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    L’ingresso dell’Ucraina nell’Ue non sarebbe un vantaggio solo per Kiev

    Bruxelles – Costi, certo. Ma anche benefici. E non di poco conto. La scelta politica dell’Unione europea di far entrare i Paesi dell’est nel club a dodici stelle è decisa, dettata anche, certamente, da ragioni geopolitiche e da un conflitto russo in Ucraina che ha inevitabilmente ridisegnato logiche e strategie. E avviato ragionamenti su cosa e come cambierà l’Unione europea. A fare primi calcoli è il think tank Bruegel, in uno studio d’impatto sull’ingresso in particolare dell’Ucraina nel club. Viene messo in risalto innanzitutto che “complessivamente il costo netto dell’ingresso dell’Ucraina nell’Ue per gli attuali Paesi membri ammonterebbe a 136 miliardi di euro a prezzi correnti nel periodo dal 2021 al 2027, ovvero allo 0,13 per cento del Prodotto interno lordo dell’Ue”.Può sembrare una cifra elevata, ma i calcoli condotti da Bruegel mostrano che a livello di bilancio comune, la dimensione complessiva dell’impatto dell’adesione dell’Ucraina all’Ue sul Mff 2021-2027sarebbe un aumento dall’1,12 per cento all’1,20 per Pil nello scenario di base, che presuppone che l’Ucraina riacquisti la sua integrità territoriale e che la guerra non ha alcun impatto a lungo termine sulla popolazione o sul PIL del Paese. Inoltre la maggior parte dei contribuenti netti dovrebbe contribuire con circa lo 0,1 per cento in più del proprio Pil al bilancio dell’Ue. Cifre non certo esorbitanti.Attenzione, però: si tratta di una stima, peraltro preliminare. Perché, si precisa, quello prodotto è “lo scenario di base”. Avere un’idea di cosa può significare in termini economici la piena adesione dell’Ucraina non è al momento semplice, perché sono tante le incognite, prima fra tutte i confini del Paese. Ucraina pre-conflitto o Ucraina senza Donbass?Il cambiamento nella politica di coesioneQuel che è certo è che gli Stati oggi membri perderebbero un po’ di finanziamenti in uno scenario allargato all’Ucraina. Bruegel stima che i Ventisette Paesi “riceverebbero 24 miliardi di euro in meno in finanziamenti per la coesione” rispetto alla situazione attuale, senza l’Ucraina. Il motivo di questa perdita multi-miliardaria è che l’ingresso di Kiev ridurrebbe il Reddito nazionale lordo medio pro-capite dell’Ue, che è un indicatore dell’allocazione dei fondi. Il problema non è nuovo, tanto che il gruppo di esperti della Commissione Ue ha già avvertito la Commissione stessa che in prospettiva serviranno più fondi.  Per l’Italia c’è in ballo tutta la partita del Mezzogiorno e i fondi a sostegno del Sud. Non certo una cosa da poco.Cosa può ottenere l’UcrainaAl netto dell’ingresso nell’Unione europea, l’Ucraina da questa membership può avere ritorni certamente economici. In particolare, secondo i calcoli preliminari, Kiev otterrebbe 32 miliardi di euro in pagamenti per la politica di coesione, 85 miliardi di euro in pagamenti per la Politica agricola comune (Pac) e 7 miliardi di euro in pagamenti da altri programmi dell’Ue (tutti i numeri sono a prezzi correnti e si riferiscono all’intero Mff 2021-2027). La spesa per la pubblica amministrazione europea potrebbe aumentare di 4 miliardi di euro, mentre l’Unione europea risparmierebbe circa 2 miliardi di euro sui fondi attualmente destinati ai suoi vicini. I vantaggi per l’UeUn’Unione europea più grande, con l’Ucraina al proprio interno farebbe certamente il bene di Kiev. Ma cosa guadagna l’Ue da questo allargamento? Bruegel risponde anche a questo. In primo luogo l’integrazione dei lavoratori ucraini nei mercati del lavoro dell’UE ridurrebbe la drammatica carenza di manodopera nell’Unione. E Inoltre l’adesione migliorerebbe la sicurezza energetica dell’Ue e potrebbe ridurre i costi energetici. Guardando le cose in ottica regionale, La presenza dell’Ucraina nell’Unione potrebbe stabilizzare il vicinato orientale dell’Ue e aumentare le capacità militari e di sicurezza dell’Ue.

