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    Nuove elezioni locali, rafforzamento Eulex e rilascio dei poliziotti. Le soluzioni Ue contro la tensione Serbia-Kosovo

    Bruxelles – Il dialogo Pristina-Belgrado è tornato nella “modalità di gestione della crisi”, nonostante i passi in avanti compiuti a febbraio-marzo. Se in modo permanente o temporaneo lo diranno solo gli eventi delle prossime settimane nel nord del Kosovo, ma per il momento a Bruxelles c’è particolare apprensione per il passo indietro fatto nell’ultimo mese dai due Paesi balcanici, il Kosovo del premier Albin Kurti e la Serbia del presidente Aleksandar Vučić. “È inaccettabile e insostenibile, non può continuare”, è la dura accusa dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al termine della lunga giornata di discussioni ieri (22 giugno) “separatamente” con il premier kosovaro e il presidente serbo (da sottolineare che “non erano incontri congiunti” perché Vučić si è rifiutato di dialogare con Kurti), parlando con i giornalisti a Bruxelles del “deterioramento inutile della situazione nel nord del Kosovo“.
    Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, a Bruxelles (22 giugno 2023)
    Un appuntamento in dubbio fino all’ultimo, ma che è servito all’alto rappresentante Borrell e al rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, per illustrare le “chiare aspettative” dell’Unione dopo “settimane in cui abbiamo chiesto al Kosovo e alla Serbia di smorzare le tensioni e di tornare al processo di normalizzazione delle relazioni, ma finora abbiamo assistito solo al contrario”. A Pristina viene chiesto di sospendere “immediatamente” le operazioni di polizia nelle vicinanze dei municipi nel nord del Kosovo (Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica) e che i quattro sindaci svolgano “temporaneamente” le loro funzioni in locali esterni agli edifici municipali. La Serbia viene invece esortata a “garantire” che i manifestanti serbo-kosovari si ritirino dalle proteste “contemporaneamente” alla polizia del Kosovo (lasciando implicito il fatto che Belgrado abbia una responsabilità quantomeno indiretta nelle azioni del partito Lista Srpska nel Paese vicino). Allo stesso tempo “entrambi devono annunciare” elezioni locali anticipate “il prima possibile”, “in tutti e quattro i comuni” interessati e “con la partecipazione incondizionata dei serbi del Kosovo”.
    È proprio questo “il nocciolo del problema” e che inevitabilmente sarà “il nocciolo della soluzione”. Nuove elezioni amministrative, dopo il continuo boicottaggio dei serbo-kosovari e i risultati non accettabili di aprile (a causa della scarsissima partecipazione) per la comunità internazionale. Secondo l’alto rappresentante Borrell questo dovrebbe mettere fine alle tensioni sul campo, permettendo un ritorno al tavolo dei negoziati per l’implementazione degli accordi sulla normalizzazione delle relazioni: l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid (Macedonia del Nord) il 18 marzo. In questo contesto vanno avviati “senza ulteriori ritardi o precondizioni” i negoziati per la stesura dello statuto dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, ovvero “accordi e garanzie specifici che assicurino un livello adeguato di autogestione” per la comunità serba nel Paese (secondo quanto specificato dall’accordo di Ohrid).
    Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Bruxelles (22 giugno 2023)
    Nella ricerca di “passi molto concreti sul come e sul quando disinnescare la situazione sul campo”, l’alto rappresentante Borrell ha riferito alla stampa di aver “messo sul tavolo proposte concrete, basate sulle condizioni dell’Unione Europea“. In primis proprio il fatto di aver “concordato sulla necessità di nuove elezioni“, che – nonostante “non ci siamo ancora sulle modalità” – partono dalla base di una condivisione di intenti sulle “diverse alternative e procedure” per arrivarci. C’è poi la questione degli arresti “arbitrari o ingiusti” e delle accuse di “maltrattamenti inaccettabili” ai danni dei prigionieri (Borrell ha chiesto a Kurti “un’indagine approfondita e misure appropriate”), per cui l’intenzione è quella di rafforzare la missione civile Eulex con un “monitoraggio più incisivo”. E infine l’ultimo tema che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento e detenzione di tre poliziotti kosovari in Serbia, che “devono essere rilasciati immediatamente e senza condizioni”, è l’esortazione senza giri di parole a Vučić.
    Da parte dell’Unione nei prossimi giorni continuerà la “stretto contatto” con le parti dell’alto rappresentante Borrell, che lunedì (26 giugno) riferirà ai 27 ministri degli Esteri a Lussemburgo. Da ricordare che nell’ultima bozza delle conclusioni del Consiglio Europeo del prossimo 29-30 giugno compare un punto dedicato proprio ai rapporti tra Pristina e Belgrado: nella condanna ai recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo, i Ventisette chiederanno “un’immediata attenuazione della situazione” e, “come passo successivo, sono necessari la ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la rapida attuazione dell’accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo allegato di attuazione”. La minaccia non troppo velata da parte dei 27 capi di Stato e di governo riguarda il fatto che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative“.
    Un mese ad alta tensione tra Serbia e Kosovo
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si accusano a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid.

