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    La battaglia delle ong belghe contro l’appalto ad un’impresa spagnola che opera in Cisgiordania

    Bruxelles – La società civile belga vuole impedire che i soldi dei contribuenti contribuiscano a sostenere i crimini commessi da Israele contro i palestinesi, dal genocidio in corso nella Striscia di Gaza all’apartheid in Cisgiordania. Nel mirino di una serie di gruppi per i diritti umani, supportati dalla relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese, è finita una commessa multimiliardaria affidata dalle ferrovie pubbliche nazionali ad un’azienda spagnola che fa affari con l’economia dell’occupazione israeliana.Durante un incontro con la stampa, una coalizione di organizzazioni non governative con sede in Belgio ha ribadito oggi (26 agosto) il proprio impegno per evitare che l’Sncb/Nmbs, il gruppo proprietario delle ferrovie federali, proceda con l’assegnazione alla spagnola Construcciones y Auxiliar de Ferrocarriles (Caf) di un contratto da 3 miliardi di euro per l’acquisto di 600 vagoni. La prima designazione della Caf come vincitrice del bando risale allo scorso febbraio: è stata poi sospesa ad aprile e successivamente riconfermata a luglio.L’appello lanciato da Al-Haq Europe, Intal, Vrede vzw e 11.11.11 è semplice: i soldi pubblici non devono finire nelle tasche di un’impresa che con le sue attività nei territori palestinesi occupati alimenta quella che la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, definisce la “economia del genocidio” dello Stato ebraico, basata sulla pulizia etnica, la distruzione, il furto di terre e, in definitiva, la violazione sistematica dei diritti umani e del diritto internazionale.Demolizioni israeliane supervisionate dall’Idf a Judeira, nella Cisgiordania occupata (foto: Zain Jaafar/Afp)Essendo coinvolta in dal 2019 nella costruzione e manutenzione di una linea tramviaria che collega la Gerusalemme Est occupata con gli insediamenti illegali in Cisgiordania, sostengono le ong, l’azienda basca va esclusa dalla gara d’appalto. “Non si può firmare un contratto con un’azienda profondamente coinvolta nella politica di occupazione”, osserva Willem Staes di 11.11.11.Staes e i suoi collaboratori spiegano che il Belgio, in quanto Stato membro dell’Ue, sostiene la soluzione a due Stati, ma che i legami economici di Bruxelles con le colonie israeliane illegali costituiscono de facto una violazione degli obblighi giuridici del Paese. L’Sncb, stando alla loro denuncia, non ha incorporato nella procedura d’appalto alcuna analisi del rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale da parte della Caf. Una mancanza che potrebbe configurare una “grave negligenza professionale” per le ferrovie federali ai sensi della normativa belga.Le quattro sigle della società civile hanno intrapreso un’azione legale contro l’Sncb di fronte al Consiglio di Stato, la più alta istanza di giudizio del Belgio in ambito amministrativo, che dovrebbe discutere la questione la prossima settimana ed emettere una sentenza entro tre settimane. Giustificano questo procedimento irrituale con la necessità di creare “un precedente cruciale per ritenere le istituzioni pubbliche responsabili dei loro legami economici con aziende coinvolte in gravi violazioni dei diritti umani“, come si legge in un comunicato congiunto delle associazioni.Pure Albanese ha ribadito la centralità del concetto di responsabilità, declinandolo su due piani distinti ma collegati. Da un lato la responsabilità pubblica, per cui è necessario chiedere conto a decisori politici e istituzioni dei loro legami con entità che si macchiano di crimini tanto efferati.“I doveri in capo agli Stati e le responsabilità in capo alle aziende sono due facce della stessa medaglia”, ragiona l’avvocata. La stessa Caf, ricorda, è già presente nel database dell’Onu dove sono registrate le aziende che coi loro affari alimentano le violazioni israeliane, incluse la segregazione e lo sfollamento forzato. L’impresa basca, sostiene, “è un attore chiave” negli sforzi per la “annessione permanente di terra palestinese“.La relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi occupati, Francesca Albanese (foto: Saverio De Giglio via Imagoeconomica)Albanese denuncia come “scioccante” l’immobilità dei governi mondiali, incapaci di mettere in campo “una risposta politica robusta” nei confronti di Israele. A partire da quelli dei Ventisette che, dopo oltre 22 mesi di sterminio quasi scientifico (accoppiato ad una carestia orchestrata in maniera artificiale, come certificato dall’Onu), rimangono divisi persino su una misura blanda come la sospensione parziale dei fondi Horizon+ per Tel Aviv.Iniziative come quella della Global Sumud Flotilla – forse la mobilitazione transnazionale più ampia di sempre, per rompere l’assedio di Gaza e far entrare nella Striscia gli aiuti umanitari – sono importanti, ragiona, “ma è responsabilità degli Stati” reagire in maniera strutturale. “L’Ue e i suoi Paesi membri non possono interagire con Israele come se nulla fosse“, incalza, evidenziando come lo Stato ebraico “si è spinto molto più in là” del Sud Africa nell’epoca dell’apartheid, finito giustamente nel mirino di sanzioni e boicottaggi internazionali.D’altra parte, la relatrice Onu ha rinnovato l’appello alla responsabilità individuale dei singoli cittadini in un momento storico in cui rimanere in silenzio è ormai un atto di complicità. E suggerisce tre livelli di azione che ogni persona può intraprendere autonomamente: informarsi sulla Palestina, con una prospettiva storica e senza fermarsi alla situazione attuale; fare pressione sul proprio governo tramite proteste e manifestazioni e, infine, fare pressione su aziende e imprese per mezzo di boicottaggi e abitudini d’acquisto e di consumo eticamente consapevoli.

