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    Le transizioni dell’Ue sono una scommessa geopolitica

    Bruxelles – La trasformazione industriale dell’Europa dipende dal resto del mondo, in maniera sempre più rischiosa alla luce di turbolenze geopolitiche che stanno mettendo in discussione i rapporti con le potenze di cui l’Ue avrebbe bisogno. Russia e Cina, la scommessa dell’Unione europea passa per questi Paesi ricchi delle materie prime necessarie per le transizioni verde e sostenibile. Uno studio del Parlamento europeo, richiesto dalla commissione Industria, accende i riflettori su quella che è la parte più delicata dell’agenda di sostenibilità a dodici stelle. “La sfida della decarbonizzazione deve essere vinta in un contesto geopolitico in rapida evoluzione”. In questo scacchiere internazionale in trasformazione, “complessivamente, il principale Paese di dipendenza per le importazioni di gruppi merceologici, materie prime e componenti, necessari per la transizione verde e digitale è la Cina”. Con Pechino l’Ue ha conti che potrebbe pagare.
    Il documento sottolinea in particolare la ‘questione cinese’, e ricorda “le tensioni geopolitiche che circondano Taiwan, uno dei principali produttori di chip per computer, vitali per molte moderne tecnologie digitali e verdi”. In secondo luogo, ci sono “le preoccupazioni per il lavoro forzato nello Xinjiang, la provincia cinese che è il principale fornitore mondiale di pannelli solari e materie prime utilizzate per la loro produzione”. Per gli analisti “le considerazioni sulla resilienza delle catene di approvvigionamento nell’attuale contesto di tensioni geopolitiche sono fondamentali nella strategia dell’Ue per le materie prime essenziali”.
    L’Ue “dipende fortemente” dalla Cina “da tutte le materie prime utilizzate per la produzione di batterie, ad eccezione del litio”. Ha bisogno “sia per la produzione di magneti permanenti che per l’estrazione e la raffinazione di elementi delle terre rare (Ree) utilizzati nella loro produzione”. Ancora alla Cina ci si affida per le importazioni di batterie utilizzate per veicoli elettrici e accumulo di energia”.
    C’è poi la Russia. “Attualmente l‘Ue dipende dalla Russia per una quota significativa delle sue importazioni per tre materie prime critiche: platino, palladio e titanio”. Questi sono materiali “indispensabili per lo sviluppo della tecnologia dell’idrogeno”. Un’altra materia prima che merita attenzione è il titanio, poiché l’UE ha un “forte” deficit commerciale complessivo di questo elemento, necessario per le celle a combustibile. “La Russia è tra i primi tre produttori mondiali di titanio e l’UE importa il 17% del suo titanio da questo paese. Inoltre, l’UE importa dalla Russia il 15% del suo platino, necessario per gli elettrolizzatori”.
    Il conflitto russo-ucraino ha ridisegnato anche le relazioni dell’Ue con Mosca, e ora le materie prime critiche necessarie per tutta la strategia europea vanno ricercate altrove. Il mercato del nichel offre più sbocchi. Nel mondo i principali produttori della materia prima sono Indonesia, Filippine, Russia, Nuova Caledonia (Francia), Australia, Russia, Cina, Canada, Brasile, Cuba, Guatemala, Stati Uniti, Colombia. Mentre le più grandi riserve si trovano in Indonesia, Australia, Brasile, Russia, Filippine, Sudafrica. Mentre per ciò che riguarda il cobalto, i principali produttori sono Repubblica democratica del Congo, Russia, Cuba, Australia, Cina, Filippine, Marocco e Papua Nuova Guinea. Quelli con le maggiori riserve sono Repubblica democratica del Congo, Australia, Filippine, Russia, Canada, Madagascar e Cina.
    L’Ue deve avviare una nuova stagione di relazioni con questi Paesi, sottolinea lo studio di lavoro del Parlamento. Per garantirsi un accesso alle materie prime necessarie alla transizione verde, l’Ue deve sapersi muovere. Il commercio non è la via da seguire, poiché “offre un margine limitato per aumentare la diversità dei fornitori europei, perché le tariffe sulle materie prime critiche sono già basse”, e questo “limita l’efficacia di questi accordi di libero scambio nell’incentivare una diversificazione dell’offerta”. Gli strumenti di politica non commerciale, come l’assistenza allo sviluppo e la cooperazione internazionale, appaiono come opzioni più efficaci”. Ben venga dunque l’accordo con il Giappone per lo sviluppo dell’idrogeno. Ma soprattutto, serve una politica vera, finora mancante, per le materie prime indispensabili.
    “Il passaggio dai veicoli con motore a combustione interna ai veicoli elettrici richiederà grandi quantità di materiali aggiuntivi come cobalto e litio per le batterie, elementi di terre rare per i motori elettrici e alluminio e molibdeno per la scocca”. Questo il preo-memoria contenuto nel documento, a ricordare che prodotti contenenti materie prime critiche sono “necessarie” per le transizioni verde e digitale, ma l’Ue manca di una politica di approvvigionamento. “Lo stoccaggio strategico di prodotti contenenti materie prime critiche è una politica comune negli Stati Uniti, in Giappone, Corea del Sud e Svizzera. Da questi esempi si possono trarre i principi per lo stoccaggio europeo”.
    La Commissione europea si è messa al lavoro producendo una strategia per le materie prime critiche, consapevole della posta in gioco. “Dobbiamo evitare di ridiventare dipendenti, come abbiamo fatto con il petrolio e il gas”, ha ammesso il commissario per l’Industria, Thierry Breton. A oggi l’Ue soffre questa situazione, e con lei anche le sue ambizioni di trasformazione verde e digitale. L’idea di un fondo per la sovranità industriale si colloca in questo solco.

