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    Pechino contro la risoluzione dell’Eurocamera su Xinjiang: “Una brutta farsa diretta da forze anticinesi”

    Bruxelles – “Una brutta farsa diretta da forze anticinesi”, in altre parole “la balla del secolo”. La risposta di Pechino alla risoluzione di ieri sulle condizioni degli uiguri nella regione autonoma del Xinjiang, nel nord-est della Cina, non si è fatta attendere: l’ufficio della missione cinese nell’UE ha pubblicato una nota di condanna contro l’accusa di genocidio.
    “La causa dei diritti umani nel Xinjiang è in pieno sviluppo”, sostiene l’ufficio, sottolineando come le questioni legate alla regione riguardino “la lotta al terrorismo, all’estremismo e al separatismo, non i diritti umani o la religione”. Quando il Parlamento Europeo ha invece denunciato violazioni dei diritti umani, come la deportazione di massa, l’indottrinamento politico e la separazione delle famiglie uigure, oltre a limitazioni della libertà religiosa e a un ampio uso delle tecnologie di sorveglianza. Anche l’alta commissaria per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, aveva detto di aver sollevato dubbi alle autorità cinesi sull’applicazione delle misure contro il terrorismo e la radicalizzazione visto il loro impatto sui diritti degli uiguri, in occasione della visita del mese scorso nel Paese.

    Our Spokesperson Speaks on a Question Concerning European Parliament’s Resolution on Xinjiang👉 https://t.co/Mgih7NHLIP pic.twitter.com/4hOPxvl3HO
    — Mission of China to the EU (@ChinaEUMission) June 9, 2022

    “La risoluzione sul Xinjiang si basa sulla bugia del secolo, prodotta in maniera deliberata da forze estremiste anticinesi”, ha dichiarato anche il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, nella conferenza stampa di oggi (10 giugno). Mentre You Wenzi, portavoce della commissione Affari esteri dell’Assemblea nazionale del Popolo, l’organo legislativo cinese, ha parlato invece di “manipolazione politica con il pretesto dei diritti umani” e di una “grave interferenza negli affari interni” del Paese. Nessun riferimento da parte dei rappresentanti ai ‘Xinjiang Police Files’, una corposa raccolta di fotografie e documenti che aggiungono nuovi dettagli sulla repressione uigura e attestano il ruolo avuto dalla leadership cinese.
    Di tutt’altro avviso è stato il World Uyghur Congress, l’organizzazione internazionale per i diritti della minoranza etnica, turcofona di religione islamica. “Invitando l’UE e i suoi Stati membri a ‘prendere tutte le misure necessarie, in conformità con la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, per porre fine a queste atrocità’, la risoluzione approvata segna un appello storico ai meccanismi di responsabilità per rendere giustizia al popolo uiguro”, ha affermato l’organizzazione. Il presidente Dolkun Isa, a Strasburgo proprio in occasione della Plenaria, ha ringraziato il Parlamento Europeo subito dopo l’adozione della risoluzione: “Oggi è un giorno storico per gli uiguri, oggi non ci sentiamo soli”.

    Today is a historical day for Uyghurs and all those who work to achieve justice and accountability. We thank @rglucks1, @EnginEroglu_FW, @DavidLega, @bueti, @MiriamMLex, @AnnaFotyga_PE, @HeidiHautala and all MEPs who supported the resolution as well as the Uyghur Friendship Group pic.twitter.com/krJK4n1tmH
    — Dolkun Isa (@Dolkun_Isa) June 9, 2022

    Si tratterebbe di una “manipolazione politica con il pretesto dei diritti umani” e di una “grave interferenza negli affari interni del Paese”. Il World Uyghur Congress saluta invece il testo finale

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    La Cina dice ‘no’ ai lavori forzati in vista della visita dell’alta commissaria ONU per i diritti umani

