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    Commercio, trapela ottimismo sui negoziati Usa-Cina. Ma la svolta è ancora lontana

    Bruxelles – Prove di disgelo tra Stati Uniti e Cina, ad un paio di mesi dopo l’avvio della guerra commerciale scatenata da Donald Trump. I negoziatori di Washington e Pechino si stanno incontrando a Londra per il secondo giorno di fila per discutere di terre rare e semiconduttori, centrali per l’economia e le capacità strategiche statunitensi. Ma per quanto il clima sia generalmente positivo, è ancora presto per una svolta decisiva. Nel frattempo, l’Europa subisce i danni collaterali dello scontro tra i due giganti globali.Dopo un primo giorno di colloqui ieri, continuano anche oggi (10 giugno) le trattative tra le delegazioni di Stati Uniti e Cina a Londra. L’obiettivo è disinnescare la guerra dei dazi avviata da Donald Trump, o per lo meno le sue conseguenze più disastrose per le due superpotenze economiche mondiali.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)La squadra negoziale a stelle e strisce comprende il titolare del Tesoro Scott Bessent, il segretario al Commercio Howard Lutnick e il rappresentante del governo Usa per il commercio estero Jamieson Greer. Le controparti cinesi sono il vicepremier He Lifeng, il ministro al Commercio Wang Wentao e il consigliere Li Chenggang. In mattinata, l’inquilino della Casa Bianca ha dichiarato di aver ricevuto “solo buoni resoconti” dai suoi emissari, sostenendo che “stiamo lavorando bene con la Cina, la Cina non è facile“. Ma non ha voluto scoprire del tutto le sue carte: “Vedremo” se rimuovere i controlli sulle esportazioni, ha detto il tycoon.Cosa c’è sul tavoloLe misure restrittive imposte reciprocamente da Washington e Pechino sui propri export sono il fulcro delle discussioni in corso nella capitale britannica, e rappresentano una delle minacce più serie all’intera economia mondiale determinate dall’escalation tariffaria di questi mesi. Nello specifico, il nodo principale riguarda le esportazioni di terre rare, minerali critici e una serie di tecnologie avanzate (soprattutto i semiconduttori) dalla Cina verso gli Usa.Si tratta di materiali cruciali per un’ampia gamma di applicazioni fondamentali, dall’elettronica di consumo come gli smartphone agli F-35 passando per l’energia rinnovabile. Il punto è che la loro catena del valore a livello globale è in massima parte nelle mani di Pechino: anche dove non ha il monopolio dell’estrazione, il Dragone detiene comunque il controllo della lavorazione.Per questo, almeno stando alle indiscrezioni della stampa statunitense, Trump avrebbe autorizzato il team a stelle e strisce a negoziare una potenziale rimozione delle restrizioni sulla vendita di software per la produzione di chip, parti di motore a reazione ed etano. In cambio, gli Usa si aspettano che la Repubblica popolare allenti i controlli sulle terre rare. Tuttavia, al netto dei proclami altisonanti, nessuno si aspetta una svolta decisiva dalle discussioni odierne.ll presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping (foto via Imagoeconomica)La posta in palio nei negoziati, dopo tutto, è pur sempre il primato di uno dei due colossi globali nell’economia del XXI secolo: le tecnologie di cui si discute a Londra sono alla base degli scambi d’informazione, dell’intelligenza artificiale, dell’economia dei big data, dell’hi-tech, ma anche dell’industria pesante, dell’automotive e della difesa.L’incontro londinese, deciso da Trump e dal leader cinese Xi Jinping durante una telefonata la scorsa settimana (la prima da gennaio), dovrebbe servire a rimettere in carreggiata il “consenso” raggiunto a inizio maggio a Ginevra. Lì, i rappresentanti di Washington e Pechino avevano concordato una pausa di 90 giorni sui maxi-dazi reciproci: abbassando quelli statunitensi dal 145 al 30 per cento e quelli cinesi dal 125 al 10 per cento. Ma da allora, entrambe le parti si sono accusate a vicenda di aver violato i termini della tregua: gli Usa criticano la lentezza di Pechino nell’allungare la lista dei minerali critici esenti da restrizioni, venendo a loro volta redarguiti per i controlli sull’export di chip e per le restrizioni sui visti degli studenti cinesi.L’Europa nel mezzoDel resto, nella guerra commerciale tra le due superpotenze si contano anche pesanti danni collaterali. L’Ue è rimasta schiacciata nel mezzo e sta cercando di correre ai ripari da quando, un paio di mesi fa, il presidente statunitense ha annunciato i suoi dazi “reciproci” durante quello che ha ribattezzato Liberation Day. Tra i settori che pagano maggiormente il costo dell’imprevedibilità in cui il tycoon newyorkese ha piombato il commercio globale ci sono quello della difesa – dove Bruxelles sta tentando di darsi un tono tramite il piano ReArm Europe e, nello specifico, il fondo Safe da 150 miliardi – e quello dell’industria automobilistica, già in crisi nera da un paio d’anni.L’esecutivo comunitario sta provando a dialogare tanto con Washington quanto con Pechino. Il titolare del Commercio, Maroš Šefčovič, è possibilista nonostante i nuovi dazi del 50 per cento su acciaio e alluminio imposti dalla Casa Bianca, ma la verità è che non si vede ancora la luce in fondo al tunnel. Come ammesso in mattinata dal portavoce del Berlaymont Olof Gill, i negoziati con gli Usa sono “in corso”, e per il momento non è stato programmato alcun bilaterale tra Trump e Ursula von der Leyen al vertice Nato dell’Aia tra due settimane.Il commissario Ue al Commercio, Maroš Šefčovič (foto: Consiglio europeo)Allo stesso modo non pare prossima a sbloccarsi nemmeno l’impasse con la Repubblica popolare, con cui pure l’Ue ha in calendario un summit di alto livello per il mese prossimo. Šefčovič, che ha incontrato la sua controparte cinese la scorsa settimana a Parigi, ha definito “allarmante” la situazione attuale. Per il portavoce Gill, alla Commissione sono “felici di vedere che il nostro approccio sta dando risultati“.Ma non sembrano esserci grandi risultati di cui gioire, almeno per ora. I negoziati sui veicoli elettrici cinesi, colpiti dalle misure restrittive a dodici stelle, sono tutt’ora in corso. Ed è verosimile che i controlli introdotti da Pechino sulle esportazioni delle materie prime critiche – non solo verso gli Usa, ma anche verso i Ventisette – sia una rappresaglia per le indagini e le restrizioni dell’Ue. Oltre che una mossa deliberata per incrinare ulteriormente l’unità transatlantica, o quello che ne resta.L’Ue sta inoltre guardando altrove per ridurre la propria dipendenza da Pechino, ma non è un risultato che si ottiene dall’oggi al domani. La scorsa settimana, il commissario all’Industria Stéphane Séjourné ha annunciato l’approvazione di 13 nuovi progetti strategici in Paesi terzi nel quadro del Critical raw materials act, secondo il quale nessuno Stato estero dovrebbe fornire all’Ue più del 65 per cento di determinati minerali. Il problema di fondo, però, rimane lo stesso: controllando quasi il 90 per cento del mercato globale, la Cina mantiene saldamente il coltello dalla parte del manico.

