More stories

  • in

    Stop all’uranio russo, l’UE e il G7 aprono un nuovo fronte geopolitico

    Bruxelles – Parola d’ordine: “Ridurre ulteriormente la dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati provenienti dalla Russia”. Il G7 e gli Stati dell’UE che vi fanno parte sono decisi ad andare avanti con la strategia di isolamento e indebolimento economico della federazione russa, privandola degli introiti derivanti dall’uranio, dopo la cancellazione del business del carbone e del petrolio. Una decisione assunta in modo ufficiale, e dunque con chiare intenzione e volontà politica. Questa decisione, per quanto comprensibile e doverosa alla luce di un cambio di orientamenti derivati dalla guerra di aggressione in Ucraina, ha nella realtà un banco di prova non semplice e non scontato.
    C’è mezza Unione europea alimentata con reattori e centrali nucleari. Tredici dei 27 Stati membri si affidano ad elettricità prodotta da fusione dell’atomo. La Germania ha annunciato di abbandonare la produzione e uscire definitivamente dal nucleare, ma nel breve periodo non sembra semplice per l’Unione europea tenere federe a proclami, intenzioni e impegni solenni. Serve uranio per alimentare le centrali e produrre energia dai reattori, risorsa di cui il sottosuolo del Vecchio continente è povera. Bisogna affidarsi all’offerta straniera, e oltre i confini dell’UE uno dei grandi produttori e fornitori è proprio la Russia.
    La sola federazione russa risponde a un quinto del fabbisogno dei reattori a dodici stelle. Il 20 per cento delle forniture e degli approvvigionamenti della materia prima è garantito dal Paese oggi non più amico. Una quota di mercato che non appare difficile da rimpiazzare, considerando che nel mondo giacimenti non mancano e che i partner del G7 sono disposti a venire incontro alle esigenze dei partner occidentali. Ma nel grande gioco della alleanze, non va dimenticato come Russia, Kazakistan e Uzbekistan abbiano sempre marciato compatte e insieme. L’UE acquista uranio anche dalle altre due repubbliche dell’Asia centrale. Insieme, gli acquisti nei Paesi dell’ex Unione sovietica contano il 42 per cento di tutte le importazioni complessive.
    Se questi tre Paesi dovessero davvero confermarsi uniti e compatti le politiche in materia di affrancamento dall’uranio potrebbero essere riscritte, proprio a est. Nelle logiche tipiche delle amicizie e del reciproco spalleggiamento di fronte a potenze straniere ostili o avvertiti come tali, Kazakistan e Uzbekistan potrebbero decidere di non venire incontro alle rinnovate esigenze europee per non fare torto al partner russo.
    Va detto che né Kazakistan né Uzbekistan vedono di buon occhio l’aggressione dell’Ucraina, e non sembrano schierate con il presidente russo Putin in questa sua campagna militare. Quel che è certo è che l’annuncio del G7 mette in moto nuovi scenari geopolitici. I malumori in Asia centrale per le iniziative e le manovre del Cremlino potrebbero essere un’arma a favore degli europei, che devono fare attenzione a non indispettire ancora di più la Russia e i suoi centri di potere. Nella ridefinizione di confini, alleanze, sfere d’influenza, agli occhi di Putin l’UE e l’occidente si sono già spinti troppo oltre. Ma in questo rimescolamento di relazioni e fattori, la mossa dell’Occidente appare obbligata. Comprare uranio altrove appare una scelta obbligata, per un nuovo ordine mondiale.
    Da chi andare a rifornirsi diventa il vero interrogativo. Gli Stati Uniti non hanno interesse a ché la Cina, principale concorrente sullo scacchiere internazionale, si arricchisca. Chiedere uranio ai cinesi, dunque non è via percorribile. Gli europei dovranno andare a pescare in Africa, dove pure presenza e penetrazione economica di Cina e Sudafrica non sono irrilevanti, o America Latina, sponda brasiliana. Oppure comprare dai partner del G7, a prezzo da stabilire, e scordandosi ogni velleità di indipendenza strategica.

