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    Von der Leyen e Borrell cercano di serrare le fila Ue tra Cina e Taiwan. Ma all’Eurocamera scoppia la polemica su Macron

    Bruxelles – Divide et impera. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, sono certi che la Cina stia giocando una partita diplomatica sottile, sfruttando le crepe nell’unità degli Stati membri e delle famiglie politiche europee per quanto riguarda i rapporti dell’Unione con Pechino, la posizione su Taiwan e la strategia per arrivare all’ormai inflazionato concetto della ‘autonomia strategica’. Una tattica che si starebbe sviluppando sull’onda lunga delle polemiche scatenate dalle parole del presidente francese, Emmanuel Macron, di ritorno dal viaggio a Pechino proprio con la numero uno della Commissione Ue lo scorso 6 aprile.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (18 aprile 2023)
    “Negli ultimi giorni e settimane abbiamo già visto queste tattiche in azione“, è stato l’avvertimento lasciato tra le righe dalla presidente von der Leyen nel corso del suo intervento di oggi (18 aprile) alla sessione plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo nel dibattito sulla strategia per le relazioni Ue-Cina. Il riferimento è alla necessità di “una forte politica europea sulla Cina, che si basa su un coordinamento tra gli Stati membri e le istituzioni dell’Ue” – come affermato nel discorso programmatico del 30 marzo – e alla “volontà di evitare le tattiche di divisione e conquista che sappiamo di dover affrontare“. Divide et impera, appunto. “È ora che anche l’Europa passi all’azione, è il momento di dimostrare la nostra volontà collettiva e mostrare l’unità che ci rende forti”, ha provato a esortare l’emiciclo dell’Eurocamera la leader dell’esecutivo comunitario.
    La posizione di von der Leyen sulle sfide portate dalla Cina è netta, nel tentativo di compattare i gruppi politici e mettersi alla testa di un’Unione che non parli con diverse voci contrastanti. “Il punto di partenza è la necessità di avere un quadro condiviso e chiaro dei rischi e delle opportunità“, ha messo in chiaro agli eurodeputati la presidente della Commissione: “Questo significa riconoscere e dire chiaramente che le azioni del Partito Comunista Cinese sono ormai al passo con l’indurimento della postura strategica complessiva negli ultimi anni”. Non solo le “dimostrazioni di forza militare” nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, o al confine con l’India, ma anche la questione di Taiwan. “La politica dell’Ue di ‘una sola Cina’ [il principio secondo cui esiste un solo Stato-nazione nel mondo sotto il nome di Cina, ndr] è di lunga data”, ha ricordato von der Leyen, ma questo non cambia il fatto che “abbiamo sempre chiesto pace e stabilità nello Stretto di Taiwan e ci opponiamo fermamente a qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo, in particolare attraverso l’uso della forza“.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (18 aprile 2023)
    Sulla stessa linea d’onda l’alto rappresentante Borrell, riferendosi proprio alla questione delle tensioni tra Cina e Taiwan. “Stiamo parlando dello Stretto più strategico al mondo, dobbiamo essere presenti per difendere la libertà di commercio”, ha sottolineato con forza intervenendo di fronte agli eurodeputati. Non si tratta solo di “una questione morale nell’essere contrari all’uso della forza”, ma anche di una fredda valutazione sul fronte economico: “Sarebbe gravissimo per la produzione dei semiconduttori a Taiwan“. E poi c’è il tema del ruolo dell’Unione Europea come “potenza geopolitica”, che per Borrell implica il fatto di “essere presenti in tutte le regioni del mondo, per difendere i nostri interessi”. Ecco perché è necessario fare un “appello alla calma” tra Pechino e Taipei, ha concluso Borrell: “Bisogna tornare a uno status quo nel perimetro strategico dell’Ue e non gettare benzina sul fuoco, sono sicuro che tutti i Paesi Ue saranno d’accordo“.
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    La bagarre al Parlamento Ue sulle parole di Macron su Cina e Taiwan
    Ma quel senso di unità auspicato da von der Leyen e Borrell non si è manifestato nemmeno a pochi minuti dalla fine dei due interventi, quando i presidenti dei gruppi politici al Parlamento Ue si sono succeduti di fronte all’emiciclo per esprimere il proprio punto di vista sulle relazioni tra Bruxelles e Pechino. A scatenare le polemiche tra gli eurodeputati sono state le accuse contro Macron da parte del presidente del Partito Popolare Europeo (Ppe), Manfred Weber (dopo aver tentato invano di far passare un titolo per la discussione sulle relazioni Ue-Cina incentrato proprio sui “danni” provocati dal presidente francese). “È ingenuo dire che Taiwan non è una nostra questione“, è stato l’attacco di Weber, facendo esplicito riferimento alle affermazioni “sciocche” dell’inquilino dell’Eliseo a proposito della possibilità per l’Ue di non essere coinvolta in un conflitto tra Pechino e Taipei. “Per l’economia europea Taiwan è essenziale, e chi la attacca vuole distruggere l’essenza democratica” su cui si basa l’Unione: “Chi non è chiaro da questo punto di vista tradisce gli interessi e i valori europei” e Macron “ha intaccato l’unità dell’Ue”.
    Durissima la risposta del presidente del gruppo di Renew Europe, Stephan Séjourné: “Weber non si è accorto che il titolo della discussione è diverso, ma in ogni caso non ricorda che con i governi di partiti affiliati al Ppe sono aumentate le dipendenze strategiche dalla Cina“. Anche la leader del gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D), Iratxe García Pérez, si è scagliata contro il collega popolare: “In questo nuovo ruolo di leader dell’opposizione, per Weber è indifferente criticare tutti i leader europei, da Macron a Scholz, ma mai quelli dell’estrema destra, attenzione che magari un giorno criticherà anche von der Leyen”. Il presidente del gruppo dei Verdi/Ale, Philippe Lamberts, ha invece preso di mira “l’ingenuità mercantilistica che abbia avuto nei confronti della Cina, come se un commercio senza limiti avrebbe potuto portare la democrazia a Pechino”, mentre l’omologo del gruppo di Identità e Democrazia (ID), Marco Zanni, ha definito Macron “il più grande sovranista e nazionalista d’Europa, che è andato in Cina e ha portato a casa ricchi contratti e accordi per le aziende francesi”.
    A tentare di smorzare le polemiche su Macron e riprendere le fila di un’unità difficile sulla questione cinese è stato l’alto rappresentante Borrell, in chiusura del dibattito durato tre ore. “Ho letto con molta attenzione il discorso dove ha sviluppato il concetto di autonomia strategica, ci ho trovato molte idee europeiste che condivido“, ha puntualizzato di fronte agli eurodeputati, esortandoli a “evitare ulteriori cacofonie” e “lavorare insieme sulla politica di sicurezza, perché il Parlamento Europeo svolge un ruolo importante”. La strategia dell’Unione “non si contraddice con la Nato e non cerca alternative agli Stati Uniti”, ha ribadito con forza Borrell: “Si tratta di rendere la comunità transatlantica più forte, se lo saremo anche noi, perché Stati Uniti e Nato non possono risolvere tutte le nostre crisi“.

