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    Il premier croato Plenković indica all’UE la “cifra storica” del nuovo millennio: “Le nostre democrazie contro le autocrazie”

    Bruxelles – Democrazie contro autocrazie, “questa è la cifra storica del momento in cui viviamo”. Nel suo intervento alla mini-sessione plenaria del Parlamento UE a Bruxelles, il premier della Croazia, Andrej Plenković, è stato particolarmente chiaro nell’illustrare la posizione che l’Unione deve continuare a portare avanti nell’approccio alla guerra russa in Ucraina e sul piano della dimensione esterna: “Siamo all’apice degli standard globali di democrazia, dobbiamo prendere la leadership della difesa e della promozione dei valori fondamentali, soprattutto nei confronti dei nostri vicini”.
    Il primo ministro della Croazia, Andrej Plenković, alla plenaria del Parlamento UE a Bruxelles (22 giugno 2022)
    Considerando lo “stravolgimento dell’ordine internazionale” provocato dall’invasione russa dell’Ucraina, il premier croato ha iniziato la propria analisi dalle cause che l’hanno determinato. “Mosca ha rilevato e interpretato una serie di debolezze dell’Occidente nel contesto generale“, che vanno dall’abbandono dell’Afghanistan “nel modo non più decoroso possibile” alla Brexit, passando dalla svolta politica epocale in Germania e gli appuntamenti elettorali in Francia: “Su scala più grande, la Russia si è comportata nello stesso modo del 2008, quando dopo le Olimpiadi di Pechino ha invaso la Georgia”, in un parallelismo con l’aggressione militare dell’Ucraina iniziata dopo la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi invernali di febbraio, sempre a Pechino.
    Ma nel 2022 “abbiamo assistito a un’enorme mobilitazione internazionale” a favore dell’Ucraina, che come ultimo stadio sta portando i Ventisette – e la Croazia “senza ambiguità” – a sostenere la richiesta di adesione di Kiev all’UE: “C’è una posizione comune sul riconoscimento, che sarà confermata al Consiglio di domani“, ha confermato il premier Plenković. Ma Zagabria è tra gli avanguardisti dell’allargamento dell’Unione: “Sosteniamo anche il conferimento dello status a Moldova e Georgia, perché la scelta di offrire la prospettiva europea è un’evoluzione politica cruciale per l’architettura del nostro continente“, o, in altre parole “una svolta enorme nel dibattito sull’Europa e nei confronti di Paesi che ancora non appartengono all’Unione”.
    E proprio su questo punto il premier della Croazia non ha nascosto che l’UE deve lavorare di più sul piano dell’allargamento ai Balcani Occidentali, in particolare nei confronti della Bosnia ed Erzegovina: “Siamo a favore del riconoscimento dello status di Paese candidato all’adesione anche per Sarajevo, non può essere l’ultima ruota del carro, sarebbe ingiustizia storica“, ha attaccato Plenković. Il tema è delicato e coinvolge direttamente i principi-cardine del processo di adesione all’UE (a cui la Bosnia non si è ancora pienamente allineata). Per questo motivo non sono attesi particolari passi in avanti al vertice UE-Balcani Occidentali in programma a Bruxelles appena prima dell’inizio del Consiglio, anche se la Slovenia – sostenuta da Zagabria – dovrebbe presentare una proposta per allineare Sarajevo a Kiev e Chișinău.
    La spinta in avanti di Zagabria deriva anche dal suo “approccio moderno alla sovranità“, come l’ha definito Plenković, ovvero una politica che mira a “raggiungere i nostri obiettivi nazionali, ma lavorando strettamente insieme ai partner e agli amici europei, superando le difficoltà attraverso la solidarietà comune che ci contraddistingue“. Un approccio che ha permesso a “un Paese che è stato riconosciuto a livello internazionale solo 30 anni fa” di continuare a promuovere “la nostra scelta europea”. È così che la Croazia è riuscita non solo ad aderire all’UE nel 2013, ma anche a “rispettare gli obiettivi economici e finanziari per diventare il 20esimo membro dell’Eurozona“. Dal primo gennaio del 2004 Zagabria riuscirà a realizzare “l’obiettivo di più profonda integrazione”, cioè l’adozione della moneta unica. “Ora attendiamo anche l’ingresso nell’area Schengen”, ha esortato Parlamento e Consiglio il premier croato.
    Nell’ottica della sovranità strategica dell’Unione Europea – un’altra forma di “approccio moderno alla sovranità”, per usare le parole di Plenković – la Croazia può rappresentare “un hub energetico da rafforzare, grazie alla nostra posizione geostrategica”. Zagabria sta potenziando un terminale di gas naturale liquefatto (GNL) “portandolo da 2,9 milioni a 6 milioni di metri cubi, con investimenti che serviranno non solo per la nostra economia, ma potenzialmente anche per Bosnia, Slovenia e Ungheria”. Inoltre, “l’oleodotto nell’Adriatico del Nord potrebbe rifornire anche le raffinerie in Serbia e in Slovacchia”, ha sottolineato il primo ministro croato. Gli investimenti in gasdotti, oleodotti e terminali GNL si iscrivono nella strategia di “diventare indipendenti dalle fonti fossili della Russia, garantendo la sicurezza di approvvigionamento energetico ai nostri cittadini e imprese attraverso reti energetiche europee“, per riprendere a una crisi da cui “nessuno rimarrà immune”, ha concluso il suo intervento il premier Plenković.