    Uno studio richiesto dalla commissione Industria del Parlamento europeo ricorda come per agenda verde e digitale l’Europa non abbia le materie prime critiche di cui ha bisogno. Servirà cooperazione a tutto campo

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    “Stati Uniti necessari ma non sufficienti, servono coalizioni più ampie”. Gentiloni rispolvera la Commissione geopolitica

    Bruxelles – Stati Uniti sì, ma non solo. Paolo Gentiloni rompe la logica della dipendenza geo-politica con Washington per uscire da schemi considerati ormai superati dalla mutata realtà e rilanciare le aspirazioni dell’Unione europea sullo scacchiere internazionale, riproponendo le ambizioni di Commissione geopolitica che il team von der Leyen aveva cullato a inizio mandato. Certo, il passaggio dall’amministrazione Trump all’amministrazione Biden “ha segnato un miglioramento nella qualità delle relazioni” tra le due parti, riconosce il commissario per l’Economia. Ma “per affrontare le sfide che il mondo sta affrontando la cooperazione transatlantica è una condizione necessaria ma non sufficiente“. Per questo, continua, “abbiamo bisogno di radunare coalizioni molto più ampie“.
    La presenza di Gentiloni al Frankfurt forum sulla geo-economia Europa-Stati Uniti è l’occasione per riprendere in mano il progetto di commissione geo-politica interrottosi bruscamente un anno fa, dopo gli annunci e le intenzioni del nuovo esecutivo comunitario. Sia chiaro, gli USA restano un partner chiave e imprescindibile, ma l’UE ha anche la necessità di non dover più dipendere così tanto politicamente da un alleato di lungo corso.
    Gentiloni ricorda che ci sono 35 paesi, inclusi tre membri del G20 [Cina, India e Sud Africa], che “hanno deciso di astenersi nella risoluzione delle Nazioni Unite che condanna l’invasione russa dell’Ucraina“. Una situazione che ricorda l’importanza di non dare niente per scontato, e di lavorare per evitare brutte sorprese. “Per aumentare la nostra influenza in altre parti del mondo, dobbiamo investire in esse”, l’appello di Gentiloni, che rilancia la strategia Global Gateway per relazioni sostenibili e affidabili con popoli e governi a beneficio di tutti. E rilancia pure quella Commissione geopolitica che doveva imprimere una volta non ancora avvenuta ma che oggi più che mai a Bruxelles si avverte come necessaria.