    Nei rispettivi interventi alla plenaria del Parlamento Ue è stata ribadita la necessità di unità tra i Ventisette nell’affrontare la tattica di Pechino di “divisione e conquista”. Le accuse del presidente del Ppe, Manfred Weber, al leader francese riaccendono però la bagarre tra eurodeputati

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    L’ambasciatore Ue in Sudan è stato aggredito nella sua residenza a Khartoum durante gli scontri armati

    Bruxelles – I duri scontri armati in Sudan tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf) interessano da vicino l’Unione Europea, e non solo per gli sforzi nel coordinare la de-escalation di una potenziale guerra civile nel Paese africano. Nella serata di ieri (17 aprile) l’ambasciatore Ue in Sudan, l’irlandese Aidan O’Hara, è stato aggredito nella sua residenza nella capitale Khartoum, nel corso di quella che l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito “una grave violazione della Convenzione di Vienna” (il testo del 1961 che disciplina le prerogative di cui godono gli ambasciatori, tra cui l’inviolabilità dei funzionari diplomatici).
    Khartoum, Sudan (credits: Afp)
    La notizia è stata resa nota proprio dall’alto rappresentante Borrell a poche ore dall’aggressione dell’ambasciatore Ue in Sudan: “La sicurezza delle sedi diplomatiche e del personale è una responsabilità primaria delle autorità sudanesi e un obbligo previsto dal diritto internazionale“. Il nome di O’Hara è stato confermato dai portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), che hanno specificato di essere in contatto con il diplomatico irlandese e che “sta bene”. Parlando con Irish Times, il ministro degli Esteri irlandese, Micheál Martin, ha ribadito che l’ambasciatore Ue in Sudan non è stato “gravemente ferito”, ma si è detto “profondamente preoccupato per il grave incidente avvenuto a Khartoum”.
    Cosa sta succedendo in Sudan
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e nel resto del Paese è iniziato sabato mattina (15 aprile) e, secondo quanto riferito dall’inviato dell’Onu Volker Perthes, in tre giorni di combattimenti sono state uccise circa 185 persone e ferite più di 1.800, tra cui tre impiegati del Programma alimentare mondiale (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare). Il commissario europeo per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha ricordato che “gli operatori umanitari lavorano spesso negli ambienti più pericolosi, non sono un obiettivo e il diritto internazionale umanitario deve essere sempre rispettato”. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e ha iniziato a bombardare le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria nei centri abitati.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati da qualche giorno in violenti combattimenti armati.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur (iniziata nel 2003) furono accusati di genocidio: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, furono accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si trasformarono autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e allacciando i rapporti con il gruppo mercenario russo Wagner.