    Nel suo intervento alla sessione plenaria del Parlamento Europeo, il primo ministro della Croazia ha esortato l’Unione a “promuovere la leadership anche nella sfera esterna” e a riconoscere lo status di Paese candidato all’adesione a Ucraina, Moldova, Georgia e Bosnia ed Erzegovina

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    Serbia e Kosovo hanno raggiunto a Bruxelles un’intesa per l’attuazione degli accordi in ambito energetico

    Bruxelles – Piccoli passi di disgelo sulla strada del dialogo Pristina-Belgrado facilitato dall’UE. I negoziati a livello tecnico condotti oggi (martedì 21 giugno) a Bruxelles tra i capi-negoziatori di Kosovo, Besnik Bislimi, e Serbia, Petar Petković, hanno prodotto un’intesa per una tabella di marcia che fissa obiettivi specifici per l’attuazione degli Accordi sull’energia del 2013 e del 2015, finora attuati solo parzialmente.
    Come rilevato dal Servizio per l’azione esterna dell’UE (SEAE), l’importanza di questa intesa sulla roadmap per l’energia riguarda il fatto che i due accordi siglati da Serbia e Kosovo presentavano “elementi rilevanti ancora in sospeso”. Dopo mesi di tensione tra Pristina e Belgrado, questo primo – parziale – gesto di riavvicinamento è considerato da Bruxelles “un passo avanti nella normalizzazione delle relazioni, a beneficio di tutti i cittadini“, che dovrebbe dare la spinta per “compiere progressi in tutte le altre attività di attuazione ancora in sospeso”. Tra queste c’è anche quella relativa alla creazione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, vale a dire una comunità di municipalità kosovare a maggioranza serba a cui dovrebbe essere garantita una maggiore autonomia, e che al momento Pristina non vuole riconoscere (non rispettando così l’accordo del 2013).

    Good news from the #Brussels-led 🇽🇰 – 🇷🇸 #Dialogue.
    After the year of tensions, we’ve a concrete Action Plan on the implementation of 2013 Energy provisions that will facilitate the energy situation in North of Kosovo. Full trust in @MiroslavLajcak to keep up with the progress. https://t.co/WBV0vPVRFr
    — Viola von Cramon (@ViolavonCramon) June 21, 2022

    L’ottimismo di Bruxelles non è ingiustificato, dal momento in cui l’intesa sull’energia siglata tra Serbia e Kosovo riguarda proprio uno dei punti più controversi del rapporto tra i due Paesi balcanici: la fornitura di elettricità alle municipalità a maggioranza serba in Kosovo. L’accordo garantisce a Elektrosever (società di proprietà serba stabilita in Kosovo e soggetta alla legge kosovara) di operare nelle quattro municipalità settentrionali, “aprendo la strada verso la fine dell’attuale pratica non trasparente e non regolamentata“. Il segretariato della Comunità dell’Energia sarà incaricato di monitorare l’attuazione tecnica dell’accordo commerciale tra Elektrosever e KEDS, la società kosovara di distribuzione dell’energia. Dal 2008 – dopo la dichiarazione d’indipendenza unilaterale del Kosovo dalla Serbia – queste quattro municipalità hanno goduto di un regime non legale di gratuità dalle bollette dell’energia elettrica, il cui deficit è stato coperto fino al 2017 dai contribuenti del resto del Paese e che ha aperto la strada fino all’inizio di quest’anno a un’intensa attività di estrazione di criptovalute.
    Particolare soddisfazione per l’accordo tra Serbia e Kosovo sulla tabella di marcia per l’energia è stata espressa dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al termine di una conversazione telefonica con il premier kosovaro, Albin Kurti, e con il presidente serbo, Aleksandar Vučić: “Si tratta di un grande e importante passo in avanti nel dialogo facilitato dall’UE e porterà a risultati concreti per tutti i cittadini”, ha ribadito Borrell, dicendosi “fiducioso” di continuare a lavorare sui prossimi obiettivi dell’intesa tra i due Paesi.

    Spoke to @avucic and @albinkurti to congratulate them on reaching an agreement on the energy roadmap today.
    This is a big & important step forward in the EU-facilitated Dialogue and will deliver concrete results for all citizens. We look forward to continue working on next steps https://t.co/5r2jS0SX8n
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) June 21, 2022

    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    All’interno del dialogo facilitato dall’Unione Europea, i capi-negoziatori di Pristina e Belgrado hanno concordato la tabella di marcia che specifica anche obblighi e diritti per la fornitura di elettricità alle quattro municipalità settentrionali del Kosovo a maggioranza serba

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    Decine di migliaia di persone hanno manifestato in Georgia a favore dell’adesione all’Unione Europea

    Bruxelles – Un movimento dal basso per spingere i leader dell’Unione Europea a riconoscere anche alla Georgia i “meriti” per il conferimento dello status di Paese candidato all’adesione UE. Ieri sera (lunedì 20 giugno) nella capitale Tbilisi è andata in scena una grande manifestazione di decine di migliaia di persone – oltre 60 mila secondo i gruppi organizzatori – che ha esortato Bruxelles a garantire all’ex-Repubblica sovietica del Caucaso qualcosa di più della sola “prospettiva europea”.
    La ‘marcia per l’Europa’ è stata organizzata a pochi giorni dal parere formale della Commissione UE sulla richiesta di adesione  arrivata dalla Georgia il 3 marzo scorso. Il gabinetto guidato da Ursula von der Leyen ha riconosciuto le stesse aspirazioni di Ucraina e Moldova – a cui secondo la Commissione dovrebbe essere garantito lo status di candidate all’adesione – e “buone basi per la stabilità”, ma allo stesso tempo ha rilevato la necessità di “ulteriori riforme su una lista di priorità”, aveva spiegato venerdì (17 giugno) il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi.
    Le preoccupazioni di Bruxelles riguardano la polarizzazione politica, lo stato delle riforme giudiziarie, dei progressi sulla lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata, l’indipendenza dei media e la sicurezza dei giornalisti, ma soprattutto sul potere degli oligarchi. Tra questi, in particolare, quello di Bidzina Ivanishvili, leader del partito al governo Sogno Georgiano (di cui fa parte anche l’ex-calciatore del Milan, K’akhaber K’aladze, oggi sindaco di Tbilisi), che per il suo controllo capillare dei media e della politica nazionale è sotto l’occhio delle istituzioni comunitarie: il 7 giugno il Parlamento UE ha approvato una risoluzione non vincolante che chiede l’imposizione di sanzioni personali proprio contro Ivanishvili. Secondo la presidente della Commissione von der Leyen, “la porta dell’Unione è totalmente aperta e le tempistiche dell’adesione dipendono solo dalla Georgia“, anche se per il momento la raccomandazione ai leader UE (che si riuniranno in Consiglio il 23-24 giugno) è quella di garantire solo la prospettiva di diventare membro dell’Unione, fino a quando non saranno soddisfatte tutte le priorità.
    Sulle note dell’Inno alla Gioia – l’inno ufficiale dell’UE – e con in mano cartelli con la scritta We are Europe, i manifestanti si sono radunati davanti alla sede del Parlamento georgiano, sventolando bandiere bianche e rosse delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu (dell’Unione Europea). “L’Europa è una scelta e un’aspirazione storica per i georgiani, per la quale tutte le generazioni hanno fatto sacrifici“, hanno dichiarato gli organizzatori, ribadendo che “libertà, pace, sviluppo economico sostenibile, protezione dei diritti umani e giustizia sono i valori che ci uniscono e che sarebbero garantiti dall’integrazione nell’Unione Europea”. Prima della manifestazione, la presidente georgiana, Salomé Zourabichvili, ha chiamato a raccolta i cittadini in un discorso alla televisione nazionale: “Dobbiamo mobilitarci in questa giornata storica per il Paese, il nostro messaggio è che vogliamo una Georgia europea“.