    Nella riunione d’emergenza convocata a Bruxelles dall’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, sono state presentate le proposte al premier kosovaro, Albin Kurti, e al presidente serbo, Aleksandar Vučić, per mettere fine all’escalation “inaccettabile e insostenibile” iniziata lo scorso 26 maggio

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    La tensione tra Serbia e Kosovo cresce senza sosta. Kurti e Vučić a Bruxelles per una riunione di emergenza

    Bruxelles – Ricostruire le tensioni tra Serbia e Kosovo è come affrontare un domino. Per ogni tessera caduta bisogna risalire a quella precedente, caduta a sua volta per colpa di un’altra più dietro. Se si vuole inquadrare il motivo per cui – dopo un inizio di anno in cui Pristina e Belgrado sembravano avviate sulla strada della normalizzazione dei rapporti – oggi la situazione è tra le più delicate da anni, bisogna tornare indietro alle proteste di maggio nel nord del Kosovo, e ancora prima al boicottaggio delle elezioni amministrative di aprile, al ritiro dei serbo-kosovari dalle istituzioni locali, alla ‘battaglia delle targhe’. Si potrebbe tornare indietro fino al 17 febbraio 2008, il giorno dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, alla guerra del 1998-1999, alla ‘questione kosovara’ durante e dopo la dissoluzione della Jugoslavia di Tito. Isolare la situazione contingente è uno sforzo complesso, cercare delle soluzioni sul breve e lungo termine ancora di più. E l’Unione Europea da più di dieci anni è chiamata a fare proprio questo, oggi più che mai.
    L’arresto/sequestro di tre poliziotti kosovari dai servizi di sicurezza serbi nell’area di confine tra Serbia e Kosovo (14 giugno 2023)
    “Stiamo seguendo molto da vicino e con urgenza la situazione, siamo in stretto contatto con entrambe le parti e con il contingente Kfor per capire cosa e come è successo”, ha spiegato ieri (15 giugno) in un punto con la stampa di Bruxelles il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Sea), Peter Stano, rispondendo alle domande sull’ultimo episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi di mercoledì (14 giugno). Un evento particolarmente grave in qualsiasi modo lo si voglia guardare, per cui i due governi si accusano a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine. Come fanno notare diversi analisti, anche se è difficile individuare il luogo preciso dove è avvenuto l’arresto, in ogni caso si tratta di una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente coperto dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. In altre parole, un luogo dove, soprattutto nei boschi, sconfinamenti e infiltrazioni degli apparati di sicurezza serbi potrebbero non essere così rari, benché la frontiera sia ben definita. La polizia kosovara è autorizzata a pattugliare il nord del Paese, mentre è tutto da capire il motivo per cui l’unità serba specializzata in anti-terrorismo si trovasse a ridosso (o oltre) il confine nazionale.
    In ogni caso dagli Stati Uniti è arrivata la richiesta formale a Belgrado di rilasciare “immediatamente e incondizionatamente” i tre poliziotti kosovari, mentre Bruxelles esorta entrambe le parti ad “astenersi da qualsiasi azione e reazione che potrebbe aumentare una tensione già piuttosto alta”. A proposito di tensione alta, l’ultimo episodio nel nord del Kosovo ha spinto l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a convocare a Bruxelles il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, per “una riunione d’emergenza la prossima settimana“, ha reso noto oggi (16 giugno) il portavoce del Seae. Anche se “per il momento non possiamo condividere dettagli”, al centro della riunione ci saranno i tentativi politici di risolvere la crisi sul campo, con un focus particolare sulle “misure temporanee e reversibili, non sanzioni economiche” contro Pristina – annunciate negli ultimi giorni – “per dimostrare che l’Ue è seria se Kurti non intraprende passi significativi per la de-escalation”, ma anche sulla “valutazione in corso degli adempimenti richiesti alla controparte serba” per evitare la tensione nel Paese confinante. Anche perché, come risposta all’operazione delle forze di sicurezza di Belgrado, Pristina ha chiuso i confini a veicoli e merci in arrivo dalla Serbia e si rischia ora un effetto a catena.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    La de-escalation chiesta con urgenza da Bruxelles è reiterata quasi ogni giorno da esattamente tre settimane. Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate negli ultimi giorni per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio.
    Le tensioni tra Serbia e Kosovo prima del 2023
    Per capire quanto sta succedendo in questo 2023 è necessario tornare indietro, almeno agli ultimi due anni di tensione tra Pristina e Belgrado. Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles mediate dall’Ue, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘ tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha poi infiammato la seconda metà del 2022. A fine luglio sono comparsi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sbocco politico.
    Le barricate ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo a dicembre 2022
    La situazione si è però aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska ha definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013, ovvero la mancata istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state poi rinviate al 23 aprile. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si è registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo.
    Il presidente serbo ha minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si è dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese a inizio novembre. A pochi giorni dal vertice Ue-Balcani Occidentali, il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, il 18 marzo 2023 (Ohrid, Macedonia del Nord)
    Prima del nuovo exploit di tensioni sul campo iniziato a fine maggio, l’Ue ha cercato di spingere con forza per arrivare a un’intesa definitiva tra le due parti che risolva di riflesso anche i continui episodi più o meno violenti nel nord del Kosovo. È del 27 febbraio l’accordo di Bruxelles che ha definito gli impegni specifici che Serbia e Kosovo devono assumersi per la normalizzazione dei rapporti reciproci: una proposta in 11 punti avanzata dall’Ue e concordata da entrambi i leader dei due Paesi balcanici nel corso della riunione-fiume nella capitale dell’Unione Europea. Nonostante il testo non sia stato firmato, a renderlo vincolante per Pristina e Belgrado è stata l’intesa sull’allegato di implementazione (anche questo non firmato, ma con pesantissime conseguenze finanziarie in caso di mancato rispetto), raggiunto dopo una sessione di 12 ore di riunioni bilaterali e congiunte a Ohrid (Macedonia del Nord). Nonostante nei due testi compaia la questione dell’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, già al termine dell’ultimo confronto di alto livello a Bruxelles di inizio maggio l’alto rappresentante Borrell aveva avvertito in modo sinistro che la bassissima affluenza alle elezioni amministrative del 23 aprile “ha il potenziale di portare a un’escalation e di minare l’attuazione dell’Accordo di Ohrid.