    E’ l’obiettivo dichiarato quello di “ridurre ulteriormente la dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati provenienti dalla Russia”. Ma l’UE, in questo nuovo corso, rischia rimetterci

  • in

    HGE8: L’Europa geopolitica arranca, va rivista la politica estera comune

    Roma – Il mondo cambia, nuovi poteri emergono, e l’Unione europa fa fatica a tenere il passo. C’è oggi maggiore bisogno di presenza, come mediatori, e come potenza militare. Serve, quindi, “il grande passo”, quello di una integrazione vera in quei settori sempre strategici mai mai veramente trattati come tali a livello comune: sicurezza e politica estera comune. Questa la risposta fornita nel corso dell’ottava edizione di How Can We Govern Europe (HGE8), il più importante evento sull’attualità europea organizzato da Eunews.
    C’è un deficit di fondo, sottolinea Rosa Balfour, direttrice di Carnegie Europe. “Con la pandemia l’Unione europea ha saputo affrontare le sfide del XXI secolo: sanità e clima. Ma sul fronte internazionale resta molto debole“. Lo dimostrano gli eventi di attualità. “Stiamo vivendo momenti pericolosi, in queste ora la Russia sta ammassando militari al confine con l’Ucraina e non si capisce come e con quale cappello l’Europa risponderà: come UE, come Nato, come singoli Paesi?”. Secondo la responsabile del think tank, molto si gioca sulla capacità di tramutare in potenza gli impegni assunti a livello domestico. Perché l’arrivo del Coronavirus ha mostrato tutti i limiti della dimensione internazionale dell’UE. “Se guardiamo alla capacità di esportare vaccino l’Europa non è messa molto bene, e la variante Omicron dimostra questa cosa. Ci siamo impegnati sul fronte interno, ma non altrettanto su quello esterno”. Per un cambio di rotta “bisogna vedere come riesce a tradurre in azione esterna la transizione verde e digitale”.
    Piero Fassino, presidente della commissione Esteri della Camera, una soluzione ce l’ha: è un nuovo percorso di costruzione europea. “Serve una terza fase di integrazione“. La prima fase, ricorda, è stata quella dei padri fondatori; la seconda è stata quella dell’adozione dell’euro e del grande allargamento. “Adesso serve una terza fase di integrazione”, ribadisce. Si tratta di dare forma ad un politica estera comune. “E’ molto importante che l’UE è giunta alla conclusione di avere una politica di difesa comune, però deve essere chiaro che una politica di sicurezza presuppone una politica estera”. Allo stato attuale, lamenta, la politica estera come “è accennata” e basta. “Abbiamo un servizio diplomatico, ma in ogni pilastro c’è bisogno di fare il salto in avanti”. Tradotto: occorre “procedere a maggioranza” e lasciar perdere le decisioni all’unanimità, e “bisogna riconosce all’Alto rappresentante qualche titolarità in più”, per evitare di dover parlare ogni volta con 27 ministri degli Esteri.
    Se Fassino propone una riforma dell’Unione europea, Sibylle Bauer, direttrice studi, armamenti e disarmo dello Stockholm International Peace Research Institute – SIPRI, chiede innanzitutto di correggere storture e contraddizioni interne. “Se guardiamo l’esportazione di armamenti, l’UE è uno dei maggiori esportatori di armi”, rileva. Questo rischia di ritorcesi contro l’Unione europea, i suoi interessi, e la capacità di gestire gli scenari di guerra e tensione. In prospettiva “l’UE ha un grande ruolo da giocare” sullo scacchiere internazionale. “A volte il soft power è più efficace dell’hard power“, e allora invece di esportare armi varrebbe la pena di cambiare linea. “La Germania, insieme ai Paesi Bassi, stanno ripensando la strategie per il controllo delle armi. E’ una sfida nuova, ognuno sta cercando di trovare delle soluzioni”. La chiave possibile? “Una delle soluzione per il traffico delle armi è la costruzione di fiducia, agevolando il dialogo. Dobbiamo investire nel controllo delle armi di nuova generazione. Il messaggio chiave è: impegnarsi, impegnarsi, impegnarsi”.
    In questo percorso che appare inevitabile, c’è bisogno anche di un’azione esterna che guardi di più ai valori fondamentali. “Su questo non riusciamo a dare una risposta coordinata, come dimostra la questione dei migranti al confine con la Bielorussia”, critica Marta Grande, presidente della Delegazione parlamentare presso l’Assemblea del Consiglio d’Europa. “La nostra Unione si basa su questo, è parte del nostro DNA, è parte della nostra cultura. Manca però concretezza in politica estera“. Ricorda che molte volte in passato si è parlato di esercito comune europeo senza veri progressi. “Adesso, che l’Europa è sempre più sotto attacco di Paesi terzi, è arrivato il momento di fare un passo avanti”.