    Bruxelles – ‘No’ ai lavori forzati. È questo il messaggio che la Cina ha inviato all’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU), a meno di un mese dalla visita dell’alta commissaria per i Diritti umani, Michelle Bachelet, nella regione autonoma del Xinjiang, nel nord-ovest del Paese, e dimora della minoranza degli uiguri. Ma non solo. L’adesione del Paese a due delle Convenzioni fondamentali sul lavoro forzato punta anche all’Europa e agli Stati Uniti, dopo anni di denunce – e, dal 2021, sanzioni – da parte della comunità internazionale per lo sfruttamento degli uiguri, la minoranza etnica turcofona, di religione islamica, sottoposta a pratiche di detenzione arbitraria di massa e perfino di sterilizzazione.
    Il 20 aprile 2022 il Comitato permanente del tredicesimo Congresso nazionale del Popolo, il massimo organo legislativo cinese, ha ratificato la Convenzione sul lavoro forzato e obbligatorio (1930) e la Convenzione per l’abolizione del lavoro forzato (1957). Si tratta di due Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), l’ente con sede a Ginevra che stabilisce, a livello globale, i principi e i diritti fondamentali dei lavoratori. La Cina ne è parte dal 1985, per quanto non abbia mai aderito a diversi dei suoi trattati né garantisca piene tutele sul lavoro.
    In questo modo, il Paese si è impegnato “a eliminare l’uso del lavoro forzato o coatto in tutte le sue forme, entro il periodo più breve possibile”, come recita l’articolo 1 della Convenzione del 1930. Mentre quella del 1957, ne proibisce ogni uso “come mezzo di coercizione o di educazione politica”. “Come sanzione per aver espresso opinioni politiche o ideologiche”. “Come metodo di mobilitazione alla manodopera”. “Come misura disciplinare sul lavoro”. “Come sanzione per aver partecipato a scioperi o come misura di discriminazione”.
    Si tratta di un passo significativo per il Paese. Secondo la Risoluzione del Parlamento europeo del 17 dicembre 2020, che ha analizzato (e condannato) la situazione degli uiguri nella Repubblica Popolare, dal 2014 “sono numerose le denunce credibili” secondo cui la minoranza verrebbe impiegata per i lavori forzati. Soprattutto, “nelle catene di produzione dei settori dell’abbigliamento, della tecnologia e dell’automobile”. Nel marzo 2020 il think thank Australian Strategic Policy Institute aveva individuato che nelle filiere produttive di ben 83 brand, anche internazionali, lavoravano oltre 80mila uiguri in condizioni assimilabili a quelle del lavoro forzato.
    Non è un caso che la ratifica delle Convenzioni sia avvenuta ora. L’alta commissaria Bachelet sta lavorando da almeno tre anni al rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione degli uiguri nel Paese. L’uscita della relazione era stata annunciata lo scorso dicembre, ma non è escluso che ora venga posticipata, per quanto richiesta a gran voce, quanto prima, da attivisti e organizzazioni internazionali per i diritti umani.
    L’adesione alle Convenzioni sul lavoro forzato era anche una condizione prevista dai negoziati per l’Accordo comprensivo sugli investimenti (CAI) con l’Unione Europea. Il documento, mai finalizzato – anche per l’elezione del presidente americano Joe Biden – avrebbe garantito un unico quadro legale sugli investimenti, andando a sostituire i 26 accordi bilaterali tra gli Stati membri dell’UE e la Repubblica Popolare, con condizioni commerciali più vantaggiose. Tuttavia proprio le divergenze sui diritti umani e la questione del Xinjiang hanno contribuito a congelare i negoziati del CAI, soprattutto dopo le sanzioni cinesi a una serie di enti ed eurodeputati, in risposta a quelle europee a diversi funzionari del Paese del Dragone e all’ufficio di pubblica sicurezza del Xinjiang.
    Per quanto ferme, le trattative per il CAI potrebbero riprendere in futuro. Le nuove Convenzioni ILO sono un primo, per quanto timido, segnale di un’apertura cinese. “La Cina sta inviando un segnale cinico”, ha però detto a Eunews l’europarlamentare Reinhard Bütikofer (Verdi), a capo della Delegazione per le relazioni con la Repubblica Popolare cinese e tra i sanzionati da Pechino, “procede con la ratifica delle principali Convenzioni dell’ILO contro il lavoro forzato, mentre continua, senza vergogna, pratiche di lavoro forzato e nega i fatti”.
    Nel 2021, gli Stati Uniti avevano invece adottato la Legge sulla prevenzione del lavoro forzato uiguro che tuttora vieta l’importazione di alcuni prodotti, come cotone o pomodori, provenienti dalla regione autonoma. Anche Washington aveva fatto pressione sul Paese a riguardo, dopo il rapporto del 2022 della stessa Organizzazione internazionale del lavoro.