    L’alto rappresentante Josep Borrell ha invitato i due leader “la prossima settimana” per trovare una soluzione politica alla crisi sul campo. L’Unione pronta ad adottare “misure con effetto immediato” contro Pristina, ma è anche “in corso la valutazione degli adempimenti” di Belgrado

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    La nuova agenda rinnovata tra Ue e America Latina-Caraibi tra transizione e materie critiche

    Bruxelles – Passare dall’essere semplici partner naturali a diventare ‘partner di scelta’. E’ un’agenda rinnovata con l’America Latina e i Caraibi in sei aree di cooperazione (con una serie di azioni chiave per contribuire a realizzarne gli obiettivi) quella adottata oggi (7 giugno) dalla Commissione europea e dall’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, attraverso una comunicazione congiunta.
    Una comunicazione che arriva, strategicamente, a poche settimane dal vertice Ue-Celac che si terrà a Bruxelles il 17 e 18 luglio e propone un partenariato strategico più forte e modernizzato, attraverso un impegno politico rafforzato, la promozione del commercio e degli investimenti e maggiori investimenti attraverso ‘Global Gateway’, l’iniziativa da quasi 300 miliardi di euro che per l’area latinoamericana e caraibica ha in mente un’agenda ambiziosa che comprende attività che vanno dall’estensione del 5G alle aree remote, ai green bond, a sistemi di trasporto più ecologici, all’energia pulita all’idrogeno e a migliori infrastrutture sanitarie, fino all’incremento della ricerca congiunta. Politica, commercio, investimenti di Global Gateway per accelerare una transizione verde e digitale; giustizia e la lotta alla criminalità organizzata transnazionale; pace, sicurezza e diritti, e partnership tra persone: queste le aree di intervento per rafforzare il partenariato messe in evidenza dalla Commissione europea.

    “Oggi il partenariato strategico Ue e America Latina e Caraibi è più importante che mai. Siamo alleati chiave per rafforzare l’ordine internazionale basato sulle regole, difendere insieme la democrazia, i diritti umani e la pace e la sicurezza internazionali. Abbiamo anche interesse a rafforzare il nostro partenariato politico e il nostro impegno, combattere il cambiamento climatico e portare avanti una trasformazione digitale inclusiva e incentrata sull’uomo. Il nostro Global Gateway stimolerà anche gli investimenti e una più stretta cooperazione”, ha riconosciuto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
    Proprio il vertice di luglio sarà il momento per attuare l’agenda comune per gli investimenti, mobilitando risorse tra gli altri, per l’energia rinnovabile e l’idrogeno verde, le materie prime critiche, la decarbonizzazione e i progetti di infrastrutture di trasporto, il 5G e la connettività dell’ultimo chilometro, la digitalizzazione dei servizi pubblici, la gestione sostenibile delle foreste, la produzione sanitaria, l’istruzione e le competenze e la finanza sostenibile. In particolare, Bruxelles guarda alla dimensione commerciale della partnership con America Latina e Caraibi, tanto che a presentare l’agenda in conferenza stampa insieme a Borrell c’era il vicepresidente esecutivo con delega al commercio, Valdis Dombrovskis. L’Ue stima che grazie a questi accordi, gli scambi bilaterali di beni sono aumentati del 40 per cento dal 2018 al 2022, con un totale di scambi bilaterali di beni e servizi pari a 369 miliardi di euro nel 2022.
    Sono in corso gli sforzi per firmare e ratificare l’accordo aggiornato con il Cile e per finalizzare quello con il Messico, ma resta in ballo anche l’accordo con il blocco del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) le cui trattative sono in stallo dal 2019. Il rafforzamento dei partenariati commerciali per l’Ue è la chiave per non perdere la corsa all’approvvigionamento di materie prime critiche per la transizione, che passa anche attraverso il rafforzamento degli accordi commerciali. Bruxelles sta lavorando per rafforzare partnership commerciali strategiche con quei Paesi che possono aiutare l’Unione nella corsa alle materie prime. Il Cile, ad esempio, è il secondo produttore al mondo di litio, che viene usato per la produzione delle batterie. L’Unione europea e la regione latinoamericana e caraibica “scambiano già ogni giorno beni e servizi per un valore di un miliardo di euro, ma ora vogliamo passare al livello successivo, ad esempio con partnership reciprocamente vantaggiose su materie prime critiche per diversificare le nostre catene di approvvigionamento”, ha confermato Dombrovskis, sottolineando che finalizzare l’accordo con il Mercosur “rafforzerebbe notevolmente i legami tra le due regioni”.