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    Da Strasburgo il presidente ceco incalza i governi sull’allargamento: “Il successo dei Paesi candidati sarà anche nostro”

    Bruxelles – “L’anno prossimo segnerà il ventesimo anniversario dell’adesione all’Ue di dieci Stati membri, tra cui la Repubblica ceca. In un certo senso, abbiamo recentemente raggiunto la maggiore età come membri della famiglia europea. Non siamo né nuovi né inesperti”, ha ricordato il presidente della Repubblica Ceca Petr Pavel, durante la seduta plenaria del Parlamento europeo di oggi (4ottobre) a Strasburgo.
    Potrebbe essere di questi giorni, secondo Politico, la decisione della Commissione di iniziare i colloqui di adesione dell’Ucraina all’Unione europea a fine anno, a conferma del fatto che il tema dell’allargamento è molto discusso in questo periodo. Proprio il progetto dell’Unione europea di allargarsi ad altri Paesi europei è stato uno dei temi chiave del discorso di Pavel all’Eurocamera: “L’allargamento dovrebbe essere visto come un’opportunità per ricalibrare l’idea europea. Dovrebbe essere vista come un’opportunità per realizzare un’Unione più unificata ed efficiente. Un’Unione che resta ambiziosa e competitiva. Un’Unione più flessibile e proattiva. Un’Unione in grado di reagire rapidamente quando necessario. Un’Unione di cui siamo tutti orgogliosi”.
    Ed è proprio l’Ucraina a fornire al presidente ceco l’esempio per dimostrare l’importanza dell’allargamento, ricordando come aprire le porte dell’Ue alle zone a est può significare anche più sicurezza per i cittadini comunitari, come sta dimostrando l’invasione russa: “Ora è più evidente che mai che la garanzia della pace non può limitarsi solo ai nostri confini. Sono infatti convinto che tutti i paesi dei Balcani occidentali e del Trio associato debbano perseguire una piena prospettiva europea. Non è solo un nostro dovere morale. Nel lungo termine, si tratta di un investimento nella sicurezza e nella resilienza dell’Europa e dei suoi cittadini. Abbiamo già perso troppo tempo. È nel nostro interesse che i paesi candidati abbiano successo. Il loro successo sarà il nostro stesso successo“, ha aggiunto. L’allargamento è il processo che consente agli Stati di aderire all’Unione europea, dopo che questi hanno soddisfatto una serie di condizioni politiche ed economiche. Qualsiasi Stato europeo che rispetti i valori democratici dell’Unione e si impegni a promuoverli può presentare domanda di adesione all’Ue. Nel 2004 si è compiuta la più grande fase di allargamento della storia dell’Unione europea, che ha visto l’adesione di dieci Paesi: Polonia, Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Cipro e Malta.

    A vent’anni dall’ingresso della Repubbblica Ceca nell’Unione europea, Petr Pavel ha ricordato di fronte all’Eurocamera che allargare i confini ad altri Stati è “un’opportunità”

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    Turchia, veto dell’Europarlamento: “Processo di adesione non può riprendere”

    Bruxelles – Adesione della Turchia all’Unione europea? No. Dal Parlamento Ue arriva un chiaro stop alle ambizioni comunitarie di Ankara. “Il processo di adesione non può riprendere nelle circostanze attuali“, stabilisce la commissione Affari esteri nel parere adottato a larga maggioranza (49 favorevoli, 10 astenuti, nessun contrario). Un voto che rappresenta una vera e propria bocciatura del modello Erdogan, visto che il veto degli europarlamentari può essere rimosso “a meno che non ci sia un drastico cambio di rotta da parte del governo turco”.
    L’invito, per entrambe le parti impegnate nel non semplice negoziato, è esplorare formule alternative di cooperazione quale “un partenariato più stretto”, o “un quadro parallelo e realistico per le relazioni UE-Turchia”.
    Il voto parlamentare irrompe nell’agenda del consiglio Affari esteri. I Ventisette ministri si ritroveranno a Bruxelles giovedì (20 luglio) per discutere, tra le altre cose, anche delle relazioni con Ankara. Non affiora, per il momento, la possibilità di una ripresa del processo di adesione, avviato nel 2005 ma congelato dal 2018. La linea scelta, fanno sapere a Bruxelles, è “continuare a ricercare progressi nei settori in cui possibile”, perché anche in Consiglio si sposa la tesi avallata oggi dagli eurodeputati: “Date le attuali circostanze i negoziati di adesione di Turchia si sono fermati”.
    L’espressione della commissione Affari esteri dell’europarlamento dunque invita gli Stati membri a non cedere, non cambiare idea, non fare concessioni. “Recentemente abbiamo assistito a un rinnovato interesse da parte del governo turco nel rilanciare il processo di adesione all’Ue, ma ciò non accadrà a seguito di contrattazioni geopolitiche”, scandisce Nacho Sánchez Amor (S&D), relatore del parere approvato, in riferimento al tentativo di Ankara di legare l’adesione della Svezia alla Nato con lo sblocco del processo di adesione all’Ue della Turchia. “Quando le autorità turche mostreranno un reale interesse a fermare il continuo regresso nelle libertà fondamentali e nello stato di diritto” allora l’Ue potrà rivedere le proprie posizioni.

    L’invito in vista della riunione dei ministri degli Esteri. Ragionare a “un partenariato più stretto” o a “un quadro parallelo e realistico per le relazioni UE-Turchia”

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    Zelensky all’Ue: “Avvio negoziati adesione quest’anno, il 2023”

    Bruxelles – Fare il possibile per permettere l’avvio dei negoziati di adesione dell’Ucraina all’Ue entro la fine dell’anno. Volodymir Zelensky, tra le richieste ai capi di Stato e di governo dei Ventisette e ai presidenti delle istituzioni comunitarie, presenta quelle relative al futuro politico del suo Paese. Il presidente ucraino ringrazia per quanto fatto finora, il riconoscimento dello status di candidato è un certamente un passo avanti anche più che gradito. Adesso però si vorrebbe evitare di attendere troppo a lungo. ” Vorremmo molto l’avvio di questi negoziati quest’anno, il 2023, per motivare noi stessi” ma soprattutto “per motivare il nostro esercito” impegnato a rispondere all’aggressione dell’armata russa.
    Zelensky è consapevole del procedimento e delle sue tappe, e sa che occorre innanzitutto attendere il risultato delle raccomandazioni che la Commissione europea dovrà produrre nei prossimi mesi. Ma, e lo ribadisce con forza nel corso della conferenza stampa con i presidenti di Consiglio e Commissione Ue, “vogliamo molto l’adesione”. Dal podio della sala stampa del Consiglio europeo ricorda la situazione di un Paese e di un popolo alla prese con una guerra che “sfortunatamente va avanti”. Tenuto conto questo, “c’è bisogno di sostegno psicologico”, e un’eventuale concessione dell’avvio negoziale servirebbe non poco.
    Zelensky trova dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, la massima disponibilità. “Sappiamo che la Commissione presenterà le sue valutazioni, e farò il massimo perché il Consiglio non scappi dalle sue responsabilità”. Un lavoro di convincimento sembra servire, dato che sull’accelerazione del procedimento dell’allargamento i 27 si mostrano con idee diverse. La Lituania vorrebbe che la Commissione li raccomandi per ottobre, “così che il Consiglio possa dare il via libera entro fine anno”. L’auspicio del presidente lituano Gitanas Nauseda è condivisa dal premier irlandese, mentre il lussemburghese Xavier Bettel invita al pragmatismo. “Non promettiamo ciò che non siamo certi di poter mantenere”.

    L’appello ai leader ai presidente delle istituzioni comunitarie. “Per motivare noi stessi e per motivare il nostro esercito”

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    L’UE è al centro della “battaglia delle targhe” tra Serbia e Kosovo