    Michelle Bachelet è attesa a maggio 2022, insieme al rapporto sulla situazione uigura nel Xinjiang. Bütikofer (Verdi): “Segnale cinico”. Si teme il non rispetto dei trattati all’atto pratico

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    I leader dell’Occidente boicottano le Olimpiadi invernali cinesi

    Bruxelles – Via, certamente. Pronti, non del tutto. Le Olimpiadi invernali di Pechino prendono inizio, ma l’Europa non vi prende parte. Non a livello di capi di Stato e di governo. I leader dell’UE hanno deciso di boicottare la manifestazione al che prende inizio oggi (4 febbraio) e che durerà fino al 20 febbraio. Dei Ventisette, solo Polonia e Lussemburgo avranno saranno presenti al più alto livello politico. Tutti gli altri invece porteranno in Cina personalità di rango inferiore. Un fatto che dimostra almeno due cose: le tensioni tra est e ovest del mondo, e le divisioni interne al blocco a dodici stelle nelle relazioni con Pechino e Mosca. Perché la mossa di non essere presenti a livello di leader più che in senso anti-cinese si legge in senso anti-russo.
    Il governo della Repubblica popolare cinese sta usando le olimpiadi invernali per rafforzare le relazioni con la federazione russa, nei confronti della quale l’UE sta tenendo una posizione rigida per le operazioni militari lungo la frontiera con l’Ucraina. Per questa ragione, unita anche alla questione del rispetto dei diritti umani nelle province autonome tibetana e dello Xinjiang, nove Stati membri – Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Slovenia e Svezia – hanno deciso di boicottare completamente la diplomazia dei giochi, non inviando alcun rappresentante. Gli altri hanno optato per presenze istituzionali di ‘basso profil0’. L’Italia aveva già previsto la partecipazione a livello di sottosegretario per lo Sport, ma Valentina Vezzali ha dovuto dare forfait causa COVID, e al suo posto si presenta l’ambasciatore Luca Ferrari.
    Tra i grandi assenti figurano Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Australia, che hanno deciso di non inviare neppure i rispettivi ambasciatori. Anche l‘India all’ultimo momento ha deciso di non andare, per motivi regionali. Tra India e Cina persistono dispute territoriali, e non è passato inosservato a Nuova Delhi la decisione di fare di un comandante coinvolto negli scontri al confine del 2020 tra i due paesi uno dei tedofori olimpici nella consueta staffetta della torcia che porta ai Giochi.
    Olimpiadi invernali con tanto sport e altrettanta politica, dunque. L’occidente marca le distanze con le potenze orientali. Il boicottaggio della cerimonia d’apertura segna un altro, ulteriore momento di censura nei confronti di Pechino e Mosca.

    Nove Stati membri dell’UE senza rappresentanti, solo Polonia e Lussemburgo presenti a livello di capi di Stato e di governo. Tutti gli altri con ambasciatori o altre figure istituzionali. Le tensioni con l’Ucraina tra i motivi della decisione

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    Il governo dei talebani chiede assistenza all’UE per garantire il funzionamento degli aeroporti in Afghanistan

    Bruxelles – Non facendo concessioni sulla propria posizione di non riconoscimento del governo provvisorio dell’Afghanistan, l’Unione Europea sta portando avanti a Doha (Qatar) il dialogo con il regime dei talebani, per “garantire l’impegno operativo nell’interesse dell’UE e del popolo afghano”, precisa una nota del Servizio europeo per l’azione esterna.
    Tra i punti in agenda compare la richiesta a Bruxelles da parte della delegazione afghana di assistenza operativa per garantire il funzionamento degli aeroporti. I rappresentanti dell’UE ci starebbero pensando, considerata “l’importanza fondamentale di mantenere aperti gli aeroporti dell’Afghanistan”. Inoltre, gli stessi talebani hanno ribadito “l’impegno a facilitare il passaggio sicuro dei cittadini stranieri e afghani che desiderano lasciare il Paese“, specifica la nota dell’agenzia UE.
    Preoccupa in particolare il peggioramento della situazione umanitaria con l’arrivo dell’inverno: “L’Unione Europea intende continuare a fornire assistenza umanitaria alle donne, agli uomini e ai bambini afghani in difficoltà”, che “non sarà soggetta a tassazione”. Nessun ripensamento sul fatto che il sostegno UE allo sviluppo dell’Afghanistan per il momento rimarrà sospesa, ma si sta iniziando a prendere in considerazione “un’assistenza finanziaria sostanziale a diretto beneficio del popolo afghano“. In altre parole, “convogliata esclusivamente attraverso organizzazioni internazionali e ONG”, per garantire i servizi essenziali (istruzione e sanità) e  mezzi di sussistenza per la popolazione.
    In linea con la posizione adottata dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a seguito del ritorno al potere dei talebani in Afghanistan, la delegazione europea ha sottolineato la necessità di un “processo trasparente e partecipativo” sul fronte di una possibile riforma costituzionale, così come della riconciliazione nazionale attraverso l’amnistia generale. A questo proposito la delegazione afgana ha riaffermato il suo impegno per “amplificare questo messaggio e la sua applicazione” nel Paese, così come per il rispetto della libertà di parola e dei media, “in linea con i principi islamici”, e dei diritti umani e le libertà fondamentali, “compresi i diritti delle donne e delle minoranze”.
    Ultimo capitolo sui rapporti internazionali. Se da una parte c’è l’impegno per assicurare l’integrità territoriale di “un Afghanistan sovrano, in pace con i vicini e che interagisce con la comunità internazionale”, allo stesso tempo l’UE ha insistito sull’obbligo dei talebani di intraprendere “un’azione determinata per combattere tutte le forme di terrorismo“. La delegazione afghana ha riaffermato il suo impegno a non permettere che il territorio nazionale serva da base per ospitare e finanziare gruppi che minaccino la sicurezza degli altri Paesi e “ha accolto con favore” la presenza delle missioni diplomatiche in Afghanistan, compresa quella dell’UE, che sta ancora valutando se stabilire “una presenza minima” sul terreno a Kabul.