    Il commissario per l’Economia invita a lavorare attivamente in poltica estera. “Per aumentare la nostra influenza in altre parti del mondo, dobbiamo investire in esse”

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    Stop all’uranio russo, l’UE e il G7 aprono un nuovo fronte geopolitico

    Bruxelles – Parola d’ordine: “Ridurre ulteriormente la dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati provenienti dalla Russia”. Il G7 e gli Stati dell’UE che vi fanno parte sono decisi ad andare avanti con la strategia di isolamento e indebolimento economico della federazione russa, privandola degli introiti derivanti dall’uranio, dopo la cancellazione del business del carbone e del petrolio. Una decisione assunta in modo ufficiale, e dunque con chiare intenzione e volontà politica. Questa decisione, per quanto comprensibile e doverosa alla luce di un cambio di orientamenti derivati dalla guerra di aggressione in Ucraina, ha nella realtà un banco di prova non semplice e non scontato.
    C’è mezza Unione europea alimentata con reattori e centrali nucleari. Tredici dei 27 Stati membri si affidano ad elettricità prodotta da fusione dell’atomo. La Germania ha annunciato di abbandonare la produzione e uscire definitivamente dal nucleare, ma nel breve periodo non sembra semplice per l’Unione europea tenere federe a proclami, intenzioni e impegni solenni. Serve uranio per alimentare le centrali e produrre energia dai reattori, risorsa di cui il sottosuolo del Vecchio continente è povera. Bisogna affidarsi all’offerta straniera, e oltre i confini dell’UE uno dei grandi produttori e fornitori è proprio la Russia.
    La sola federazione russa risponde a un quinto del fabbisogno dei reattori a dodici stelle. Il 20 per cento delle forniture e degli approvvigionamenti della materia prima è garantito dal Paese oggi non più amico. Una quota di mercato che non appare difficile da rimpiazzare, considerando che nel mondo giacimenti non mancano e che i partner del G7 sono disposti a venire incontro alle esigenze dei partner occidentali. Ma nel grande gioco della alleanze, non va dimenticato come Russia, Kazakistan e Uzbekistan abbiano sempre marciato compatte e insieme. L’UE acquista uranio anche dalle altre due repubbliche dell’Asia centrale. Insieme, gli acquisti nei Paesi dell’ex Unione sovietica contano il 42 per cento di tutte le importazioni complessive.
    Se questi tre Paesi dovessero davvero confermarsi uniti e compatti le politiche in materia di affrancamento dall’uranio potrebbero essere riscritte, proprio a est. Nelle logiche tipiche delle amicizie e del reciproco spalleggiamento di fronte a potenze straniere ostili o avvertiti come tali, Kazakistan e Uzbekistan potrebbero decidere di non venire incontro alle rinnovate esigenze europee per non fare torto al partner russo.
    Va detto che né Kazakistan né Uzbekistan vedono di buon occhio l’aggressione dell’Ucraina, e non sembrano schierate con il presidente russo Putin in questa sua campagna militare. Quel che è certo è che l’annuncio del G7 mette in moto nuovi scenari geopolitici. I malumori in Asia centrale per le iniziative e le manovre del Cremlino potrebbero essere un’arma a favore degli europei, che devono fare attenzione a non indispettire ancora di più la Russia e i suoi centri di potere. Nella ridefinizione di confini, alleanze, sfere d’influenza, agli occhi di Putin l’UE e l’occidente si sono già spinti troppo oltre. Ma in questo rimescolamento di relazioni e fattori, la mossa dell’Occidente appare obbligata. Comprare uranio altrove appare una scelta obbligata, per un nuovo ordine mondiale.
    Da chi andare a rifornirsi diventa il vero interrogativo. Gli Stati Uniti non hanno interesse a ché la Cina, principale concorrente sullo scacchiere internazionale, si arricchisca. Chiedere uranio ai cinesi, dunque non è via percorribile. Gli europei dovranno andare a pescare in Africa, dove pure presenza e penetrazione economica di Cina e Sudafrica non sono irrilevanti, o America Latina, sponda brasiliana. Oppure comprare dai partner del G7, a prezzo da stabilire, e scordandosi ogni velleità di indipendenza strategica.