    Bruxelles – Ci risiamo, si è riacceso lo scontro diplomatico tra Pristina e Belgrado. Ma questa volta, al centro della “battaglia delle targhe” dei veicoli serbi in Kosovo, c’è anche l’Unione Europea e la sua strategia di equidistanza tra le due parti. Mentre Bruxelles sta tentando la ripresa di un dialogo decennale sempre più in salita, la nuova crisi sul confine settentrionale del Kosovo sta rischiando di minare definitivamente la credibilità delle istituzioni europee nel riuscire a portare a termine questo processo di mediazione.
    A far scoppiare le tensioni nella regione è stata la decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Ieri mattina (lunedì 20 settembre) i reparti speciali di polizia sono affluiti ai valichi di confine di Jarinje, Brnjak e Merdare, dove hanno fermato automobili, ciclomotori e camion e imposto l’applicazione di targhe di prova kosovare, il pagamento di una tassa di cinque euro e la stipulazione di contratti di assicurazione. La minoranza serba in Kosovo – concentrata proprio nel nord del Paese – ha protestato con forza, anche se dai suoi rappresentanti politici è arrivato l’appello a non esasperare la tensione e attendere l’intervento delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio.
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Stando a quanto dichiarato dal premier kosovaro, Albin Kurti, a imporre il cambio di targhe automobilistiche è stato il principio di reciprocità: da tempo vige l’obbligo per gli automobilisti del Kosovo di coprire la propria targa con una temporanea rilasciata dalle autorità serbe e di pagare una tassa di due euro, una volta superato il confine. Inoltre, lo scorso 15 settembre è scaduta l’intesa sulle targhe che era stata raggiunta tra i due Paesi nell’ambito dell’accordo di Bruxelles del 2013. Ecco perché, secondo il governo di Pristina, le nuove misure non sono dirette contro la popolazione serba né mirano a destabilizzare la situazione, ma sono un semplice adeguamento alla situazione creata proprio da Belgrado. Ma il rimpallo di accuse tra le due capitali sta mettendo l’Unione Europea al centro della battaglia delle targhe.
    La posizione ‘scomoda’ dell’UE
    Proprio l’Unione Europea è impegnata in questi giorni in una missione nella regione. Il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, si è recato prima nella capitale kosovara e poi in quella serba, dove ieri pomeriggio si è confrontato con il presidente Aleksandar Vučić. “Sono preoccupato e chiedo una de-escalation immediata“, è stato il commento del rappresentante UE. “È importante ridurre le tensioni, ripristinare un’atmosfera pacifica e consentire la libertà di movimento”, ha aggiunto, sottolineando che le istituzioni europee sono “pronte a facilitare i colloqui su tutte le questioni aperte nel dialogo”.
    Prima dell’incontro, il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano, aveva invitato “entrambe le parti” a utilizzare lo strumento del dialogo mediato dall’UE per risolvere le questioni aperte, “compresa la libertà di circolazione”. Nel caso specifico della battaglia delle targhe tra Serbia e Kosovo, “ci aspettiamo che entrambi i governi promuovano un clima che conduca a una riconciliazione“, aveva precisato Stano.
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Bruxelles con la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen
    Tuttavia, da ventiquattro ore Bruxelles sta ricevendo dure critiche per il suo atteggiamento attendista. Il presidente serbo Vučić si è detto “stufo di questi appelli alle due parti”, dal momento in cui il governo di Belgrado non avrebbe fatto “nulla di male”. La parte serba inizia a scalpitare sul rispetto delle condizioni stabilite dall’accordo del 2013 che non sarebbe mai stato rispettato da Pristina: “Qualcuno in Europa deve dirci una volta per tutte se esiste ancora, la nostra pazienza non è illimitata”, ha aggiunto Vučić. Al termine di una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale, questa mattina il presidente serbo ha aggiunto che “la risposta da Bruxelles dovrà arrivare entro un mese”.
    La cosiddetta battaglia delle targhe è solo la punta di un iceberg sullo status giuridico della minoranza serba in Kosovo. Tutto nasce dal rifiuto di Pristina di realizzare una misura che ritiene contraria alla sua Costituzione, vale a dire la Comunità delle municipalità serbe in Kosovo. L’associazione delle enclave serbe è prevista proprio dall’accordo dell’aprile 2013, che da allora è rimasta però solo sulla carta: per il governo kosovaro si tratterebbe di una “fase preliminare” della creazione di una nuova Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina). Belgrado insiste invece sul rispetto dei trattati: “Un silenzio europeo significherà che l’accordo di Bruxelles non esiste più e che non vogliono la creazione della Comunità delle municipalità serbe”, ha attaccato il presidente Vučić.
    La questione ha evidenti conseguenze sull’intero processo di mediazione facilitato dall’UE, che sarebbe dovuto riprendere a settembre a Bruxelles con un nuovo incontro tra Kurti e Vučić. “La condizione per continuare il dialogo è il ritiro di tutte le formazioni armate dal nord del Kosovo“, ha dichiarato il presidente serbo. “Solo dopo il ritorno allo status quo ci recheremo a Bruxelles”, è stata la precisazione da Belgrado. Se l’Unione Europea non cambierà atteggiamento, dimostrando che esistono ancora margini per rispettare le promesse fatte in questi anni, sarà sempre più difficile superare gli ostacoli sulla strada della normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo.

    I briefed EU HoMs on the situation in the north of Kosovo. I’m concerned & call for immediate deescalation. It’s important to reduce tensions, restore a peaceful atmosphere & allow for freedom of movement. We stand ready to facilitate talks on all open issues in the Dialogue. pic.twitter.com/2HvqC0ldmS
    — Miroslav Lajčák (@MiroslavLajcak) September 21, 2021

    Bruxelles ha invitato “entrambe le parti” alla moderazione e al ripristino della libertà di circolazione alla frontiera. Ma il governo di Belgrado protesta e chiede entro un mese una risposta sul rispetto degli accordi del 2013