marittima. Dispone di una flotta navale mista composta da fregate, sottomarini, unità d’attacco veloci, cacciamine, incrociatori e pattugliatori.

    L’Alto rappresentante si esprime sulla seconda edizione della missione Mosi. “Pretoria rispetti carta Onu e diritto internazionale”

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    Anche l’Ue è preoccupata per le modalità di svolgimento delle elezioni in Nigeria, la più grande democrazia africana

    Bruxelles – La più grande democrazia, la più forte economia e il Paese più popoloso dell’Africa di fronte alla sfida maggiore per l’intero sistema nazionale: le elezioni presidenziali. Lo scorso 25 febbraio la Nigeria si è recata al voto per eleggere il successore di Muhammadu Buhari e dimostrare alla regione, al continente e al mondo di saper gestire in maniera democratica e ordinata il passaggio di consegne, anche con l’inedita sfida a tre che ha rotto l’ormai tradizionale sistema bipolare in atto dal 1999. “Un’impresa importante, che ha rappresentato un’opportunità fondamentale per il consolidamento della democrazia”, ha sottolineato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, senza nascondere “il contesto difficile e i fallimenti operativi“.
    A sinistra, il nuovo presidente della Nigeria, Bola Tinubu (credits: Kola Sulaimon / Afp)
    Il vincitore delle elezioni presidenziali – svoltesi in parallelo a quelle per il rinnovo del Parlamento – è Bola Tinubu, candidato del partito di centro-sinistra Congresso di Tutti i Progressisti che esprime il presidente ormai dal 2015 (Buhari era stato rieletto per un secondo mandato nel 2019). Ma i due sfidanti, Atiku Abubakar del Partito Democratico del Popolo di centrodestra e Peter Obi del Partito laburista fuoriuscito dal Congresso di Tutti i Progressisti, stanno contestando il risultato delle elezioni per la scarsa trasparenza del nuovo sistema elettronico di voto utilizzato il 25 febbraio. La richiesta dei due candidati è quella di un nuovo voto, per cui dovranno fare ricorso alla Corte Suprema della Nigeria entro tre settimane: il risultato delle elezioni può essere annullato solo se saranno dimostrate irregolarità o errori nel conteggio dei voti. “Ogni contesa dovrà essere risolta solo presso la Corte Suprema“, ha puntualizzato oggi (2 marzo) alla stampa la portavoce della Commissione Ue responsabile per gli Affari esteri, Nabila Massrali.
    Per tenere sotto controllo le operazioni di voto nel Paese africano – e per riaffermare la centralità della Nigeria a livello geopolitico per Bruxelles – anche l’Unione Europea ha partecipato ai lavori della Commissione elettorale nazionale indipendente (Inec), dispiegando una Missione di osservazione elettorale Ue guidata dall’eurodeputato irlandese Barry Andrews (Renew Europe). Da Bruxelles arrivano richieste di “rispettare il processo e rimanere pacifici e calmi“, in attesa anche dei risultati delle elezioni del prossimo 11 marzo per la nomina di 28 governatori sui 36 Stati federali della Nigeria. Solo allora la missione di osservazione elettorale Ue pubblicherà la relazione finale con “raccomandazioni per contribuire al continuo approfondimento della democrazia nigeriana“. Ma la valutazione preliminare contiene già alcuni elementi che suscitano preoccupazione a Bruxelles sullo svolgimento ordinato delle elezioni presidenziali del 25 febbraio nel Paese africano.
    La valutazione preliminare Ue sulle elezioni in Nigeria
    Secondo quanto si legge nella valutazione preliminare della Missione di osservazione elettorale Ue, emerge che “le libertà fondamentali di riunione e di movimento sono state ampiamente rispettate, ma il pieno godimento di queste ultime è stato ostacolato da una pianificazione insufficiente, dall’insicurezza e dall’imperante scarsità di carburante e Naira [la moneta nazionale nigeriana, ndr]”, che ha inciso sulle capacità dei candidati di fare campagna elettorale e dei nigeriani nelle zone rurali di recarsi fisicamente alle urne. Tra le altre questioni preoccupanti anche “l’abuso di disponibilità da parte di vari titolari di cariche politiche”, che ha “distorto il campo di gioco”, ma anche “diffuse accuse di acquisto di voti” e la disinformazione che “ha interferito con il diritto degli elettori di fare una scelta informata il giorno delle elezioni”.
    La missione elettorale in particolare ha evidenziato che “la raccolta delle tessere elettorali permanenti, requisito per votare, è stata influenzata negativamente da una scarsa pianificazione istituzionale”, con 9,5 milioni di elettori in più rispetto alla precedente tornata del 2019 (93,4 milioni in totale): “Senza una verifica indipendente del registro degli elettori, non è stato possibile garantire la qualità e l’inclusività“, è un altro problema rilevato in fase pre-voto. Si temevano violenze nel Sud del Paese alla vigilia del voto, che effettivamente si sono registrate “in almeno 16 Stati, con Lagos, Kano, Rivers e Imo che sarebbero stati i più colpiti, instillando paura negli elettori”, anche se considerata tutta la Nigeria “l’atmosfera durante le votazioni è stata complessivamente pacifica”.
    La questione più grave ha invece riguardato l’introduzione del Bimodal Voter Accreditation System e della piattaforma IReV per le elezioni presidenziali. Anche se “è stata percepita come un passo importante per garantire l’integrità e la credibilità delle elezioni“, non possono passare inosservati i “ritardi nella formazione del personale tecnico, l’inadeguatezza dei test di simulazione e la mancanza di informazioni pubbliche sulle tecnologie elettorali”. A proposito di quanto contestano i due sconfitti, la missione di osservazione elettorale Ue riporta che i moduli dei risultati “hanno iniziato a essere caricati dopo le ore 22 del giorno delle elezioni, destando preoccupazione e raggiungendo solo il 20 per cento a mezzogiorno del 26 febbraio e molti erano illeggibili“. Solo più tardi, nel corso della stessa serata, la Commissione elettorale nazionale indipendente ha spiegato il ritardo con “problemi tecnici“.