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    Gaza, la Global Sumud Flotilla tenta di rompere l’assedio per portare gli aiuti umanitari

    Bruxelles – Nell’inazione dei governi di tutto il mondo nei confronti di Israele, tocca alla società civile mobilitarsi e cercare di fermare le atrocità commesse da Tel Aviv nella Striscia di Gaza. A fine mese, decine di imbarcazioni salperanno alla volta dell’exclave costiera, nel tentativo di rompere il blocco navale e far arrivare alla popolazione civile gli aiuti umanitari di cui ha disperatamente bisogno, ma che lo Stato ebraico continua a non lasciar passare.Il prossimo 31 agosto decine di barche e navi provenienti da 44 Paesi prenderanno il mare per raggiungere le coste di Gaza. Alcune partiranno dalla Spagna, mentre altre molleranno gli ormeggi il 4 settembre dalla Tunisia. È la Global Sumud Flotilla, un movimento transnazionale nato dall’unione di tre precedenti iniziative – la Freedom Flotilla Coalition, il Movimento Globale per Gaza e il Maghreb Sumud Convoy – con l’obiettivo di spezzare l’assedio totale con cui Israele cinge la Striscia per terra, mare e aria e consegnare gli aiuti umanitari vitali alla popolazione civile, ormai sull’orlo del collasso.All’appello globale alla solidarietà nei confronti del popolo palestinese lanciato dall’associazone stanno rispondendo decine di uomini e donne dal mondo della politica, dell’attivismo, della cultura e della musica che stanno usando le proprie piattaforme per diffondere il messaggio umanitario dell’iniziativa, oltre a migliaia di cittadini da tutti gli angoli del mondo, inclusi medici, giornalisti e avvocati. “Ogni barca rappresenta una comunità e il rifiuto di rimanere in silenzio di fronte al genocidio“, scrivono i promotori della coalizione internazionale.Anche diversi personaggi pubblici italiani hanno deciso di metterci la faccia e alzare la voce contro i crimini di guerra perpetrati da Tel Aviv, con l’obiettivo di tenere alta l’attenzione mediatica verso l’iniziativa: da Alessandro Gassman a Claudio Santamaria, da Alessandro Barbero a Zerocalcare. Affiancano volti noti a livello internazionale come Greta Thunberg, Mark Ruffalo, Susan Sarandon, Liam Cunningham e molti altri.Anche alla Mostra del Cinema di Venezia, diversi artisti italiani hanno scritto una lettera aperta chiedendo al festival di schierarsi contro il genocidio in corso. Tra i firmatari, nomi di spicco come Carolina Crescentini, Serena Dandini, Fiorella Mannoia, Gabriele Muccino, Alba e Alice Rohrwacher, Pietro Sermonti, Claudio Santamaria, Toni Servillo e Marco Bellocchio.La parola sumud in arabo significa “resilienza“. Una resistenza pacifica, nonviolenta, che fa ricorso alla disobbedienza civile – a cui si può prendere parte non solo tramite la partecipazione diretta a bordo di un vascello, ma in molti modi anche “a distanza” – per ribellarsi contro uno dei crimini più efferati ed abominevoli della contemporaneità. Nel solco di altre iniziative collettive messe in piedi nelle scorse settimane, come il viaggio del vascello Madleen, intercettato dallo Stato ebraico al largo delle coste di Gaza, in acque internazionali (fato toccato anche alla Handala, mentre la Conscience era stata attaccata da droni israeliani).La nave Madleen del collettivo Freedom Flotilla (foto dall’account X della Freedom Flotilla Coalition)E nel nome di un senso di umanità che a quanto pare non è condiviso dai governi mondiali: a partire da quelli europei che tanto amano dipingersi come difensori del diritto e dei diritti, ma che tuttavia non riescono nemmeno a mettersi d’accordo su una misura essenzialmente simbolica come la sospensione parziale dei fondi Horizon+ per Tel Aviv. In alcuni Paesi i governi sono entrati in crisi solo per aver contemplato come argomento di discussione politica il potenziale riconoscimento dello Stato di Palestina.Stato palestinese che, nei fatti, potrebbe presto non poter esistere più, cancellato per sempre dalla mappa. Da un lato, l’ecatombe nella Striscia non sembra conoscere fine. Le operazioni dell’Idf continuano a Gaza City mentre i civili palestinesi vengono assassinati quando tentano di raccogliere il cibo distribuito col contagocce dalle autorità di Tel Aviv (che assoldano influencer per diffondere la propria propaganda e addossare la colpa alle Nazioni Unite).Da oltre 22 mesi, il governo di Benjamin Netanyahu (sul cui capo pende un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale) sta deliberatamente sterminando tramite il combinato disposto di una violentissima campagna militare – bollata come genocidio anche dalle stesse ong israeliane – e di una carestia creata artificialmente per affamare gli oltre 2 milioni di civili ancora rimasti nell’area, come certificato dall’Onu. L’esecutivo di Tel Aviv pare intenzionato a rioccupare permanentemente l’exclave, 20 anni dopo essersi ritirato dall’area.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Charly Triballeau/Afp)Stamattina, un bombardamento israeliano presso l’ospedale Nasser di Khan Yunis ha ucciso almeno 20 persone, tra cui 5 giornalisti, con la tecnica del cosiddetto double tap: ad un primo attacco ne fa seguito un secondo contro lo stesso bersaglio, per massimizzare i danni colpendo le squadre di soccorso quando arrivano sul posto. Un metodo barbaro, utilizzato anche dalla Russia in Ucraina: in quel contesto, i governi occidentali si sperticano giustamente per denunciarne l’inumanità. In questo, invece, il loro silenzio è assordante.Dall’altro lato, continua a incancrenirsi pure il regime di apartheid messo in piedi da Israele nella Cisgiordania occupata, dove aumentano le demolizioni (anche di strutture scolastiche finanziate coi soldi europei) e le violenze dei coloni. E dove Tel Aviv potrebbe presto procedere con lo scellerato progetto noto come E1, che collegherebbe l’insediamento di Maale Adumim con Gerusalemme Est, tagliando de facto in due questa porzione di Palestina.