    L’UE è indietro e a livello geopolitico non riesce a incidire come potrebbe e dovrebbe. Tempo di rilanciare anche l’esercito europeo

  • in

    Merkel chiama Putin: “Intervieni sul comportamento disumano della Bielorussia”

    Bruxelles – “La Cancelliera ha telefonato al presidente Putin per discutere della situazione al confine tra Bielorussia e Polonia“. Lo annuncia su Twitter il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert. Il Cremlino ha precisato che che si è trattato di “un’iniziativa della Germania”.
    Secondo Seibert, Merkel “ha sottolineato che la strumentalizzazione dei migranti attraverso il regime bielorusso è disumana e inaccettabile e ha pregato il presidente Putin di intervenire”. Di seguito la cancelliera avrebbe chiesto al presidente russo di utilizzare la propria influenza per dissuadere il governo di Minsk dal proseguire quello che per l’UE è un “attacco asimmetrico”.
    Da Mosca è arrivata una risposta tiepida. Se infatti Putin ha acconsentito “a continuare i colloqui su questo tema”, non sono stati presi impegni di sorta per porre un freno alla crisi. Quanto emerge dalle dichiarazioni è che per l’inquilino del Cremlino si tratta di un problema tra l’Unione europea e la Bielorussia, che non tocca direttamente la Russia.
    Nel corso della telefonata con Angela Merkel, Putin ha suggerito di risolvere la questione “attraverso un colloquio diretto tra gli Stati membri dell’UE e Minsk”, affermando che la Russia avrebbe fatto il possibile per mettere in contatto le due parti in causa – ma senza intervenire in prima persona.
    Merkel ha poi ringraziato pubblicamente i Paesi “che sono preoccupati per la protezione delle frontiere esterne dell’Unione europea, Lituania, Lettonia e Polonia”, lasciando intendere un supporto tedesco alle istanze degli Stati che stanno gestendo direttamente i flussi migratori orchestrati dal regime bielorusso.

    Per la Cancelliera la “strumentalizzazione dei migranti attraverso il regime bielorusso è un comportamento disumano e inaccettabile”, ma Vladimir Putin invita gli Europei a parlare direttamente con Minsk

  • in

    Accordo tra Italia e Grecia: fissati i confini marittimi, potenziata la cooperazione tra Roma e Atene

    Bruxelles – L’incontro alla Farnesina trai ministri degli Esteri di Italia Grecia ha visto lo scambio degli strumenti di ratifica dell’accordo sui confini marittimi dei due Paesi. Nikos Dendias, in una lettera indirizzata all’omologo italiano Luigi di Maio, ha parlato di “un atto simbolico di eccezionale importanza”.
    L’accordo tra Italia e Grecia e la ZEE
    Un’intesa era stata già trovata nel giugno del 2020, poi pubblicata in Gazzetta ufficiale nel 2021. Adesso l’accordo diventa realtà anche sul piano internazionale. I confini marittimi ricalcano quelli disegnati già nel 1977. All’epoca però non erano state definite le specificità funzionali delle zone disegnate. Adesso Atene e Roma si sono accordate per delimitare le rispettive Zone economiche esclusive (ZEE). 
    Si tratta della prima ZEE formalmente dichiarata dall’Italia. Fino al 2020 la Penisola era uno dei pochi Paesi Mediterranei a non aver esteso il proprio diritto esclusivo su un braccio di mare oltre le 12 miglia di acque territoriali. Tutt’oggi i confini marittimi e di sfruttamento delle risorse italiani sono fonte di controversie con Malta, Algeria e Tunisia, non esistendo una zona definita nel Canale di Sicilia e al largo delle coste sarde.
    Luigi di Maio auspica che l’accordo odierno possa “rappresentare un modello per il futuro”. Le ZEE sono in genere proclamate tramite decisioni unilaterali, ma solo l’accordo con i Paesi confinanti assicura che le delimitazioni vengano realmente rispettate. Un approccio simile a quello tenuto con la Grecia potrebbe ad esempio essere replicato con le nazioni sull’altro lato dell’Adriatico, con cui Roma ha in generale buoni rapporti.