    Una comunicazione che arriva a poche settimane dal vertice Ue-Celac che si terrà a Bruxelles il 17 e 18 luglio e propone un partenariato strategico più forte e modernizzato, attraverso un impegno politico rafforzato, la promozione del commercio e degli investimenti e maggiori investimenti attraverso ‘Global Gateway’

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    Dure condanne della comunità internazionale agli scontri nel nord del Kosovo in cui sono rimasti feriti anche soldati Kfor

    Bruxelles – Gli ultimi sviluppi nel nord del Kosovo non sono più una semplice questione di preoccupazione – come spesso le istituzioni comunitarie esprimono in maniera più o meno partecipata – ma richiedono una forte presenza della comunità internazionale per non permettere che la situazione sfugga di mano. Le premesse ci sono tutte, parlare di rischio guerra è un totale azzardo, ma il modo in cui le proteste della minoranza serbo-kosovara sono sfociate ieri (29 maggio) in violenze anche contro i soldati della missione Kfor a guida Nato dimostra la necessità di un intervento deciso a sostegno della soluzione diplomatica su cui Bruxelles sta spingendo per la normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo. L’unico modo per creare condizioni di sicurezza e stabilità anche in una regione fragile come il nord del Kosovo.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, nel nord del Kosovo (29 maggio 2023)
    “L’Ue condanna nella maniera più forte possibile le violenze che abbiamo visto negli ultimi giorni“, ha commentato in modo secco l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in un punto stampa oggi (30 maggio) a Bruxelles con il neo-eletto presidente del Montenegro, Jakov Milatović: “È impossibile non discuterne visto ciò che accade nelle vostre immediate prossimità”, ha sottolineato Borrell parlando con il leader montenegrino degli “atti violenti assolutamente inaccettabili contro i cittadini, i media, le forze dell’ordine e le truppe Kfor”. A proposito dello scoppio delle violenze nel comune di Zvečan, che ha coinvolto anche i membri della forza militare internazionale, Borrell ha ribadito che l’Ue sostiene la Nato “nel suo mandato nell’interesse della pace e della stabilità del Kosovo”, così come ricordato nel corso di due telefonate con il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, e con il presidente serbo, Aleksandar Vučić: “Ho chiesto a entrambe le parti di prendere misure urgenti per la de-escalation immediata e incondizionata”. A Pristina la richiesta è quella di “sospendere le operazioni di polizia incentrate sui municipi nel nord del Paese”, mentre i “manifestanti violenti devono ritirarsi”. Nel frattempo a Bruxelles è lo stesso alto rappresentante a essersi attivato per organizzare “un incontro di alto livello urgente del dialogo Pristina-Belgrado“, ha reso noto.
    Proteste a Zvečan, nel nord del Kosovo, il 26 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    Le proteste nel nord del Kosovo sono scoppiate venerdì scorso (26 maggio) a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di etnia albanese di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica (quest’ultimo è stato l’unico comune in cui non si sono registrate resistenze della popolazione serba). Nonostante l’affluenza al voto tendente all’irrisorio alle elezioni dello scorso 23 aprile – attorno al 3 per cento – il governo di Pristina ha deciso di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci. Una situazione determinata dagli episodi di ostruzionismo messi in atto dagli esponenti di Lista Srpska – il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić – con scontri prima con le forze di polizia kosovare e poi con i soldati Kfor in particolare a Zvečan. Come ha reso noto la stessa forza militare internazionale in un comunicato, sono 30 i membri che hanno riportato “ferite multiple, tra cui fratture e ustioni da ordigni incendiari improvvisati”. Di questi, 11 soldati appartengono dal contingente italiano e 19 a quello ungherese, ma “nessuno è in pericolo di vita”.
    Al momento due sindaci si sono già insediati nei rispettivi municipi. A Leposavić, Ljuljzim Hetemi (di etnia albanese) è da ieri nel suo ufficio e per motivi di sicurezza ci è restato tutta la scorsa notte. A Kosovska Mitrovica invece Erden Atić (della minoranza bosniaca) non ha mai avuto problemi con la popolazione e ha iniziato a svolgere la propria attività. A Zvečan, Iljir Peci (di etnia albanese) ha confermato di voler iniziare il mandato da un ufficio distaccato, mentre a Zubin Potok, Izmir Zeqiri (di etnia albanese) non si è presentato in municipio per evitare altre tensioni. Proprio in questi due comuni si sono radunati anche oggi gli esponenti di Lista Srpska per protestare contro i sindaci definiti “illegittimi e usurpatori”, come urlato ieri prima dello scoppio delle violenze. Anche se la situazione non è tesa come 24 ore fa, la forza Kfor ha aumentato i propri soldati di stanza sul campo attraverso il dispiegamento delle Forze di Riserva Operativa per i Balcani Occidentali della Nato.