    Dialogo tra la delegazione UE e del governo provvisorio afghano a Doha: riconfermato l’impegno sul libero passaggio per chi vuole lasciare il Paese e sulla lotta al terrorismo. Bruxelles valuta “una presenza minima” sul terreno a Kabul

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    La leader dell’opposizione bielorussa Tsikhanouskaya chiama l’UE all’azione: “Non abbiamo un altro anno di tempo”

    Bruxelles – “In questo momento ci sono più prigionieri politici in Bielorussia che eurodeputati in quest’Aula”. Potrebbero bastare solo queste parole rivolte dalla leader dell’opposizione bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya, all’emiciclo del Parlamento UE per tracciare la gravità della situazione e delle violazioni dei diritti umani nella Bielorussia di Alexander Lukashenko.
    Una lunga standing ovation da parte degli eurodeputati ha accolto “una delle leader più prestigiose dell’opposizione democratica in Bielorussia”, come l’ha presentata il presidente del Parlamento UE, David Sassoli. Proprio l’invito di Sassoli ha riportato in plenaria la presidente ad interim riconosciuta dall’Unione Europea, vincitrice (insieme ai compagni e alle compagne di lotta) del Premio Sakharov per la libertà di pensiero del 2020: “È un simbolo per la democrazia e la libertà ed è la voce dei prigionieri politici in carcere che non vogliamo dimenticare“, ha sottolineato il presidente del Parlamento UE, che ha definito quel regime “una tirannia”, nel suo discorso di apertura, richiamando “anche le altre istituzioni comunitarie” a essere “all’altezza della difesa dei diritti fondamentali e dei valori europei che non sono in vendita”.
    La standing ovation degli eurodeputati per la leader dell’opposizione democratica bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya (24 novembre 2021)
    Prendendo parola, Tsikhanouskaya si è soffermata proprio sul fatto che tra gli 882 prigionieri politici in Bielorussia, ci sono anche i vincitori del Premio Sakharov “che un anno fa erano presenti nell’Aula di Bruxelles”. Il riferimento è ad Ales Bialiatski, fondatore dell’organizzazione per i diritti umani Viasna, che “dimostra quanto la crisi sia più vicina di quanto sembri”. Nonostante le “decisioni senza precedenti della Commissione e il sostegno del Parlamento Europeo”, la leader dell’opposizione bielorussa ha richiamato l’UE all’azione: “Perdonate la mia schiettezza, ma devo dirlo, è tardi e ora tocca agli europei mostrare il loro impegno per i valori democratici e la dignità umana con misure più incisive”.
    Se alla fine del 2020 Tsikhanouskaya parlava di un “risveglio dei cittadini bielorussi” e chiedeva già il supporto dell’Unione, quasi 365 giorni dopo ha avvertito che “non abbiamo un altro anno a disposizione, non ce l’ha la Bielorussia e nemmeno l’Europa”. All’escalation di violenza del regime di Lukashenko si oppone la resistenza del popolo bielorusso, che “vuole nuove elezioni presidenziali e trova modi di protestare nonostante l’intensa pressione politica”. È però necessario che l’UE si risvegli e diventi “più proattiva di fronte all’autocrazia di Lukashenko“, ha esortato la leader dell’opposizione bielorussa.
    Per spiegare meglio il concetto, Tsikhanouskaya ha utilizzato una metafora efficace: “Le dittature sono come un virus che infetta il corpo, sappiamo che più la malattia viene ignorata, più sarà difficile curarla in futuro”. Di qui la necessità di “non rimanere ad aspettare e vedere cosa succede, ma è cruciale passare all’azione”, attraverso una strategia divisa in tre parti: “Isolamento, per prevenire la sua diffusione, trattamento, per rimuovere i suoi effetti negativi, e immunità, per mantenere il corpo in buona salute”.
    Una nuova strategia per la Bielorussia
    La prima parte della strategia riguarda l’isolamento e il non riconoscimento del regime: “Molti bielorussi sono feriti nel vedere che ancora oggi i media europei più influenti chiamano Lukashenko ‘presidente’, quando non lo è”, ha cercato di sensibilizzare la stampa Tsikhanouskaya. La leader dell’opposizione bielorussa ha spiegato che “in questo modo si forma una percezione sbagliata tra milioni di cittadini dell’UE” su un politico che “ha illegalmente usurpato il potere presidenziale con la violenza”. Se Bruxelles non considera valide le elezioni-farsa dell’agosto del 2020, “bisogna impostare una politica di non riconoscimento coerente“. Per esempio “non si dovrebbero nominare nuovi ambasciatori in Bielorussia, ricevere ambasciatori del regime, o invitare rappresentanti a eventi internazionali”, ma si dovrebbe anche “sospendere l’appartenenza del regime all’Interpol”. Tutto questo “manderebbe un segnale che gli abusi non saranno più tollerati“, ha aggiunto la presidente ad interim.
    La leader dell’opposizione democratica bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya, al Parlamento UE (24 novembre 2021)