    One of the largest demonstrations in Tbilisi of last 30 years, in support of EU aspirations and against the government at home. pic.twitter.com/MgyVhnMK0Z
    — Ani Chkhikvadze (@achkhikvadze) June 20, 2022

    È stata la stessa presidente Zourabichvili a inviare oggi (martedì 21 giugno) un invito all’omologo polacco, Andrzej Duda, per esortare la nazione “sorella” membro dell’UE a spingere sulla concessione alla Georgia dello status di Paese candidato all’adesione UE al prossimo Consiglio. “Condividiamo un tragico passato comune, di occupazione, di allontanamento dalla famiglia europea“, ha ricordato la leader georgiana, facendo riferimento ai tempi in cui i due Paesi erano Repubbliche sovietiche. Allo stesso modo, “in questo momento contiamo, come sempre, sulla solidarietà e la fratellanza della Polonia per sostenere il nostro cammino verso l’Europa“.
    La Georgia confina a nord con la Russia e ha chiesto di aderire all’Unione Europea a pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, temendo che il disegno del “nuovo mondo” di Putin possa cancellare anche la propria indipendenza (datata 9 aprile 1991, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica). La candidatura della Georgia all’adesione UE e NATO – sancita dalla Costituzione nazionale – da tempo è causa di tensioni con il Cremlino, che nell’agosto del 2008 aveva portato all’invasione (per cinque giorni) della Georgia da parte dell’esercito russo. Da allora Mosca riconosce i territori separatisi dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia come Stati indipendenti e ha dislocato migliaia di soldati nell’area, per aumentare la propria sfera d’influenza nella regione della Ciscaucasia.
    In un percorso di avvicinamento verso l’Unione Europea, nel 2016 è entrato pienamente in vigore (dopo due anni di provvisorietà) l’Accordo di associazione politica ed economica tra Bruxelles e Tbilisi. La Georgia è anche inclusa dal 2009 nel Partenariato orientale, il programma di integrazione tra l’Unione i Paesi di quest’area geopolitica, insieme a Ucraina, Repubblica di Moldova, Armenia, Azerbaijan e Bielorussia (anche se nel giugno del 2021 quest’ultima ha sospeso l’adesione). Tuttavia, nessuna delle due intese ha come obiettivo o come clausola l’adesione della Georgia all’UE e solo il via libera del Consiglio Europeo potrà aprire la strada verso la candidatura all’adesione.

    My address to President @AndrzejDuda.
    Georgia and Poland share a tragic common past, a past of occupation, of being torn away from the European family. At this time, we count, as always, on the support, solidarity, brotherhood of Poland to support our path toward Europe. pic.twitter.com/06qYbtzPij
    — Salome Zourabichvili (@Zourabichvili_S) June 20, 2022

    La ‘marcia per l’Europa’ a Tbilisi ha esortato i Ventisette a concedere lo status di Paese candidato, dopo che la Commissione ha indicato la necessità di “un’attenta valutazione”. Ma i gruppi europeisti spingono sulla “scelta storica e aspirazione del popolo georgiano”

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    Ucraina e Moldova “meritano lo status di Paesi candidati all’adesione UE”. Per la Georgia serve un’attenta valutazione