    È successo nella serata del 17 aprile nella capitale sudanese, nel corso dei combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces. L’accusa dell’alto rappresentante Ue, Josep Borrell: “Grave violazione della Convenzione di Vienna”

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    L’Ue sta cercando di coordinare gli sforzi in Africa per non far degenerare gli scontri in Sudan in una guerra civile

    Bruxelles – Non c’è pace per il Sudan e, a due anni dall’ultimo colpo di Stato che ha messo fine alla breve esperienza democratica nel Paese, a Khartum sono in corso duri combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf) per il controllo del potere politico e militare. “L’Unione Europea condanna fermamente l’esplosione di violenza”, è quanto si legge in una nota firmata dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in cui vengono esortate le due parti a “dare prova di leadership e impegnarsi per l’immediata cessazione delle ostilità”.
    Esplosioni nei pressi dell’aeroporto di Khartum (credits: Afp)
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e in altri centri abitati del Paese continua da sabato mattina (15 aprile) e ha già portato alla morte di almeno 60 civili, tra cui tre impiegati del Programma alimentare mondiale (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare). “Gli operatori umanitari lavorano spesso negli ambienti più pericolosi, quindi lo ricordo ancora una volta, non sono un obiettivo e il diritto internazionale umanitario deve essere sempre rispettato”, è il secco commento del commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič. Nonostante la situazione sul campo sia confusa e non ci siano stime affidabili né sul numero di perdite per ciascuna fazione né sul terreno effettivamente controllato dall’esercito regolare e dal gruppo paramilitare, il rischio maggiore è che la situazione possa degenerare in una nuova guerra civile.

    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e ha iniziato a bombardare anche nei centri abitati le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria anche a Port Sudan (sul mar Rosso) e nell’aeroporto di Khartoum, dove un aereo della compagnia aerea Saudia è rimasto coinvolto negli scontri a fuoco. “In questo momento critico la priorità dovrebbe essere far tacere le armi, smorzare la situazione e risolvere le divergenze attraverso il dialogo”, ha intimato l’alto rappresentante Borrell, facendo appello agli “enormi sforzi compiuti negli ultimi mesi per riportare il Paese sulla strada della democrazia attraverso un accordo generale, aprendo la strada a un governo a guida civile”.

    Ma gli scontri armati stanno “mettendo a rischio questi importanti risultati”, è l’allarme lanciato da Bruxelles, che proprio per questo motivo ha iniziato a coordinarsi con partner regionali e internazionali “per promuovere il percorso verso un accordo politico che porti pace, stabilità e sviluppo economico”. L’alto rappresentante Ue ha reso noto di essersi messo in contatto con i ministri degli Esteri di Egitto ed Emirati Arabi Uniti, e di aver contattato telefonicamente il presidente del Kenya, William Ruto, per discutere dell’impegno del Paese che confina a sud con il Sudan nell’assumere la guida degli sforzi di de-escalation: “Dobbiamo lavorare tutti per lo stesso obiettivo, la cessazione delle ostilità e il ritorno di una transizione guidata dai civili”, è l’esortazione di Borrell.
    Il Sudan tra i colpi di Stato
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e l’ex-primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok (29 febbraio 2020)
    Era l’ottobre del 2021 quando i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993).
    Dopo aver sciolto l’esecutivo in carica, il Consiglio sovrano e tutti gli organi di governo locali, i due generali hanno promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano di cui al-Burhan è presidente e Dagalo vicepresidente. L’alleanza tra i due generali però è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è però opposto e le accuse con il presidente sono diventate sempre più dure, fino a quando gli scontri politici si sono trasformati in violenti combattimenti armati.