    Non solo confini marittimi
    Ma i ministri non hanno discusso solo di confini marittimi. Come ha dichiarato di Maio, Italia e Grecia hanno affrontato una serie di dossier che spaziano dal “rafforzare il ruolo di hub energetici in Europa” alla “collaborazione sui temi europei, in particolare sulla necessità di un accordo sulle migrazioni”. L’incontro ha confermato che le due diplomazie sono d’accordo per una soluzione promossa dall’UE per evitare l’instabilità nei Balcani occidentali.
    Sul tavolo anche la Libia. Dendias ha ribadito la sua fiducia nella Conferenza internazionale sul futuro del Paese che inizierà a Parigi il 12 novembre. Lo scopo fondamentale per il ministro greco è quello di “favorire l’uscita dei mercenari dal Paese”, insieme a “un impegno di lungo periodo per ricostruire lo Stato”.
    Stando alle dichiarazioni dei funzionari del governo italiano l’accordo è solo una questione tra Roma ed Atene. Ma la lettera scritta dal ministro degli Esteri greco è indirizzata anche ad un altro interlocutore, la Turchia. Nel documento Dendias fa riferimento alle continue “violazioni del diritto internazionale” operate dalla marina turca nel Mediterraneo orientale e alla “ricerca di un casus belli” contro la Grecia.
    Dichiarazioni che fanno pensare che l’accordo con l’Italia, almeno per la Grecia, è una risposta all’intesa che Erdogan ha raggiunto con il governo dell’ex premier libico al-Sarraj nel 2019, per la creazione di un corridoio economico esclusivo tra Turchia e Libia. Questa delimitazione comprende anche alcuni tratti di mare a largo dell’isola di Creta che Atene rivendica come di propria competenza.

    L’accordo sulla delimitazione dei confini marittimi era stato firmato nel giugno del 2020 e riprendeva i confini di un’intesa siglata già nel 1977, ma negli ultimi 45 anni non erano ancora state individuate le rispettive zone di giurisdizione funzionale

  • in

    Risoluzione bipartisan al Senato USA: “Sosteniamo l’avvicinamento tra Lituania e Taiwan”

    Bruxelles – “Questa risoluzione vuole dare il messaggio che quando i nostri amici si oppongono alle influenze nocive della Cina, gli Stati Uniti li aiuteranno”. James Risch, senatore repubblicano dell’Idaho, descrive così la risoluzione proposta insieme alla collega democratica Jeanne Shaheen, senatrice del New Hampshire, sulle relazioni tra la Lituania e Taiwan.
    La risoluzione è un testo bipartisan che vuole esprimere il supporto degli Stati Uniti per il nuovo corso delle relazioni tra Vilnius e Taipei, condannando le rappresaglie economiche che la Cina ha messo in atto contro la piccola Repubblica baltica. Si tratta di un testo non vincolante, teso ad esprimere solidarietà ed appoggio internazionale piuttosto che a definire un quadro operativo.