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    I dazi di Trump sono illegali: una Corte federale Usa blocca l’arma commerciale di Washington

    Bruxelles – Una sentenza storica emessa dalla Corte del commercio internazionale degli Stati Uniti ha dichiarato illegittima l’imposizione dei dazi generalizzati annunciata da Donald Trump nel ‘Liberation Day’, lo scorso 2 aprile. Un colpo di scena clamoroso, che mette un freno alla linea aggressiva del presidente in materia di politica commerciale e che rimescola le carte nella complessa partita delle negoziazioni che i partner commerciali di Washington – Unione europea compresa – stanno portando avanti con la nuova amministrazione americana.La decisione, giunta ieri sera (28 maggio) da un collegio di tre giudici presso la sede della corte a New York, arriva a seguito di numerosi ricorsi presentati da imprese e stati americani, che accusano il tycoon di aver abusato dei propri poteri presidenziali. Al centro della contesa, l’uso dell’International emergency economic powers act (Ieepa), una legge nata per gestire minacce “inusuali e straordinarie” in tempi di emergenza nazionale, che secondo la corte non può essere utilizzata per introdurre dazi su scala globale. La corte ha dichiarato che gli ordini tariffari di Trump “superano qualsiasi autorità conferita al presidente in materia di regolamentazione dell’importazione tramite dazi”.Nella sentenza si sottolinea come i giudici non abbiano espresso alcun giudizio sull’opportunità o efficacia delle misure tariffarie in sé, ma piuttosto abbiano rilevato la loro incompatibilità con l’attuale quadro normativo. “L’uso dei dazi è inammissibile non perché è inefficace o poco saggio, ma perché la legge federale non lo consente”, si legge nella motivazione.Il presidente statunitense Donald Trump annuncia l’imposizione di dazi sulle importazioni dai partner globali, il 2 aprile 2025 (foto: Brendan Smialowski/Afp)La sentenza mette in discussione uno degli strumenti chiave del trumpismo economico: l’utilizzo di dazi punitivi per esercitare pressione su partner commerciali, rilocalizzare la produzione e ridurre il deficit commerciale statunitense, che ammonta a oltre 1.200 miliardi di dollari. Secondo la corte, il presidente non può aggirare il Congresso giustificando tali misure con la semplice esistenza di un disavanzo commerciale, che non costituisce di per sé un’emergenza nazionale. Il pronunciamento giudiziario invalida immediatamente tutti gli ordini tariffari emessi tramite l’Ieepa. Trump, dunque, sarà costretto a revocare i provvedimenti e, eventualmente, emettere nuovi ordini che riflettano l’ingiunzione permanente, entro dieci giorni. Va precisato che la decisione non si applica ai dazi settoriali del 25 per cento su auto, componenti, acciaio e alluminio, imposti da Trump all’Ue precedentemente e già in vigore.I mercati finanziari hanno accolto con entusiasmo la notizia. Il dollaro ha registrato un’impennata, guadagnando terreno su euro, yen e franco svizzero. In Europa, le principali borse hanno chiuso in rialzo: il Dax di Francoforte è salito dello 0,9 per cento, il Cac 40 di Parigi dell’ 1 per cento, il Ftse 100 di Londra ha guadagnato lo 0,1 per cento mentre il Ftse Mib di Milano si attesta a +0,3 per cento. I mercati asiatici hanno condiviso la scia positiva, mentre i futures a Wall Street indicano un’apertura in forte rialzo.Nonostante ciò, la Casa Bianca ha reagito duramente alla decisione. Kush Desai, portavoce dell’amministrazione, ha contestato con forza l’autorità dei giudici: “Non spetta a giudici non eletti decidere come affrontare un’emergenza nazionale”. Stephen Miller, vice-capo di gabinetto, ha parlato di “un colpo giudiziario fuori controllo”, mentre Donald Trump non ha ancora reagito ufficialmente alla questione. La decisione sarà impugnata in appello presso la Corte federale di Washington e, potenzialmente, davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il verdetto mette in seria difficoltà la strategia di Trump, costruita su dazi estesi che miravano a rinegoziare gli equilibri commerciali globali. Senza il ricorso all’Ieepa, l’amministrazione dovrebbe ora seguire iter più lenti e complessi, basati su indagini commerciali formali e l’applicazione di altre leggi specifiche in materia doganale.US President Donald Trump speaks with European Commission President Ursula von der Leyen prior to their meeting at the World Economic Forum in Davos, on January 21, 2020. (Photo by JIM WATSON / AFP)La corte si è pronunciata su due cause principali. La prima è stata intentata da un gruppo di piccole imprese americane, che hanno lamentato danni economici ingenti, mentre la seconda è stata avviata da una dozzina di stati, guidati dall’Oregon. Il procuratore generale dello stato, Dan Rayfield, ha commentato: “Questa sentenza ribadisce che le nostre leggi contano e che le decisioni commerciali non possono dipendere dai capricci del presidente”. Gli avvocati dei ricorrenti hanno sostenuto che il deficit commerciale non costituisce un’emergenza ai sensi dell’Ieepa, ricordando che gli Stati Uniti registrano un disavanzo commerciale da 49 anni consecutivi. La tesi centrale era che l’utilizzo della legge d’emergenza per introdurre dazi fosse un abuso di potere, e la corte ha dato loro ragione.Il caso resta aperto a ulteriori sviluppi giudiziari ma intanto, con questa sentenza, i giudici mettono un argine alle derive unilaterali della politica commerciale statunitense, riaffermando la centralità del diritto, e del Congresso, nelle decisioni economiche di portata globale, e ricordando a Trump che spesso avere carte in mano non significa poterle giocare a proprio piacimento.The judicial coup is out of control. https://t.co/PRRZ1zU6lI— Stephen Miller (@StephenM) May 28, 2025