    C’è la Kosovo Force della Nato
    La Kosovo Force (Kfor) è una forza di pace internazionale a guida Nato, la cui missione è stata avviata il 10 giugno 1999 dopo il mandato dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I primi soldati della forza militare internazionale sono entrati in Kosovo due giorni più tardi, con il ritiro completo delle forze dell’allora Jugoslavia. Inizialmente la Kfor era composta da 50 mila membri, ma il miglioramento del contesto di sicurezza ha permesso di diminuirne gradualmente il numero fino alle attuali 3762 unità presenti sul terreno, e il trasferimento delle competenze alle forze di polizia kosovare.
    L’obiettivo della forza militare internazionale a guida Nato è quello di mantenere un ambiente sicuro e la libertà di movimento – compresa la presenza civile internazionale e di altre organizzazioni – e il sostegno a un Kosovo “stabile, democratico, multietnico e pacifico”. I contingenti della Kfor sono stati inizialmente raggruppati in cinque brigate multinazionali e per ogni brigata era stata designata una nazione guida. Nell’agosto del 2019 la struttura è stata razionalizzata in due Comandi regionali, il Comando regionale orientale basato a Camp Bondsteel e il Comando regionale occidentale basato a Camp Villaggio Italia. La forza è attualmente guidata dal generale italiano Michele Ristuccia e l’Italia rappresenta anche il Paese con il contingente più consistente tra i 27 che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi della missione (715 su 3762, più degli Stati Uniti con 561).
    Due anni di tensione nel nord del Kosovo
    Negli ultimi due anni la tensione nel nord del Kosovo ha conosciuto diversi momenti di escalation, intrecciandosi con lo sforzo di Bruxelles di spingere sul percorso di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado. Già nel 2021 era scoppiata la cosiddetta battaglia delle targhe tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo guidato da Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Una questione che, dopo essere stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, è tornata a infiammare la seconda metà del 2022, con blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara a fine luglio.
    Due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non avevano portato a nessuno sbocco politico. La situazione si era aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska aveva definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013, ovvero la mancata istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state rinviate al 23 aprile per non rischiare di rendere la situazione fuori controllo.
    Parallelamente era stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si era registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo. Il presidente serbo aveva minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si era dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese durante l’ondata di dimissioni di inizio novembre. Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste è stata risolta solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, alla riunione di alto livello a Ohrid, Macedonia del Nord (18 marzo 2023)
    Con il nuovo anno Bruxelles ha spinto con forza per arrivare a un’intesa definitiva tra le due parti che risolva di riflesso anche i continui episodi più o meno violenti nel nord del Kosovo. È del 27 febbraio l’accordo di Bruxelles che ha definito gli impegni specifici che Serbia e Kosovo devono assumersi per la normalizzazione dei rapporti reciproci: una proposta in 11 punti avanzata dall’Ue e concordata da entrambi i leader dei due Paesi balcanici nel corso della riunione-fiume nella capitale dell’Unione Europea. Nonostante il testo non sia stato firmato, a renderlo vincolante per Pristina e Belgrado è stata l’intesa sull’allegato di implementazione (anche questo non firmato, ma con pesantissime conseguenze finanziarie in caso di mancato rispetto), raggiunto dopo una sessione di 12 ore di riunioni bilaterali e congiunte a Ohrid (Macedonia del Nord). A rischiare di rimettere tutto in discussione è però ancora la situazione nel nord del Kosovo, a causa della bassissima affluenza alle elezioni del 23 aprile nei quattro comuni: “Non offrono una soluzione politica a lungo termine, ma hanno il potenziale di portare a un’escalation e di minare l’attuazione dell’Accordo di Ohrid”, è stato l’allarme lanciato dall’alto rappresentante Borrell al termine dell’ultimo confronto di alto livello a Bruxelles di inizio maggio.