    China is attempting to spread its malign influence across democracies in Eastern Europe, & Lithuania is leading the way in standing up to China’s abuse. I’m proud to lead this bipartisan resolution w/ @SenatorRisch to strengthen U.S. support for Lithuania & Taiwan against China. pic.twitter.com/3rUJONJ0TW
    — Sen. Jeanne Shaheen (@SenatorShaheen) November 7, 2021

    La senatrice ha elogiato le azioni della Lituania, che oggi “indica la via” agli altri Paesi europei sul contrasto alle interferenze della Repubblica popolare in Europa. Insieme all’approfondimento delle relazioni con l’Isola, la risoluzione prende atto (e giudica positivamente) la condanna del parlamento lituano per il trattamento che la Cina sta riservando alla minoranza uigura.
    La Lituania a Taiwan (e viceversa)
    Il 20 luglio scorso il governo lituano aveva reso note le sue intenzioni aprire un “Ufficio di rappresentanza a Taiwan“, con funzioni analoghe (de facto) a quelle di un’ambasciata. La decisione, confermata a settembre dal parlamento, era stata salutata positivamente dall’esecutivo di Taipei, che aveva annunciato l’apertura di un ufficio analogo nel Paese baltico.
    La Cina, che rivendica l’isola come parte del proprio territorio nazionale, aveva reagito duramente, ritirando il proprio ambasciatore da Vilnius e espellendo il rappresentante lituano a Pechino. A questo si era aggiunto lo stop all’esportazione di alcune merci cinesi dirette in Lituania. Anche in quell’occasione non era mancato il supporto americano, segnalato dalla solidarietà del consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, Jake Sullivan.
    L’esecutivo lituano, formato da un tandem tra centrodestra e liberali, è tra quelli che nell’UE supporta più da vicino la causa di Taiwan. Il programma del Partito della libertà, che governa in coalizione con i cristianodemocratici di Tėvynės sąjunga, include un punto relativo al pieno riconoscimento della sovranità della Repubblica di Cina – un unicum in Europa.
    Lo scontro diplomatico con la Cina si è aggravato nel corso del tempo: poco dopo la reazione di Pechino, la Lituania aveva rincarato la dose, spingendo i propri cittadini a fare a meno di alcuni telefoni cinesi di marca Xiaomi e Huawei, i cui software sarebbero stati in grado di censurare i messaggi legati riguardanti l’indipendentismo taiwanese e tibetano.

    A proporre la risoluzione un senatore repubblicano, James Risch, e una senatrice democratica, Jeanne Shaheen, a dimostrazione che Taiwan resta un dossier condiviso tra i rappresentanti politici americani

  • in

    Bruxelles si avvicina a Taiwan: “Non siete soli”