    Dal 15 aprile sono in corso duri combattimenti nel Paese tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces per il controllo del potere politico e militare. L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, in contatto con Egitto, Emirati Arabi Uniti e Kenya

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    L’Ue fornirà un milione di munizioni all’Ucraina, tra scorte e acquisti comuni. Il piano da 2 miliardi di euro sul tavolo del Vertice Ue

    Bruxelles – Una decisione storica. Tre parole con cui l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, annuncia che i 27 governi dell’Ue hanno raggiunto un accordo politico per consegnare all’Ucraina nei prossimi dodici mesi un milione di munizioni di armi per difendersi dall’aggressione della Russia cominciata il 24 febbraio di un anno fa.
    Mentre il Consiglio Affari Esteri è ancora in corso a Bruxelles, il capo della diplomazia europea ha spiegato che sulla base di una sua proposta, gli Stati membri “hanno accettato di consegnare un milione di munizioni di artiglieria entro i prossimi 12 mesi” a Kiev. Gli ambasciatori dei 27 Stati membri Ue riuniti al Coreper, comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue, hanno raggiunto ieri un’intesa sul piano da due miliardi euro per consegnare almeno un milione di proiettili da 155 mm all’Ucraina entro l’anno, attingendo alle proprie riserve e sbloccando l’iniziativa di appalti congiunti. Un’intesa formalizzata oggi dai ministri e che finirà sul tavolo dei capi di stato e governo al Vertice Ue di giovedì e venerdì.

    A historic decision.
    Following my proposal, Member States agreed to deliver 1 mio rounds of artillery ammunition within the next 12 months.
    We have a 3 track approach:1) €1 bn for immediate delivery 2) €1 bn for joint procurement3) commission to ramp up production capacity pic.twitter.com/CCNOaxE4bk
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) March 20, 2023

    L’approccio stabilito dai ministri dell’Ue sarà in tre fasi, ha riferito Borrell: “un miliardo di euro sarà mobilitato per la consegna immediata di munizioni attraverso le scorte degli Stati membri; un altro miliardo di euro sarà mobilitato per gli acquisti congiunti di armi; in terzo luogo, i ministri hanno acconsentito ad aumentare la capacità di produzione a livello europeo”, si legge nel tweet. La prima fase del piano prevede di fornire munizioni di emergenza all’Ucraina, che sta affrontando carenze, attingendo alle scorte esistenti degli eserciti europei. Per compensare le risorse militari mobilitate per Kiev, i ministri hanno deciso di mobilitare il miliardo di euro citato da Borrell mobilitando i fondi dello strumento europeo per la pace (European Peace Facility) , un fondo fuori dal bilancio europeo e utilizzato dall’inizio della guerra per rifornire di armi l’Ucraina.
    La svolta storica riguarda però la seconda componente del piano, che prevede di far acquistare agli Stati congiuntamente le munizioni, sul modello degli acquisti di vaccini e ora di riserve di gas. Sono 17 Stati membri Ue e la Norvegia ad aver firmato l’accordo di progetto dell’Agenzia europea per la difesa (AED) per l’approvvigionamento comune di munizioni, aprendo la strada agli Stati membri dell’Ue e alla Norvegia per procedere lungo due percorsi: una procedura accelerata di due anni per i proiettili di artiglieria da 155 mm e un progetto di sette anni per l’acquisizione di più tipi di munizioni. L’Italia per ora non ha firmato, ma lo hanno fatto Austria, Belgio, Croazia, Cipro, Cechia, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Slovacchia, Svezia e Norvegia. Borrell ha chiarito ch gli Stati membri hanno già espresso l’intenzione di aderire all’iniziativa presto seguendo le procedure nazionali.
    “I soldati ucraini stanno dimostrando grande coraggio e tenacia. Ma hanno bisogno di munizioni. Accolgo con favore l’accordo odierno che prevede la consegna di 1 milione di munizioni nei prossimi 12 mesi. Lavoreremo con gli Stati membri per aumentare la produzione industriale nel settore della difesa Ue, in modo da garantire la fornitura”, ha commentato su twitter la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.

    Ukrainian soldiers are showing great courage and tenacity.
    But they need ammunition.
    I welcome today’s agreement aiming to deliver 1 million rounds of ammunition over the next 12 months.
    We will work with Member States to ramp up defence industrial production in 🇪🇺 to deliver.
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) March 20, 2023

    L’accordo tra i ministri degli Esteri a Bruxelles per inviare a Kiev un milione di proiettili da 155 mm all’Ucraina entro l’anno, attingendo alle proprie riserve o spingendo sugli acquisti comuni

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    Le 12 ore di Ohrid. L’Ue riesce a far trovare l’intesa a Serbia e Kosovo per l’attuazione dell’accordo di normalizzazione