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    Von der Leyen chiama Trump, nuova giravolta sui dazi: sospesi fino al 9 luglio

    Bruxelles – Nuovo passo indietro di Donald Trump sui dazi alle merci Ue. Dopo la minaccia, arrivata come un fulmine a ciel sereno, di tariffe del 50 per cento su tutte le importazioni a partire dal primo giugno, ieri (25 maggio) il presidente americano ha ricevuto la telefonata di Ursula von der Leyen. La leader Ue l’avrebbe convinto – il condizionale ormai è d’obbligo – a congelare i dazi reciproci e mantenere aperto il dialogo fino al 9 luglio, riconfermando la proroga di 90 giorni decisa lo scorso 9 aprile.“Una buona telefonata”, l’ha definita von der Leyen. La prima, da quando il tycoon è tornato alla Casa Bianca. “L’Unione europea e gli Stati Uniti intrattengono il rapporto commerciale più stretto e importante al mondo. L’Europa è pronta a far avanzare i colloqui con rapidità e decisione. Per raggiungere un buon accordo avremmo bisogno di tempo fino al 9 luglio“, ha affermato la presidente della Commissione europea in un post su X. Dall’altro capo della cornetta, Trump ha “acconsentito alla proroga” chiesta da von der Leyen. “È stato un privilegio per me farlo. La presidente della Commissione ha affermato che i colloqui inizieranno rapidamente. Grazie per l’attenzione dedicata a questa questione!”, ha scritto sul suo social Truth. In realtà, i Paesi Ue continuano comunque a essere soggetti a tariffe reciproche del 10 per cento su tutto l’export negli Stati Uniti, e a dazi del 25 per cento sull’export di acciaio, alluminio e derivati, auto e componenti.Di buono c’è che per la prima volta Washington e Bruxelles hanno stabilito un confronto diretto al massimo livello sulla questione. “È grazie all’Italia se si è avuto questo rapporto diretto von der Leyen-Trump”, si è affrettato a dire questa mattina il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. Nel tentativo di mantenere il ruolo di mediatore abilmente ritagliatosi – e minacciato dal ponte diretto tra i due leader -, Giorgia Meloni starebbe accelerando il lavoro diplomatico per orchestrare un vertice europeo prima del D-Day.Il presidente statunitense Donald Trump annuncia l’imposizione di dazi sulle importazioni dai partner globali, il 2 aprile 2025 (foto: Brendan Smialowski/Afp)Ruolo effettivo o presunto di Roma a parte, la telefonata e le dichiarazioni immediatamente successive di Trump e von der Leyen portano una ventata di ottimismo. Lo confermano le borse europee, che oggi si sono svegliate in deciso rialzo, con il Dax di Francoforte al +1,76 per cento, il Cac40 di Parigi al +1,36 per cento e il Ftse Mib di Milano al +1,53 per cento.Ora la palla torna nelle mani di Maroš Šefčovič, il commissario europeo per il commercio, che guida i complessi negoziati con le controparti americane. Finora, il socialista slovacco sta tornando da Washington ogni volta a mani vuote: venerdì scorso (23 maggio), l’ultimo round di negoziati ha portato all’annuncio furioso di Trump – che ha addirittura raddoppiato l’onere delle tariffe sull’import Ue rispetto a quanto previsto nel ‘Liberation Day‘ – accompagnato dal commento: “Le nostre discussioni con loro non stanno andando da nessuna parte!“.Lo stesso Šefčovič aveva dichiarato piccato, dopo i colloqui con il rappresentante commerciale americano Jamieson Greer e il segretario al Commercio Howard Lutnick, che il commercio tra Ue e Stati Uniti “deve essere guidato dal rispetto reciproco, non dalle minacce“. Aggiungendo che Bruxelles è “pronta a difendere i nostri interessi”. Il piano B svelato dalla Commissione europea, in caso le trattative naufragassero, prevede contromisure su una lunga lista di prodotti americani, dal valore di 95 miliardi di euro, e una procedura formale contro Washington all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Ma anche Bruxelles ha un asso nella manica con cui minacciare Trump: lo strumento anti-coercizione, con cui potrebbe tassare pesantemente i profitti delle big tech americane nel vecchio continente. La Commissione europea ha fatto sapere che già oggi pomeriggio Šefčovič avrà un nuovo contatto telefonico con Lutnick.