    Bruxelles – “L’Unione europea è qui per imparare”. Raphaël Glucksmann, a capo della delegazione del parlamento europeo in visita ufficiale a Taiwan, ha ringraziato le autorità di Taipei durante la conferenza stampa finale per l’accoglienza e ha ribadito che “la visita è stata un successo”.
    I sette membri dell’Eurocamera, tra i quali un’italiano, il leghista Marco Dreosto, erano parte di un Comitato speciale sulle interferenze estere e la disinformazione. Nel corso di tre giorni hanno avuto modo di incontrare rappresentati di spicco del mondo politico e imprenditoriale taiwanese, per culminare con un meeting con la Presidente dell’isola Tsai Ing-wen.
    La delegazione ha rassicurato, sia in conferenza stampa che nell’incontro con la Presidente, che oggi “Taiwan occupa un ruolo fondamentale nell’agenda di Bruxelles e in quella di tutti i Paesi membri”. Un viaggio per approfondire la cooperazione con quello che secondo gli ultimi pronunciamenti di Commissione e Parlamento è un “partner insostituibile”.
    Le parole di Glucksmann suonano anche come una precisa scelta di campo: “L’Europa è con Taiwan per la difesa della libertà, dello stato diritto e della dignità umana. Non siete soli”. Una sorta di “riconoscimento implicito” della sovranità e dell’indipendenza dell’isola. Inclinazione confermata anche dalle dichiarazioni che definiscono quelle della Cina nella politica taiwanese come “interferenze esterne”.
    Cambi di passo
    L’avvicinamento tra Bruxelles e Taiwan è condannato dalla Cina. In occasione della risoluzione dell’Eurocamera sul potenziamento della cooperazione con Taipei il governo cinese aveva “condannato qualsiasi tipo di approfondimento delle relazioni tra l’Europa e la regione di Taiwan”, intimando all’UE di non immischiarsi in quella che per Pechino è una questione nazionale.
    Il governo cinese era stato anche più duro nel commentare il nuovo corso dei rapporti tra Taiwan e alcuni Paesi membri UE. A fine agosto lo speaker del Senato della Repubblica Ceca, Milos Vystrcil, si era recato in visita ufficiale presso Taipei e Wang Yi, ministro degli Esteri di Pechino, aveva promesso che “avrebbe pagato un prezzo caro” per l’affronto.
    Il viaggio della delegazione UE segue altri due passi altrettanto storici nelle relazioni con l’isola ribelle. Il 28 ottobre il ministro degli Esteri di Taiwan Joseph Wu si è recato per una visita segreta a Bruxelles per discutere gli sviluppi della regione. Negli stessi giorni veniva annunciata una visita diplomatica di alto livello di una delegazione taiwanese in tre Paesi europei: Repubblica Ceca, Lituania e Slovacchia. Questi viaggi diplomatici sono in genere molto rari, considerato che nessuno degli Stati in questione riconosce oggi Taiwan come Paese sovrano e tutti adottano la “One-China policy” – tradotto: le relazioni diplomatiche ufficiali sono solo con Pechino, ma con Taiwan abbiamo comunque buoni rapporti (se non ottimi, come nel caso degli USA).
    Dove vanno le relazioni tra Taiwan e l’UE
    Sono due gli elementi che contribuiscono a spiegare questa nuova fase delle relazioni UE-Taiwan. Il primo, “segreto”, sono le pressioni informali degli USA per ridurre al minimo i rapporti con la Cina. Il secondo, esplicitato in più occasioni, sono i semiconduttori. Stringendo con Taiwan l’UE intende accedere a un canale privilegiato per assicurarsi i preziosi microchip – passaggio evidenziato anche nella Strategia della Commissione per l’Indo Pacifico.
    Kung Ming-hsin, capo della delegazione taiwanese in Europa orientale, ha confermato che “tutti i Paesi che ho visitato hanno espresso il loro interesse nei semiconduttori e hanno chiesto di cooperare con Taiwan”. Interesse che anche i “grandi” europei come Francia e Germania avevano già confermato in altre occasioni – e giustificato dal fatto che sul territorio di Taipei si trova il 70 per cento delle fonderie globali di microchip.
    In cambio delle concessioni in questo campo così delicato, l’isola vuole qualcosa, come ha fatto intendere ancora Kung Ming-hsin: ” Il Parlamento europeo parla di un accordo bilaterale sugli investimenti tra Taiwan e l’UE da molto, molto tempo. La proposta è stata lanciata molte, molte volte”.
    Un accordo simile, insieme ai benefici economici, rappresenterebbe un gesto molto forte dal punto di vista della narrativa e del riconoscimento internazionale , specie se si considera che l’accordo analogo con la Cina (CAI) è stato di fatto stracciato. Di fatto, Taiwan avanza la carta della cooperazione economica per ottenere legittimazione sulla scena globale.
    Un tema che potrebbe addirittura mettere d’accordo le ali opposte dell’Eurocamera. Per Dreosto (ID), ad esempio, l’Europa deve scegliere senza indugio di “schierarsi da lato degli alleati degli Americani (i Taiwanesi) in difesa della libertà”. Dichiarazioni che non stridono (per una volta) con quelle della collega Markéta Gregorová (Verdi), anche lei presente in questi giorni a Taiwan: “Dico apertamente che è tempo di iniziare a parlare di una One-Taiwan policy (rispetto all’attuale One-China policy) e spero che questo sia il primo incontro di tanti”.

