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    Qatargate, gli eurodeputati chiedono la sospensione dell’accesso al Parlamento Ue ai rappresentanti del Marocco

    Bruxelles – Il Marocco è sotto la lente d’ingrandimento del Parlamento europeo: dopo lo scoppio del presunto scandalo di corruzione che coinvolge alcuni membri, ex membri e funzionari dell’aula di Bruxelles in un giro di “mazzette” per ripulire l’immagine di Qatar e Marocco, l’Eurocamera prende una posizione netta nei confronti di Rabat e alla presidenza “chiede l’applicazione delle stesse misure applicate ai rappresentanti di Doha”. Che significa la sospensione degli accessi alle sedi del Parlamento Ue per tutti gli inviati del Paese nordafricano.
    La madre di Omar Radi (Photo by FADEL SENNA / AFP)
    In una risoluzione approvata oggi (19 gennaio) all’emiciclo di Strasburgo con 356 voti a favore, 32 contrari e 42 astensioni, gli eurodeputati hanno ribadito il proprio impegno a “indagare e ad affrontare in modo approfondito i casi di corruzione nei quali sono coinvolti paesi terzi che tentano di acquisire influenza in seno al Parlamento europeo”. Nel testo adottato, dito puntato anche contro la situazione dei diritti umani e della libertà di stampa nel regno di Mohammed VI: l’Eurocamera chiede “il rilascio provvisorio immediato per Omar Radi, Souleimen Raissouni e Taoufik Bouachrine e tutti i giornalisti in prigione, e la fine delle vessazioni nei confronti di tutti i giornalisti del Paese, nonché dei loro avvocati e delle loro famiglie”. Per i tre giornalisti citati nella risoluzione, condannati rispettivamente a 6, 5 e 15 anni di carcere, e per tutti gli altri lavoratori del mondo dell’informazione, “devono essere garantiti processi equi”.
    “Come Parlamento europeo abbiamo il dovere di sostenere il coraggio dei giornalisti marocchini, che sono stati tra i primi al mondo a denunciare l’uso di spyware contro i reporter e le inquietanti criticità dietro questa pratica di sorveglianza digitale già nel 2015″, ha dichiarato in aula l’eurodeputato del Movimento 5 Stelle, Fabio Massimo Castaldo. Il Parlamento ha inserito nel testo anche la richiesta di porre fine all’esportazione da parte dei Paesi Ue del software di sorveglianza Pegasus in Marocco.

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    Per von der Leyen è tempo di sanzioni Ue contro Teheran per la repressione delle donne iraniane

    Bruxelles – Difendere i valori in cui l’Europa crede e difendere chi si batte per proteggerli anche fuori dall’Europa. Come “le coraggiose” donne iraniane che attraverso settimane di proteste e manifestazioni “chiedono libertà e uguaglianza”. Per Ursula von der Leyen è arrivato il momento di sanzionare i responsabili della repressione delle donne iraniane.
    E’ durante il discorso alla Conferenza degli ambasciatori Ue, che la presidente della Commissione europea ha condannato la repressione di “migliaia di manifestanti pacifici che vengono picchiati e detenuti: uomini e donne, avvocati e giornalisti, attivisti e cittadini comuni” che protestano da settimane per la morte della 22enne Mahsa Amini, uccisa lo scorso 16 settembre in carcere a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa (la cosiddetta polizia della moralità) per non aver indossato correttamente l’hijab.
    “Questo è un grido per l’uguaglianza, è un grido per i diritti delle donne”, ha detto la presidente, precisando che il messaggio dell’Unione europea di fronte alla repressione deve essere dobbiamo chiedere che la violenza si fermi. Le donne devono avere la possibilità di scegliere. E dobbiamo ritenere responsabili coloro che sono responsabili della repressione delle donne”. Per questo, è arrivato il momento di sanzionare le persone che sono responsabili. “La scioccante violenza inflitta al popolo iraniano non può rimanere senza risposta e dobbiamo lavorare insieme sulle sanzioni”, ha dichiarato, aprendo di fatto all’idea che l’Ue possa imporre sanzioni contro i funzionari iraniani coinvolti nella repressione. Secondo quanto riportano fonti Ue a Bloomberg, il pacchetto di misure restrittive dovrebbe coinvolgere 15 tra persone ed entità iraniane legate alla morte di Amini e potrebbe essere adottato già la prossima settimana, se sarà raggiunto un accordo unanime tra i Ventisette.
    Un’idea che l’Europarlamento, per primo, ha sostenuto approvando lo scorso 6 ottobre a Strasburgo un atto di indirizzo per chiedere provvedimenti immediati contro il regime degli Ayatollah nell’ambito del regime globale di sanzioni dell’UE in materia di diritti umani. Gli europarlamentari hanno chiesto “un’indagine imparziale, efficace e soprattutto indipendente” sulle accuse di tortura e maltrattamento. Un invito rivolto a Nazioni Unite, e in particolare al Consiglio per i diritti umani. Per le autorità iraniane, invece, l’invito a rilasciare i manifestanti e ritirare ogni accusa nei loro confronti.

    Durante il discorso alla Conferenza degli ambasciatori Ue, la presidente della Commissione europea condanna la repressione di “migliaia di manifestanti pacifici” che vengono picchiati e detenuti in Iran per la morte della 22enne Mahsa Amini, uccisa lo scorso 16 settembre in carcere a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente l’hijab

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    L’Ue a difesa dei popoli indigeni contro minacce linguistiche, sfruttamento ambientale e omicidi di attivisti

    Bruxelles – Più di 4 mila lingue minacciate, 358 difensori dei diritti umani uccisi nel 2021, i più colpiti dagli impatti dei cambiamenti climatici e dal degrado ambientale causato da governi e aziende multinazionali. È questo il quadro in cui vivono le oltre 476 milioni di persone appartenenti ai popoli indigeni di tutto il mondo, dai San e i Khoekhoe del Sudafrica agli Aymara della Cordigliera delle Ande, dai Māori della Nuova Zelanda ai Saami del nord Europa, fino agli Inuit della Groenlandia.
    In occasione della Giornata internazionale dei popoli indigeni, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha voluto ribadire con forza la solidarietà e l’impegno dell’Unione ai leader e agli attivisti dei diritti umani di tutto il mondo su più fronti, in linea con Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni. In primis quello ambientale e climatico, dal momento in cui questi popoli abitano quasi un quarto della superficie terrestre del mondo e “sono custodi e difensori fondamentali di oltre l’80 per cento della nostra diversità biologica“, ha sottolineato l’alto rappresentante Borrell. Se possiedono “una profonda conoscenza della gestione sostenibile del territorio”, allo stesso tempo “sono tra i più colpiti dai gravi impatti del cambiamento climatico e del degrado ambientale“. Per questo motivo l’agenda internazionale dovrà occuparsi con urgenza di questo tema, rispettando gli impegni sottoscritti alla Cop26 di Glasgow dello scorso anno.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Strettamente legato alla questione della difesa dell’ambiente naturale c’è anche il tema della protezione dei difensori dei diritti umani. L’Ue ha “ripetutamente” lanciato l’allarme sul numero di omicidi nel 2021: almeno 358, di cui “quasi il 60 per cento era costituito da coraggiosi difensori dei diritti della terra, dell’ambiente o delle popolazioni indigene, e più di un quarto erano essi stessi indigeni”. L’alto rappresentante Borrell ha messo in chiaro senza mezzi termini che “ognuno di loro è uno di troppo” e Bruxelles “continuerà a far leva sulle sue politiche, sui dialoghi e sugli strumenti di finanziamento” per sostenere queste popolazioni e “porre fine all’impunità”.
    Impunità che coinvolge anche le imprese multinazionali e i processi decisionali: “L’Ue si impegna a promuovere la partecipazione dei leader e dei difensori dei diritti umani indigeni ai processi di sviluppo e ai principali forum globali”, tenendo come perno l’applicazione del “principio della consultazione in buona fede” per ottenere in ogni situazione il loro consenso “libero, preventivo e informato” nelle decisioni che li riguardano. A questo proposito Bruxelles si sta attivando per ottenere “norme più efficaci sulla condotta responsabile delle imprese“, con l’obiettivo di promuovere un comportamento aziendale “sostenibile e responsabile, anche nelle terre indigene”.
    Ultimo punto, ma non per importanza, la protezione dell’identità dei popoli indigeni, “spesso strettamente legata alle loro terre e alle loro lingue”. Entrati nel Decennio internazionale delle lingue indigene (2022-2032) – “sistemi di comunicazione complessi sviluppati nel corso di millenni” – l’Ue pone l’accento sulla necessità di proteggere le oltre 4 mila lingue a rischio di estinzione, “perché molte di esse non vengono insegnate a scuola né utilizzate nella sfera pubblica”, ha avvertito l’alto rappresentante Borrell.

    In occasione della Giornata internazionale dei popoli indigeni, l’alto rappresentante Ue Borrell ha ribadito il sostegno dell’Unione a promuovere la partecipazione dei leader e dei difensori dei diritti umani ai processi di sviluppo e per norme più efficaci sulla condotta delle imprese

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    Pechino contro la risoluzione dell’Eurocamera su Xinjiang: “Una brutta farsa diretta da forze anticinesi”

    Bruxelles – “Una brutta farsa diretta da forze anticinesi”, in altre parole “la balla del secolo”. La risposta di Pechino alla risoluzione di ieri sulle condizioni degli uiguri nella regione autonoma del Xinjiang, nel nord-est della Cina, non si è fatta attendere: l’ufficio della missione cinese nell’UE ha pubblicato una nota di condanna contro l’accusa di genocidio.
    “La causa dei diritti umani nel Xinjiang è in pieno sviluppo”, sostiene l’ufficio, sottolineando come le questioni legate alla regione riguardino “la lotta al terrorismo, all’estremismo e al separatismo, non i diritti umani o la religione”. Quando il Parlamento Europeo ha invece denunciato violazioni dei diritti umani, come la deportazione di massa, l’indottrinamento politico e la separazione delle famiglie uigure, oltre a limitazioni della libertà religiosa e a un ampio uso delle tecnologie di sorveglianza. Anche l’alta commissaria per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, aveva detto di aver sollevato dubbi alle autorità cinesi sull’applicazione delle misure contro il terrorismo e la radicalizzazione visto il loro impatto sui diritti degli uiguri, in occasione della visita del mese scorso nel Paese.

    Our Spokesperson Speaks on a Question Concerning European Parliament’s Resolution on Xinjiang👉 https://t.co/Mgih7NHLIP pic.twitter.com/4hOPxvl3HO
    — Mission of China to the EU (@ChinaEUMission) June 9, 2022

    “La risoluzione sul Xinjiang si basa sulla bugia del secolo, prodotta in maniera deliberata da forze estremiste anticinesi”, ha dichiarato anche il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, nella conferenza stampa di oggi (10 giugno). Mentre You Wenzi, portavoce della commissione Affari esteri dell’Assemblea nazionale del Popolo, l’organo legislativo cinese, ha parlato invece di “manipolazione politica con il pretesto dei diritti umani” e di una “grave interferenza negli affari interni” del Paese. Nessun riferimento da parte dei rappresentanti ai ‘Xinjiang Police Files’, una corposa raccolta di fotografie e documenti che aggiungono nuovi dettagli sulla repressione uigura e attestano il ruolo avuto dalla leadership cinese.
    Di tutt’altro avviso è stato il World Uyghur Congress, l’organizzazione internazionale per i diritti della minoranza etnica, turcofona di religione islamica. “Invitando l’UE e i suoi Stati membri a ‘prendere tutte le misure necessarie, in conformità con la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, per porre fine a queste atrocità’, la risoluzione approvata segna un appello storico ai meccanismi di responsabilità per rendere giustizia al popolo uiguro”, ha affermato l’organizzazione. Il presidente Dolkun Isa, a Strasburgo proprio in occasione della Plenaria, ha ringraziato il Parlamento Europeo subito dopo l’adozione della risoluzione: “Oggi è un giorno storico per gli uiguri, oggi non ci sentiamo soli”.

    Today is a historical day for Uyghurs and all those who work to achieve justice and accountability. We thank @rglucks1, @EnginEroglu_FW, @DavidLega, @bueti, @MiriamMLex, @AnnaFotyga_PE, @HeidiHautala and all MEPs who supported the resolution as well as the Uyghur Friendship Group pic.twitter.com/krJK4n1tmH
    — Dolkun Isa (@Dolkun_Isa) June 9, 2022

    Si tratterebbe di una “manipolazione politica con il pretesto dei diritti umani” e di una “grave interferenza negli affari interni del Paese”. Il World Uyghur Congress saluta invece il testo finale

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    La Cina dice ‘no’ ai lavori forzati in vista della visita dell’alta commissaria ONU per i diritti umani

    Bruxelles – ‘No’ ai lavori forzati. È questo il messaggio che la Cina ha inviato all’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU), a meno di un mese dalla visita dell’alta commissaria per i Diritti umani, Michelle Bachelet, nella regione autonoma del Xinjiang, nel nord-ovest del Paese, e dimora della minoranza degli uiguri. Ma non solo. L’adesione del Paese a due delle Convenzioni fondamentali sul lavoro forzato punta anche all’Europa e agli Stati Uniti, dopo anni di denunce – e, dal 2021, sanzioni – da parte della comunità internazionale per lo sfruttamento degli uiguri, la minoranza etnica turcofona, di religione islamica, sottoposta a pratiche di detenzione arbitraria di massa e perfino di sterilizzazione.
    Il 20 aprile 2022 il Comitato permanente del tredicesimo Congresso nazionale del Popolo, il massimo organo legislativo cinese, ha ratificato la Convenzione sul lavoro forzato e obbligatorio (1930) e la Convenzione per l’abolizione del lavoro forzato (1957). Si tratta di due Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), l’ente con sede a Ginevra che stabilisce, a livello globale, i principi e i diritti fondamentali dei lavoratori. La Cina ne è parte dal 1985, per quanto non abbia mai aderito a diversi dei suoi trattati né garantisca piene tutele sul lavoro.
    In questo modo, il Paese si è impegnato “a eliminare l’uso del lavoro forzato o coatto in tutte le sue forme, entro il periodo più breve possibile”, come recita l’articolo 1 della Convenzione del 1930. Mentre quella del 1957, ne proibisce ogni uso “come mezzo di coercizione o di educazione politica”. “Come sanzione per aver espresso opinioni politiche o ideologiche”. “Come metodo di mobilitazione alla manodopera”. “Come misura disciplinare sul lavoro”. “Come sanzione per aver partecipato a scioperi o come misura di discriminazione”.
    Si tratta di un passo significativo per il Paese. Secondo la Risoluzione del Parlamento europeo del 17 dicembre 2020, che ha analizzato (e condannato) la situazione degli uiguri nella Repubblica Popolare, dal 2014 “sono numerose le denunce credibili” secondo cui la minoranza verrebbe impiegata per i lavori forzati. Soprattutto, “nelle catene di produzione dei settori dell’abbigliamento, della tecnologia e dell’automobile”. Nel marzo 2020 il think thank Australian Strategic Policy Institute aveva individuato che nelle filiere produttive di ben 83 brand, anche internazionali, lavoravano oltre 80mila uiguri in condizioni assimilabili a quelle del lavoro forzato.
    Non è un caso che la ratifica delle Convenzioni sia avvenuta ora. L’alta commissaria Bachelet sta lavorando da almeno tre anni al rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione degli uiguri nel Paese. L’uscita della relazione era stata annunciata lo scorso dicembre, ma non è escluso che ora venga posticipata, per quanto richiesta a gran voce, quanto prima, da attivisti e organizzazioni internazionali per i diritti umani.
    L’adesione alle Convenzioni sul lavoro forzato era anche una condizione prevista dai negoziati per l’Accordo comprensivo sugli investimenti (CAI) con l’Unione Europea. Il documento, mai finalizzato – anche per l’elezione del presidente americano Joe Biden – avrebbe garantito un unico quadro legale sugli investimenti, andando a sostituire i 26 accordi bilaterali tra gli Stati membri dell’UE e la Repubblica Popolare, con condizioni commerciali più vantaggiose. Tuttavia proprio le divergenze sui diritti umani e la questione del Xinjiang hanno contribuito a congelare i negoziati del CAI, soprattutto dopo le sanzioni cinesi a una serie di enti ed eurodeputati, in risposta a quelle europee a diversi funzionari del Paese del Dragone e all’ufficio di pubblica sicurezza del Xinjiang.
    Per quanto ferme, le trattative per il CAI potrebbero riprendere in futuro. Le nuove Convenzioni ILO sono un primo, per quanto timido, segnale di un’apertura cinese. “La Cina sta inviando un segnale cinico”, ha però detto a Eunews l’europarlamentare Reinhard Bütikofer (Verdi), a capo della Delegazione per le relazioni con la Repubblica Popolare cinese e tra i sanzionati da Pechino, “procede con la ratifica delle principali Convenzioni dell’ILO contro il lavoro forzato, mentre continua, senza vergogna, pratiche di lavoro forzato e nega i fatti”.
    Nel 2021, gli Stati Uniti avevano invece adottato la Legge sulla prevenzione del lavoro forzato uiguro che tuttora vieta l’importazione di alcuni prodotti, come cotone o pomodori, provenienti dalla regione autonoma. Anche Washington aveva fatto pressione sul Paese a riguardo, dopo il rapporto del 2022 della stessa Organizzazione internazionale del lavoro.

    Michelle Bachelet è attesa a maggio 2022, insieme al rapporto sulla situazione uigura nel Xinjiang. Bütikofer (Verdi): “Segnale cinico”. Si teme il non rispetto dei trattati all’atto pratico

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    I leader dell’Occidente boicottano le Olimpiadi invernali cinesi

    Bruxelles – Via, certamente. Pronti, non del tutto. Le Olimpiadi invernali di Pechino prendono inizio, ma l’Europa non vi prende parte. Non a livello di capi di Stato e di governo. I leader dell’UE hanno deciso di boicottare la manifestazione al che prende inizio oggi (4 febbraio) e che durerà fino al 20 febbraio. Dei Ventisette, solo Polonia e Lussemburgo avranno saranno presenti al più alto livello politico. Tutti gli altri invece porteranno in Cina personalità di rango inferiore. Un fatto che dimostra almeno due cose: le tensioni tra est e ovest del mondo, e le divisioni interne al blocco a dodici stelle nelle relazioni con Pechino e Mosca. Perché la mossa di non essere presenti a livello di leader più che in senso anti-cinese si legge in senso anti-russo.
    Il governo della Repubblica popolare cinese sta usando le olimpiadi invernali per rafforzare le relazioni con la federazione russa, nei confronti della quale l’UE sta tenendo una posizione rigida per le operazioni militari lungo la frontiera con l’Ucraina. Per questa ragione, unita anche alla questione del rispetto dei diritti umani nelle province autonome tibetana e dello Xinjiang, nove Stati membri – Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Slovenia e Svezia – hanno deciso di boicottare completamente la diplomazia dei giochi, non inviando alcun rappresentante. Gli altri hanno optato per presenze istituzionali di ‘basso profil0’. L’Italia aveva già previsto la partecipazione a livello di sottosegretario per lo Sport, ma Valentina Vezzali ha dovuto dare forfait causa COVID, e al suo posto si presenta l’ambasciatore Luca Ferrari.
    Tra i grandi assenti figurano Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Australia, che hanno deciso di non inviare neppure i rispettivi ambasciatori. Anche l‘India all’ultimo momento ha deciso di non andare, per motivi regionali. Tra India e Cina persistono dispute territoriali, e non è passato inosservato a Nuova Delhi la decisione di fare di un comandante coinvolto negli scontri al confine del 2020 tra i due paesi uno dei tedofori olimpici nella consueta staffetta della torcia che porta ai Giochi.
    Olimpiadi invernali con tanto sport e altrettanta politica, dunque. L’occidente marca le distanze con le potenze orientali. Il boicottaggio della cerimonia d’apertura segna un altro, ulteriore momento di censura nei confronti di Pechino e Mosca.

    Nove Stati membri dell’UE senza rappresentanti, solo Polonia e Lussemburgo presenti a livello di capi di Stato e di governo. Tutti gli altri con ambasciatori o altre figure istituzionali. Le tensioni con l’Ucraina tra i motivi della decisione

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    Il governo dei talebani chiede assistenza all’UE per garantire il funzionamento degli aeroporti in Afghanistan

    Bruxelles – Non facendo concessioni sulla propria posizione di non riconoscimento del governo provvisorio dell’Afghanistan, l’Unione Europea sta portando avanti a Doha (Qatar) il dialogo con il regime dei talebani, per “garantire l’impegno operativo nell’interesse dell’UE e del popolo afghano”, precisa una nota del Servizio europeo per l’azione esterna.
    Tra i punti in agenda compare la richiesta a Bruxelles da parte della delegazione afghana di assistenza operativa per garantire il funzionamento degli aeroporti. I rappresentanti dell’UE ci starebbero pensando, considerata “l’importanza fondamentale di mantenere aperti gli aeroporti dell’Afghanistan”. Inoltre, gli stessi talebani hanno ribadito “l’impegno a facilitare il passaggio sicuro dei cittadini stranieri e afghani che desiderano lasciare il Paese“, specifica la nota dell’agenzia UE.
    Preoccupa in particolare il peggioramento della situazione umanitaria con l’arrivo dell’inverno: “L’Unione Europea intende continuare a fornire assistenza umanitaria alle donne, agli uomini e ai bambini afghani in difficoltà”, che “non sarà soggetta a tassazione”. Nessun ripensamento sul fatto che il sostegno UE allo sviluppo dell’Afghanistan per il momento rimarrà sospesa, ma si sta iniziando a prendere in considerazione “un’assistenza finanziaria sostanziale a diretto beneficio del popolo afghano“. In altre parole, “convogliata esclusivamente attraverso organizzazioni internazionali e ONG”, per garantire i servizi essenziali (istruzione e sanità) e  mezzi di sussistenza per la popolazione.
    In linea con la posizione adottata dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a seguito del ritorno al potere dei talebani in Afghanistan, la delegazione europea ha sottolineato la necessità di un “processo trasparente e partecipativo” sul fronte di una possibile riforma costituzionale, così come della riconciliazione nazionale attraverso l’amnistia generale. A questo proposito la delegazione afgana ha riaffermato il suo impegno per “amplificare questo messaggio e la sua applicazione” nel Paese, così come per il rispetto della libertà di parola e dei media, “in linea con i principi islamici”, e dei diritti umani e le libertà fondamentali, “compresi i diritti delle donne e delle minoranze”.
    Ultimo capitolo sui rapporti internazionali. Se da una parte c’è l’impegno per assicurare l’integrità territoriale di “un Afghanistan sovrano, in pace con i vicini e che interagisce con la comunità internazionale”, allo stesso tempo l’UE ha insistito sull’obbligo dei talebani di intraprendere “un’azione determinata per combattere tutte le forme di terrorismo“. La delegazione afghana ha riaffermato il suo impegno a non permettere che il territorio nazionale serva da base per ospitare e finanziare gruppi che minaccino la sicurezza degli altri Paesi e “ha accolto con favore” la presenza delle missioni diplomatiche in Afghanistan, compresa quella dell’UE, che sta ancora valutando se stabilire “una presenza minima” sul terreno a Kabul.

    Dialogo tra la delegazione UE e del governo provvisorio afghano a Doha: riconfermato l’impegno sul libero passaggio per chi vuole lasciare il Paese e sulla lotta al terrorismo. Bruxelles valuta “una presenza minima” sul terreno a Kabul

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    La leader dell’opposizione bielorussa Tsikhanouskaya chiama l’UE all’azione: “Non abbiamo un altro anno di tempo”

    Bruxelles – “In questo momento ci sono più prigionieri politici in Bielorussia che eurodeputati in quest’Aula”. Potrebbero bastare solo queste parole rivolte dalla leader dell’opposizione bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya, all’emiciclo del Parlamento UE per tracciare la gravità della situazione e delle violazioni dei diritti umani nella Bielorussia di Alexander Lukashenko.
    Una lunga standing ovation da parte degli eurodeputati ha accolto “una delle leader più prestigiose dell’opposizione democratica in Bielorussia”, come l’ha presentata il presidente del Parlamento UE, David Sassoli. Proprio l’invito di Sassoli ha riportato in plenaria la presidente ad interim riconosciuta dall’Unione Europea, vincitrice (insieme ai compagni e alle compagne di lotta) del Premio Sakharov per la libertà di pensiero del 2020: “È un simbolo per la democrazia e la libertà ed è la voce dei prigionieri politici in carcere che non vogliamo dimenticare“, ha sottolineato il presidente del Parlamento UE, che ha definito quel regime “una tirannia”, nel suo discorso di apertura, richiamando “anche le altre istituzioni comunitarie” a essere “all’altezza della difesa dei diritti fondamentali e dei valori europei che non sono in vendita”.
    La standing ovation degli eurodeputati per la leader dell’opposizione democratica bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya (24 novembre 2021)
    Prendendo parola, Tsikhanouskaya si è soffermata proprio sul fatto che tra gli 882 prigionieri politici in Bielorussia, ci sono anche i vincitori del Premio Sakharov “che un anno fa erano presenti nell’Aula di Bruxelles”. Il riferimento è ad Ales Bialiatski, fondatore dell’organizzazione per i diritti umani Viasna, che “dimostra quanto la crisi sia più vicina di quanto sembri”. Nonostante le “decisioni senza precedenti della Commissione e il sostegno del Parlamento Europeo”, la leader dell’opposizione bielorussa ha richiamato l’UE all’azione: “Perdonate la mia schiettezza, ma devo dirlo, è tardi e ora tocca agli europei mostrare il loro impegno per i valori democratici e la dignità umana con misure più incisive”.
    Se alla fine del 2020 Tsikhanouskaya parlava di un “risveglio dei cittadini bielorussi” e chiedeva già il supporto dell’Unione, quasi 365 giorni dopo ha avvertito che “non abbiamo un altro anno a disposizione, non ce l’ha la Bielorussia e nemmeno l’Europa”. All’escalation di violenza del regime di Lukashenko si oppone la resistenza del popolo bielorusso, che “vuole nuove elezioni presidenziali e trova modi di protestare nonostante l’intensa pressione politica”. È però necessario che l’UE si risvegli e diventi “più proattiva di fronte all’autocrazia di Lukashenko“, ha esortato la leader dell’opposizione bielorussa.
    Per spiegare meglio il concetto, Tsikhanouskaya ha utilizzato una metafora efficace: “Le dittature sono come un virus che infetta il corpo, sappiamo che più la malattia viene ignorata, più sarà difficile curarla in futuro”. Di qui la necessità di “non rimanere ad aspettare e vedere cosa succede, ma è cruciale passare all’azione”, attraverso una strategia divisa in tre parti: “Isolamento, per prevenire la sua diffusione, trattamento, per rimuovere i suoi effetti negativi, e immunità, per mantenere il corpo in buona salute”.
    Una nuova strategia per la Bielorussia
    La prima parte della strategia riguarda l’isolamento e il non riconoscimento del regime: “Molti bielorussi sono feriti nel vedere che ancora oggi i media europei più influenti chiamano Lukashenko ‘presidente’, quando non lo è”, ha cercato di sensibilizzare la stampa Tsikhanouskaya. La leader dell’opposizione bielorussa ha spiegato che “in questo modo si forma una percezione sbagliata tra milioni di cittadini dell’UE” su un politico che “ha illegalmente usurpato il potere presidenziale con la violenza”. Se Bruxelles non considera valide le elezioni-farsa dell’agosto del 2020, “bisogna impostare una politica di non riconoscimento coerente“. Per esempio “non si dovrebbero nominare nuovi ambasciatori in Bielorussia, ricevere ambasciatori del regime, o invitare rappresentanti a eventi internazionali”, ma si dovrebbe anche “sospendere l’appartenenza del regime all’Interpol”. Tutto questo “manderebbe un segnale che gli abusi non saranno più tollerati“, ha aggiunto la presidente ad interim.
    La leader dell’opposizione democratica bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya, al Parlamento UE (24 novembre 2021)