    Bruxelles – Giacca gialla e camicia azzurra, i colori della bandiera ucraina. Che il 17 giugno rappresenti una data decisiva per il processo di allargamento dell’Unione Europea lo si capisce già dall’abbigliamento scelto dalla presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, per presentare i pareri formali dell’esecutivo comunitario sul conferimento dello status di Paese candidato di adesione all’UE: Ucraina e Repubblica di Moldova subito, Georgia dopo “un’attenta valutazione”. A soli cento giorni dal via libera degli ambasciatori dei Ventisette, il gabinetto von der Leyen ha affidato al Consiglio il compito di decidere (all’unanimità) come e secondo quali tappe dovrà procedere il processo che in prospettiva potrebbe portare nell’Unione tre nuovi membri. A Kiev e Chișinău dovrebbe essere garantito subito lo status di Paese candidato, mentre Tbilisi dovrà lavorare su una serie di priorità, ma con il riconoscimento della prospettiva europea.
    Il collegio dei commissari riunito il 17 giugno 2022 per deliberare i pareri formali sulle richieste di adesione UE di Ucraina, Moldova e Georgia
    “Abbiamo certificato in modo accurato i meriti di ciascun Paese che ha fatto richiesta, secondo i criteri politici, economici e di capacità di assumersi gli obblighi derivanti dall’adesione, come previsto dall’acquis comunitario”, ha esordito la presidente von der Leyen in conferenza stampa. Tutte le attenzioni sono per l’Ucraina, per cui la Commissione raccomanda la prospettiva di diventare membro dell’UE e di concedere lo status di candidato all’adesione, “a condizione che vengano compiute riforme importanti in una serie di settori”, tra cui quello giudiziario, sulla lotta alla corruzione, sulla legislazione anti-oligarchi e su quella per la tutela delle minoranze. In ogni caso, “il popolo ucraino ha dimostrato chiaramente l’aspirazione e la determinazione ad aderire ai valori e standard europei, anche prima della guerra“, ha sottolineato la leader dell’esecutivo comunitario, mettendo in risalto i punti di forza: stabilità delle istituzioni, Stato di diritto, funzionamento della pubblica amministrazione, decentralizzazione, stabilità macroeconomica e finanziaria, sistema elettorale libero ed equo. “Sì, gli ucraini meritano la prospettiva europea e di essere accolti come candidati, ora devono avere il futuro nelle proprie mani”, è stato il “chiaro messaggio” di von der Leyen.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen (17 giugno 2022)
    Come per l’Ucraina, la Commissione raccomanda al Consiglio di riconoscere alla Moldova la prospettiva di diventare membro dell’Unione e lo status di candidato all’adesione UE, sempre secondo i “meriti che devono accompagnare questo processo” soprattutto sul piano delle riforme economiche fondamentali. Nonostante le difficoltà interne per il separatismo della Transnistria, Chișinău “dispone di solide basi” su democrazia e Stato di diritto e ha registrato “progressi nel rafforzamento del settore finanziario e del contesto imprenditoriale”, che garantiscono un “sostanziale avvicinamento” alle condizioni richieste dall’ingresso nel Mercato Unico.
    Leggermente diversa è la situazione della Georgia, che ha sì “le stesse aspirazioni” di Ucraina e Moldova e “buone basi per la stabilità”, ma “sono necessarie ulteriori riforme su una lista di priorità che abbiamo evidenziato“, ha spiegato il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi: “Fine della polarizzazione politica, riforme giudiziarie, progressi sulla lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata, indipendenza dei media e sicurezza dei giornalisti”. Come ha sottolineato la presidente von der Leyen, “la porta è totalmente aperta e le tempistiche dipendono dalla Georgia“, ma per il momento la Commissione raccomanda al Consiglio di garantire solo la prospettiva di diventare membro dell’UE, fino a quando non saranno soddisfatte tutte le priorità.
    Le tappe del processo di adesione UE
    Le tre richieste per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione UE erano arrivate tutte nel corso della prima settimana di guerra della Russia in Ucraina, tra lunedì (28 febbraio) e giovedì (3 marzo): la prima era stata l’Ucraina, seguita a ruota da Georgia e Moldova. Gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) avevano concordato quattro giorni più tardi di invitare la Commissione Europea a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione, da inviare poi ai leader UE. L’8 aprile a Kiev von der Leyen aveva consegnato al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, il questionario per il processo di elaborazione del parere dell’esecutivo comunitario sulla richiesta di adesione, così come aveva fatto tre giorni più tardi il commissario Várhelyi per Georgia e Moldova. “Tutti i questionari sono stati compilati autonomamente, noi abbiamo dato supporto tecnico per non perdere tempo“, ha spiegato lo stesso commissario europeo, ricordando che “abbiamo usato anche i nostri dati, senza chiedere cose che già sapevamo”.
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’UE (Ucraina, Georgia e Moldova, in questo caso), è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen, ovvero le basilari condizioni democratiche, economiche e politiche (istituzioni stabili, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, economia di mercato, capacità di mantenere l’impegno). Ottenuto il parere positivo della Commissione, si può arrivare o alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione – un accordo bilaterale tra UE e Paese richiedente, utilizzato in particolare per i Balcani Occidentali, a cui viene offerta la prospettiva di adesione – o direttamente il conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio UE di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.
    Oltre alle candidature di Moldova, Georgia e Ucraina, il processo di allargamento UE coinvolge già i sei Paesi dei Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – e la Turchia, i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord è bloccato dal 2018 prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello attuale della Bulgaria contro Skopje (dalla fine del 2020). La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016, mentre il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione.
    La situazione dello stallo del processo di allargamento nella regione sarà al centro delle discussioni del prossimo vertice UE-Balcani Occidentali, in programma a Bruxelles giovedì prossimo (23 giugno), ma nella sede della Commissione non si respira un clima positivo: “Non sono a conoscenza di quadri negoziali tra Macedonia del Nord e Bulgaria, ma solo di un blocco di cui non sono per niente soddisfatto”, ha commentato seccamente il commissario Várhelyi. Per quanto riguarda il processo della Bosnia ed Erzegovina – che sarebbe sorpassata da destra da Ucraina e Moldova – “stiamo aspettando che il Paese soddisfi le 14 priorità già presentate nella nostra opinione al Consiglio“, perché “se le rinegoziassimo, mineremmo la credibilità del processo di allargamento“, ha puntualizzato il titolare della Politica di allargamento dell’esecutivo comunitario.