    Secondo una delegazione del Parlamento UE a Taipei c’è forse la “più viva democrazia dell’Asia”. Ma è anche vero che nell’Isola c’è il 70 per cento delle fonderie globali dei microchip di cui l’Unione ha disparatamente bisogno

  • in

    L’UE punta all’Artico: transizione verde, libertà di navigazione e materie prime

    Bruxelles – La Commissione europea ha pubblicato una comunicazione congiunta per indirizzare l’azione dell’Unione nella regione dell’Artico. Il documento, dal titolo Un coinvolgimento maggiore dell’UE per un Artico pacifico, sostenibile e prospero, analizza gli interessi dei Paesi membri nel teatro polare e getta le basi per rispondere alle sfide incipienti.
    L’impegno dell’UE per un Artico verde
    La regione negli ultimi anni ha visto sia l’aumento della competizione geopolitica tra grandi potenze che gli effetti più drastici del riscaldamento globale. Come ha ricordato il Commissario europeo per l’ambiente Virginijus Sinkevičius “la regione dell’Artico si sta scaldando tre volte più velocemente del resto del pianeta”.
    Un fenomeno che influisce sull’andamento globale del clima e minaccia la corrente del Golfo, con effetti potenzialmente disastrosi per tutti i Paesi del Nord Atlantico. Gli indirizzi della Commissione muovono proprio dall’aspetto climatico. Diminuire le emissioni e porre un freno all’estrazione di gas e petrolio è una necessità impellente per la salute del Pianeta e degli abitanti della regione. Come ha ricordato sempre Sinkevičius, sono centinaia di migliaia gli Europei che vivono nelle vicinanza del Polo e di otto Stati considerati pienamente artici ben tre fanno parte dell’Unione europea (Svezia, Danimarca, Finlandia).
    A completare l’impegno ecologico dell’Unione sarà il progetto per la riduzione delle microplastiche (30 per cento entro il 2030) e il contrasto alla pesca smodata, che minaccia di intaccare i ricchi bacini ittici del Polo.
    Salvare l’approccio cooperativo nell’Artico
    Le relazioni tra potenze nell’Artico sono tradizionalmente contraddistinte da un maggiore grado di cooperazione rispetto al resto dei teatri “caldi”. La Commissione intende impegnarsi perché questa tendenza sopravviva all’inasprirsi delle condizioni del sistema internazionale. Di qui la preoccupazione per i tentativi di cinesi di installarsi nell’area e per l’intesa militarizzazione condotta dalla Federazione Russa.
    Il documento promuove la cooperazione multilaterale nell’Artico, con il potenziamento di strumenti come la Northern Dimension, l’accordo per lo sviluppo logistico e la tutela degli abitanti dei Poli tra UE, Russia, Norvegia e Islanda. I partenariati per la ricerca scientifica, numerosi da sempre trai ghiacci anche con potenze che altrove sono “ostili”, vengono individuati come vettore privilegiato della cooperazione.
    La comunicazione precisa che il partner principale per la sicurezza resta la NATO e che la cooperazione deve sempre essere orientata al rispetto della convenzione UNCLOS sul diritto del mare, dunque sul riconoscimento delle zone economiche esclusive e della sovranità degli spazi marittimi. Per aumentare il proprio coinvolgimento e monitorare la situazione la Commissione ha promesso di stabilire il suo primo ufficio in Groenlandia, presso la citta di Nuuk.
    Di particolare rilevanza geopolitica è la volontà di avviare un piano sostenibile di sfruttamento delle materie prime di cui la regione è ricca. Nello specifico la comunicazione fa riferimento alle terre rare (RE) e alla necessità di assicurare un approvvigionamento che non dipenda da “uno o pochi Paesi fornitori”, con esplicito riferimento alla Repubblica popolare cinese, da cui l’UE acquista il 98% delle RE.

    La Commissione europea ha rilasciato una comunicazione congiunta a Parlamento e Consiglio per indirizzare l’azione comunitaria nell’Artico. Insieme alla promozione di un approccio competitivo con le altre potenze, la Commissione vuole portare avanti le battaglie per la libertà di navigazione, lo scioglimento dei ghiacciai e l’inquinamento

  • in

    Perso il contratto in Australia la Francia si consola con la Grecia: ad Atene navi per tre miliardi