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    Nell’inerzia del mondo (e dell’Ue), Israele sta smantellando la Palestina

    Bruxelles – L’Europa e il mondo restano a guardare mentre Israele seppellisce definitivamente ogni prospettiva per la costruzione di uno Stato palestinese. E probabilmente, allo stesso tempo, anche la possibilità di una ricomposizione politica della decennale crisi mediorientale. Dopo aver approvato il controverso piano per la creazione dell’insediamento E1, che spezza la Cisgiordania in due, il gabinetto di Benjamin Netanyahu ha avviato stanotte un’offensiva terrestre su Gaza City.Approfittando della disattenzione dei partner occidentali, febbrilmente indaffarati a preparare il terreno per una potenziale soluzione negoziata della guerra in Ucraina, Tel Aviv sta premendo sull’acceleratore per distruggere completamente quel poco che resta della Palestina, conducendo in contemporanea due azioni diverse ma complementari tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata.Dopo giorni di intensi bombardamenti, nella notte tra il 20 e il 21 agosto sono iniziate le operazioni di terra dell’esercito israeliano (Idf) per la conquista definitiva di Gaza City, la capitale dell’exclave costiera ormai rasa quasi completamente al suolo dalla violentissima campagna militare avviata nell’ottobre 2023 in risposta agli attacchi dei miliziani di Hamas. La situazione umanitaria nell’area è gravissima, come denunciano quotidianamente le Nazioni Unite, le ong e associazioni internazionali e locali e gli stessi alleati dello Stato ebraico, e il numero dei morti ha superato le 62mile unità.La distruzione a Gaza City (foto: Omar Al-Qattaa/Afp)Ma il primo ministro Benjamin Netanyahu (ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità) tira dritto e procede coi suoi piani di rioccupare permanentemente la Striscia, dalla quale Israele si era ritirato nel 2005. Per portarli a termine, il suo gabinetto ha richiamato 60mila riservisti da impiegare in prima linea nelle prossime settimane. Diverse ong israeliane parlano ormai apertamente delle operazioni a Gaza bollandole come genocidio del popolo palestinese, condotto sia con mezzi militari sia tramite la strumentalizzazione della fame.Diventa peraltro sempre più difficile per il mondo esterno sapere cosa accade nella Striscia, dato che le Idf continuano a massacrare indiscriminatamente i giornalisti (oltre 240 in 22 mesi, secondo i dati dell’Onu), sospettati di connivenza con Hamas. Mentre il gruppo palestinese e il governo di Tel Aviv si stanno scambiando accuse reciproche di sabotaggio dei negoziati per una tregua, i cittadini israeliani riempiono le piazze per chiedere la fine delle ostilità e il rilascio degli ostaggi (una cinquantina, di cui una ventina ancora in vita) in una serie di mobilitazioni tra le più grandi nella storia del Paese.Parallelamente, la situazione sta precipitando anche in Cisgiordania, dove il dominio della potenza occupante ha da tempo assunto i connotati di un vero e proprio sistema di apartheid (come denunciato, ancora una volta, dalle ong israeliane). Qui da molti mesi si assiste ad una recrudescenza delle violenze dei coloni (spalleggiati dall’Idf) che fa il paio con le continue demolizioni di abitazioni e infrastrutture palestinesi.Giusto ieri, il governo israeliano ha dato il via libera definitivo al controverso progetto di espansione degli insediamenti nella cosiddetta area E1 (acronimo di East 1), tramite cui verrà costruito un nuovo corridoio tra la Gerusalemme Est occupata e la colonia già esistente di Maale Adumim. Con questa mossa – nel cassetto di Tel Aviv già dagli anni Novanta, ma mai attuata per l’opposizione degli alleati occidentali, inclusi gli Usa – verrà de facto tagliata in due la Cisgiordania, uno dei nuclei di un ipotetico Stato di Palestina, interrompendo la continuità territoriale tra Ramallah a nord (sede dell’Autorità nazionale palestinese) e Betlemme a sud.Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich descrive il progetto E1 con l’ausilio di una mappa (foto: Menahem Kahana/Afp)“Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo delle trattative non con slogan, ma con azioni concrete“, ha proclamato trionfalmente il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, uno degli uomini di punta dell’estrema destra messianica dalla quale dipende la sopravvivenza del sesto governo Netanyahu. “Ogni insediamento, ogni quartiere, ogni unità abitativa è un altro chiodo nella bara di questa idea pericolosa“, ha aggiunto.Lo stesso premier, visitando un insediamento della Cisgiordania fondato un quarto di secolo fa, ha rivendicato orgogliosamente la linea dell’esecutivo: “Venticinque anni fa ho detto che avremmo fatto di tutto per garantire il nostro controllo sulla Terra di Israele, per impedire la creazione di uno Stato palestinese, per impedire i tentativi di sradicarci da qui. Grazie a Dio, abbiamo mantenuto la promessa”.Queste azioni configurano violazioni eclatanti del diritto internazionale e, come confermato da dichiarazioni di simile tenore, stanno venendo perpetrate con l’esplicito intento di mettere una pietra tombale su ogni velleità di costruire uno Stato palestinese. Sempre Smotrich ha sottolineato che si tratta anche di una risposta all’intenzione di diversi Paesi occidentali di riconoscere la Palestina il mese prossimo e sancendo formalmente una realtà che era già sotto gli occhi di tutti da molti anni.Anche se le cancellerie mondiali faticano ad ammetterlo, la “soluzione a due Stati” è ormai diventata una formula priva di qualunque significato reale, dato che nessuno dei governi succedutisi a Tel Aviv negli ultimi trent’anni ha mai compiuto passi concreti per realizzare quanto pattuito col processo di Oslo ed avvicinare la formazione di uno Stato di Palestina autonomo e indipendente che vivesse “in pace e sicurezza” accanto a Israele.Demolizioni israeliane supervisionate dall’Idf a Judeira, nella Cisgiordania occupata (foto: Zain Jaafar/Afp)Da Bruxelles, tuttavia, giungono solo i soliti commenti retorici, ritriti e stucchevoli. I portavoce della Commissione continuano a rimandare i giornalisti ai post su X di Ursula von der Leyen e Kaja Kallas, ripetendo che “la diplomazia è lo strumento principale“. Ma a questo punto, espressioni come “situazione umanitaria spaventosa” e “protezione della popolazione civile” suonano quasi grottesche se affiancate alle immagini che arrivano dal terreno, con buona pace delle pretese comunitarie di proiettare una qualche forma di soft power nell’arena internazionale.“L’Ue rifiuta qualsiasi tentativo di modifica territoriale e demografica nella Striscia di Gaza“, ha ribadito per l’ennesima volta Anitta Hipper, portavoce dell’Alta rappresentante, evidenziando al contempo che il piano sull’E1 “mina la soluzione a due Stati e viola il diritto internazionale”. Peccato che all’orizzonte, in termini di azioni concrete ci sia poco o nulla. Le proposte di sanzioni contro Tel Aviv continuano a cadere nel vuoto, e i Ventisette non sono nemmeno in grado di mettersi d’accordo su una sospensione parziale dei fondi Horizon+ destinati a Israele nel bilancio 2028-2034.

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    Nell’inerzia del mondo (e dell’Ue), Israele sta smantellando la Palestina