    In secondo luogo, servono pressioni sul regime e limitazioni all’accesso di risorse: “Vi assicuro che le sanzioni economiche funzionano, continuate a mantenere questa politica”. Tsikhanouskaya ha spiegato che le misure restrittive “dividono le élite attorno a Lukashenko e distruggono gli schemi di corruzione, perché nessuno vuole condividere le responsabilità dei crimini del regime”. Così come fatto con gli ultimi pacchetti di sanzioni, “non vanno ascoltati i lobbisti e vanno coordinate le azioni con Londra e Washington”. Secondo la leader dell’opposizione bielorussa, è necessario anche “perseguire i trasgressori dei diritti umani secondo la giurisdizione penale universale“.
    L’ultima parte della strategia riguarda il rafforzamento della resistenza democratica della società bielorussa. Tsikhanouskaya ha chiesto all’UE di “dare più assistenza al nostro popolo”, seguendo la linea di flessibilità del pacchetto di investimenti da 3 miliardi di euro che verrà sbloccato solo quando in Bielorussia saranno rispettato i diritti umani. “La gente deve sentire di non essere abbandonata“, è stata l’esortazione della presidente legittima riconosciuta dall’UE, che ha invitato le istituzioni comunitarie a “non permettere che il regime manipoli il traffico di migranti per oscurare la catastrofe dei diritti umani all’interno del Paese”. Sia i cittadini bielorussi sia le persone migranti sono “ostaggi del regime e questi due problemi non possono essere risolti separatamente”, ha specificato.
    Il 2021 visto dall’opposizione bielorussa
    Inseguendo il sogno di “un’Europa unita nei nostri valori condivisi di rispetto dei diritti umani, di governo rappresentativo e costituzionale, e dello Stato di diritto”, per l’opposizione democratica bielorussa il 2021 è stato un anno particolarmente difficile e Tsikhanouskaya l’ha spiegato passo per passo al Parlamento UE. “A gennaio la polizia ha iniziato ad arrestare i cittadini dissenzienti, facendo irruzione nelle loro case”, mentre a febbraio anche la stampa è finita nel mirino, quando le giornaliste Katsiaryna Andreyeva e Darya Chultsova sono state condannate a due anni di carcere “solo per aver riferito sulle proteste e dopo essere state picchiate dalle forze di sicurezza”. A marzo, “mentre l’Europa parlava di una situazione che si stava stabilizzando”, centinaia di persone sono state arrestate “semplicemente per essere state all’aperto nel giorno dell’indipendenza”. In aprile, il ministro degli Esteri del regime, Vladimir Makei, “ha promesso di distruggere la società civile, ma l’interesse dei media europei per la Bielorussia stava rapidamente svanendo”.
    La leader dell’opposizione democratica bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya, al Parlamento UE (24 novembre 2021)
    È stato maggio il punto di svolta. Dopo la chiusura del sito di notizie indipendente TUT.BY, si è verificato lo scandalo del dirottamento del volo Ryanair Atene-Vilnius su Minsk e il rapimento del giornalista e oppositore politico, Roman Protasevich. Solo allora, “dopo nove mesi interi dall’inizio della catastrofe dei diritti umani in Bielorussia”, l’UE ha preso le prime misure contro il regime, ha ricordato la leader dell’opposizione bielorussa con una nota di disappunto. Con l’approvazione delle sanzioni economiche contro il regime di Lukashenko, “a giugno molti politici europei si preoccupavano che le misure potessero danneggiare i bielorussi, come se non stessero già soffrendo”. A luglio l’aspirante candidato presidenziale Viktor Babariko è stato condannato a 14 anni di prigione e ad agosto l’atleta olimpica Krystina Tsimanouskaya è stata quasi rapita durante i Giochi di Tokyo “semplicemente per aver criticato la gestione sportiva bielorussa”.
    A settembre è arrivata anche la condanna a 11 anni di prigione per una delle tre leader dell’opposizione bielorussa, Maria Kolesnikova, mentre l’informatico Andrey Zeltser è stato ucciso nel corso un’incursione del KGB nel suo appartamento: “Sua moglie, unica testimone, è stata mandata in un ospedale psichiatrico”. A ottobre è esplosa la crisi dei migranti, che già da mesi si era manifestata alle frontiere dell’UE. Fino ad arrivare a oggi, a novembre, con “migliaia di cittadini stranieri presi in ostaggio dal regime che sono finiti al centro dell’attenzione dell’Unione Europea“, mentre “nove milioni di bielorussi lo sono ogni giorno da più di un anno”, ha ricordato Tsikhanouskaya. “Ma pensate davvero che si fermerà qui? La Lituania e la Polonia stanno affrontando la più grande prova della loro sicurezza alle frontiere, ma le minacce aumenteranno ancora”, è stato l’avvertimento all’UE della leader dell’opposizione bielorussa.
    “Ascoltiamo e rendiamo omaggio Tsikhanouskaya”, è stato il messaggio dell’eurodeputato del Partito Democratico Massimiliano Smeriglio. Raccontando di repressione, di prigionieri politici, della chiusura di tutti i media indipendenti e delle ONG, e dello sfruttamento delle persone migranti alla frontiera dell’UE, “ci ricorda che in Bielorussia il tempo si misura in lacrime e ci chiede di esserci, di fare la nostra parte, di non lasciarli soli“, ha aggiunto l’europarlamentare italiano.