    E’ l’obiettivo dichiarato quello di “ridurre ulteriormente la dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati provenienti dalla Russia”. Ma l’UE, in questo nuovo corso, rischia rimetterci

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    HGE8: L’Europa geopolitica arranca, va rivista la politica estera comune

    Roma – Il mondo cambia, nuovi poteri emergono, e l’Unione europa fa fatica a tenere il passo. C’è oggi maggiore bisogno di presenza, come mediatori, e come potenza militare. Serve, quindi, “il grande passo”, quello di una integrazione vera in quei settori sempre strategici mai mai veramente trattati come tali a livello comune: sicurezza e politica estera comune. Questa la risposta fornita nel corso dell’ottava edizione di How Can We Govern Europe (HGE8), il più importante evento sull’attualità europea organizzato da Eunews.
    C’è un deficit di fondo, sottolinea Rosa Balfour, direttrice di Carnegie Europe. “Con la pandemia l’Unione europea ha saputo affrontare le sfide del XXI secolo: sanità e clima. Ma sul fronte internazionale resta molto debole“. Lo dimostrano gli eventi di attualità. “Stiamo vivendo momenti pericolosi, in queste ora la Russia sta ammassando militari al confine con l’Ucraina e non si capisce come e con quale cappello l’Europa risponderà: come UE, come Nato, come singoli Paesi?”. Secondo la responsabile del think tank, molto si gioca sulla capacità di tramutare in potenza gli impegni assunti a livello domestico. Perché l’arrivo del Coronavirus ha mostrato tutti i limiti della dimensione internazionale dell’UE. “Se guardiamo alla capacità di esportare vaccino l’Europa non è messa molto bene, e la variante Omicron dimostra questa cosa. Ci siamo impegnati sul fronte interno, ma non altrettanto su quello esterno”. Per un cambio di rotta “bisogna vedere come riesce a tradurre in azione esterna la transizione verde e digitale”.
    Piero Fassino, presidente della commissione Esteri della Camera, una soluzione ce l’ha: è un nuovo percorso di costruzione europea. “Serve una terza fase di integrazione“. La prima fase, ricorda, è stata quella dei padri fondatori; la seconda è stata quella dell’adozione dell’euro e del grande allargamento. “Adesso serve una terza fase di integrazione”, ribadisce. Si tratta di dare forma ad un politica estera comune. “E’ molto importante che l’UE è giunta alla conclusione di avere una politica di difesa comune, però deve essere chiaro che una politica di sicurezza presuppone una politica estera”. Allo stato attuale, lamenta, la politica estera come “è accennata” e basta. “Abbiamo un servizio diplomatico, ma in ogni pilastro c’è bisogno di fare il salto in avanti”. Tradotto: occorre “procedere a maggioranza” e lasciar perdere le decisioni all’unanimità, e “bisogna riconosce all’Alto rappresentante qualche titolarità in più”, per evitare di dover parlare ogni volta con 27 ministri degli Esteri.
    Se Fassino propone una riforma dell’Unione europea, Sibylle Bauer, direttrice studi, armamenti e disarmo dello Stockholm International Peace Research Institute – SIPRI, chiede innanzitutto di correggere storture e contraddizioni interne. “Se guardiamo l’esportazione di armamenti, l’UE è uno dei maggiori esportatori di armi”, rileva. Questo rischia di ritorcesi contro l’Unione europea, i suoi interessi, e la capacità di gestire gli scenari di guerra e tensione. In prospettiva “l’UE ha un grande ruolo da giocare” sullo scacchiere internazionale. “A volte il soft power è più efficace dell’hard power“, e allora invece di esportare armi varrebbe la pena di cambiare linea. “La Germania, insieme ai Paesi Bassi, stanno ripensando la strategie per il controllo delle armi. E’ una sfida nuova, ognuno sta cercando di trovare delle soluzioni”. La chiave possibile? “Una delle soluzione per il traffico delle armi è la costruzione di fiducia, agevolando il dialogo. Dobbiamo investire nel controllo delle armi di nuova generazione. Il messaggio chiave è: impegnarsi, impegnarsi, impegnarsi”.
    In questo percorso che appare inevitabile, c’è bisogno anche di un’azione esterna che guardi di più ai valori fondamentali. “Su questo non riusciamo a dare una risposta coordinata, come dimostra la questione dei migranti al confine con la Bielorussia”, critica Marta Grande, presidente della Delegazione parlamentare presso l’Assemblea del Consiglio d’Europa. “La nostra Unione si basa su questo, è parte del nostro DNA, è parte della nostra cultura. Manca però concretezza in politica estera“. Ricorda che molte volte in passato si è parlato di esercito comune europeo senza veri progressi. “Adesso, che l’Europa è sempre più sotto attacco di Paesi terzi, è arrivato il momento di fare un passo avanti”.