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    Investimenti, migrazione e disinformazione al centro dell’agenda di cooperazione tra Ue e Unione africana

    Bruxelles – L’Unione africana e l’Unione europea mirano a rafforzare la loro cooperazione formale, che compie quest’anno un quarto di secolo, per affrontare insieme le sfide comuni a entrambi i continenti. A partire dall’approfondimento della collaborazione su temi cruciali come l’uso delle materie prime critiche, la migrazione e gli investimenti, ma anche il contrasto alla disinformazione del Cremlino.“L’Africa e l’Europa sono ciascuna il continente gemello dell’altra“: con queste parole Kaja Kallas ha aperto i lavori della terza ministeriale Esteri Ue-Ua svoltasi oggi (21 maggio) a Bruxelles in preparazione del prossimo summit di alto livello, il settimo, in programma per quest’anno. Il 2025 segna peraltro il 25esimo anniversario del format di dialogo tra le due organizzazioni continentali, inaugurato al Cairo nel 2000.Per il capo della diplomazia a dodici stelle, per i Paesi sulle due sponde del Mediterraneo ci sono “interessi condivisi ma anche sfide condivise” su una serie di questioni cruciali. “Le sfide sono immense ma lo sono anche le nostre risorse comuni“, ha sottolineato, menzionandone curiosamente solo di africane: “La popolazione che cresce più velocemente sul pianeta, un’immenso potenziale imprenditoriale, un’abbondanza di risorse e di materie prime critiche necessarie per le transizioni verde e digitale”.A co-presiedere la riunione odierna c’era Téte António, ministro degli Esteri angolano a capo del Consiglio esecutivo dell’Ua. Il quale, su quest’ultimo aspetto specifico, ha tenuto a precisare che “i progetti per la lavorazione delle materie prime devono avvenire sul campo in Africa” e non altrove, onde evitare di “esportare il valore aggiunto, cioè il lavoro, il benessere, lo sviluppo e la conoscenza”. In altre parole, per non ripetere le dinamiche predatorie del colonialismo estrattivo che gli Stati europei hanno praticato per secoli nel continente.Africa and Europe are partners of choice.We are working together for peace, security and sustainable growth.Today, we are gathering with foreign ministers and members of the African Union — strengthening our partnership and marking 25 years since the first EU-Africa Summit. pic.twitter.com/E4IiFarFmK— Kaja Kallas (@kajakallas) May 21, 2025“Dall’ultimo vertice” Ua-Ue, cioè il sesto (risalente a metà febbraio 2022), “il mondo è cambiato radicalmente“, ha osservato Kallas. “La guerra è tornata in Europa, l’instabilità sta crescendo in alcune aree dell’Africa e in Medio Oriente, assistiamo a un aumento della disinformazione e delle interferenze straniere nei nostri affari interni, a un’instabilità senza precedenti nei mercati mondiali e a minacce al multilateralismo e all’ordine internazionale fondato sulle regole”.António ha auspicato “delle soluzioni innovative” per rispondere in maniera congiunta alle sfide epocali che “non si fermano ai confini geografici” – il cambiamento climatico, la trasformazione economica, la sanità, la pace e la sicurezza e la migrazione, nell’elenco del ministro – e offrire “benefici tangibili per i nostri popoli su entrambi i continenti“.Le priorità chiave delle relazioni Ua-Ue comprendono gli investimenti e gli scambi commerciali tra i due mercati unici, lo sfruttamento delle materie prime critiche, la cooperazione in materia di sicurezza, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e di solide infrastrutture digitali, la blue economy, la mobilità (incluso il capitolo fondamentale della gestione dei flussi migratori), la connettività e l’integrazione regionale nonché le sfide della governance globale (a partire dalla tutela del multilateralismo in un’epoca di conflitti militari e guerre commerciali).Sul dossier migrazioni, António ha rimarcato che gli spostamenti delle persone “non rappresentano un problema di per sé” e possono anzi “portare benefici che hanno un impatto positivo” sui Paesi ospitanti, ma “il problema riguarda il ‘come’ questo fenomeno si sviluppa”. Vanno cioè trovate delle modalità per garantire vie sicure per la migrazione legale, dice, e va sostenuto lo sviluppo economico del continente africano.D’accordo anche Kallas: “È anche nel nostro interesse che ci sia prosperità in Africa, che ci siano posti di lavoro in Africa”, ha ragionato di fronte ai giornalisti, in modo che “non ci sia la pressione migratoria” sulle sponde europee. Così, spiega, il trasferimento tecnologico per l’estrazione e la lavorazione delle materie prime critiche farà “in modo tale che la prosperità rimanga in Africa”. Allo stesso obiettivo dovrebbero concorrere, nell’ottica dell’Alta rappresentante, anche altre azioni come “la riforma dell’architettura finanziaria internazionale, in modo che l’accesso ai capitali sia simile ovunque si effettuino investimenti”.Il logo del 25esimo anniversario dalla nascita del dialogo Ue-Ua (foto: Seae)E naturalmente anche la prevenzione dei conflitti, come quelli che affliggono la regione del Sahel in generale e il Sudan in particolare, definito dal ministro angolano come “il microcosmo dell’Africa” (poiché, sostiene, quello che accade lì si riverbera nell’intero continente). “La priorità è la cessazione delle ostilità“, ha assicurato l’ex premier estone, sottolineando che il processo di ricomposizione della crisi “dev’essere guidato dall’Africa, anche se c’è il bisogno di una mediazione” per la quale, eventualmente, Bruxelles si rende disponibile.Un altro dei temi toccati oggi è quello del contrasto alle campagne ibride di disinformazione e misinformazione, soprattutto quelle orchestrate da Mosca. “La lotta alle narrazioni si svolge ovunque e la disinformazione è uno degli strumenti che la Russia sta utilizzando, soprattutto in Africa”, ha ammonito l’Alta rappresentante. E ha ammesso che “è sempre più difficile” riuscire a “combattere la disinformazione e l’influenza maligna straniera“, nonostante gli sforzi messi in campo finora, perché “viviamo nell’era dell’informazione” nella quale “le bugie viaggiano velocemente e si espandono rapidamente”.L’Ue e i suoi Stati membri rappresentano per l’Ua il primo partner commerciale, il primo investitore estero (309 miliardi di euro nel 2022) e il principale donatore di aiuti allo sviluppo e aiuti umanitari. Il supporto dell’Unione alla sicurezza del continente africano nel quadro dello Strumento europeo per la pace – Epf nell’acronimo inglese – vale oltre 1 miliardo (anche se parte di quei fondi, per ammissione della stessa Kallas, sono momentaneamente bloccati), e nel continente sono attualmente operative 11 missioni civili e operazioni militari sotto l’ombrello Pesc.