    È quanto emerge dai pareri formali della Commissione UE sulle richieste di Kiev e Chișinău, che passeranno al tavolo del Consiglio Europeo. A Tbilisi dovrebbe essere garantita la prospettiva di diventare Paese membri, ma serviranno forti riforme politiche, economiche e sociali

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    Il Parlamento UE non demorde sull’integrazione dei Balcani. Ma avverte Serbia e Bosnia di allinearsi alle sanzioni contro la Russia

    Bruxelles – Nonostante le difficoltà, i ritardi e gli stalli, il Parlamento Europeo non si stanca di ribadire la necessità per tutta l’UE di accelerare il processo di adesione dei Balcani Occidentali. Lo confermano tutte le relazioni sullo stato di avanzamento dell’integrazione europea nei sei Paesi della regione ancora esclusi dall’Unione, comprese le ultime tre votate oggi (martedì 14 giugno) in commissione Affari esteri (AFET). Relazioni che partono dal Pacchetto Allargamento 2021 presentato dalla Commissione Europea nell’ottobre dello scorso anno, analizzando la situazione specifica sia sul piano della tendenza generale sia delle ultime novità politiche e sociali.
    In attesa del voto in sessione plenaria previsto per l’inizio di luglio, la commissione AFET ha completato il suo lavoro, dando il via libera alle relazioni su Bosnia ed Erzegovina, Kosovo e Serbia. Per quanto riguarda la situazione in Bosnia ed Erzegovina, è stata sottolineata la necessità di mettere fine allo stallo politico fatto di retorica d’odio e di ritiro dalle istituzioni statali da parte delle autorità della Republika Srpska. Così come è emerso domenica (12 giugno) dall’accordo di Bruxelles, è necessaria una svolta rispetto alla “mancanza di volontà politica nei negoziati sulle riforme costituzionali ed elettorali” prima delle elezioni generali del prossimo autunno, ha sottolineato il relatore Paulo Rangel (PPE). Ma per la tenuta democratica del Paese e per il percorso sulla strada dell’Unione è cruciale anche che Sarajevo “attui le sanzioni dell’UE contro la Russia a cui si è allineato”, considerato soprattutto il “continuo interesse” di Mosca nella destabilizzazione del più fragile tra tutti i Paesi dei Balcani Occidentali.
    E a proposito di sanzioni contro la Russia, è la Serbia a essere richiamata all’impegno di sposare la politica estera dell’Unione. Gli eurodeputati si sono detti “rammaricati” della resistenza di Belgrado ad allinearsi alle misure contro il Cremlino, in particolare il relatore Vladimír Bilčík (PPE): “Dopo le elezioni dell’aprile 2022 e la guerra di aggressione della Russia, è mio sincero desiderio che i nostri partner comprendano il senso di urgenza nell’andare avanti nel loro percorso europeo”. La relazione riconosce che per la Serbia l’adesione all’UE continua a essere l’obiettivo strategico, tuttavia non può essere nascosto il fatto che sia l’unico dei sei Paesi dei Balcani Occidentali ad aver fatto “passi indietro” sulle tappe fondamentali di avvicinamento all’Unione. Serve un cambio di passo nella lotta contro la disinformazione e la propaganda russa – agevolata da un rapporto particolarmente stretto tra Mosca e Belgrado – ma anche progressi in materia di Stato di diritto, diritti fondamentali, libertà di espressione, rafforzamento del pluralismo dei media e normalizzazione delle relazioni con il Kosovo.
    È quest’ultimo, da più di dieci anni, uno dei temi più urgenti di tutta la regione. La relazione a firma Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/ALE) riconferma il sostegno “inequivocabile” al dialogo Belgrado-Pristina facilitato dall’UE, ribadendo l’importanza di raggiungere un accordo di normalizzazione “completo e giuridicamente vincolante”, in cui comunque l’indipendenza di Pristina è considerata “irreversibile”. Gli eurodeputati mostrano particolare apprezzamento per la “maggiore stabilità politica” e il forte impegno del Kosovo per diventare “un partner molto affidabile, profondamente ancorato all’alleanza europea e transatlantica“, anche per l’allineamento sulle sanzioni contro la Russia e la solidarietà espressa nei confronti dell’Ucraina. Le critiche sono invece tutte per il Consiglio e per sette Paesi membri. Non solo i cinque che non ne riconoscono l’indipendenza (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) – che sono stati invitati a farlo “immediatamente” – ma anche Francia e Paesi Bassi, a cui la relatrice si è rivolta direttamente: “Spero davvero che questo sia l’ultimo rapporto che menziona il fallimento di non aver mantenuto la promessa di fornire ai cittadini del Kosovo l’esenzione dal visto, attesa da tempo”.
    Montenegro, Albania e Macedonia del Nord
    Oltre alle tre relazioni approvate oggi, la commissione AFET si è già espressa il mese scorso sullo stato di avanzamento del percorso verso l’UE degli altri tre Paesi dei Balcani Occidentali. La relazione sul Montenegro sarà votata alla mini-sessione plenaria del Parlamento Europeo della settimana prossima (22-23 giugno) e metterà l’accento sulla priorità per Podgorica di portare avanti le riforme elettorali e giudiziarie e la lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione. Se è vero che il Montenegro rimane impegnato verso l’integrazione europea, nessuno dei 33 capitoli negoziali è stato chiuso e questo rallenta il bilancio positivo del Paese balcanico allo stadio più avanzato nel processo di adesione all’UE. “Ci auguriamo che il nuovo governo non si trovi ad affrontare i problemi del precedente”, ha sottolineato il relatore Tonino Picula (S&D), facendo riferimento al “clima polarizzato” nella politica nazionale, che potrà essere affrontato dai partiti pro-europei che formano l’esecutivo di minoranza guidato da Dritan Abazović. Alla luce della “continua influenza dei partiti e delle narrative politiche filo-russe” e del crescente volume di campagne di disinformazione di Russia e Cina – “anche attraverso la strumentalizzazione degli istituti religiosi” – la relazione incoraggia la Commissione UE a valutare un’assistenza economica e finanziaria per i Paesi dei Balcani Occidentali che hanno aderito alle sanzioni dell’Unione, come ha fatto il Montenegro.
    Per quanto riguarda Albania e Macedonia del Nord, le relazioni del Parlamento UE sono già state votate alla mini-sessione plenaria del 18-19 maggio ed entrambe hanno posto l’accento sull’urgenza di avviare i negoziati di adesione all’UE in seno al Consiglio UE, sbloccando lo stallo del veto bulgaro. “Il mancato intervento potrebbe avere implicazioni di sicurezza storicamente importanti per la stabilità dell’Europa“, è l’allarme lanciato dagli eurodeputati. Entrambi i Paesi hanno soddisfatto tutte le condizioni richieste da Bruxelles, ma il temporeggiare dei Ventisette “ha minato l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dell’Unione”. È per questo che Bulgaria e Macedonia del Nord devono risolvere “rapidamente” le questioni bilaterali in sospeso – o quantomeno affrontare la disputa storico-culturale “separatamente dal processo di adesione” – sfruttando il rinnovato impegno della Francia di Emmanuel Macron. Sbloccare i negoziati è un dovere dell’UE nei confronti della Macedonia del Nord, considerato il fatto che Skopje “detiene il miglior record di transizione democratica nella regione dei Balcani Occidentali”, sottolinea la relazione a firma del deputato bulgaro Ilhan Kyuchyuk (Renew Europe). Questo risultato è il frutto del lavoro sullo Stato di diritto, ma anche dell’allineamento alla politica estera di Bruxelles, come ha dimostrato la chiusura dello spazio aereo (con Montenegro e Bulgaria) al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, una settimana fa. Tuttavia, esistono rischi di una “crescente dipendenza economica ed energetica dalla Russia e dalla Cina”, a partire dalla dipendenza dai prestiti di Pechino.
    Lo stallo sui negoziati di adesione sembra ancora più paradossale se si considera la situazione dell’Albania, vincolata dallo stesso pacchetto della Macedonia del Nord. Già tra il 2018 e il 2019 il dossier macedone-albanese si era bloccato in Consiglio per l’opposizione di Francia, Danimarca e Paesi Bassi – con la richiesta di implementare le riforme strutturali dei due Paesi – ma dopo il via libera della primavera del 2020 sembrava che tutto fosse pronto per il cammino di adesione di Tirana (e di Skopje) nell’Unione. Come sottolineato dalla relazione del Parlamento Europeo, l’Albania ha continuato a mostrare un “impegno incrollabile verso l’integrazione europea” e a intensificare gli sforzi su Stato di diritto, economia e democrazia, nonostante il veto del Consiglio non la riguardi direttamente. Il Paese “rimane un partner strategico pienamente affidabile e impegnato”, ha ribadito con forza la relatrice Isabel Santos (S&D), che ha esortato i Ventisette a compiere un passo che non hanno avuto il coraggio di fare per quattro anni. Nel frattempo il governo guidato da Edi Rama dovrà impegnarsi per “rafforzare la società civile, contrastare la corruzione e la criminalità organizzata”, ma anche “assicurare la libertà dei media e garantire la tutela dei diritti delle minoranze, compresa la comunità LGBTQ+”, è l’ultimo richiamo della relazione votata dagli eurodeputati.