    L’UE è indietro e a livello geopolitico non riesce a incidire come potrebbe e dovrebbe. Tempo di rilanciare anche l’esercito europeo

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    Merkel chiama Putin: “Intervieni sul comportamento disumano della Bielorussia”

    Bruxelles – “La Cancelliera ha telefonato al presidente Putin per discutere della situazione al confine tra Bielorussia e Polonia“. Lo annuncia su Twitter il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert. Il Cremlino ha precisato che che si è trattato di “un’iniziativa della Germania”.
    Secondo Seibert, Merkel “ha sottolineato che la strumentalizzazione dei migranti attraverso il regime bielorusso è disumana e inaccettabile e ha pregato il presidente Putin di intervenire”. Di seguito la cancelliera avrebbe chiesto al presidente russo di utilizzare la propria influenza per dissuadere il governo di Minsk dal proseguire quello che per l’UE è un “attacco asimmetrico”.
    Da Mosca è arrivata una risposta tiepida. Se infatti Putin ha acconsentito “a continuare i colloqui su questo tema”, non sono stati presi impegni di sorta per porre un freno alla crisi. Quanto emerge dalle dichiarazioni è che per l’inquilino del Cremlino si tratta di un problema tra l’Unione europea e la Bielorussia, che non tocca direttamente la Russia.
    Nel corso della telefonata con Angela Merkel, Putin ha suggerito di risolvere la questione “attraverso un colloquio diretto tra gli Stati membri dell’UE e Minsk”, affermando che la Russia avrebbe fatto il possibile per mettere in contatto le due parti in causa – ma senza intervenire in prima persona.
    Merkel ha poi ringraziato pubblicamente i Paesi “che sono preoccupati per la protezione delle frontiere esterne dell’Unione europea, Lituania, Lettonia e Polonia”, lasciando intendere un supporto tedesco alle istanze degli Stati che stanno gestendo direttamente i flussi migratori orchestrati dal regime bielorusso.

    Per la Cancelliera la “strumentalizzazione dei migranti attraverso il regime bielorusso è un comportamento disumano e inaccettabile”, ma Vladimir Putin invita gli Europei a parlare direttamente con Minsk

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    Accordo tra Italia e Grecia: fissati i confini marittimi, potenziata la cooperazione tra Roma e Atene

    Bruxelles – L’incontro alla Farnesina trai ministri degli Esteri di Italia Grecia ha visto lo scambio degli strumenti di ratifica dell’accordo sui confini marittimi dei due Paesi. Nikos Dendias, in una lettera indirizzata all’omologo italiano Luigi di Maio, ha parlato di “un atto simbolico di eccezionale importanza”.
    L’accordo tra Italia e Grecia e la ZEE
    Un’intesa era stata già trovata nel giugno del 2020, poi pubblicata in Gazzetta ufficiale nel 2021. Adesso l’accordo diventa realtà anche sul piano internazionale. I confini marittimi ricalcano quelli disegnati già nel 1977. All’epoca però non erano state definite le specificità funzionali delle zone disegnate. Adesso Atene e Roma si sono accordate per delimitare le rispettive Zone economiche esclusive (ZEE). 
    Si tratta della prima ZEE formalmente dichiarata dall’Italia. Fino al 2020 la Penisola era uno dei pochi Paesi Mediterranei a non aver esteso il proprio diritto esclusivo su un braccio di mare oltre le 12 miglia di acque territoriali. Tutt’oggi i confini marittimi e di sfruttamento delle risorse italiani sono fonte di controversie con Malta, Algeria e Tunisia, non esistendo una zona definita nel Canale di Sicilia e al largo delle coste sarde.
    Luigi di Maio auspica che l’accordo odierno possa “rappresentare un modello per il futuro”. Le ZEE sono in genere proclamate tramite decisioni unilaterali, ma solo l’accordo con i Paesi confinanti assicura che le delimitazioni vengano realmente rispettate. Un approccio simile a quello tenuto con la Grecia potrebbe ad esempio essere replicato con le nazioni sull’altro lato dell’Adriatico, con cui Roma ha in generale buoni rapporti.