    Tra i membri della forza militare internazionale guidata dalla Nato intervenuti per disperdere i manifestanti violenti serbo-kosovari contrari all’insediamento del nuovo sindaco di etnia albanese di Zvečan, 30 hanno riportato ferite anche gravi e quasi la metà sono italiani

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    L’Ue reagisce alla visita del serbo-bosniaco Dodik a Putin: “I nostri alleati non vanno in Russia”

    Bruxelles – È successo di nuovo. In più di un anno di guerra in Ucraina non era mai successo che un leader europeo facesse visita all’autocrate russo, Vladimir Putin, a Mosca. E invece per due volte in otto mesi a rompere l’unità del continente su questo punto è stato Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina), il più controverso e divisivo politico tra i partner dell’Unione Europea. Un viaggio che rappresenta il culmine di una striscia di provocazioni a Bruxelles, dalle spinte separatiste all’onorificenza a Putin, fino alla legge sugli ‘agenti stranieri’ di ispirazione russa, che rappresenta una sorta di ‘recidiva’ rispetto alla visita al Cremlino del 20 settembre dello scorso anno.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)
    “Noi pensiamo che la Federazione Russa, che con insistenza si è battuta per un suo quadro di sicurezza e che ha cercato di ottenere tali garanzie, sia stata semplicemente costretta all’operazione militare in Ucraina“, è quanto riporta il Cremlino in una trascrizione delle parole rivolte da Dodik a Putin, durante il colloquio andato in scena al Cremlino nella giornata di ieri (23 maggio). Proprio sulla guerra in Ucraina l’autocrate russo ha rivolto un ringraziamento al leader serbo-bosniaco per aver mantenuto una “posizione neutrale”, impendendo di fatto alla Bosnia ed Erzegovina di allinearsi alle posizioni dell’Ue e alle sanzioni internazionali contro la Russia.
    Proprio su questo punto Dodik si è lamentato con Putin del fatto che “la Repubblica Srpska è soggetta a pressioni da parte di partner occidentali che ci impediscono di svilupparci normalmente”. Nonostante ciò il commercio bilaterale tra l’entità serba in Bosnia e la Russia nel 2022 sarebbe aumentato del 57 per cento rispetto all’anno precedente, in particolare per quanto riguarda le forniture di gas: come la Serbia, anche la Bosnia ed Erzegovina (e di conseguenza la Republika Srpska) riceve gas dal colosso energetico russo Gazprom attraverso il gasdotto BalkanStream (prolungamento del TurkStream tra Russia e Turchia), che passa dalla Bulgaria. Nonostante Sofia non riceva più gas russo da oltre un anno per essersi rifiutata di pagarlo in rubli, non ha mai impedito il transito del flusso verso i due Paesi balcanici. Duro l’attacco da parte di Bruxelles, che ancora una volta ribadisce come “mantenere stretti legami con la Russia è incompatibile con il percorso dell’Ue“. Il portavoce del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (Seae), Peter Stano, ha fatto leva su quanto messo in chiaro con tutti i Paesi candidati all’adesione all’Unione – come lo sono la Bosnia ed Erzeogovina e le sue due entità costitutive dal 15 dicembre dello scorso anno: “Le relazioni con la Russia non possono essere business as usual con Putin“.
    Distributore Gazprom in Bosnia ed Erzegovina
    Ecco perché l’Ue si aspetta dai partner che aspirano a fare ingresso nell’Unione “affidabilità per principi, valori, sicurezza e prosperità comuni”, come ricordato dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, lunedì (22 maggio) durante la riunione a Bruxelles con ministri degli Esteri di tutti i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia). Anche il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, al termine di una riunione a Sarajevo la settimana scorsa con la neo-premier bosniaca, Borjana Krišto, aveva condannato il possibile viaggio di Dodik a Mosca: “Gli alleati dell’Ue non vanno in Russia”. Sulla possibilità di imporre sanzioni contro Dodik o la Republika Srpska, fonti Ue rivelano a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma per qualsiasi atto concreto serve l’unanimità ed è l’Ungheria a non permettere il via libera. In altre parole, finché Viktor Orbán “gli coprirà le spalle”, Dodik non sarà inserito nella lista delle sanzioni dell’Unione Europea.
    Le provocazioni di Dodik a Bruxelles
    È dall’ottobre del 2021 – ben prima dell’inizio dell’invasione russa in Ucraina – che Dodik è diventato una spina nel fianco dell’Ue, facendosi promotore di un progetto secessionista in Republika Srpska. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche (le stesse che le fonti precisano essere in stallo) e dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme necessarie sul piano elettorale e costituzionale nel Paese balcanico.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 20 settembre 2022 (credits: Alexey Nikolsky)
    Alle provocazioni secessioniste si è affiancato dal 24 febbraio dello scorso anno il non-allineamento alla politica estera dell’Unione e alle sanzioni internazionali contro il Cremlino: insieme alla Serbia la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo a non aver adottato le misure restrittive Ue a causa dell’opposizione della componente serba della presidenza tripartita. Già il 20 settembre dello scorso anno Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale da parte del Cremlino delle regioni ucraine Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio di quest’anno con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco.
    Parallelamente sono continuati i tentativi di imporre un sistema di controllo sui media e la libertà di stampa che ricorda molto da vicino quello russo. A fine marzo l’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska ha votato a favore di emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per la diffamazione. Il 22 maggio sono scaduti i 60 giorni di consultazione pubblica per l’entrata in vigore degli emendamenti. Allo stesso tempo il governo dell’entità serba della Bosnia ed Erzegovina ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero: il modello è simile a quello adottato a Mosca dal primo dicembre dello scorso anno, che ha ampliato l’utilizzo politico dell’etichetta ‘agente straniero’ già utilizzata dal 2012 per colpire media indipendenti e Ong.

    Il presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina, è tornato il primo leader europeo a incontrare a Mosca l’autocrate russo. Fonti Ue riportano a Eunews che a ostacolare l’imposizione di un regime di sanzioni è il veto dell’Ungheria di Viktor Orbán

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    Ucraina, gli aiuti Ue salgono a 70 miliardi di euro. Finanziamenti militari per 15 miliardi