    Adottate in commissione Affari esteri (AFET) le relazioni 2021 sullo stato di avanzamento dei 6 Paesi balcanici. Gli eurodeputati continuano a chiedere al Consiglio lo sblocco dei negoziati con Albania e Macedonia del Nord e la liberalizzazione dei visti per i cittadini del Kosovo

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    La carta dei principi per pace e stabilità in Bosnia ed Erzegovina: i leader del Paese siglano l’accordo di Bruxelles

    Bruxelles – Non si ferma l’iniziativa dell’Unione Europea nei Balcani Occidentali, in particolare quella del presidente del Consiglio UE, Charles Michel. Dopo essere volato a Sarajevo, Tirana e Belgrado tre settimane fa per cercare di spingere la proposta di una comunità geopolitica europea e di una riforma del processo di adesione all’UE, il numero uno del Consiglio si è fatto artefice ieri (domenica 12 giugno) dell’accordo di Bruxelles tra i leader dei partiti e delle istituzioni della Bosnia ed Erzegovina, per far uscire il Paese dalla crisi politico-istituzionale che rischia di avere ripercussioni in tutta la regione balcanica.
    L’incontro tra il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, e l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, con i leader dei partiti e delle istituzioni della Bosnia ed Erzegovina (12 giugno 2022)
    L’accordo politico patrocinato anche dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, è stato il frutto della riunione svoltasi nella sede del Consiglio con 11 leader della Bosnia ed Erzegovina, tra cui i membri della presidenza tripartita Željko Komšić (croato-bosniaco), Šefik Džaferović (bosniaco musulmano) e Milorad Dodik (servo-bosniaco). Proprio all’indirizzo di quest’ultimo sembra indirizzato il monito di “preservare e costruire uno Stato europeo funzionale pacifico, stabile, sovrano e indipendente“, che rispetti non solo gli Accordi di Dayton (siglati il 21 novembre del 1995 per mettere fine alla guerra in Bosnia e sancire la nascita di uno Stato composto dalle tre più consistenti componenti etniche del Paese), ma anche i principi fondanti dell’UE, come lo Stato di diritto, le elezioni libere e le istituzioni democratiche.
    In linea con le 14 priorità-chiave delineate dalla Commissione Europea per l’avvicinamento della Bosnia al conferimento dello status di Paese candidato all’adesione UE, l’accordo di Bruxelles ha definito 19 punti su cui è necessario un impegno da parte di tutti i leader partitici e politici in entrambe le entità territoriali (la Republika Srpska e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina), per “rafforzare la fiducia, il dialogo, la costruzione di compromessi”. In questo senso va letto lo sforzo per organizzare in modo “efficiente e ordinato” le elezioni generali previste per l’autunno di quest’anno – il che significa anche una campagna elettorale “priva di retorica divisiva e di odio” – e per la successiva “rapida formazione” delle nuove autorità legislative ed esecutive a tutti i livelli di governo. Subito dopo dovrà essere intrapreso il “costruttivo” percorso di riforme, che in sei mesi dovrà adottare “con urgenza” la legge sul Consiglio superiore della magistratura, della procura e dei tribunali, la legge sulla prevenzione del conflitto di interessi e sugli appalti pubblici, oltre alle riforme elettorali e costituzionali necessarie per garantire la piena conformità con le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e alle misure necessarie perché Sarajevo possa beneficiare dei fondi UE nell’ambito dello Strumento di assistenza preadesione (IPA III).
    A proposito di riforme, i leader bosniaci dovranno garantire il pieno funzionamento delle istituzioni statali, a partire dai settori in cui le competenze sono condivise (e per cui proprio il secessionismo di Dodik sta minacciando la tenuta del tessuto sociale e istituzionale dall’autunno dello scorso anno). Per il rafforzamento dello Stato, è necessario un rafforzamento della prevenzione e della lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata – anche garantendo che le forze dell’ordine e la magistratura possano operare in modo indipendente – e un miglioramento del funzionamento della pubblica amministrazione. Nell’accordo di Bruxelles compare anche il riferimento all’estensione del mandato esecutivo dell’EUFOR Althea “per mantenere un ambiente sicuro e protetto”, considerate soprattutto le minacce di destabilizzazione della Russia in Bosnia ed Erzegovina in particolare e nella penisola balcanica in generale. Un richiamo non solo interno al Paese, ma anche di allineamento alla politica estera e di sicurezza comune dell’UE, visto che la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese balcanico, insieme alla Serbia, a non aver adottato le sanzioni internazionali contro Mosca dopo l’aggressione militare dell’Ucraina.