    Non solo confini marittimi
    Ma i ministri non hanno discusso solo di confini marittimi. Come ha dichiarato di Maio, Italia e Grecia hanno affrontato una serie di dossier che spaziano dal “rafforzare il ruolo di hub energetici in Europa” alla “collaborazione sui temi europei, in particolare sulla necessità di un accordo sulle migrazioni”. L’incontro ha confermato che le due diplomazie sono d’accordo per una soluzione promossa dall’UE per evitare l’instabilità nei Balcani occidentali.
    Sul tavolo anche la Libia. Dendias ha ribadito la sua fiducia nella Conferenza internazionale sul futuro del Paese che inizierà a Parigi il 12 novembre. Lo scopo fondamentale per il ministro greco è quello di “favorire l’uscita dei mercenari dal Paese”, insieme a “un impegno di lungo periodo per ricostruire lo Stato”.
    Stando alle dichiarazioni dei funzionari del governo italiano l’accordo è solo una questione tra Roma ed Atene. Ma la lettera scritta dal ministro degli Esteri greco è indirizzata anche ad un altro interlocutore, la Turchia. Nel documento Dendias fa riferimento alle continue “violazioni del diritto internazionale” operate dalla marina turca nel Mediterraneo orientale e alla “ricerca di un casus belli” contro la Grecia.
    Dichiarazioni che fanno pensare che l’accordo con l’Italia, almeno per la Grecia, è una risposta all’intesa che Erdogan ha raggiunto con il governo dell’ex premier libico al-Sarraj nel 2019, per la creazione di un corridoio economico esclusivo tra Turchia e Libia. Questa delimitazione comprende anche alcuni tratti di mare a largo dell’isola di Creta che Atene rivendica come di propria competenza.

    L’accordo sulla delimitazione dei confini marittimi era stato firmato nel giugno del 2020 e riprendeva i confini di un’intesa siglata già nel 1977, ma negli ultimi 45 anni non erano ancora state individuate le rispettive zone di giurisdizione funzionale

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    Risoluzione bipartisan al Senato USA: “Sosteniamo l’avvicinamento tra Lituania e Taiwan”

    Bruxelles – “Questa risoluzione vuole dare il messaggio che quando i nostri amici si oppongono alle influenze nocive della Cina, gli Stati Uniti li aiuteranno”. James Risch, senatore repubblicano dell’Idaho, descrive così la risoluzione proposta insieme alla collega democratica Jeanne Shaheen, senatrice del New Hampshire, sulle relazioni tra la Lituania e Taiwan.
    La risoluzione è un testo bipartisan che vuole esprimere il supporto degli Stati Uniti per il nuovo corso delle relazioni tra Vilnius e Taipei, condannando le rappresaglie economiche che la Cina ha messo in atto contro la piccola Repubblica baltica. Si tratta di un testo non vincolante, teso ad esprimere solidarietà ed appoggio internazionale piuttosto che a definire un quadro operativo.