    Bruxelles – Il diavolo sta nei dettagli, “ma a volte sta nel calendario e nelle tempistiche”. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha fornito una sua personalissima interpretazione della “lunga e difficile” discussione di 12 ore a Ohrid, sulle sponde del lago in Macedonia del Nord, teatro dell’ultimo round di alto livello del dialogo per la normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia. Un appuntamento atteso con particolare urgenza a Bruxelles, dopo il vertice del 27 febbraio decisivo per far trovare alle due parti una complicatissima intesa sulla proposta Ue in 11 punti. Mancava solo il via libera all’allegato di attuazione dell’accordo – la vera chiave di volta di tutta l’intesa che stabilisce “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come” – e ad Ohrid si può dire che quantomeno non c’è stata nessuna battuta di arresto.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (18 marzo 2023)
    Perché i due leader di Kosovo e Serbia, rispettivamente il premier Albin Kurti e il presidente Aleksander Vučić, hanno avallato l’allegato di attuazione, ma non l’hanno firmato. Il 18 marzo ad Ohrid è andato in scena un duello diplomatico, in cui l’alto rappresentante Borrell e il suo braccio destro, il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, hanno dovuto destreggiarsi per arrivare alle 23.10 e poter dire “abbiamo un accordo”. Tra luci e ombre. “Devo ammettere che inizialmente abbiamo proposto un annesso più ambizioso e dettagliato, ma sfortunatamente le parti non hanno trovato un accordo“, ha confessato Borrell, puntando il dito sulla responsabilità condivisa tra Pristina e Belgrado: “Da una parte, al Kosovo è mancata flessibilità nella sostanza, dall’altra parte, la Serbia aveva dichiarato a priori che non l’avrebbe firmato, anche se era pronta a implementarlo pienamente”. Ecco perché i due diplomatici europei hanno dovuto mettere sul tavolo “diverse proposte creative” – anche se “non così ambiziose come le prime” – e così, con la dichiarazione alla stampa dell’alto rappresentante Ue, “l’annesso è considerato adottato”.
    Non si tratta solo di parole o promesse, ma di un documento che ha un impatto concreto, anche senza firma. “Quello che hanno accettato – l’accordo e l’annesso di implementazione – diventeranno una parte integrante dei rispettivi percorsi verso l’adesione Ue“, ha puntualizzato l’alto rappresentante Borrell. In altre parole, se Pristina e Belgrado vorranno continuare a seguire la strada verso l’adesione Ue, è esplicito l’obbligo di mettere a terra tutti i punti concordati e adottati in principio. Anche senza firma. “Per renderlo concreto, lancerò immediatamente i lavori per includere gli emendamenti nel capitolo di negoziazione 35 con la Serbia [sulle relazioni esterne, ndr] e nell’agenda del gruppo speciale sulla normalizzazione del Kosovo”, e da questo momento “entrambe le parti saranno legate dall’accordo”. Il retro della medaglia è perfettamente intuibile: “Ora gli obblighi sono parte del percorso europei, non rispettarli avrà conseguenze“. Anche perché il dialogo Pristina-Belgrado “non riguarda solo Kosovo e Serbia”, ha spiegato ancora Borrell, facendo riferimento alla “stabilità, sicurezza e prosperità” dell’intera regione dei Balcani Occidentali.
    Cosa prevede l’allegato di attuazione dell’accordo tra Serbia e Kosovo
    L’allegato di attuazione dell’accordo sul percorso di normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia è composto di 12 punti, che costituiscono “parte integrante dell’accordo” stesso. Le due parti si impegnano “pienamente” a rispettare tutti gli articoli non solo dell’intesa del 27 febbraio, ma anche dell’allegato che mette nero su bianco i “rispettivi obblighi da adempiere tempestivamente e in buona fede“. Il presupposto è proprio il fatto che entrambi i documenti sono ora “parte integrante dei rispettivi processi di adesione all’Ue“, con le misure annunciate dall’alto rappresentante per rendere questo punto effettivo nei rapporti bilaterali tra Bruxelles e Pristina e tra Bruxelles e Belgrado.
    Come obblighi da attuare, Kosovo e Serbia “convengono di approvare con urgenza la Dichiarazione sulle persone scomparse“, negoziata nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue e Pristina deve “avviare immediatamente negoziati per la definizione di accordi e garanzie specifici che assicurino un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo“, così come già concordato 10 anni fa. Si tratta dell’Associazione delle municipalità serbe nel Paese prevista dall’accordo del 2013, mai implementato. Sul piano dell’attuazione di tutte le disposizioni sia dell’accordo sia dell’allegato, le due parti istituiranno un Comitato congiunto di monitoraggio presieduto dall’Ue, da istituire “entro 30 giorni”. Tra le scadenze viene inclusa anche quella di metà agosto 2023 (“entro 150 giorni) per l’organizzazione di una Conferenza dei donatori per definire un pacchetto di investimenti e aiuti finanziari per Kosovo e Serbia, in modo da attuare l’articolo 9 sull’impegno dell’Ue “in materia di sviluppo economico, connettività, transizione ecologica e altri settori chiave”. In ogni caso l’Unione Europea “non effettuerà alcun esborso prima di aver accertato la piena attuazione di tutte le disposizioni dell’accordo”.
    Il rispetto dei due documenti implica il fatto che “tutti gli articoli saranno attuati indipendentemente l’uno dall’altro“, che l’ordine dei paragrafi dell’allegato “non pregiudica l’ordine di attuazione” e che non dovrà essere bloccata l’attuazione di “nessuno degli articoli”. Le discussioni tra le parti per l’attuazione dell’accordo continueranno “nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue” e il mancato rispetto degli obblighi derivanti “dall’accordo, dal presente allegato o dai precedenti Accordi di dialogo” può avere “conseguenze negative dirette sui rispettivi processi di adesione e sugli aiuti finanziari che ricevono dall’Ue“, è quanto si legge a chiare lettere nel documento avallato da Kurti e Vučić..

    Sulle sponde del lago macedone il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, hanno avallato (ma non firmato) l’allegato di implementazione del vertice di Bruxelles. Un vincolo per i rispettivi percorsi Ue su “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come”

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    L’Ue punta sul gas algerino, ma Algeri lo sta già usando come arma politica

    Bruxelles – L’Algeria è la nuova Russia, con risorse energetiche pronte da essere usate come arma politica contro l’Unione europea? Il rischio, in Europa, c’è chi lo vede e non può fare a meno di porre la questione ad una Commissione che però tira dritto e rinnova la fiducia ad un partner diventato ancor più strategico alla luce della guerra in Ucraina e la necessità di affrancarsi dalle forniture di Gazprom. Susana Solís Pérez, europarlamentare liberale (Re) vede però sullo sfondo un nuovo problema di indipendenza geopolitica per l’Unione, per effetto di questioni tutte regionali.
    C’è la questione del Sahara occidentale a dividere Algeria e Marocco. Rabat rivendica come propri i territori che invece la repubblica araba democratica di Saharawi (Rads) considera come parte integrante del Paese. Algeri sostiene la Rads e il suo movimento politico di riferimento, il Fronte polisario. Divergenze di vedute che hanno portato all‘interruzione delle relazioni diplomatiche nel 2021, e le tensioni in nord Africa hanno già avuto ripercussioni per l’Europa.
    Nella sua interrogazione, Susana Solís Pérez, ricorda che il gasdotto Maghreb-Europa (Mge) rifornisce la penisola iberica di gas algerino attraverso il Marocco. Una conduttura lunga 1.400 chilometri che dal 1996 trasporta oltre 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno nell’Europa occidentale. “A seguito della rottura delle relazioni diplomatiche tra Algeria e Marocco nell’agosto 2021, l’Algeria ha deciso di non rinnovare il contratto di 25 anni di Mge”, rileva l’europarlamentare. Preoccupata non a torto, visto che l‘Algeria ha sospeso l’accordo di amicizia con la Spagna per il sostegno dato a Madrid alle rivendicazioni marocchine sul Sahara occidentale.
    “L’Algeria ha aumentato il prezzo delle forniture di gas alla Spagna attraverso il gasdotto Medgaz“, denuncia ancora la parlamentare liberale. Medgaz è un’infrastruttura sottomarina lunga circa 757 chilometri, con una capacità massima annuale di 10,5 miliardi di metri cubi di gas. Una scelta, quella di rivedere i listini nei confronti di Madrid, che mostra “l‘uso dell’approvvigionamento energetico da parte dell’Algeria come arma politica“.
    La Commissione europea lascia all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, il compito di rassicurare sulla questione. “L’Ue ha costantemente lavorato per rafforzare il suo partenariato con l’Algeria, concentrandosi sulle priorità indicate nell’accordo di associazione”, ricorda il membro del collegio dei commissari. Inoltre, “a seguito della decisione dell’Ue di tagliare le sue importazioni di gas dalla Russia, l’Algeria si è impegnata ad aumentare le sue forniture di gas all’Europa nel 2022 e negli anni successivi”. Tradotto: Algeri è un partner affidabile, non è una nuova Russia, “l‘Unione europea apprezza molto la cooperazione energetica con l’Algeria ed è pronta ad approfondirla ed espanderla ulteriormente”.
    La strategia Ue ha una sua logica. L‘Algeria resta comunque parte dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec). E’ vero che l’Unione ha scelto la strada della sostenibilità e del superamento dei combustibili fossili, ma nella transizione avere interlocutori privilegiati all’interno del gruppo che fissa i prezzi del barile di greggio può rappresentare un punto di forza. Un orientamento che suona però da scommessa.
    La questione è sul tavolo anche da prima dello scoppio della guerra in Ucraina. Antonio Tajani, ora ministro degli Esteri ma allora in veste europarlamentare, sollevò la stessa questione sempre via interrogazione scritta. La decisione di Sonatrach di interrompere ogni tipo di attività in Marocco e con il Marocco “pone quesiti importanti sulla dipendenza energetica dell’Unione”. Scrisse così Tajani, a riprova del fatto che già prima di un riposizionamento sul mercato l’opzione algerina non sembra delle migliori.
    Borrell ha provato a rassicurare anche in quel frangente: “Per quanto riguarda le attuali tensioni diplomatiche tra Algeria e Marocco, l’Ue è pronta a fornire tutto il sostegno necessario al processo guidato dalle Nazioni Unite per trovare una soluzione politica giusta e reciprocamente accettabile al caso del Sahara occidentale”. Ma fino ad oggi l’Ue ha sempre privilegiato la parte marocchina nel confronto con i Saharawi, il che la potrebbe esporre alle ripicche energetiche algerine. 