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    Se le materie prime critiche ucraine servono di più all’Ue che agli Usa

    Bruxelles – Da mesi si parla di un fantomatico accordo sulle “terre rare” ucraine, che Donald Trump vorrebbe concludere come risarcimento per il sostegno di Washington a Kiev (passato e futuro) e che, dice, il suo omologo Volodymyr Zelensky dovrebbe accogliere come la miglior garanzia di sicurezza per il proprio Paese. Ma di cosa si tratta realmente, e a chi converrebbe realmente mettere le mani sulle ricchezze del sottosuolo dell’ex repubblica sovietica?Lo scorso giovedì (17 aprile), la ministra dell’Economia ucraina Julija Svyrydenko ha annunciato la firma di un memorandum d’intesa con il segretario al Tesoro Usa Scott Bessent che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe costituire un primo “passo verso un accordo di partenariato economico congiunto” più ampio. “È importante riaffermare con i nostri accordi il desiderio del popolo americano di investire insieme al popolo ucraino in un’Ucraina libera, sovrana e sicura”, ha dichiarato, sottolineando che il testo finale del documento dovrà essere approvato sia dal Parlamento di Kiev sia dal Congresso statunitense.We are happy to announce the signing, with our American partners, of a Memorandum of Intent, which paves the way for an Economic Partnership Agreement and the establishment of the Investment Fund for the Reconstruction of Ukraine. pic.twitter.com/AQsHPkWh5X— Yulia Svyrydenko (@Svyrydenko_Y) April 17, 2025Il condizionale rimane d’obbligo, dopo l’agguato teso a Volodymyr Zelensky da Donald Trump e il suo vice, JD Vance, nello Studio ovale a fine febbraio. L’inquilino della Casa Bianca interpreta l’accordo sui minerali ucraini come un risarcimento dovuto al proprio Paese da parte dell’ex repubblica sovietica a fronte dei generosi aiuti – finanziari e militari – elargiti in oltre tre anni di guerra.Kiev e Washington stanno lavorando da mesi per trovare la quadra sui termini dell’intesa, dopo la bocciatura da parte della leadership ucraina di diverse versioni ritenute esageratamente onerose (tanto che alcuni osservatori le hanno definite addirittura “coloniali”). Ora, non è chiaro cosa sia contenuto precisamente nel memorandum, ma si sa da tempo che tra i punti cardine dell’accordo dovrebbe esserci l’istituzione di un fondo d’investimento ad hoc con “proprietà congiunta” tra i due Paesi.L’Ucraina dovrebbe contribuirci col 50 per cento dei proventi derivanti dalla commercializzazione delle risorse minerarie nazionali, e con quei soldi andrebbero finanziati progetti di ricostruzione i quali, è lecito immaginare, prevederanno una sorta di “prelazione” per le aziende a stelle e strisce. L’accesso privilegiato alle ricchezze del sottosuolo ucraino (incluso il petrolio e il gas naturale) assicurato agli Usa costituirebbe inoltre, sostiene Trump, un elemento cruciale delle famigerate garanzie di sicurezza chieste da Kiev per assicurare la sostenibilità di qualunque tregua o pace stipulata con Mosca.Il presidente statunitense Donald Trump (destra) accoglie nello Studio ovale il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky (foto via Imagoeconomica)Tuttavia, i dettagli tecnici del patto non sono l’unica cosa fumosa. È poco chiaro anche quale sia la reale entità delle risorse ucraine al centro delle trattative, nonché il loro valore commerciale e strategico. La dicitura “terre rare” include 17 minerali ferrosi come l’ittrio, il lantanio, il lutezio e lo scandio. Ma sarebbe più corretto, nel caso dell’accordo Ucraina-Usa, parlare di materie prime critiche, una gamma più ampia di elementi indispensabili ai settori strategici al centro della competizione globale – che si basa sulle batterie per la transizione verde, sul nucleare, sull’industria aerospaziale e della difesa, giusto per citarne alcuni – tra cui si annoverano anche berillio, grafite, litio, titanio e uranio.Il punto è che, come sostengono diversi analisti, l’Ucraina non è così ricca di tali risorse, o quantomeno non particolarmente più ricca di altri Paesi in altre regioni del mondo. Di sicuro, inoltre, non si tratta di risorse sfruttabili nel breve-medio termine: al netto del fatto che la guerra è ancora in corso (e che molti giacimenti si trovano vicini al fronte o addirittura sotto occupazione russa), per individuare ed estrarre i minerali in questione si impiega in media una dozzina d’anni.Nell’ex repubblicano sovietica ci sarebbero importanti depositi di uranio, che però rappresentano solo il 2 per cento delle risorse recuperabili a livello globale (contro il 28 per cento dell’Australia, il 13 per cento del Kazakistan o il 10 per cento del Canada). Si contano poi circa l’1 per cento delle riserve mondiali di titanio e di grafite, ma non sono stati condotti studi approfonditi in epoca recente sulla redditività di una potenziale estrazione, ad esempio, di litio e altre terre rare (la cui presenza è documentata sin dai tempi dell’Urss).Peraltro, l’unica potenza globale per cui risulterebbe effettivamente conveniente sfruttare le riserve ucraine è l’Unione europea, sia per la vicinanza geografica (che accorcia le catene di approvvigionamento) sia per la sostanziale carenza di tali materie prime nel sottosuolo dei Ventisette, cui è molto più complesso sopperire dopo lo smantellamento degli imperi coloniali.Da sinistra: Antonio Costa, Volodymyr Zelensky e Ursula von der Leyen (foto: European Council)Del resto, l’Ue ha in piedi un memorandum d’intesa con l’Ucraina dal 2021, in cui i materiali critici giocano un ruolo primario. E può mettere sul tavolo la prospettiva dell’adesione di Kiev al club a dodici stelle, anche se la Commissione ha messo in guardia rispetto ad eventuali violazioni delle norme comunitarie sulla libera concorrenza nel caso in cui l’accordo con lo zio Sam favorisca sproporzionatamente le imprese statunitensi a scapito di quelle europee.A maggior ragione dato l’approccio di Trump al commercio globale, a Bruxelles farebbe molto più comodo mettere le mani sul tesoretto di Kiev di quanto non servirebbe a Washington, che ha già in casa una quantità non indifferente di risorse minerarie (e di idrocarburi). Semmai, osservano gli esperti, quello che le terre rare forniscono agli Stati Uniti è una giustificazione accettabile – soprattutto nell’ottica della competizione sistemica con la Cina – per la prosecuzione di un impegno militare nel Vecchio continente. Impegno che cozza pesantemente con la politica estera isolazionista sbandierata dal tycoon in campagna elettorale con l’agenda America first.