    L’intesa politica in 19 punti voluta da Charles Michel e Josep Borrell impegna tutti i partiti nazionali a preservare uno Stato “pacifico, stabile, sovrano e indipendente”, in linea con le 14 priorità-chiave dell’Unione Europea su Stato di diritto, elezioni libere e istituzioni democratiche

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    Macron tenta il colpaccio in extremis. Proverà la mediazione Skopje-Sofia per l’adesione UE della Macedonia del Nord

    Bruxelles – Tre settimane per riuscire dove tre presidenze di turno del Consiglio dell’UE (tedesca, portoghese e slovena) hanno fallito prima di lui. Il presidente francese, Emmanuel Macron, vuole mettere la ciliegina sulla torta di un semestre in cui l’Eliseo ha dovuto affrontare – insieme a Consiglio, Commissione e Parlamento – prove inaspettate per l’Unione Europea, come la guerra in Ucraina e le conseguenze globali sul piano energetico, umanitario, alimentare e militare. Ma c’è un’altra sfida che si protrae ormai da decenni e che negli ultimi mesi sta dimostrando tutta la sua urgenza: il processo di adesione dei Paesi dei Balcani Occidentali all’UE e, in particolare, l’avvio dei negoziati con Macedonia del Nord e Albania.
    È per questo motivo che, a 23 giorni dalla fine della presidenza di turno francese del Consiglio dell’UE, l’inquilino dell’Eliseo vuole entrare nella storia dell’Unione anche per aver sbloccato lo stallo causato dal veto della Bulgaria all’accesso della Macedonia del Nord all’UE (che porta con sé anche quello dell’Albania, all’interno dello stesso pacchetto). Come si legge in una nota, Macron si è detto “pronto” ad accogliere a Parigi le autorità bulgare e macedoni “al momento opportuno” per concludere l’accordo bilaterale. L’annuncio è arrivato al termine dell’incontro di ieri sera (lunedì 6 giugno) con il presidente della Bulgaria, Rumen Radev, e il premier della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski, nel contesto degli sforzi condotti nelle ultime settimane per trovare una soluzione alla controversia tra i due Paesi e “concretizzare la prospettiva europea” di Skopje. L’accordo “contribuirebbe alle relazioni di buon vicinato e al rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini che dichiarano di appartenere ad altre comunità o minoranze”, specifica l’Eliseo.
    Lo stop bulgaro all’avvio dei negoziati di adesione UE della Macedonia del Nord risale al dicembre del 2020, anche se negli ultimi mesi i due nuovi governi nazionali hanno mostrato un rinnovato impegno per il dialogo su temi comuni come la storia, la cultura, i diritti umani e l’integrazione europea, vale a dire su tutte le questioni alla base delle frizioni nazionalistiche tra i due Paesi. In realtà, già due anni prima il dossier macedone-albanese si era bloccato in Consiglio per l’opposizione proprio della Francia – oltre a Danimarca e Paesi Bassi – nei confronti dell’Albania, con la richiesta di un’implementazione delle riforme. Nel 2018 e nel 2020 c’era sempre Macron all’Eliseo, ma da presidente anche del Consiglio dell’UE oggi sta cercando di dare uno scossone a una politica di allargamento che, tra mille stenti, sta rischiando di creare disillusioni pericolose in una penisola delicata quale è quella balcanica. A maggior ragione se si considera l’opera di destabilizzazione della Russia e gli interessi economici della Cina nel ‘buco nero’ del continente europeo.
    Se il tempismo è tutto, l’ultimo annuncio di Macron arriva a due settimane da un Consiglio Europeo (l’ultimo sotto presidenza francese) che metterà al centro la questione dell’allargamento dell’UE e la dimensione geopolitica dell’Europa oltre l’Unione. Non solo a margine del Consiglio si terrà un nuovo vertice UE-Balcani Occidentali (dopo quello inconcludente dell’ottobre dello scorso anno), per un confronto diretto tra i Ventisette e tutti i leader della regione, ma i capi di Stato e di governo dell’Unione dovranno anche discutere della proposta del presidente Macron di una comunità geopolitica europea e del possibile processo “graduale e reversibile” per l’adesione all’UE avanzato dal numero uno del Consiglio, Charles Michel. Il tutto con le richieste di ingresso nell’Unione da parte di Ucraina, Georgia e Moldova sul tavolo, se la Commissione fornirà in tempo i pareri formali. Macron è pronto a mettere la ciliegina dell’intesa tra Bulgaria e Macedonia del Nord sul proprio semestre di presidenza, ma per l’Unione Europea sono ancora molti gli strati da completare prima di considerare la torta dell’allargamento UE pronta da servire.