    In secondo luogo, servono pressioni sul regime e limitazioni all’accesso di risorse: “Vi assicuro che le sanzioni economiche funzionano, continuate a mantenere questa politica”. Tsikhanouskaya ha spiegato che le misure restrittive “dividono le élite attorno a Lukashenko e distruggono gli schemi di corruzione, perché nessuno vuole condividere le responsabilità dei crimini del regime”. Così come fatto con gli ultimi pacchetti di sanzioni, “non vanno ascoltati i lobbisti e vanno coordinate le azioni con Londra e Washington”. Secondo la leader dell’opposizione bielorussa, è necessario anche “perseguire i trasgressori dei diritti umani secondo la giurisdizione penale universale“.
    L’ultima parte della strategia riguarda il rafforzamento della resistenza democratica della società bielorussa. Tsikhanouskaya ha chiesto all’UE di “dare più assistenza al nostro popolo”, seguendo la linea di flessibilità del pacchetto di investimenti da 3 miliardi di euro che verrà sbloccato solo quando in Bielorussia saranno rispettato i diritti umani. “La gente deve sentire di non essere abbandonata“, è stata l’esortazione della presidente legittima riconosciuta dall’UE, che ha invitato le istituzioni comunitarie a “non permettere che il regime manipoli il traffico di migranti per oscurare la catastrofe dei diritti umani all’interno del Paese”. Sia i cittadini bielorussi sia le persone migranti sono “ostaggi del regime e questi due problemi non possono essere risolti separatamente”, ha specificato.
    Il 2021 visto dall’opposizione bielorussa
    Inseguendo il sogno di “un’Europa unita nei nostri valori condivisi di rispetto dei diritti umani, di governo rappresentativo e costituzionale, e dello Stato di diritto”, per l’opposizione democratica bielorussa il 2021 è stato un anno particolarmente difficile e Tsikhanouskaya l’ha spiegato passo per passo al Parlamento UE. “A gennaio la polizia ha iniziato ad arrestare i cittadini dissenzienti, facendo irruzione nelle loro case”, mentre a febbraio anche la stampa è finita nel mirino, quando le giornaliste Katsiaryna Andreyeva e Darya Chultsova sono state condannate a due anni di carcere “solo per aver riferito sulle proteste e dopo essere state picchiate dalle forze di sicurezza”. A marzo, “mentre l’Europa parlava di una situazione che si stava stabilizzando”, centinaia di persone sono state arrestate “semplicemente per essere state all’aperto nel giorno dell’indipendenza”. In aprile, il ministro degli Esteri del regime, Vladimir Makei, “ha promesso di distruggere la società civile, ma l’interesse dei media europei per la Bielorussia stava rapidamente svanendo”.
    La leader dell’opposizione democratica bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya, al Parlamento UE (24 novembre 2021)
    È stato maggio il punto di svolta. Dopo la chiusura del sito di notizie indipendente TUT.BY, si è verificato lo scandalo del dirottamento del volo Ryanair Atene-Vilnius su Minsk e il rapimento del giornalista e oppositore politico, Roman Protasevich. Solo allora, “dopo nove mesi interi dall’inizio della catastrofe dei diritti umani in Bielorussia”, l’UE ha preso le prime misure contro il regime, ha ricordato la leader dell’opposizione bielorussa con una nota di disappunto. Con l’approvazione delle sanzioni economiche contro il regime di Lukashenko, “a giugno molti politici europei si preoccupavano che le misure potessero danneggiare i bielorussi, come se non stessero già soffrendo”. A luglio l’aspirante candidato presidenziale Viktor Babariko è stato condannato a 14 anni di prigione e ad agosto l’atleta olimpica Krystina Tsimanouskaya è stata quasi rapita durante i Giochi di Tokyo “semplicemente per aver criticato la gestione sportiva bielorussa”.
    A settembre è arrivata anche la condanna a 11 anni di prigione per una delle tre leader dell’opposizione bielorussa, Maria Kolesnikova, mentre l’informatico Andrey Zeltser è stato ucciso nel corso un’incursione del KGB nel suo appartamento: “Sua moglie, unica testimone, è stata mandata in un ospedale psichiatrico”. A ottobre è esplosa la crisi dei migranti, che già da mesi si era manifestata alle frontiere dell’UE. Fino ad arrivare a oggi, a novembre, con “migliaia di cittadini stranieri presi in ostaggio dal regime che sono finiti al centro dell’attenzione dell’Unione Europea“, mentre “nove milioni di bielorussi lo sono ogni giorno da più di un anno”, ha ricordato Tsikhanouskaya. “Ma pensate davvero che si fermerà qui? La Lituania e la Polonia stanno affrontando la più grande prova della loro sicurezza alle frontiere, ma le minacce aumenteranno ancora”, è stato l’avvertimento all’UE della leader dell’opposizione bielorussa.
    “Ascoltiamo e rendiamo omaggio Tsikhanouskaya”, è stato il messaggio dell’eurodeputato del Partito Democratico Massimiliano Smeriglio. Raccontando di repressione, di prigionieri politici, della chiusura di tutti i media indipendenti e delle ONG, e dello sfruttamento delle persone migranti alla frontiera dell’UE, “ci ricorda che in Bielorussia il tempo si misura in lacrime e ci chiede di esserci, di fare la nostra parte, di non lasciarli soli“, ha aggiunto l’europarlamentare italiano.