    Bruxelles – Un totale di 70 miliardi di euro di aiuti. Di questi, 10 miliardi di euro solo per sostegno militare.  La Commissione europea inizia a fare un bilancio di quanto offerto all’Ucraina per far fronte all’aggressione russa e ciò che ne deriva. Cifre che rispondono agli impegni assunti, nel rispetto dei quali l’esecutivo comunitario annuncia un nuovo pacchetto di aiuti da 1,5 miliardi di euro assistenza micro-finanziaria per il governo di Kiev. Saranno sborsati “a giugno”, e serviranno per pagare stipendi e pensioni, oltre che mantenere in funzione i servizi pubblici essenziali come ospedali, scuole e alloggi.
    E’ nell’annunciare questo nuovo contributo che l’esecutivo comunitario offre i dati complessivi. Dall’inizio della guerra il sostegno all’Ucraina e agli ucraini ammonta a circa 70 miliardi di euro. E’ ripartito in aiuti finanziari, umanitari, di emergenza e militari. La parte di assistenza finanziaria per le necessità urgenti, con questo nuovo impegno appena deciso, ammonta a 18 miliardi di euro. Quasi la metà (7,5 miliardi) sono stati resi disponibili nel 2023.
    Questi 18 miliardi sono inclusi nel più ampio programma di assistenza finanziaria e umanitaria. Un totale di 37,8 miliardi di euro, tra fondi Ue (30 miliardi) e prestiti e garanzie degli Stati membri (7,8 miliardi). E’ qui che ricadono i pacchetti umanitari diretto (685 milioni), sostegno per sfollati (330 milioni), sostegno alle riforme (305 milioni).
    Mentre la parte solo militare vale da sola un oltre settimo del totale. Così spiega l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. “Complessivamente, al momento, grazie allo European Peace Facility, abbiamo incentivato 10 miliardi di euro di sostegno militare all’Ucraina“, dice in occasione della riunione dei ministri delle Difesa. Anche se, alle fine, con i contributi bilaterali il sostegno militare potrebbe arrivare anche 20 miliardi di euro. Allo stato attuale il contributo militare complessivo, tra fondi Ue e dei singoli governi, si aggira a 15 miliardi di euro.
    Il resto del sostegno Ue per gli Ucraini, 17 miliardi di euro, sono il frutto di fondi di coesione non utilizzati e che servono per sostenere donne e bambini ucraini accolti negli Stati membri grazie al meccanismo della protezione temporanea. Riconosciuta subito, è stata concessa a oltre tre milioni di persone.

    Il bilancio fornito in occasione dell’annuncio del nuovo pacchetto di aiuti da 1,5 miliardi per sostegno a stipendi e pensioni, disponibile a giugno

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    Ue al lavoro su F16 all’Ucraina. Borrell: “Finalmente si prepara il terreno per la fornitura”

    Bruxelles – Aerei da combattimento per l’Ucraina, l’Unione europea adesso ci pensa. L’apertura del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ridisegna l’agenda politica a dodici stelle, con la questione della fornitura di F16 che entra nel vivo del dibattito dei ministri degli Esteri. “Una buona idea, un buon segnale quello che arriva dal G7″, scandisce l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. “Finalmente si è deciso di preparare il terreno per la fornitura degli aerei da combattimento di cui hanno bisogno” in Ucraina. “L’addestramento dei piloti è già iniziato  e auspico che molto presto si potrà rifornire l’Ucraina di questi apparecchi”.
    La fornitura dei cosidetti fighter jets fin qui aveva creato non poche divisioni e non meno remore tra i Paesi dell’Unione. Si guardava all’amministrazione Biden, partner storico e capofila della Nato. Ora che il passo è compiuto l’Unione europea sembra intenzionata a procedere nonostante tutto. “Non credo” questo porrà un problema, scandisce Tobias Billstrom, ministro degli Esteri della Svezia, Paese con la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue. Semmai “accresce la pressione sulla Russia”. Quindi “nessun problema, semmai sarebbe un problema per la Russia, e Biden è stato chiaro”, aggiunge. Un riferimento alle parole del capo della Casa Bianca che conferma una volta di più i limiti di un’Unione europea in materia di affari esteri e difesa, legata alla mosse degli Stati Uniti.
    Forti della svolta a stelle e strisce, i Ventisette aggiungono un ulteriore tassello all’assistenza militare garantita fin qui a Kiev. Dalla fornitura di armi di difesa si è giunti all’armamento pesante dell’Ucraina. Prima i carriarmati tedeschi, adesso i caccia. “Molti F16 arriveranno da Paesi europei“, assicura il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis. Questo tipo di velivoli militari è detenuto di Italia, Grecia, Paesi Bassi, Danimarca, Romania, Portogallo. Il contributo olandese è garantito, e anche l’Italia potrebbe fornire tornado. “La coalizione degli F16 ha dunque una dimensione europea forte”, continua il ministro lituano, che però insiste. “Non dobbiamo aggiungere nuovi elementi a quanto già concesso, bisogna continuare a fornire quanto già dato“.
    Gli olandesi confermano la loro disponibilità. “Per noi non ci sono tabù“, scandisce Wopke Hoekstra, che però mette in chiaro che per ora si parla di formazione. “Fornitura di F16 e addestramento fanno parte del dibattito ma ci sono decisioni separate” da prendere, e in tal senso i Paesi Bassi iniziano con l’addestramento, così “se decideremo di inviare gli aerei saranno pronti”.
    La Francia avverte: “La formazione richiede mesi”, scandisce Catherine Colonna, ministra degli Esteri francese. “Oggi le necessità dell’Ucraina sono essenzialmente munizioni e veicoli blindati di terra”. Kiev dovrà quindi attendere. “Niente è escluso, ma siamo in una fase di formazione”.