    China is attempting to spread its malign influence across democracies in Eastern Europe, & Lithuania is leading the way in standing up to China’s abuse. I’m proud to lead this bipartisan resolution w/ @SenatorRisch to strengthen U.S. support for Lithuania & Taiwan against China. pic.twitter.com/3rUJONJ0TW
    — Sen. Jeanne Shaheen (@SenatorShaheen) November 7, 2021

    La senatrice ha elogiato le azioni della Lituania, che oggi “indica la via” agli altri Paesi europei sul contrasto alle interferenze della Repubblica popolare in Europa. Insieme all’approfondimento delle relazioni con l’Isola, la risoluzione prende atto (e giudica positivamente) la condanna del parlamento lituano per il trattamento che la Cina sta riservando alla minoranza uigura.
    La Lituania a Taiwan (e viceversa)
    Il 20 luglio scorso il governo lituano aveva reso note le sue intenzioni aprire un “Ufficio di rappresentanza a Taiwan“, con funzioni analoghe (de facto) a quelle di un’ambasciata. La decisione, confermata a settembre dal parlamento, era stata salutata positivamente dall’esecutivo di Taipei, che aveva annunciato l’apertura di un ufficio analogo nel Paese baltico.
    La Cina, che rivendica l’isola come parte del proprio territorio nazionale, aveva reagito duramente, ritirando il proprio ambasciatore da Vilnius e espellendo il rappresentante lituano a Pechino. A questo si era aggiunto lo stop all’esportazione di alcune merci cinesi dirette in Lituania. Anche in quell’occasione non era mancato il supporto americano, segnalato dalla solidarietà del consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, Jake Sullivan.
    L’esecutivo lituano, formato da un tandem tra centrodestra e liberali, è tra quelli che nell’UE supporta più da vicino la causa di Taiwan. Il programma del Partito della libertà, che governa in coalizione con i cristianodemocratici di Tėvynės sąjunga, include un punto relativo al pieno riconoscimento della sovranità della Repubblica di Cina – un unicum in Europa.
    Lo scontro diplomatico con la Cina si è aggravato nel corso del tempo: poco dopo la reazione di Pechino, la Lituania aveva rincarato la dose, spingendo i propri cittadini a fare a meno di alcuni telefoni cinesi di marca Xiaomi e Huawei, i cui software sarebbero stati in grado di censurare i messaggi legati riguardanti l’indipendentismo taiwanese e tibetano.

    A proporre la risoluzione un senatore repubblicano, James Risch, e una senatrice democratica, Jeanne Shaheen, a dimostrazione che Taiwan resta un dossier condiviso tra i rappresentanti politici americani

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    Bruxelles si avvicina a Taiwan: “Non siete soli”