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    Bielorussia, l’UE denuncia pratiche “disumane” di segretezza del sistema penale e di condanne a morte

    Bruxelles – Si continua a parlare di Bielorussia a Bruxelles, dopo settimane in cui la questione del dirottamento del volo Ryanair Atene-Vilnius su Minsk è stata al centro della scena internazionale. Nonostante le variazioni sul tema, il nodo cruciale rimane sempre lo stesso: le violazioni dei diritti umani da parte del regime del presidente Alexander Lukashenko.
    Con una nota del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), sono state denunciate oggi (giovedì 17 giugno) le pratiche di segretezza del sistema penale bielorusso e soprattutto il persistere della pena di morte. La Bielorussia è l’unico Paese europeo in cui vige tuttora la pena capitale. “L’Unione Europea ricorda la sua irrevocabile opposizione all’uso della pena di morte in qualsiasi circostanza”, si legge nella nota: “È una punizione crudele e disumana, che non agisce da deterrente contro il crimine e rappresenta un’inaccettabile negazione della dignità e dell’integrità umana”.
    L’accusa delle istituzioni europee è stata sollevata dal caso di Viktar Paulau, detenuto nel braccio della morte della prigione pre-processuale n. 1 di Minsk. Il 31 luglio dello scorso anno l’uomo 50enne è stato riconosciuto colpevole di un duplice omicidio commesso il 30 dicembre 2018 nel villaggio di Prysushyna, nella regione di Vitsebsk (nel Nord-Est del Paese).
    Nonostante l’effettiva esecuzione non sia stata ancora confermata ufficialmente, come riporta l’organizzazione per i diritti umani Viasna, la sorella del condannato a morte non riceve notizie da Paulau da più di sei settimane e da qualche giorno le viene negato l’accesso alla struttura. Inoltre, il personale della prigione ha comunicato in maniera generica all’avvocato difensore che il detenuto non si trova più nella struttura. “La negazione di informazioni tempestive ai parenti è stata un’indicazione in precedenti occasioni di un’esecuzione segreta eseguita dal regime autoritario in Bielorussia”, ha commentato il Servizio europeo per l’azione esterna, facendo riferimento proprio alle informazioni fornite dalla da Viasna.
    Nel frattempo, l’Unione Europea è pronta ad adottare il quarto pacchetto di sanzioni contro il regime di Lukashenko che, come anticipato dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in plenaria al Parlamento Europeo lo scorso 8 giugno, “peseranno sui settori economici-chiave, oltre a coinvolgere i responsabili del dirottamento del volo” su cui viaggiavano il giornalista e oppositore politico Roman Protasevich, e la compagna Sofia Sapega (poi arrestati).
    Secondo quanto confermano fonti di Bruxelles a Reuters, il Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) degli Stati membri UE ha deciso ieri (mercoledì 16 giugno) di imporre nuove sanzioni per la duplice violazione del diritto internazionale e dei diritti umani lo scorso 23 maggio. Dovrebbe essere compreso il congelamento dei beni e il divieto di viaggio nell’UE contro circa 70 persone, oltre alle 88 già inserite nella lista nera dai precedenti pacchetti di misure restrittive, tra cui compaiono Lukashenko e suo figlio Viktor, consigliere per la Sicurezza.
    Le sanzioni approvate dagli ambasciatori dell’UE dovrebbero essere adottate nel corso della riunione dei ministri degli Esteri UE lunedì prossimo (21 giugno). Già dal 4 giugno il Consiglio dell’UE ha rafforzato le misure restrittive nei confronti di Minsk, introducendo il divieto di sorvolo dello spazio aereo dell’Unione e di accesso agli aeroporti europei per tutti i vettori e le compagnie aeree bielorusse.