    Bruxelles – L’Europa e il mondo restano a guardare mentre Israele seppellisce definitivamente ogni prospettiva per la costruzione di uno Stato palestinese. E probabilmente, allo stesso tempo, anche la possibilità di una ricomposizione politica della decennale crisi mediorientale. Dopo aver approvato il controverso piano per la creazione dell’insediamento E1, che spezza la Cisgiordania in due, il gabinetto di Benjamin Netanyahu ha avviato stanotte un’offensiva terrestre su Gaza City.Approfittando della disattenzione dei partner occidentali, febbrilmente indaffarati a preparare il terreno per una potenziale soluzione negoziata della guerra in Ucraina, Tel Aviv sta premendo sull’acceleratore per distruggere completamente quel poco che resta della Palestina, conducendo in contemporanea due azioni diverse ma complementari tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata.Dopo giorni di intensi bombardamenti, nella notte tra il 20 e il 21 agosto sono iniziate le operazioni di terra dell’esercito israeliano (Idf) per la conquista definitiva di Gaza City, la capitale dell’exclave costiera ormai rasa quasi completamente al suolo dalla violentissima campagna militare avviata nell’ottobre 2023 in risposta agli attacchi dei miliziani di Hamas. La situazione umanitaria nell’area è gravissima, come denunciano quotidianamente le Nazioni Unite, le ong e associazioni internazionali e locali e gli stessi alleati dello Stato ebraico, e il numero dei morti ha superato le 62mile unità.La distruzione a Gaza City (foto: Omar Al-Qattaa/Afp)Ma il primo ministro Benjamin Netanyahu (ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità) tira dritto e procede coi suoi piani di rioccupare permanentemente la Striscia, dalla quale Israele si era ritirato nel 2005. Per portarli a termine, il suo gabinetto ha richiamato 60mila riservisti da impiegare in prima linea nelle prossime settimane. Diverse ong israeliane parlano ormai apertamente delle operazioni a Gaza bollandole come genocidio del popolo palestinese, condotto sia con mezzi militari sia tramite la strumentalizzazione della fame.Diventa peraltro sempre più difficile per il mondo esterno sapere cosa accade nella Striscia, dato che le Idf continuano a massacrare indiscriminatamente i giornalisti (oltre 240 in 22 mesi, secondo i dati dell’Onu), sospettati di connivenza con Hamas. Mentre il gruppo palestinese e il governo di Tel Aviv si stanno scambiando accuse reciproche di sabotaggio dei negoziati per una tregua, i cittadini israeliani riempiono le piazze per chiedere la fine delle ostilità e il rilascio degli ostaggi (una cinquantina, di cui una ventina ancora in vita) in una serie di mobilitazioni tra le più grandi nella storia del Paese.Parallelamente, la situazione sta precipitando anche in Cisgiordania, dove il dominio della potenza occupante ha da tempo assunto i connotati di un vero e proprio sistema di apartheid (come denunciato, ancora una volta, dalle ong israeliane). Qui da molti mesi si assiste ad una recrudescenza delle violenze dei coloni (spalleggiati dall’Idf) che fa il paio con le continue demolizioni di abitazioni e infrastrutture palestinesi.Giusto ieri, il governo israeliano ha dato il via libera definitivo al controverso progetto di espansione degli insediamenti nella cosiddetta area E1 (acronimo di East 1), tramite cui verrà costruito un nuovo corridoio tra la Gerusalemme Est occupata e la colonia già esistente di Maale Adumim. Con questa mossa – nel cassetto di Tel Aviv già dagli anni Novanta, ma mai attuata per l’opposizione degli alleati occidentali, inclusi gli Usa – verrà de facto tagliata in due la Cisgiordania, uno dei nuclei di un ipotetico Stato di Palestina, interrompendo la continuità territoriale tra Ramallah a nord (sede dell’Autorità nazionale palestinese) e Betlemme a sud.Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich descrive il progetto E1 con l’ausilio di una mappa (foto: Menahem Kahana/Afp)“Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo delle trattative non con slogan, ma con azioni concrete“, ha proclamato trionfalmente il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, uno degli uomini di punta dell’estrema destra messianica dalla quale dipende la sopravvivenza del sesto governo Netanyahu. “Ogni insediamento, ogni quartiere, ogni unità abitativa è un altro chiodo nella bara di questa idea pericolosa“, ha aggiunto.Lo stesso premier, visitando un insediamento della Cisgiordania fondato un quarto di secolo fa, ha rivendicato orgogliosamente la linea dell’esecutivo: “Venticinque anni fa ho detto che avremmo fatto di tutto per garantire il nostro controllo sulla Terra di Israele, per impedire la creazione di uno Stato palestinese, per impedire i tentativi di sradicarci da qui. Grazie a Dio, abbiamo mantenuto la promessa”.Queste azioni configurano violazioni eclatanti del diritto internazionale e, come confermato da dichiarazioni di simile tenore, stanno venendo perpetrate con l’esplicito intento di mettere una pietra tombale su ogni velleità di costruire uno Stato palestinese. Sempre Smotrich ha sottolineato che si tratta anche di una risposta all’intenzione di diversi Paesi occidentali di riconoscere la Palestina il mese prossimo e sancendo formalmente una realtà che era già sotto gli occhi di tutti da molti anni.Anche se le cancellerie mondiali faticano ad ammetterlo, la “soluzione a due Stati” è ormai diventata una formula priva di qualunque significato reale, dato che nessuno dei governi succedutisi a Tel Aviv negli ultimi trent’anni ha mai compiuto passi concreti per realizzare quanto pattuito col processo di Oslo ed avvicinare la formazione di uno Stato di Palestina autonomo e indipendente che vivesse “in pace e sicurezza” accanto a Israele.Demolizioni israeliane supervisionate dall’Idf a Judeira, nella Cisgiordania occupata (foto: Zain Jaafar/Afp)Da Bruxelles, tuttavia, giungono solo i soliti commenti retorici, ritriti e stucchevoli. I portavoce della Commissione continuano a rimandare i giornalisti ai post su X di Ursula von der Leyen e Kaja Kallas, ripetendo che “la diplomazia è lo strumento principale“. Ma a questo punto, espressioni come “situazione umanitaria spaventosa” e “protezione della popolazione civile” suonano quasi grottesche se affiancate alle immagini che arrivano dal terreno, con buona pace delle pretese comunitarie di proiettare una qualche forma di soft power nell’arena internazionale.“L’Ue rifiuta qualsiasi tentativo di modifica territoriale e demografica nella Striscia di Gaza“, ha ribadito per l’ennesima volta Anitta Hipper, portavoce dell’Alta rappresentante, evidenziando al contempo che il piano sull’E1 “mina la soluzione a due Stati e viola il diritto internazionale”. Peccato che all’orizzonte, in termini di azioni concrete ci sia poco o nulla. Le proposte di sanzioni contro Tel Aviv continuano a cadere nel vuoto, e i Ventisette non sono nemmeno in grado di mettersi d’accordo su una sospensione parziale dei fondi Horizon+ destinati a Israele nel bilancio 2028-2034.