    Bruxelles – La Francia costruirà almeno sei navi da guerra per la marina militare della Grecia, per un costo stimato di tre miliardi di euro. Persa la ricca commessa australiana nella vicenda AUKUS, Parigi si consola con una piccola fornitura all’armatissime forze armate di Atene.
    Il presidente francese Emmanuel Macron e il premier greco Kyriakos Mitsotakis lo hanno annunciato oggi in una conferenza stampa congiunta a Parigi. Nel corso della visita, Mitsotakis ha presieduto l’inaugurazione di una mostra al Louvre che celebra il contributo francese all’indipendenza della Penisola ellenica.
    Per Mitstotakis si tratta di un accordo storico, che “legherà Grecia e Francia per decenni” e “apre la porta all’Europa di domani, che sarà forte, autonoma e capace di difendere i propri interessi”. Con l’occasione il presidente francese ha esortato ancora una volta i Paesi europei al perseguimento dell’autonomia strategica. Macron ha poi ribadito che non c’è alcuna intenzione di renderla alternativa all’alleanza con gli Stati Uniti – replica dell’approccio tenuto nella telefonata con il presidente Biden della scorsa settimana.
    La commessa della Francia per le fregate alla Grecia
    L’accordo prevede la fornitura alla Grecia di tre fregate e tre corvette. In seguito alla commessa potrebbe aggiungersi una quarta fregata. Secondo la stampa di settore per le fregate le forze armate greche avrebbero scelto la nuova classe FDI, nave di taglia intermedia prodotte dalla francese Naval Group. Le corvette sarebbero invece quelle della classe Gowind, imbarcazioni più piccole ed economiche equipaggiate per missioni antisommergibile e antinave.
    I costi della vendita sono stimati a tre miliardi di euro, ma è probabile che lievitino in corso d’opera: almeno altri 100 milioni saranno necessari per dotare le fregate dei sistemi di contromisure elettroniche di cui al momento sono sprovviste. Ciò che sorprende è la tabella di marcia forzata proposta da Parigi. Le prime navi dovranno essere consegnate entro il 2025 e le ultime entro la fine dell’anno successivo – tempi strettissimi considerata la mole delle imbarcazioni.
    La commessa, annunciata con grande enfasi dall’Eliseo, segue la delusione per la cancellazione di un accordo di forniture militari con l’Australia per un totale di 50 miliardi di euro. In quel caso la Naval Group avrebbe dovuto costruire dodici sottomarini diesel di classe Scorpene per la marina Australiana. Il governo di Canberra aveva cambiato idea in seguito all’annuncio del patto strategico AUKUS, optando per quelli anglo-americani a propulsione nucleare e causando l’ira di Parigi.
    Non solo navi: l’intesa tra Atene e Parigi
    Insieme alle forniture militari, i leader dei due paesi hanno annunciato che la cooperazione nel settore della difesa verrà approfondita. Secondo Bloomberg, le trattative trai due paesi avrebbero prodotto un’intesa sulla mutua assistenza in caso di invasione del territorio nazionale “con ogni mezzo a disposizione, incluso l’utilizzo della forza militare”.
    Il messaggio è rivolto in primis alla Turchia, le cui mire nel Mediterraneo turbano sia la Francia che la Grecia. Appena un anno fa, nell’estate del 2020, navi greche e turche erano arrivate a speronarsi dopo settimane di tensioni. Negli stessi giorni una fregata francese veniva messa sotto tiro da imbarcazioni turche al largo della Libia.
    Atene e Parigi cementano ulteriormente la partnership nel settore della difesa. A inizio 2021 l’aviazione greca aveva già acquistato 18 caccia Dassault Rafale di produzione francese, poi diventati 24 in un nuovo accordo raggiunto a inizio settembre. Il costo totale della commessa si aggira intorno a 2 miliardi e mezzo di euro.
    Proprio la sintonia sul dossier turco potrebbe essere alla base dell’accordo odierno. Come hanno riportato alcuni analisti greci, le navi transalpine erano l’alternativa più costosa tra quelle proposte alla marina greca. Solo i francesi, tra tutti i concorrenti (Olanda, Stati Uniti, Regno Unito), avrebbero però potuto assicurare anche l’impegno per l’assistenza militare.

    Dopo la cancellazione del “contratto del secolo” con la Marina australiana, la Naval Group francese conclude con successo un accordo per la vendita di almeno sei navi da guerra a partire dal 2025