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    Sanchez all’Ue: ripensiamo i dazi sulle auto elettriche cinesi

    Bruxelles – L’imposizione di dazi sui veicoli elettrici cinesi dovrebbe essere “riconsiderata” dall’Unione europea. Lo ha detto ieri (11 settembre), durante la sua visita in Cina, il presidente del governo spagnolo Pedro Sánchez: “Non abbiamo bisogno di una nuova guerra, in questo caso una guerra commerciale”, ha affermato.La Commissione dovrebbe imporre le sue tariffe entro la fine di ottobre, dopo un annuncio della fine di agosto.La paura spagnola sembra essere quella di ritorsioni da parte cinese, dopo che da alcuni mesi Pechino ha avviato diverse indagini antidumping e antisovvenzioni su prodotti europei, tra cui la carne di maiale, delle quali la Spagna è il principale esportatore dell’Ue.Entro la fine di ottobre gli Stati membri saranno chiamati a votare sull’approvazione di dazi sui veicoli elettrici cinesi, che potrebbero essere bloccati se una maggioranza qualificata di Stati membri votasse contro.All’inizio di luglio, dazi provvisori sono stati approvati da undici Paesi, mentre altri quattro hanno votato contro e nove si sono astenuti.

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    La Palestina e l’Azerbaijan vogliono entrare nei Brics

    Bruxelles – La famiglia dei Brics, il gruppo delle cosiddette economie emergenti che si dipingono collettivamente come contrappeso all’egemonia occidentale a livello globale, potrebbe presto allargarsi ancora dopo aver più che raddoppiato la propria membership a inizio anno. Tra i nuovi ingressi, che saranno probabilmente annunciati in autunno, ci potrebbero essere la Palestina e l’Azerbaijan. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa turca Anadolu, l’ambasciatore palestinese a Mosca, Abdel Hafiz Nofal, ha dichiarato che Ramallah ufficializzerà la propria richiesta di entrare nel blocco dei Brics dopo aver partecipato al prossimo summit, in calendario per ottobre a Kazan, circa 870 chilometri a est della capitale russa. I Brics sono un gruppo di Paesi, considerati emergenti nell’economia globale (anche se il concetto di “economia emergente” è ad oggi controverso), nato nel 2009 con quattro membri: Brasile, Russia, India e Cina. Nel 2011 si è aggiunto il Sudafrica (da qui l’acronimo Brics, dall’unione delle iniziali dei Paesi – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e a gennaio 2024 sono entrati anche Egitto, Emirati arabi uniti, Etiopia ed Iran – il che ha portato il blocco a rappresentare ora oltre il 37 per cento del Pil mondiale (l’Ue, per avere una prospettiva, vale circa il 14,5 per cento). La Palestina ha fatto richiesta per partecipare all’organizzazione nell’agosto 2023, insieme ad altri 21 Paesi (inclusi i quattro che sono poi effettivamente entrati). Dal primo gennaio di quest’anno, la presidenza di turno del gruppo (che dura un anno) è stata assunta dalla Federazione russa. “Il presidente russo Vladimir Putin ha promesso che ci sarà una sessione interamente dedicata alla Palestina”, ha precisato l’ambasciatore Nofal, sottolineando che l’invito rivolto al presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas lunedì (26 agosto) “significa che nonostante tutti i crimini, le uccisioni e la distruzione nella Striscia di Gaza, il nostro messaggio è che la Palestina vuole vivere e svilupparsi“. Mosca si è ripetutamente mostrata vicina, almeno a parole, alla causa palestinese fin dall’avvio dell’offensiva israeliana nella Striscia, e rappresenta pertanto uno dei “protettori” internazionali più naturali per Ramallah. Lo Stato di Palestina è stato formalmente dichiarato dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) nel 1988, ma è stato ammesso all’Assemblea generale delle Nazioni unite in qualità di osservatore solo nel 2012. Ad oggi, sono 145 su 193 gli Stati membri dell’Onu che lo riconoscono ufficialmente, di cui solo dodici Paesi Ue (Bulgaria, Cechia, Cipro, Irlanda, Malta, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria). Mancano all’appello la quasi totalità delle nazioni occidentali.  Oltre alla Palestina, anche l’Azerbaijan ha espresso l’intenzione di unirsi al blocco delle economie emergenti lo scorso 20 agosto, in occasione di una visita del presidente russo nel Paese. I legami tra Baku e Mosca si sono intensificati negli ultimi anni: ad esempio, una “dichiarazione sull’interazione alleata” per una maggiore cooperazione bilaterale è stata siglata appena due giorni prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, nel febbraio 2022. L’avvicinamento tra la Federazione russa e la repubblica del Caucaso meridionale è stata anche speculare al progressivo allontanamento dell’Armenia da Mosca, soprattutto in seguito alla mancata risposta del Cremlino all’acuirsi della crisi tra Yerevan e Baku nell’exclave armena del Nagorno-Karabakh, riconquistata dagli azeri nel settembre dello scorso anno. L’Armenia fa ancora formalmente parte di un trattato di sicurezza collettivo stipulato da diverse ex repubbliche sovietiche (Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan), ma nel corso del 2024 si è progressivamente distanziata da Mosca e ha annunciato l’intenzione di abbandonare l’alleanza militare. Nonostante i crescenti legami con la Russia di Putin, l’Azerbaijan è diventato recentemente uno dei principali partner energetici dell’Unione europea, cui fornisce gas naturale e petrolio proprio per sopperire alla mancanza di idrocarburi a seguito della guerra in Ucraina. E, nonostante il Paese sia guidato dal presidente Ilham Aliyev in maniera autoritaria e abbia fatto la propria ricchezza proprio sulla vendita di combustibili fossili, Baku ospiterà la prossima conferenza Onu sul clima, la Cop 29, a novembre. 