    L’inquilino dell’Eliseo si è detto “pronto” a concludere l’accordo bilaterale tra Bulgaria e Macedonia del Nord, per sbloccare uno stallo sull’avvio dei negoziati (anche con l’Albania) che si protrae da un anno e mezzo. Data ultima: 30 giugno, fine della presidenza di turno francese del Consiglio

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    La sanzioni UE hanno costretto il ministro russo Sergei Lavrov ad annullare la visita in Serbia

    Bruxelles – Se fosse stato necessario un episodio simbolico per confermare l’efficacia delle sanzioni UE contro la Russia, oggi è arrivato. Il viaggio in Serbia del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, è stato annullato a causa della decisione di Bulgaria, Macedonia del Nord e Montenegro di applicare le misure restrittive volute dai Ventisette e condivise da tutti i partner balcanici (fatta eccezione per Serbia e Bosnia ed Erzegovina), chiudendo i rispettivi spazi aerei al velivolo che lo avrebbe dovuto portare a Belgrado.
    È dal 25 febbraio (il giorno successivo all’inizio dell’invasione in Ucraina) che il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo braccio destro Lavrov sono stati inseriti nella lista delle sanzioni dell’UE. Nei confronti dei soggetti colpiti dalle misure restrittive – dopo sei pacchetti di sanzioni, 1158 individui e 98 entità – è previsto il congelamento dei beni e il divieto di mettere fondi a loro disposizione, ma anche il divieto di viaggio che impedisce l’ingresso o il transito attraverso il territorio dei Paesi membri e dei partner allineati. È su questa base che nella giornata di ieri (domenica 5 giugno) i governi bulgaro (uno dei Ventisette), macedone e montenegrino hanno preso la decisione di applicare la misura nel caso la rotta del velivolo su cui avrebbe dovuto viaggiare Lavrov fosse passata per il proprio spazio aereo tra oggi e domani.

    La visita programmata in Serbia avrebbe dovuto portare Lavrov a colloquio con il presidente serbo, Aleksandar Vučić, e in un secondo momento con il ministro degli Interni, Aleksandar Vulin. Al centro delle discussioni ci sarebbe dovuta essere l’intesa per il rinnovo di altri tre anni del contratto sulla fornitura di gas naturale russo verso il Paese balcanico a condizioni favorevoli, con la definizione dei dettagli dell’accordo informale preso telefonicamente tra i due presidenti la settimana scorsa. Il viaggio di Lavrov era programmato da giorni e, se si fosse concretizzato, sarebbe stato il primo in un Paese europeo dall’inizio della guerra in Ucraina. A questo punto è probabile che sarà il ministro degli Esteri serbo, Nikola Selaković, a volare prossimamente a Mosca, considerato il fatto che la compagnia di bandiera Air Serbia è l’unico vettore che ancora opera da e verso la Russia.
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e l’omologo russo, Vladimir Putin
    “Sono profondamente dispiaciuto per l’ostruzione alla visita di un grande e comprovato amico della Serbia“, ha commentato il ministro Vulin in un comunicato: “Chi ha impedito l’arrivo di Lavrov non vuole la pace, sogna di sconfiggere la Russia, e la Serbia è orgogliosa di non far parte dell’isteria anti-russa“. Una nuova porta chiusa in faccia a Bruxelles sulla necessità di allinearsi alle sanzioni internazionali contro Mosca, per riflettere anche nella pratica la condanna dell’aggressione militare ai danni dell’Ucraina e per abbandonare la presunta politica di neutralità. Da parte del presidente serbo è stata invece espressa “insoddisfazione” per gli impedimenti alla visita di Lavrov ed è stata ribadita la volontà di mantenere “l’indipendenza e l’autonomia nel processo decisionale politico”, anche al netto del percorso di avvicinamento all’UE. Lo si legge in un comunicato pubblicato solo in lingua serba (come quello del ministro Vulin, non tradotto nella sezione del sito in inglese), al termine dell’incontro con l’ambasciatore russo in Serbia, Alexander Bocan Kharchenko. Durante l’incontro si è parlato anche di un possibile incontro tra i ministri degli Esteri dei due Paesi.
    Intanto però la questione sta creando tensione nella regione balcanica, in particolare con la Croazia, Paese membro UE. “Non siamo in tempi in cui si può stare seduti su due sedie”, ha commentato nel corso di una conferenza stampa il premier croato, Andrej Plenković, a proposito del viaggio annullato da Lavrov. “La Serbia deve decidere da che parte stare, se ha veramente l’ambizione di continuare sulla strada dell’integrazione nell’Unione Europea“, ha incalzato il leader dell’esecutivo di Zagabria. Immediata e rabbiosa la reazione di Belgrado, per voce del ministro Vulin: “Plenković non capisce che la Serbia è seduta su un unica sedia, quella serba, e che non è un territorio, ma uno Stato [un riferimento tra le righe al contrasto con il Kosovo sulla questione dell’autoproclamata indipendenza, ndr] e sono gli Stati a decidere chi sono i loro amici”. Con un riferimento che porta indietro le lancette della storia di 30 anni, ai tempi delle guerre nell’ex-Jugoslavia: “Se c’è un popolo che ha inequivocabilmente scelto la parte sbagliata della storia, è quello croato, e se c’è un popolo che ha portato i croati dalla parte giusta della storia, è quello serbo”, è stato l’accusa sibillina del ministro degli Interni di Belgrado.

    Bulgaria, Macedonia del Nord e Montenegro hanno chiuso il proprio spazio aereo al volo del braccio destro di Vladimir Putin, applicando le misure restrittive condivise tra i partner internazionali. Il viaggio era previsto per definire i dettagli dell’accordo sul gas Mosca-Belrado