    Bruxelles – “L’Unione europea è qui per imparare”. Raphaël Glucksmann, a capo della delegazione del parlamento europeo in visita ufficiale a Taiwan, ha ringraziato le autorità di Taipei durante la conferenza stampa finale per l’accoglienza e ha ribadito che “la visita è stata un successo”.
    I sette membri dell’Eurocamera, tra i quali un’italiano, il leghista Marco Dreosto, erano parte di un Comitato speciale sulle interferenze estere e la disinformazione. Nel corso di tre giorni hanno avuto modo di incontrare rappresentati di spicco del mondo politico e imprenditoriale taiwanese, per culminare con un meeting con la Presidente dell’isola Tsai Ing-wen.
    La delegazione ha rassicurato, sia in conferenza stampa che nell’incontro con la Presidente, che oggi “Taiwan occupa un ruolo fondamentale nell’agenda di Bruxelles e in quella di tutti i Paesi membri”. Un viaggio per approfondire la cooperazione con quello che secondo gli ultimi pronunciamenti di Commissione e Parlamento è un “partner insostituibile”.
    Le parole di Glucksmann suonano anche come una precisa scelta di campo: “L’Europa è con Taiwan per la difesa della libertà, dello stato diritto e della dignità umana. Non siete soli”. Una sorta di “riconoscimento implicito” della sovranità e dell’indipendenza dell’isola. Inclinazione confermata anche dalle dichiarazioni che definiscono quelle della Cina nella politica taiwanese come “interferenze esterne”.
    Cambi di passo
    L’avvicinamento tra Bruxelles e Taiwan è condannato dalla Cina. In occasione della risoluzione dell’Eurocamera sul potenziamento della cooperazione con Taipei il governo cinese aveva “condannato qualsiasi tipo di approfondimento delle relazioni tra l’Europa e la regione di Taiwan”, intimando all’UE di non immischiarsi in quella che per Pechino è una questione nazionale.
    Il governo cinese era stato anche più duro nel commentare il nuovo corso dei rapporti tra Taiwan e alcuni Paesi membri UE. A fine agosto lo speaker del Senato della Repubblica Ceca, Milos Vystrcil, si era recato in visita ufficiale presso Taipei e Wang Yi, ministro degli Esteri di Pechino, aveva promesso che “avrebbe pagato un prezzo caro” per l’affronto.
    Il viaggio della delegazione UE segue altri due passi altrettanto storici nelle relazioni con l’isola ribelle. Il 28 ottobre il ministro degli Esteri di Taiwan Joseph Wu si è recato per una visita segreta a Bruxelles per discutere gli sviluppi della regione. Negli stessi giorni veniva annunciata una visita diplomatica di alto livello di una delegazione taiwanese in tre Paesi europei: Repubblica Ceca, Lituania e Slovacchia. Questi viaggi diplomatici sono in genere molto rari, considerato che nessuno degli Stati in questione riconosce oggi Taiwan come Paese sovrano e tutti adottano la “One-China policy” – tradotto: le relazioni diplomatiche ufficiali sono solo con Pechino, ma con Taiwan abbiamo comunque buoni rapporti (se non ottimi, come nel caso degli USA).
    Dove vanno le relazioni tra Taiwan e l’UE
    Sono due gli elementi che contribuiscono a spiegare questa nuova fase delle relazioni UE-Taiwan. Il primo, “segreto”, sono le pressioni informali degli USA per ridurre al minimo i rapporti con la Cina. Il secondo, esplicitato in più occasioni, sono i semiconduttori. Stringendo con Taiwan l’UE intende accedere a un canale privilegiato per assicurarsi i preziosi microchip – passaggio evidenziato anche nella Strategia della Commissione per l’Indo Pacifico.
    Kung Ming-hsin, capo della delegazione taiwanese in Europa orientale, ha confermato che “tutti i Paesi che ho visitato hanno espresso il loro interesse nei semiconduttori e hanno chiesto di cooperare con Taiwan”. Interesse che anche i “grandi” europei come Francia e Germania avevano già confermato in altre occasioni – e giustificato dal fatto che sul territorio di Taipei si trova il 70 per cento delle fonderie globali di microchip.
    In cambio delle concessioni in questo campo così delicato, l’isola vuole qualcosa, come ha fatto intendere ancora Kung Ming-hsin: ” Il Parlamento europeo parla di un accordo bilaterale sugli investimenti tra Taiwan e l’UE da molto, molto tempo. La proposta è stata lanciata molte, molte volte”.
    Un accordo simile, insieme ai benefici economici, rappresenterebbe un gesto molto forte dal punto di vista della narrativa e del riconoscimento internazionale , specie se si considera che l’accordo analogo con la Cina (CAI) è stato di fatto stracciato. Di fatto, Taiwan avanza la carta della cooperazione economica per ottenere legittimazione sulla scena globale.
    Un tema che potrebbe addirittura mettere d’accordo le ali opposte dell’Eurocamera. Per Dreosto (ID), ad esempio, l’Europa deve scegliere senza indugio di “schierarsi da lato degli alleati degli Americani (i Taiwanesi) in difesa della libertà”. Dichiarazioni che non stridono (per una volta) con quelle della collega Markéta Gregorová (Verdi), anche lei presente in questi giorni a Taiwan: “Dico apertamente che è tempo di iniziare a parlare di una One-Taiwan policy (rispetto all’attuale One-China policy) e spero che questo sia il primo incontro di tanti”.

    Secondo una delegazione del Parlamento UE a Taipei c’è forse la “più viva democrazia dell’Asia”. Ma è anche vero che nell’Isola c’è il 70 per cento delle fonderie globali dei microchip di cui l’Unione ha disparatamente bisogno