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    In Bosnia non c’è l’accordo sull’Agenda di riforme. A rischio i fondi Ue del Piano di crescita

    Bruxelles – Non basta il via libera del Consiglio Europeo all’avvio dei negoziati di adesione. La Bosnia ed Erzegovina rimane nel caos istituzionale, che ora mette a rischio – come da tempo temuto – i fondi Ue stanziati dal nuovo Piano per i Balcani Occidentali che lega la crescita economica con le riforme interne. “La Bosnia ed Erzegovina non ha ancora presentato alla Commissione Europea un’agenda di riforma definitiva, è quindi molto probabile che non riceva già dopo l’estate la prima rata non condizionata di prefinanziamento del 7 cento”, è quanto reso noto dalla delegazione Ue a Sarajevo in una nota pubblicata su X: “Si tratta di un’occasione persa per un finanziamento anticipato e sostanziale“.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, a Sarajevo (primo novembre 2023)Che Sarajevo corresse questo pericolo era già emerso lo scorso autunno, quando la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, nella sua tappa bosniaca del consueto viaggio annuale nei Balcani Occidentali aveva messo in chiaro che la mancata implementazione delle riforme fondamentali comporterà che “le risorse saranno ridistribuite ad altri Paesi che sono in grado di farlo“. Con il Piano di crescita approvato in tempi record dai co-legislatori Ue all’inizio di quest’anno, l’esecutivo Ue aveva confermato due mesi fa che in caso di non rispetto degli standard sulle riforme l’Ue potrà decidere di tagliare i fondi. “La prima rata del Piano di crescita potrà essere erogata solo dopo che l’Agenda di riforma sarà stata presentata e formalmente approvata dalla Commissione Europea e dalla Bosnia ed Erzegovina”, ha precisato ieri (25 luglio) la delegazione Ue a Sarajevo, incoraggiando il lavoro “senza ulteriori ritardi, per non perdere del tutto questa opportunità”. La quota di finanziamenti per la Bosnia ed Erzegovina dal Piano di crescita è stimata complessivamente a un miliardo di euro: al momento salta una prima rata di prefinanziamento senza condizioni dal valore di circa 70 milioni di euro.A provocare lo stallo istituzionale sull’approvazione dell’Agenda di riforma è stato il caos istituzionale emerso di fronte alla bozza presentata dal Gruppo di lavoro ad hoc, nonostante la proroga alla scadenza concessa dalla Commissione Ue per raggiungere in extremis in accordo. In quello che a tutti gli effetti è uno degli assetti istituzionali più complicati al mondo – come emerso dagli Accordi di Dayton del 1995 che hanno chiuso tre anni e mezzo di guerra civile ed etnica nel Paese – prima il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, si è rifiutato di accettare due punti (dei 112 dell’Agenda) sulla nomina dei giudici della Corte costituzionale centrale e sul riconoscimento delle decisioni della Corte stessa, poi i rappresentanti di quattro cantoni della Federazione di Bosnia ed Erzegovina (Bosnia Centrale, Tuzla, Zenica-Doboj e Una-Sana) non hanno dato il consenso al documento, accusandolo di privilegiare le istituzioni delle due entità rispetto a quelle statali e di dare priorità ai progetti nella Republika Srpska e nei cantoni a maggioranza croato-bosniaca rispetto a quelli a maggioranza bosgnacca.Il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik (credits: Elvis Barukcic / Afp)“Nonostante tutti gli sforzi e il sostegno delle istituzioni europee, non tutti hanno mostrato un livello minimo di responsabilità politica per indirizzare le nostre attività verso un percorso europeo comune“, ha attaccato la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, annunciando mercoledì (24 luglio) il fallimento delle trattative sull’Agenda di riforme. Oltre alla delegazione Ue, che ribadisce la disponibilità a continuare a supportare le autorità bosniache “se necessario”, è intervenuta in modo duro anche l’ambasciata statunitense a Sarajevo a difesa del Piano di crescita per i Balcani Occidentali, definito in una nota pubblicata ieri “un’offerta senza precedenti dell’Ue ai cittadini della Bosnia ed Erzegovina”. L’attacco diretto di Washington è non solo al presidente serbo-bosniaco Dodik – “un uomo che mette costantemente i suoi interessi davanti a quelli di coloro che dice di rappresentare” e che rappresenta “la più grande minaccia al futuro europeo” del Paese balcanico – ma anche al principale partito bosniaco-musulmano, il Partito d’Azione Democratica (Sda): “La decisione di sfruttare l’occasione per un’esibizione politica, invece di lavorare con gli altri partiti per ottenere l’approvazione degli ultimi due punti in sospeso, è stata inutile e irresponsabile”.Cos’è il Piano di crescita per i Balcani OccidentaliIl Piano di crescita per i Balcani Occidentali è stato presentato dalla presidente von der Leyen lo scorso 8 novembre in parallelo con la pubblicazione del Pacchetto Allargamento Ue 2023. “È qualcosa di