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    Cisgiordania, l’Ue è “sconvolta” dalle azioni illegali dei coloni israeliani. Ma è incapace di agire

    Bruxelles – Nel mirino di Tel Aviv non c’è solo la Striscia di Gaza. Le violenze dei coloni israeliani in Cisgiordania – che insieme all’exclave costiera dovrebbe costituire il futuro Stato di Palestina – continuano a moltiplicarsi, estendendosi persino agli stessi militari con la stella di David e, nelle ultime settimane, addirittura alle strutture finanziate coi fondi europei. Ma dall’Ue giungono solo condanne retoriche e stucchevoli a cui non fa seguito alcun provvedimento concreto.Ci sono volute due settimane perché da Bruxelles trapelasse uno striminzito commento di condanna nei confronti dello Stato ebraico per la demolizione di una scuola ancora in costruzione, finanziata coi fondi comunitari e dell’Agenzia francese per lo sviluppo (Afd) nel villaggio di Al-Aqaba, nella Cisgiordania settentrionale.La dichiarazione comparsa oggi (19 agosto) sul sito del Servizio europeo di azione esterna (Seae), la Farnesina dell’Unione guidata dall’Alta rappresentante Kaja Kallas, non è nemmeno firmato ma semplicemente attribuito al servizio dei portavoce. “L’Ue è sconcertata dalla demolizione“, si legge nel comunicato di quattro righe, dove viene ricordato che “l’istruzione è un diritto fondamentale” dei palestinesi.Anche Parigi “condanna fermamente” la distruzione della scuola, e chiede alle autorità di Tel Aviv di “rendere conto” delle proprie azioni. “Il proseguimento della politica di insediamento (di Israele nei territori palestinesi di Cisgiordania, ndr) costituisce una grave violazione del diritto internazionale e minaccia la prospettiva della soluzione dei due Stati“, si legge sul sito del ministero transalpino degli Affari esteri.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Consiglio europeo)La struttura, la cui demolizione è iniziata in realtà lo scorso 5 agosto col supporto determinante delle forze armate israeliane (Idf), avrebbe dovuto ospitare un centinaio di bambini delle comunità locali. Bruxelles “si aspetta che i suoi investimenti a sostegno del popolo palestinese siano protetti da danni e distruzioni da parte di Israele, in conformità col diritto internazionale”, conclude la nota del Seae.Non una parola di più contro le azioni criminali condotte dai coloni in Cisgiordania, difesi e spesso spalleggiati dall’Idf quando perpetrano ogni tipo di soprusi ai danni dei palestinesi della regione: dalle intimidazioni ai furti, passando per l’assalto a case e strutture di vario genere e, nel peggiore dei casi, spingendosi fino a macchiarsi di uccisioni e linciaggi. Recente il caso di un gruppo di coloni estremisti che ha addirittura attaccato i militari israeliani, rei di non averli aiutati nell’aggredire gli abitanti palestinesi.L’episodio della scuola di Al-Aqaba non è isolato. Lo scorso novembre, una sorte analoga era toccata al centro dell’associazione Al-Bustan, baricentro di un altro progetto di sviluppo sostenuto dall’Afd nella Gerusalemme Est occupata. Anche da fatti di questo genere si evince in quale considerazione coloni e autorità israeliani tengano non solo i diritti fondamentali dei palestinesi – sistematicamente violati in tutti i territori occupati, come denunciato tra gli altri dal regista premio Oscar Basel Adra – ma pure la propria immagine agli occhi dei partner internazionali di Tel Aviv.Tuttavia, sembra non essere ancora abbastanza per convincere i Ventisette a procedere con sanzioni più dure nei confronti dello Stato ebraico, come ad esempio la sospensione dell’accordo di associazione Ue-Israele, una prospettiva di cui si discute da mesi ma che con ogni probabilità non otterrà mai il disco verde. Basti pensare che le cancellerie non sono nemmeno riuscite a mettersi d’accordo sul congelamento parziale dei fondi Horizon+ per Tel Aviv, una mossa che avrebbe effetto dal 2028 e riguarderebbe una somma dell’ordine di poche centinaia di milioni di euro.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Menahem Kahana/Afp)Del resto, le demolizioni a tappeto e l’espansione delle colonie illegali rendono sostanzialmente impossibile qualunque progresso verso la costruzione di uno Stato di Palestina, che dovrebbe sorgere proprio tra la Striscia e la Cisgiordania e il cui riconoscimento formale è stato annunciato nelle scorse settimane da un numero crescente di Paesi, inclusi due membri del G7 quali Francia e Regno Unito.Ma a qualunque idea di statualità palestinese si oppongono fermamente il premier israeliano Benjamin Netanyahu – sul cui capo pende un mandato di cattura della Corte penale internazionale – e diversi membri del suo governo come il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha tirato fuori dal cassetto il controverso “piano E1” per estendere gli insediamenti in Cisgiordania, tagliandola di fatto in due con l’obiettivo di “seppellire definitivamente l’idea di uno Stato palestinese“. La Knesset, il Parlamento monocamerale israeliano, ha approvato mesi fa una risoluzione non vincolante sull’annessione della Cisgiordania, poco prima che l’esecutivo approvasse il piano di (ri)occupazione totale della Striscia.Nel frattempo, nell’exclave costiera i gazawi continuano a venire massacrati e affamati artificialmente (con buona pace degli “accordi umanitari” stretti da Tel Aviv con Bruxelles), come conseguenza diretta di quello che le stesse ong israeliane bollano inequivocabilmente come genocidio del popolo palestinese. Netanyahu tira dritto per la sua strada, incurante tanto della montante opposizione interna quanto della pressione esterna affinché sia concessa una tregua umanitaria ai civili di Gaza e si raggiunga un cessate il fuoco con Hamas.