    La questione del Sahara occidentale è motivo di scontro tra Algeria e Marocco, e le posizioni spagnole a sostegno di Rabat ridisegnano i contratti di Sonatrach. La questione già nota prima dello scoppio delle guerra in Ucraina

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    L’Ue potrebbe mobilitare 2 miliardi di euro per munizioni a Ucraina. Cautela sulle notizie del sabotaggio di Nord Stream

    Bruxelles – Un piano in tre passi, per uno stanziamento complessivo da due miliardi di euro per la fornitura di munizioni. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha anticipato oggi (8 marzo) alla stampa le intenzioni della Commissione Europea per un ulteriore sostegno all’Ucraina sul piano del sostegno militare, proprio mentre “la situazione militare sul campo rimane molto difficile, in particolare a Bakhmut, dove continuano le battaglie strada per strada, e le prossime settimane saranno critiche”.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Dal momento in cui Kiev “ha bisogno di continuo supporto, soprattutto di munizioni per l’artiglieria”, la soluzione a inizio 2023 da Bruxelles è un piano di “tre fasi complementari, che vanno insieme e non in modo isolato”, ha precisato con forza l’alto rappresentante Borrell. In primis una donazione di munizioni di artiglieria da 152/155 millimetri “dagli stock già esistenti”, il cui “rimborso arriverà attraverso un miliardo di euro dall’European Peace Facility”, lo strumento fuori bilancio per la prevenzione dei conflitti, la costruzione della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale. In secondo luogo, un altro miliardo per il “coordinamento della domanda per gli ordini di altre munizioni attraverso l’Agenzia Europea della Difesa”, per cui è necessaria “una procedura veloce, per abbattere il prezzo e i tempi di consegna”. E infine un “aumento della capacità manifatturiera europea e la diminuzione dei tempi di produzione”.
    Nel corso del Consiglio Difesa informale a Stoccolma è stata raggiunta “un’intesa in linea generale” a proposito della fornitura di munizioni all’Ucraina, ma “ci sono ancora questioni da discutere“, ha confessato Borrell: “Spero che al prossimo Consiglio [al momento calendarizzato per il 23 maggio, ndr] si raggiunga un accordo formale”. Le parole dell’alto rappresentante sono dure: “Serve una mentalità da guerra, perché siamo in guerra, sfortunatamente dobbiamo parlare così perché il conflitto continua”, anche se “dobbiamo tenere aperta la porta per ogni negoziato di pace“. Intanto gli ambasciatori dell’Ue hanno approvato l’ulteriore stanziamento da 2 miliardi di euro per il Fondo europeo per la pace, dando seguito all’intesa politica di dicembre tra i ministri Ue della Difesa.

    #COREPERII Today, EU Ambassadors approved an additional €2 billion to the European Peace Facility. This decision sends a clear signal of the EU’s enduring commitment to military support for Ukraine and other partners. pic.twitter.com/T4U44gak4Q
    — Swedish Presidency of the Council of the EU (@sweden2023eu) March 8, 2023