    Bola Tinubu, candidato del partito centrista, è stato eletto presidente del Paese più popoloso e con l’economia più forte del continente. Ma la missione di osservazione dell’Unione ha confermato le debolezze del sistema elettorale, su cui i due sfidanti contestano il risultato

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    I leader di Serbia e Kosovo hanno accettato la proposta Ue per normalizzare i rapporti. Ora dovrà essere implementata

    Bruxelles – È l’ultimo chilometro, quello in cui la meta si vede, sembra vicinissima, ma allo stesso tempo quello più difficile, in cui fallire può diventare la più grande débâcle. Questo è il punto in cui si trova il dialogo mediato dall’Unione Europea per la normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, proprio oggi (27 febbraio) in cui si è assistito a uno dei momenti più decisivi degli ultimi anni. Perché per la prima volta da quando esiste il dialogo Pristina-Belgrado i leader dei due Paesi balcanici hanno accettato la proposta di mediazione dell’Ue che spiana la strada verso un accordo definitivo.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti (27 febbraio 2023)
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, “hanno concordato che non serviranno altre discussioni sulla proposta dal titolo Agreement on the path to normalization between Kosovo and Serbia” è l’annuncio soddisfatto alla stampa dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al termine degli incontri durati tutto il pomeriggio. Dopo la presentazione per la proposta franco-tedesca nel settembre dello scorso anno, “ci siamo impegnati in un’intensa diplomazia navetta” a Bruxelles, con il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, volato “dieci volte a Pristina e otto a Belgrado”. Oggi si può parlare di una proposta Ue – il cui testo “sarà pubblicato a breve” dal Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) – perché “tutti i 27 Paesi membri l’hanno appoggiata al livello più alto possibile all’ultimo Consiglio Europeo” e i due leader balcanici “si sono mostrati favorevoli ad accettare soluzioni sostenibili”.
    Siamo ancora all’ultimo chilometro, e non al traguardo, perché ciò che manca è l’implementazione di un accordo politico a tutti gli effetti. “Abbiamo una lunga storia di accordi non implementati, ma le parti hanno confermato di essere pronte a farlo in modo rapido”, ha rassicurato l’alto rappresentante Ue, con implicito riferimento all’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo stabilita nell’accordo di Bruxelles del 2013 e ancora al centro delle polemiche per la mancata istituzione: “L’Ue ha ricordato l’obbligo di implementare tutti gli accordi già firmati, che rimangono validi e vincolanti”. Nel frattempo “la diplomazia navetta continuerà”, con il rappresentante speciale Lajčák che “continuerà le discussioni a Belgrado e Pristina” e Borrell che convocherà “un nuovo incontro di alto livello tra i due leader a metà marzo“. L’obiettivo è proprio quello di “completare le discussioni” sulla chiave di volta di tutta l’intesa raggiunta oggi: “L’allegato di implementazione, che è parte dell’accordo, ma deve ancora essere finalizzato“.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    La parola d’ordine di Borrell è “fiducia reciproca”, soprattutto sulle promesse di astenersi da “azioni non coordinare che potrebbero portare nuove tensioni sul campo e far deragliare i negoziati” sull’accordo definitivo di normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. L’intesa “non è utile tanto per l’Ue, quanto piuttosto per i cittadini di Kosovo e Serbia”, è l’ennesimo esortazione di Borrell al buon senso. Si parla di “libertà di movimento utilizzando il proprio passaporto e le proprie targhe, reciprocamente riconosciuti”, di “possibilità economiche, assistenza finanziaria, cooperazione imprenditoriale e nuovi investimenti”. Di più “opportunità di lavoro, senza burocrazia inutile, e di commercio, perché i certificati di import ed export non saranno più un problema”. Di più “sicurezza, certezza e prevedibilità” sulla protezione dei diritti della minoranza serba in Kosovo, “compresa la Chiesa ortodossa e i siti culturali e archeologici”. Di un nuovo futuro di rapporti pacifici tra i due vicini balcanici, dopo la tragedia del conflitto etnico tra il 1998 e il 1999.