    La nuova accusa al regime di Lukashenko è arrivata a seguito della negazione di “informazioni tempestive” alla famiglia e all’avvocato di un condannato a Minsk. Intanto i Ventisette sono pronti ad adottare il quarto pacchetto di sanzioni

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    Riforma dell’OMS, clima, tecnologia: i nuovi tavoli di lavoro UE-USA che rilanciano l’alleanza

    Bruxelles – “Un eccellente incontro tra amici e alleati“. Così Ursula von der Leyen sintetizza il summit UE-Stati Uniti che produce un grande successo politico. La presidente della Commissione europea si riferisce all’intesa trovata dalla due parti sulla questione Airbus-Boeing, anche se in realtà il vertice con il nuovo inquilino della Casa Bianca segna passi in avanti su molti fronti. “L’america è tornata – ha scandito Joe Biden durante l’incontro, dopo aver ricordato di essere di origine irlandese – e la delegazione di ‘serie A’ che ho portato con me lo dimostra”.
    Nuovo corso su clima e intellgenza artificale
    Non ci sono solo i successi in politica commerciale. Stati Uniti e Unione europea hanno convenuto di rilanciare il loro legame sul fronte dell’innovazione e del clima, attraverso l’attivazione di nuovi canali di lavoro. Via libera quindi alla creazione di un consiglio UE-USA sulla tecnologia, volto a creare un partenariato tutto nuovo sulle nuove tecnologie, in particolare le intelligenze artificiali. D’accordo anche all’istituzione di un gruppo d’azione di alto livello per il clima per promuovere “la diplomazia climatica” e coinvolgere così i governi in politiche globali di sostenibilità, sotto la cabina di regia euro-americana. “Quando si parla di lotta ai cambiamenti climatici Unione europea e Stati Uniti sono partner naturali”, scandisce von der Leyen. Su tutto ciò che riguarda la sostenibilità, i leader si dicono disposti a “continuare e rafforzare” la cooperazione per affrontare il cambiamento climatico, il degrado ambientale e la perdita di biodiversità, promuovere la crescita verde, proteggere i nostri oceani e sollecitare un’azione ambiziosa da parte di tutti gli altri principali attori.
    Lotta al COVID, riforma dell’OMS e viaggi aerei il prima possibile
    La creazione di tavoli tecnici e organismi ad hoc non si esaurisce qui. Si è deciso di un raggiungere un accordo congiunto UE-USA attraverso il gruppo di lavoro di esperti per lo scambio di informazioni e competenze per rilanciare viaggi sicuri e sostenibili tra l’UE e gli Stati Uniti. Un passo che si colloca nel più ampio impegno comune di “porre fine alla pandemia di COVID attraverso la cooperazione globale”. In tal senso l’Unione europea ottiene da Biden il via libera all’istituzione, all’interno dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS),  di un gruppo di lavoro sul rafforzamento della preparazione e della risposta  alle emergenze sanitarie.
    Alleanza transatlantica in chiave anti-cinese e anti-russa
    La Commissione europea che dichiara le sue ambizioni geopolitiche ottiene un’alleanza euro-americana in senso anti-russo e anti-cinese. Ribadendo anche quanto già sancito nel corso del summit dei leader della Nato, Stati Uniti e Unione europea si dicono “uniti nell’approccio di principio” nei confronti di Mosca, e pertanto “pronti a rispondere con decisione” all’azione del Cremlino considerata come “negativa e dannosa”. Da qui l’esigenza di “stabilire un dialogo ad alto livello UE-USA sulla Russia“.
    Ma c’è anche lo scomodo interlocutore cinese a unire le due sponde dell’Atlantico. Biden, von der Leyen e Michel sono d’accordo a lavorare insieme per “sfidare e contrastare le pratiche non di mercato cinesi“. Ma più in generale la rinnovata alleanza agirà “in modi specifici che riflettano i nostri elevati standard, compresa la collaborazione sugli investimenti in entrata e in uscita e sul trasferimento di tecnologia”. 
    C’è poi l’attacco frontale su questioni assai sensibili per il regime di Pechino. Stati Uniti e Unione europea sono decisi a “coordinare” l’agenda politica per quanto riguarda “le continue violazioni dei diritti umani nello Xinjiang e in Tibet, l’erosione dell’autonomia e dei processi democratici a Hong Kong, le campagne di disinformazione”.
    Il summit UE-Stati Uniti è andato meglio di come si potesse pensare. “Il presidente Biden ha detto che gli Stati Uniti sono tornati sulla scena internazionale, e noi lo prendiamo in parola”, afferma il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, che porta a casa impegni e progressi reali di cui l’Ue aveva bisogno e che guarda già oltre. Quanto raggiunto a Bruxelles “è un punto di partenza, ovviamente”.