    Oltre le munizioni, le notizie su Nord Stream
    Fuoriuscita di gas metano nel Mar Baltico dal gasdotto Nord Stream 1 (27 settembre 2022)
    “È una cosa molto seria, ma non bisogna mai avere paura della verità, di nessuna verità”, è la cauta presa di posizione dell’alto rappresentante Borrell a proposito dell’altro tema che ha agitato i 27 ministri Ue a Stoccolma. Secondo quanto riportano il quotidiano tedesco Die Zeit e lo statunitense New York Times, dietro al sabotaggio dei due gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2 con la fuoriuscita di metano nel Mar Baltico di fine settembre dello scorso anno ci sarebbe un gruppo filo-ucraino. “Stiamo parlando di speculazioni, le indagini stanno ancora andando avanti in Svezia, Germania e Danimarca”, ha cercato di gettare acqua sul fuoco Borrell. Fino a quando non si arriverà alla fine delle investigazioni, “non possiamo giungere a conclusioni affrettate“.
    Secondo le rivelazioni dei due quotidiani, l’operazione potrebbe essere stata condotta in modo non ufficiale da un gruppo con legami con il governo o con i servizi di sicurezza ucraini. Anche se ci sono ancora molti buchi nella versione trapelata sulla stampa, gli investigatori tedeschi avrebbero identificato un’imbarcazione utilizzata per piazzare gli esplosivi, appartenente a una società registrata in Polonia e di proprietà di due cittadini ucraini. La squadra che avrebbe condotto l’operazione di sabotaggio ai danni dei due gasdotti sarebbe stata composta da sei individui di nazionalità sconosciuta. “Non c’entriamo nulla con l’operazione di sabotaggio ai danni dei gasdotti Nord Stream, sarebbe un bel complimento per i nostri servizi speciali ma quando si concluderanno le indagini si vedrà che l’Ucraina non ha nulla a che fare con tutto ciò“, si è smarcato da ogni tentativo di accusa il ministro della Difesa ucraino, Oleksii Reznikov, arrivando a Stoccolma, dove ha partecipato al vertice informale.
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    L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, ha anticipato il piano in tre step, che prevede donazioni immediate e coordinazione della domanda futura. Sulle speculazioni di gruppo pro-Kiev dietro al sabotaggio “non bisogna avere paura della verità, ma aspettare la fine delle indagini”

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    Borrell: “Esercitazione militare Sudafrica-Cina-Russia grave preoccupazione”

    Bruxelles – Alleanze militari e geopolitiche, l’Ue guarda con preoccupazione le scelte del Sudafrica e la presenza di Russia e Cina nel quadrante africano. La decisione del governo di Pretoria di tenere esercitazioni militari congiunte non è passata inosservata a Bruxelles. L’operazione Mosi, che vede esercitazioni navali congiunte tra le tre diverse forze armate, viene considerata come “simulazione di guerra” in Parlamento Ue ed è fonte di inquietudine in Commissione europea. “Sebbene queste esercitazioni non rappresentino una minaccia diretta alla sicurezza europea, lo svolgimento di esercitazioni militari navali con Russia e Cina nell’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina è motivo di grave preoccupazione“, riconosce l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell.
    L’operazione Mosi è stata condotta per la prima volta nel 2019, a largo delle coste di Città del Capo. Un momento comunque carico di tensioni tra oriente e occidente per via della questione della Crimea. La seconda edizione di questa cooperazione, tenuta a febbraio di quest’anno, si colloca però in uno scenario internazionale completamente diverso, contraddistinto dalla guerra russo-ucraina e due Paesi, Cina e Sudafrica, che non hanno mai pubblicamente condannato l’aggressione del Cremlino. Sono gli stessi Paesi a essersi astenuti sul voto in sede Onu per la pace giusta in Ucraina.
    L’Unione europea non può fare molto al riguardo. “Il Sudafrica – ricorda Borrell  – come tutti gli altri Paesi, ha il diritto di perseguire la politica estera secondo i propri interessi”. In quanto nazione indipendente e sovrana resta libera di fare le scelte che ritiene più opportune. Per questo motivo “l’Ue non chiede al Sudafrica di schierarsi” tra oriente e occidente: “Ciò che l’Ue chiede al Sudafrica è di schierarsi dalla parte dei principi e dei valori della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale“.
    C’è anche un altro aspetto che emerge della considerazioni dell’Alto rappresentante su scelte e manovre sudafricane: un cambio di rotta chiaro nelle scelte di cooperazione militare. Per quanto riguarda le esercitazioni in mare, “in passato il Sudafrica le condotte anche con Stati membri dell’Ue”. Si prende atto dunque di un cambio di alleanze che non viene accolto con particolare favore.
    Gli Stati Uniti hanno visto questa seconda edizione di Mosi come un atto contrario alle politiche dell’occidente. Un aspetto, questo, sottolineato anche dall‘Atlantic Council, il think-tank statunitense con sede a Washington D.C. che promuove l’atlantismo e serve da centro studi di sostegno alla politica. “Le relazioni amichevoli e di routine del Sudafrica sono antitetiche agli obiettivi dell’Occidente di isolare, scoraggiare e sconfiggere la Russia“, sottolineano gli esperti del think-tank. Che avvertono: “In un ambiente diplomatico sempre più polarizzato, il non allineamento può sembrare di fatto un allineamento con la Russia“.
    Il Sudafrica è una delle principali potenze militari del continente africano per capacità marittima. Dispone di una flotta navale mista composta da fregate, sottomarini, unità d’attacco veloci, cacciamine, incrociatori e pattugliatori.

    L’Alto rappresentante si esprime sulla seconda edizione della missione Mosi. “Pretoria rispetti carta Onu e diritto internazionale”