    Ventisette divisi e titubanti, ma l’apertura degli Stati Uniti avvia i dossier. La Lituania: “Importante continuare a fornire anche quanto già dato”

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    Di Maio è più vicino alla nomina a rappresentante speciale Ue per il Golfo Persico. Possibile via libera già il 15 maggio

    Bruxelles – Il ritorno nei palazzi delle istituzioni comunitarie, non più da ministro del governo italiano ma come rappresentante speciale dell’Unione Europea per il Golfo Persico. Continua la corsa di Luigi Di Maio verso l’incarico voluto dall’alto rappresentante speciale Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e – nonostante le aspre polemiche che hanno agitato l’opinione pubblica italiana – già lunedì prossimo (15 maggio) potrebbe arrivare il via libero definitivo a Bruxelles.
    L’ex-ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio
    Secondo quanto si apprende da fonti diplomatiche, nella riunione di questa mattina (10 maggio) del Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) è stata approvata senza dibattito la proposta dell’alto rappresentante Borrell su Di Maio. Il punto in agenda dei 27 ambasciatori presso l’Ue era previsto secondo i passaggi consiliari per la scelta del candidato alla nuova carica di rappresentante speciale per il Golfo Persico, dopo l’ok al Comitato politico e di sicurezza (Cops) – sempre senza discussioni – e al Gruppo dei Consiglieri per le relazioni esterne (Relex). A questo punto il nome di Di Maio ha bisogno della ratifica finale da parte del Consiglio nella prima formazione dei 27 ministri disponibile e, anche in questo caso si tratta di un punto procedurale che non richiede alcuna discussione. Sempre secondo quanto riferiscono le fonti, la data plausibile potrebbe essere quella del 15 maggio, quando si riunirà a Bruxelles il Consiglio Istruzione, gioventù, cultura e sport.
    L’ex-ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, e l’alto rappresentante speciale Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (7 gennaio 2020)
    La Commissione Europea aveva affidato la selezione a un panel di tecnici indipendenti, che aveva poi presentato all’alto rappresentante Borrell una rosa finale di quattro nomi, con il suggerimento caduto su Di Maio “sulla base delle prestazioni fornite dai candidati”. Oltre all’ex-ministro degli Esteri italiano tra il governo Conte 2 e quello Draghi, la lista comprendeva anche l’ex-inviato delle Nazioni Unite in Libia, lo slovacco Jan Kubis, l’ex-ministro degli Esteri greco ed ex-commissario europeo, Dimitris Avramopoulos, e il politico cipriota Markos Kyprianou. Come spiegano le fonti, dal momento della scelta del candidato da parte dell’alto rappresentante Ue tutto l’iter si è composto di una serie di passaggi formali. Anche se per la nomina dei rappresentanti speciali a livello procedurale sarebbe richiesta la maggioranza qualificata, nella pratica la figura indicata dall’alto rappresentante Ue viene semplicemente “accolta” dai rappresentanti diplomatici degli Stati membri, senza un vero e proprio voto. Proprio Borrell aveva indicato l’ex-ministro degli Esteri italiano come “il candidato più adatto” per ricoprire questo nuovo incarico in una lettera del 21 aprile scorso indirizzata agli ambasciatori del Comitato politico e di sicurezza degli Stati membri.
    Cosa farà Di Maio come rappresentante speciale per il Golfo
    In qualità di rappresentante speciale – se la nomina passerà come previsto senza problemi dal Consiglio – l’obiettivo di Di Maio sarà quello di rafforzare e approfondire i rapporti energetici con la regione del Golfo, dal momento in cui per l’Unione è cruciale diversificare l’approvvigionamento di gas dalla Russia e cercare nuovi fornitori di idrocarburi. Il mandato dovrebbe durare 21 mesi, a partire dal primo giugno 2023 fino al 28 febbraio 2025.
    I rappresentanti speciali dell’Ue promuovono le politiche e gli interessi dell’Unione “in regioni e Paesi specifici” e svolgono un ruolo “attivo” negli sforzi per consolidare la pace, la stabilità e lo Stato di diritto, è quanto si legge nella pagina del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (Seae) dedicato alle figure che sostengono il lavoro dell’alto rappresentante Ue nelle regioni interessate. Si tratta di rappresentanti che forniscono all’Unione una “presenza politica attiva” in Paesi e regioni considerati chiave per i Ventisette, agendo come “voce e volto” delle politiche comunitarie.
    A oggi esistono nove rappresentanti speciali che sviluppano la politica estera e di sicurezza dell’Ue: in Bosnia ed Erzegovina (Johann Sattler), per l’Asia centrale (Terhi Hakala), per il Corno d’Africa (Annette Weber), per i diritti umani (Eamon Gilmore), per il Kosovo (Tomáš Szuyog), per il processo di pace in Medio Oriente (Sven Koopmans), per il Sahel (l’italiana Emanuela Claudia Del Re), per il Caucaso meridionale e la crisi in Georgia (Toivo Klaar) e per il dialogo Belgrado-Pristina e altre questioni regionali dei Balcani Occidentali (Miroslav Lajčák).

    Il Coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti) ha approvato senza dibattito la proposta dell’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, per affidare l’incarico all’ex-ministro degli Esteri italiano. La decisione dovrebbe essere ratificata al primo Consiglio disponibile, sempre senza dibattito