    I 12 anni di dialogo tra Kosovo e Serbia
    Era l’8 marzo 2011 quando le delegazioni della Serbia e del Kosovo si sedevano per la prima volta al tavolo del dialogo dell’Ue, per trovare una soluzione sul mantenimento della stabilità dei Balcani occidentali dopo lo scossone della dichiarazione di indipendenza unilaterale di Pristina da Belgrado di tre anni prima. In sette mesi di negoziati a Bruxelles si è arrivati a una serie di accordi: fine dell’embargo commerciale, riconoscimento dei timbri doganali kosovari, possibilità di varcare il confine tra i due Stati per i cittadini e condivisione dei registri catastali e dei documenti su nascite, morti e matrimoni. È seguito poi un altro altro anno e mezzo di accordi tecnici, per risolvere le questioni più urgenti a livello commerciale, burocratico e diplomatico.
    Il 2013 ha segnato l’inizio del dialogo Serbia-Kosovo di alto livello. A due anni dall’inizio dei negoziati si è arrivati al successo della firma dell’Accordo sui principi che disciplinano la normalizzazione delle relazioni, il 19 aprile del 2013. Da quel momento sono potuti così iniziare i lavori per siglare l’Accordo di stabilizzazione e associazione con Pristina e i negoziati di adesione all’Unione per Belgrado. Non sono stati affrontati però i due temi più urgenti per implementare l’accordo di Bruxelles: il riconoscimento della sovranità del Kosovo da parte di Belgrado e la creazione della Comunità delle municipalità serbe nel Paese con il benestare di Pristina. Dal 2014 è iniziato un periodo di tensione e interruzioni continue dei lavori, fino al congelamento del dialogo nel novembre del 2018 a causa della decisione del governo kosovaro di introdurre dazi maggiorati del 100 per cento sulle merci provenienti da Serbia e Bosnia ed Erzegovina.
    Lo stallo per le relazioni tra i due Paesi è durato 20 mesi, fino a quando il presidente serbo Vučić e l’ex-premier kosovaro, Avdullah Hoti, sono tornati per tre volte ai tavoli dei negoziati tra il 12 luglio e il 7 settembre del 2020. A esacerbare nuovamente i rapporti tra le due parti ha contributo l’elezione del governo nazionalista di Kurti nel febbraio del 2021, che ha alzato il livello di tensione retorica con l’altrettanto nazionalista Vučić. Ecco perché dopo due infruttuosi vertici a Bruxelles il dialogo si è bloccato di nuovo sotto i colpi della cosiddetta battaglia delle targhe tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro.
    Una questione che ha infiammato anche la seconda metà del 2022, con blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara a fine luglio, altre due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles e le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali a inizio novembre. Parallelamente agli intensi colloqui per trovare una soluzione di compromesso sulle targhe (raggiunta nella notte tra il 23 e il 24 novembre), Francia e Germania hanno dato una spallata decisiva per portare a termine il dialogo Pristina-Belgrado con la proposta in 9 punti (aggiornata e assorbita dai negoziatori europei alla vigilia del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana). Le continue fiammate tra le due parti negli ultimi mesi – sia sul piano diplomatico, sia con nuove barricate a inizio dicembre – hanno suggerito che l’accordo era sempre più vicino: entrambi gli attori politici – marcatamente nazionalisti – hanno esasperato la propria retorica per uscire dai negoziati con un compromesso più favorevole. Il via libera all’intesa definitiva tra Kosovo e Serbia a Bruxelles oggi ha confermato pienamente questo scenario, in attesa di portare a termine l’ultimissimo chilometro.

    Il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, hanno dato il via libera alla proposta avanzata Bruxelles e sostenuta da tutti i Paesi membri dell’Unione. A metà marzo un nuovo vertice di alto livello per portare a termine gli allegati all’accordo ancora non finalizzati