    Il summit bilaterale produce grandi risultati. Michel: “Biden dice che gli Stati Uniti sono tornati sulla scena internazionale e lo prendiamo in parola, ma è un punto di partenza”

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    Parlamento UE sospende la ratifica dell’accordo sugli investimenti con la Cina finché Pechino non ritirerà le sanzioni

    Bruxelles – Il Parlamento europeo non ratificherà l’accordo politico di principio sugli investimenti firmato con la Cina a fine 2020 finché quest’ultima non ritirerà le sanzioni imposte a dieci individui tra europarlamentari, deputati nazionali e accademici e a quattro enti europei. La posizione dell’Eurocamera viene definita in una risoluzione che durante l’ultima seduta plenaria ha raccolto 599 voti a favore, 30 contrari e 58 astenuti.
    L’Europarlamento condanna la scelta di Pechino e le sanzioni con cui ha risposto alle misure restrittive imposte ancor prima dall’Unione Europea per le detenzioni arbitrarie applicate alla minoranza musulmana degli Uiguri nel territorio dello Xinjiang. Ma chiede alle altre istituzioni dell’UE un’azione forte che contrasti la diplomazia assertiva portata avanti dalla Cina nel corso della pandemia di COVID-19 nel resto del mondo e una maggiore insistenza nel progetto di autonomia strategica. Per gli europarlamentari l’Unione Europea “dovrebbe cercare una più profonda collaborazione con Paesi affini e con le altre democrazie nel mondo, tra cui gli USA, il Canada, e con i partner asiatici del Pacifico” e dovrebbe architettare una strategia per la regione indo-pacifica. Soprattutto, la sospensione dell’accordo sugli investimenti non dovrebbe tenere in ostaggio le iniziative di cooperazione commerciale e finanziaria negoziate con altri Paesi (nel testo si fa riferimento a Taiwan, storico rivale di Pechino)
    In ogni caso l’invito a non ratificare l’accordo sottoscritto con la Cina fino a che le sanzioni imposte da quest’ultima saranno vigenti è esteso anche ai co-legislatori del Consiglio UE, cioè ai 27 Stati membri. A loro e alla Commissione europea l’Eurocamera chiede anche di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione, specialmente quelli economici, “per forzare il governo cinese a chiudere i campi di detenzione e a cessare le violazioni dei diritti umani”. E all’esecutivo europeo si chiede uno strumento preciso che impedisca l’importazione in Europa di beni prodotti in Cina grazie al lavoro forzato e che preveda degli obblighi per le aziende che operano sul suolo europeo e che hanno rapporti con Pechino.
    Il Parlamento chiede anche alle capitali europee un riesame e l’eventuale abolizione degli accordi di estradizione conclusi con il regime di Pechino alla luce delle violazioni contro i cittadini cinesi residenti all’estero e l’istituzione di un meccanismo di controllo sulle esportazioni di tecnologie per evitare che “vengano usate per la violazione di diritti fondamentali e per agevolare la repressione interna”.

    Sollecitata la Commissione sul divieto di importare in Europa i beni prodotti grazie al lavoro forzato