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    Israele, la guerra a Gaza sempre più contestata in patria, e dall’estero

    Bruxelles – La guerra di Netanyahu a Gaza inizia a provocare contraccolpi pesanti per il governo israeliano. Crescono, e dilagano anzi, le proteste nelle strade del Paese, mentre la comunità politica ed economica internazionale, compresa quella europea, inizia a mandare pesanti segnali di allontanamento.Ieri, domenica (17 agosto) in quella che è stata la più grande giornata di mobilitazione nazionale, probabilmente un milione di persone si sono riversate nelle strade di varie città (solo a Tel Aviv sono state contati mezzo milione di partecipanti) per chiedere un reale negoziato per far tornare gli ostaggi ancora vivi, forse una ventina, ed avere i corpi di quelli oramai morti, e per chiedere la fine del massacro a Gaza. “Bring them home” (riportateli a casa), e “End this fucking war” (finiamo questa cazzo di guerra) i due slogan più visti nei cartelli e urlati dai manifestanti.La polizia ha reagito con i cannoni ad acqua per disperdere le persone, una quarantina di fermi sono stati eseguiti nei confronti di chi, secondo la polizia, compiva azioni violente, come bruciare i copertoni.Anche a livello internazionale, oltre ai frequenti incidenti che vedono vittime turisti israeliani che vengono cacciati da bar, ristoranti, o che vengono bloccati a bordo di navi da crociera, aumentano sempre più i governi che hanno deciso di riconoscere lo stato di Palestina, che bloccano o almeno limitano l’export di armi. Il presidente francese Emmanuel Macron ha definito un “disastro” l’escalation annunciata dal governo di Israele, e il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha sostenuto che la politica israeliana verso Gaza “non è più giustificata”. Il primo ministro norvegese Jonas Gahr Store ha sottolineato come Israele “ha danneggiato la sua reputazione in Paesi che hanno sempre avuto simpatia per il Paese”. L’Unione europea chiede con insistenza che gli aiuti umanitari siano fatti entrare nella Striscia, anche se in realtà non riesce a dire molto di più. Oggi la Commissaria europea per la Gestione delle crisi, Hadja Lahbib, in una dichiarazione per la Giornata mondiale per l’Aiuto Umanitario ha sottolineato che “Le crisi umanitarie provocate dall’uomo in Sudan, Gaza e Ucraina hanno giustamente suscitato l’indignazione mondiale“. Pur senza riferirsi esplicitamente a Istìraele e Gaza ha anche affermato che “in un momento in cui i bisogni umanitari stanno raggiungendo livelli senza precedenti, il rispetto del diritto internazionale umanitario è minacciato. Gli attacchi mirati contro civili e operatori umanitari, insieme agli attacchi contro ospedali, scuole e altri obiettivi civili, sono in aumento, mentre l’accesso agli aiuti salvavita è sempre più negato. Tuttavia – ha aggiunto -, le “regole di guerra” stabilite dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 rimangono invariate: violare il diritto umanitario è un crimine“.Il Financial Times oggi riporta anche come la comunità finanziaria internazionale cominci ad allentare i suoi legami con Israele. Il quotidiano britannico riporta che il Fondo sovrano norvegese da due trilioni di dollari ha detto di aver venduto un quinto dei suoi asset del Paese, mentre altri importanti operatori ebrei cominciano ad avere dei dubbi “morali” sull’investire in Israele.

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    Nuovo appello da Ue e altri Paesi: Israele lasci accedere gli aiuti umanitari a Gaza

    Bruxelles – Gli aiuti umanitari devono poter accedere a Gaza, senza condizioni. Lo chiede una coalizione di 26 Paesi e della Commissione Europea.“Chiediamo al governo israeliano di autorizzare tutte le spedizioni di aiuti delle Ong internazionali e di consentire agli operatori umanitari essenziali di operare senza ostacoli”, afferma il messaggio rivolto al governo di Tel Aviv, mentre si continuano a contare i morti per malnutrizione, per ferite causate dai bombardamenti israeliani a Gaza.Secondo questa coalizione “è necessario adottare misure immediate, permanenti e concrete per facilitare l’accesso sicuro e su larga scala delle Nazioni Unite, delle Ong internazionali e dei partner umanitari. Tutti i valichi e le rotte devono essere utilizzati per consentire l’afflusso di aiuti a Gaza, compresi cibo, forniture alimentari, ripari, carburante, acqua potabile, medicinali e attrezzature mediche”. I 26 Paesi e l’Ue ammoniscono che “non deve essere usata la forza letale nei luoghi di distribuzione e i civili, gli operatori umanitari e il personale medico devono essere protetti”.Ora serve “un cessate il fuoco che ponga fine alla guerra, affinché gli ostaggi siano liberati e gli aiuti possano entrare a Gaza via terra senza ostacoli”.La dichiarazione è stata firmata dai ministri degli Esteri di Australia, Belgio, Canada, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Islanda, Irlanda, Italia, Giappone, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito. Per l’Ue hanno firmato Kaja Kallas, alta rappresentante per la Politica estera, Dubravka Šuica commissaria per il Mediterraneo e Hadja Lahbib, commissario per l’Aiuto umanitario.

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    S&D, Verdi e laSinistra all’Ue: “A Gaza è genocidio, è tempo di agire”

    Bruxelles – Violazione dei diritti umani a Gaza, “è tempo di agire”. I gruppi parlamentari socialista (S&D), Verdi e laSinistra esortano Commissione europea e Consiglio europea a prendere provvedimenti, una volta per tutte e come si deve. In una lettera indirizza ai presidenti delle due istituzioni (Ursula von der Leyen e Antonio Costa) e all’Alta rappresentante (Kaja Kallas), le tre formazioni parlamentari, che insieme rappresentano un terzo dell’Aula, dicono ‘basta’. “E’ evidente che si sta commettendo un genocidio a Gaza, con la Commissione e il Consiglio che finora hanno fallito nel rispondere con urgenza e fare ciò che i nostri trattati e i nostri valori richiedono“, denunciano e lamentano i presidenti dei gruppi, Iratxe Garcia Perez (S&D), Bas Eickhout e Terry Reintke (Verdi), Manon Aubry e Martin Schierdewan (laSinistra).I gruppi parlamentari contestano l’inazione dell’Ue anche di fronte alle dichiarate intenzioni israeliane di conquistare la striscia di Gaza, di fronte alle quali l’Unione europea non ha praticamente reagito. Nelle richieste avanzate ai ‘top jobs‘ dell’Ue viene quindi, non a caso, inserita la necessità di “riaffermare l’impegno per una soluzione a due Stati, con passi politici concreti”. Si attendono Commissione e Consiglio al varco, vale a dire alla riunione dell’Assemblea generale dell’Onu di settembre. E’ qui che socialisti, verdi e sinistra radicale vorrebbero vedere cambi di passo veri.It’s time for urgent action to end the massacre in Gaza.Presidents of @TheProgressives, @GreensEFA & @Left_EU today write to @vonderleyen, @eucopresident & @kajakallas:– Suspend the EU-Israel Association Agreement– Enforce a comprehensive arms embargo– Guarantee humanitarian… pic.twitter.com/tGIudRkqa1— S&D Group (@TheProgressives) August 5, 2025Per iniziare a dare un segnale vero si chiede la sospensione immediata e completa dell’accordo di associazione Ue-Israele, al pari dello stop della partecipazione di imprese israeliane al programma Horizon Europe per la ricerca. Richieste però di difficile realizzazione, visto che in entrambi i casi sono gli Stati membri a doversi esprimere, e sulla linea dura contro lo Stato ebraico i 27 sono divisi.Ciononostante si continua a fare pressione. “L’Unione europea deve assumersi responsabilità e agire ora”, insistono i leader di socialisti, verdi e sinistra radicale. Per questo si chiede di mandare più segnali alla leadership israeliana, a partire dal “ripristini del pieno finanziamento dell’Unrwa”, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. E’ l’Unione europea che si fa sentire, dopo il silenzio di un’altra parte dell’Unione europea.