eccezionale, sappiamo che il miracolo della prosperità arriva con l’accesso al Mercato unico e stiamo già iniziando questo processo, non stiamo aspettando la decisione finale sull’adesione politica“, aveva rivendicato la numero uno della Commissione Ue, illustrando i 4 pilastri di un Piano che dovrebbe sia “chiudere il gap economico e sociale” tra Ue e regione balcanica sia permettere “l’integrazione sul campo anche prima che entrino formalmente come Paesi membri”.Il primo pilastro è proprio l’integrazione economica nel Mercato unico in sette settori fondamentali, a condizione di un allineamento alle regole Ue e dell’apertura dei settori pertinenti ai Paesi vicini: libera circolazione delle merci, libera circolazione dei servizi e dei lavoratori, accesso all’Area unica dei pagamenti in euro (Sepa), facilitazione del trasporto su strada, integrazione e de-carbonizzazione dei mercati energetici, mercato unico digitale e integrazione nelle catene di approvvigionamento industriale. Il secondo pilastro è quello dell’integrazione economica interna attraverso il Mercato regionale comune (basato su regole e standard Ue): Bruxelles stima che solo questo fattore potrebbe potenzialmente aggiungere un 10 per cento alle economie dei Sei balcanici. Il terzo pilastro riguarda le riforme socio-economiche e fondamentali da intraprendere tra il 2024 e il 2027, che nel Piano di Bruxelles andranno da una parte a sostenere il percorso dei Balcani Occidentali verso l’adesione Ue e dall’altro sosterranno gli investimenti esteri e il rafforzamento della stabilità regionale.A proposito di investimenti, è qui che si inserisce il quarto pilastro dell’assistenza finanziaria Ue alle riforme per tutti i sei partner. Si tratta nello specifico di un nuovo Strumento di riforma e crescita per i Balcani Occidentali da 6 miliardi di euro per il periodo 2024-2027, i cui pagamenti saranno vincolati all’attuazione delle riforme concordate nelle rispettive Agende (esattamente come Next Generation Eu per i Ventisette). Con la revisione intermedia del Quadro finanziario pluriennale Ue 2021-2027 è stato dato il via libera allo strumento composto di 2 miliardi di euro in sovvenzioni (finite nel bilancio Ue senza modifiche alla proposta della Commissione) e 4 miliardi in prestiti agevolati, con le assegnazioni per ciascun Paese stabilite sulla base del Pil e della popolazione. Il sostegno del Piano di crescita – effettuato due volte l’anno e condizionato dal rispetto delle fasi qualitative e quantitative delle Agende – sarà fornito per metà dal Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) e per metà da prestiti erogati direttamente ai bilanci nazionali dei partner.La ‘grana’ Republika Srpska per la BosniaÈ proprio Dodik uno degli ostacoli maggiori per il percorso di avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina all’Unione Europea – e oggi dell’accesso ai fondi Ue del Piano di crescita – da quando si è fatto promotore di un progetto secessionista dall’ottobre del 2021. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche e, dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme elettorali e costituzionali nel Paese balcanico.Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)Ma le preoccupazioni si sono fatte sempre più concrete da fine marzo 2023, quando il governo dell’entità serbo-bosniaca ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero. La cosiddetta legge sugli ‘agenti stranieri’ è simile a quella adottata da Mosca nel dicembre 2022 ed è stata approvata a fine settembre dall’Assemblea nazionale di Banja Luka, tra le apre critiche di Bruxelles. Parallelamente è avanzato anche l’iter per l’adozione degli emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per diffamazione. Dopo la proposta – anch’essa a fine marzo – l’entrata in vigore è datata 18 agosto e ora sono previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”. Il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) e la delegazione Ue a Sarajevo hanno attaccato Banja Luka, mettendo in luce che le due leggi “hanno avuto un effetto spaventoso sulla libertà di parola nella Republika Srpska“.Alle provocazioni secessioniste si è affiancata la questione del rapporto con la Russia post-invasione ucraina. Già il 20 settembre 2022 Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale delle regioni ucraine occupate dalla Russia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio 2023 con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco. Come se bastasse, Dodik ha compiuto un secondo viaggio a Mosca il successivo 23 maggio, mentre a Bruxelles sono emerse perplessità sulla mancata reazione da parte dell’Unione con sanzioni. Fonti Ue hanno rivelato a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma l’Ungheria di Viktor Orbán non permette il via libera. Per qualsiasi azione del genere di politica estera serve l’unanimità in seno al Consiglio.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews