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    Allargamento, il Cese: “L’integrazione sia graduale, coinvolgendo la società civile”

    Bruxelles – L’allargamento è un “investimento strategico” per l’Unione, ma la “precondizione” perché funzioni è coinvolgere la società civile. A dirlo è Oliver Röpke, presidente del Comitato economico e sociale europeo (Cese), l’organo consultivo dell’Ue in cui sono rappresentati gli interessi delle organizzazioni dei lavoratori, dei datori di lavoro, del terzo settore e, in generale, le istanze delle organizzazioni della società civile. L’austriaco, che guida il Comitato dall’anno scorso, insiste perché l’integrazione dei Paesi candidati sia “graduale”, permettendo loro di partecipare già prima del loro ingresso formale alla vita comunitaria.La società civile al centroAd un incontro con la stampa martedì (22 ottobre), Röpke ha spiegato l’approccio che la sua istituzione sta seguendo in materia di allargamento, un tema destinato ad assumere un’importanza centrale nei prossimi anni, a partire dal ciclo istituzionale che si è aperto con le europee dello scorso giugno. “Vediamo l’allargamento come un investimento strategico” e una “storia di successo”, ha dichiarato ai giornalisti, specificando che “la precondizione” per realizzarlo correttamente è quella di “avere un coinvolgimento della società civile e dei partner sociali” che sia il più strutturata possibile.“I problemi reali”, ha sottolineato il presidente del Cese, sono da individuarsi nelle “strutture” democratiche dei Paesi candidati: ad esempio quelle “per tutelare lo Stato di diritto, per proteggere lo spazio civico e per avere un robusto dialogo” tra le parti sociali che porti, tra le altre cose, ad una contrattazione collettiva soddisfacente. Dovremmo cioè “cominciare a rafforzare queste strutture nei Paesi candidati già ora”, anche se il loro ingresso nell’Unione avverrà in un secondo momento.L’integrazione graduale dei Paesi candidatiLa soluzione, per Röpke, è quella che ha definito “integrazione graduale”: permettere cioè ai Paesi cui Bruxelles riconosce lo status di candidati di partecipare, in qualità di osservatori, al funzionamento dell’Unione, come avviene già ad esempio con le riunioni informali del Consiglio. Il contributo del Cese a questo movimento di progressiva inclusione si è concretizzato nel progetto pilota ribattezzato Enlargement candidate members (Ecm), tramite cui il Comitato ha coinvolto 146 rappresentanti della società civile dei Paesi candidati nelle proprie attività per contribuire alla stesura di una dozzina di opinioni riguardanti tra le altre cose la politica di coesione, il mercato unico, la sostenibilità, il settore agrifood e lo Stato di diritto. Un’iniziativa che dovrebbe concludersi a fine anno ma che è piaciuta molto ai diretti interessati, come sottolineato dal premier albanese Edi Rama secondo cui questo modello andrebbe esteso anche all’Eurocamera, e che Röpke si è impegnato a trasformare da estemporanea a permanente.Del resto, si tratta della medesima strada indicata dalla presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, nelle lettere d’incarico inviate ai commissari designati: lì “viene menzionato esplicitamente che ogni commissario deve promuovere l’integrazione graduale dei Paesi candidati”, ha sottolineato Röpke, il che coincide appunto con una delle richieste principali del Cese “per vedere cosa ogni istituzione può fare per integrare passo dopo passo gli Stati candidati già prima l’adesione completa all’Ue”.I progressi verso l’adesioneDiverse cancellerie tra le nove in questione (Albania, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Macedonia del nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia ed Ucraina) vorrebbero centrare l’obiettivo dell’adesione entro la fine del decennio, ma bisognerà vedere come procederà il loro percorso. Per ora, Röpke ha registrato “non solo il supporto dei partner sociali e della società civile ma anche una grande volontà da parte almeno di alcuni governi di impegnarsi” per “migliorare le proprie strutture” al fine di “soddisfare i criteri” per entrare nel club europeo. Alcuni dei progressi migliori, secondo il presidente del Cese, si sono visti in Albania e in Macedonia del nord (anche se il cammino di Tirana e Skopje verso Bruxelles è stato recentemente spacchettato), mentre ci sono stretti contatti con governo e società civile serbi e con la società civile georgiana.Quanto alla Moldova, un grosso problema – soprattutto in alcune regioni, come la Gagauzia – è la pervasività della disinformazione russa, che è quasi riuscita a far vincere il “no” al referendum popolare celebratosi domenica scorsa che interrogava i cittadini sull’opportunità di includere l’obiettivo dell’adesione all’Ue nella Costituzione nazionale. Alla fine, ha prevalso il fronte del “sì”, il che secondo il capo del Comitato è un “risultato notevole” dati i pronostici, ma nel Paese balcanico c’è “ancora molto da fare” per consolidare le strutture democratiche di cui si parlava.L’incontro di stamattina è servito tra le altre cose a Röpke per presentare alla stampa il Forum di alto livello sull’allargamento che si terrà il prossimo 24 ottobre a Bruxelles sotto il patrocinio del Cese (che sarà in sessione plenaria il 23 e 24 ottobre) e della Commissione, in cui verranno discussi con una serie di politici (sia dei Paesi candidati che degli Stati membri), accademici e rappresentanti della società civile i temi sociali che saranno al centro della prossima stagione di espansione del club europeo. A sua volta, questo evento anticiperà la pubblicazione, da parte dell’esecutivo Ue, del rapporto annuale sull’allargamento (anche noto come enlargement package), che quest’anno cadrà il prossimo 31 ottobre.

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    Il doppio voto in Moldova avvicina Chisinau all’Europa

    Bruxelles – Per il rotto della cuffia i cittadini moldavi hanno deciso che il futuro del loro Paese è quello di entrare nell’Unione europea. Il “sì” al referendum popolare sull’adesione è passato in testa lunedì mattina (21 ottobre), il giorno dopo la chiusura delle urne, e pare che la volata sia stata tirata dai residenti all’estero. Ma domenica si è votato anche per le presidenziali: la presidente uscente Maia Sandu, un’europeista che ha ripetutamente denunciato ingerenze russe nel processo democratico nazionale, è in vantaggio, ma dovrà andare al ballottaggio tra due settimane.Chisinau verso BruxellesSembrava fosse già l’ora di intonare il de profundis delle ambizioni europee della Moldova, con il fronte contrario all’ingresso nell’Ue del piccolo Paese esteuropeo sembrava in netto vantaggio fino alle prime ore di lunedì. Ma all’ultimo miglio dello scrutinio si è registrato il sorpasso, spinto dal voto della diaspora che è stato conteggiato solo alla fine e a quello della Capitale Chisinau, arrivato all’alba di oggi. Per tutta la notte tra domenica e lunedì era rimasto saldamente in testa (con una percentuale che oscillava tra il 55 e il 57) il “no” al referendum, ma poi la situazione si è ribaltata – almeno stando ai dati preliminari forniti dalla commissione elettorale centrale.Il distacco tra i due schieramenti corre sulla lama di un rasoio, ma sarebbe sufficiente a far vincere il fronte europeista: 50,39 contro 49,61 per cento con oltre il 99 per cento dei voti scrutinati. Lo scarto sarebbe di poche migliaia di voti, poco più di 11mila su una popolazione totale da 2 milioni e mezzo di abitanti. L’affluenza è stata ampiamente superiore alla soglia necessaria ai fini della validità del referendum (33,3 per cento), con oltre la metà degli aventi diritto (51,68 per cento) che si sono recati alle urne.Nel quesito referendario si chiedeva ai cittadini se inserire nella carta fondamentale l’impegno dell’ex repubblica sovietica verso l’integrazione nel club europeo. Nello specifico, il preambolo della Costituzione dovrebbe ora venire arricchito da due nuovi paragrafi per “riconfermare l’identità europea del popolo della Repubblica di Moldova e l’irreversibilità del percorso europeo” e per “dichiarare l’integrazione nell’Unione Europea un obiettivo strategico della Repubblica di Moldova”.Ombre russeSecondo molti osservatori, il successo del fronte anti-Ue sarebbe dovuto anche ad una pesante campagna di interferenza orchestrata da Mosca, che ha tutto l’interesse a tenere la Moldova lontana da Bruxelles. Quando il “no” al referendum era ancora in vantaggio, Sandu ha accusato “gruppi criminali” legati al Cremlino di aver interferito con il voto, per impedire all’ex repubblica sovietica di abbandonare l’orbita russa. “Abbiamo prove chiare che questi gruppi criminali hanno tentato di comprare 300mila voti”, ha dichiarato, con l’obiettivo “di minare un processo democratico” e di “diffondere paura e panico nella società”.Da Bruxelles le ha fatto eco il portavoce per gli Affari esteri dell’esecutivo comunitario, Peter Stano: “Abbiamo notato che questa votazione si è svolta sotto un’interferenza e un’intimidazione senza precedenti da parte della Russia” e di altri attori riconducibili alla Federazione, ha dichiarato durante una conferenza stampa, “con l’obiettivo di destabilizzare i processi democratici nella Repubblica di Moldova”. Del resto, non si tratta certo di un fulmine a ciel sereno. “Questa interferenza straniera e manipolazione delle informazioni” da parte del Cremlino “ha molti volti, e sta accadendo in molte forme non solo pochi giorni prima del voto”, ha aggiunto Stano, parlando di “uno sforzo a lungo termine” che è finito nel mirino della Commissione “molto tempo fa”.Le autorità moldave avevano già smantellato un massiccio schema di compravendita di voti a inizio mese, che avevano ricondotto alle ingerenze dell’oligarca Ilan Shor, vicino a Mosca e attualmente residente in Russia. La settimana scorsa, hanno sventato un altro complotto in cui erano coinvolti oltre un centinaio di giovani che avrebbero ricevuto un addestramento da parte di gruppi militari privati russi su come creare disordini in occasione del doppio voto di domenica scorsa.Le aspirazioni europee della leadership in caricaUn’ex repubblica sovietica, la Moldova è guidata dal 2021 da un governo filo-occidentale e dalla presidente pro-Ue Maia Sandu eletta l’anno precedente.Esecutivo e capo dello Stato stanno cercando di sganciare la nazione balcanica da quella che il presidente russo Vladimir Putin continua a considerare la “sfera d’influenza” della Federazione. Da decenni Chisinau è alle prese con i separatisti della Transnistria, un lembo di terra al confine con l’Ucraina che si è autoproclamata indipendente nel 1990 e continua a sfidare la sovranità e l’integrità territoriale moldave grazie all’appoggio della Russia.Nel marzo 2022 la Moldova ha fatto domanda per entrare in Ue insieme all’Ucraina ed ha ottenuto lo status di Paese candidato nel giugno di quello stesso anno, sempre in tandem con Kiev. Lo scorso dicembre, il Consiglio europeo ha dato il via libera per avviare formalmente i negoziati di adesione, una decisione concretizzatasi a giugno di quest’anno con la prima conferenza intergovernativa.Ballottaggio presidenzialeMa l’appuntamento elettorale di domenica era doppio. Oltre ad esprimersi sul futuro europeo di Chisinau, i moldavi erano anche chiamati a scegliere il nuovo capo dello Stato, che si dovrà insediare alla scadenza del mandato della presidente uscente, la 52enne Sandu (il prossimo dicembre).L’attuale presidente (la prima donna a ricoprire tale incarico, già prima ministra per qualche mese nel 2019) ha ottenuto il 42,31 per cento dei consensi a scrutinio quasi completo, che la posizionano saldamente in testa ma non le hanno permesso di centrare il bis al primo turno. Ora dovrà sfidare il candidato filorusso Alexandr Stoianoglo (che ha preso il 26,09 per cento) al ballottaggio in calendario per il 3 novembre.

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    L’Unione europea ha formalmente avviato i negoziati di adesione con l’Albania

    Bruxelles – Mentre la prima barca che trasportava 16 migranti dall’Italia arrivava in Albania nella mattinata di martedì (15 ottobre), i rappresentanti dello Stato balcanico stavano partecipando in Lussemburgo alla seconda conferenza intergovernativa con i partner Ue. Si è trattato della luce verde ufficiale per l’avvio dei negoziati di adesione di Tirana al club europeo, con l’apertura del cluster contenente i capitoli cosiddetti “fondamentali”.Il primo ministro albanese, Edi Rama, ha partecipato di persona alla riunione nel Granducato. “È una montagna da scalare”, ha dichiarato alla stampa, aggiungendo che il suo Paese sta “già camminando con idee molto chiare, una volontà molto forte e senza alcun dubbio” di centrare l’obiettivo di portare “l’Albania nell’Unione europea entro il 2030”. Rama si è detto pronto a “iniziare finalmente con la parte più pesante del lavoro”, riferendosi all’apertura del cluster dei “fondamentali” che contiene “i cinque capitoli più coerenti, più i tre criteri che ci faranno andare oltre e concludere entro la nostra scadenza molto ambiziosa” il processo di adesione.Anche dal lato europeo si registra soddisfazione. Il commissario uscente all’Allargamento, l’ungherese Olivér Várhelyi, si è congratulato con le autorità albanesi per il “traguardo importante”, che è stato possibile raggiungere “poiché l’Albania ha portato a termine le riforme richieste” con “determinazione” e “impegno”. Gli ha fatto eco il suo connazionale titolare degli Esteri, Péter Szijjártó, che ha dichiarato, sempre dal Lussemburgo, che “una delle priorità più importanti della presidenza ungherese (del Consiglio, ndr) che abbiamo messo in cima all’agenda è stata l’accelerazione dell’allargamento” dell’Ue nei Balcani occidentali.I capitoli aperti formalmente oggi sono il 5 (appalti pubblici), 18 (statistiche), 23 e 24 (i cosiddetti capitoli sullo Stato di diritto: sistema giudiziario e diritti fondamentali da un lato, giustizia, libertà e sicurezza dall’altro) e 32 (controllo finanziario), cui si aggiungono i negoziati sul funzionamento delle istituzioni democratiche, sulla riforma della pubblica amministrazione e sui criteri economici per l’ingresso nell’Unione. Solo quando saranno stati centrati i parametri intermedi fissati dai capitoli 23 e 24, nonché quelli relativi ad altri elementi orizzontali del cluster, i negoziati potranno proseguire anche per il resto dei capitoli.A seguito della riforma del processo di adesione, risalente al 2020, i cluster negoziali sono sei in totale e il primo, quello dei fondamentali, va aperto per primo e chiuso per ultimo, determinando il “ritmo” dei negoziati nel complesso. Gli altri cinque riguardano il mercato interno, la competitività e la crescita inclusiva, l’agenda verde e la connettività sostenibile, le risorse, l’agricoltura e la coesione e, da ultimo, le relazioni esterne.La prima conferenza intergovernativa Albania-Ue si era tenuta nel luglio 2022, ma in quella circostanza non erano stati aperti capitoli negoziali, essendosi trattato solo dell’avvio del processo di adesione. Il percorso di Tirana, che era stato accoppiato a quello di Skopje, si era poi complicato a causa del riaccendersi di vecchie cicatrici nazionaliste tra Macedonia del Nord e Grecia, ma soprattutto per nuovi attriti con la Bulgaria. Alla fine, il Consiglio dell’Ue ha sbloccato l’impasse il mese scorso, con lo “spacchettamento” dell’adesione dei due Paesi.L’obiettivo annunciato dal premier Rama è ambizioso: quello per entrare nell’Unione è un cammino complesso, che non ha una durata predeterminata. Molto dipenderà dalla velocità con cui Tirana riuscirà a mettere in campo le riforme che permetteranno al Paese balcanico di “mettersi al pari” con il resto dei partner europei. Ma anche una volta che la Commissione avrà valutato positivamente gli sforzi albanesi, la decisione finale sull’ingresso spetta agli Stati membri.Lo scorso giugno, l’Ue ha aperto i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldova, mentre il percorso di avvicinamento della Georgia è stato de facto sospeso negli ultimi mesi a seguito dei controversi provvedimenti adottati dal governo filo-russo del Paese caucasico.

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    Con la nuova legge sulla famiglia, la Georgia si allontana sempre più dall’Europa

    Bruxelles – Come i gamberi, così Tbilisi. La Georgia sembra continuare a fare passi indietro nel suo percorso di adesione all’Unione europea, che da mesi è di fatto congelato per via delle preoccupazioni di Bruxelles sulla situazione della democrazia, delle libertà civili e dello Stato di diritto. Ora, l’ultima aggiunta alla lista di scelte problematiche compiute dal Paese caucasico è una legge sui valori della famiglia che, secondo i vertici comunitari, mettono a serio rischio le minoranze. In una nota sul suo sito, il Servizio di azione esterna europeo (Seae) ha deplorato l’adozione da parte del Parlamento georgiano del pacchetto legislativo sui “valori della famiglia e la protezione dei minori”. Le nuove norme, approvate dai deputati in seconda lettura mercoledì (4 settembre), modificano l’articolo 30 della Costituzione inserendo nella carta fondamentale il riferimento a diverse questioni come il matrimonio, l’adozione e l’affidamento di minori, gli interventi medici legati all’identità di genere, il riconoscimento del genere nei documenti e l’uso di termini legati al genere nei comunicati ufficiali e nella sfera mediatica. In sostanza, ora la Georgia riconosce come famiglia – e tutela in quanto tale – solo l’unione di un uomo (“biologicamente maschio”) e di una donna (“biologicamente femmina”). La nuova legge “mina i diritti fondamentali della popolazione georgiana e rischia di stigmatizzare e discriminare ulteriormente una parte della popolazione”, si legge nel comunicato del Seae, che constata come “una legislazione con importanti ripercussioni sul percorso di integrazione nell’Ue sia stata approvata senza le dovute consultazioni pubbliche e senza un’analisi approfondita della sua conformità agli standard europei e internazionali”. Il Servizio, che fa capo all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell, sottolinea che “la garanzia e il rispetto dei diritti umani sono al centro del processo di allargamento” e che “il processo di adesione della Georgia è di fatto interrotto”, esortando le autorità di Tbilisi a tornare sui propri passi.Con l’adozione della nuova legislazione, dunque, il Paese del Caucaso meridionale si allontana ancora di più dalla prospettiva dell’adesione al blocco dei Ventisette, allungando la lista di provvedimenti incompatibili con gli standard europei per quanto riguarda soprattutto la tenuta della democrazia e dello Stato di diritto. Dalla famigerata legge sugli “agenti stranieri”, che pochi mesi fa aveva portato in piazza decine di migliaia di manifestanti e che aveva spinto il Consiglio europeo a giudicare “di fatto arrestato” il percorso di adesione di Tbilisi all’Ue, fino alla prospettiva, basata su quella stessa legge e per ora solo ventilata, di bandire i partiti di opposizione dopo le elezioni in calendario per il mese prossimo. Una brusca battuta di arresto per l’obiettivo, ormai lontanissimo, di diventare il primo Stato candidato ad accedere all’Unione entro il 2030.

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    Il Kosovo chiude 9 filiali delle Poste di Serbia nel nord. Per l’Ue è “passo unilaterale e non coordinato”

    Bruxelles – L’Unione Europea è costretta a tornare con l’attenzione al nord del Kosovo. Perché, con la decisione del governo di Pristina, la polizia kosovara è intervenuta ieri (5 agosto) a chiudere nove filiali delle Poste di Serbia nel nord del Paese, scatenando la reazione di Bruxelles. “Si tratta di un passo unilaterale e non coordinato, che viola gli accordi raggiunti nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue“, è quanto si legge nella dichiarazione rilasciata dal Servizio europeo per l’azione esterna (Seae).Kosovska Mitrovica (credits: Armend Nimani / Afp)Tre strutture a Kosovska Mitrovica, una Zubin Potok, due Zvečan e tre a Leposavić, sono queste le filiali delle Poste di Serbia interessate dall’azione delle autorità del Kosovo, secondo cui gli uffici operavano senza licenza e senza registrarsi presso le agenzie kosovare competenti. La decisione è arrivata a pochi mesi dalla chiusura di diverse casse di risparmio postale nella regione utilizzate dalla minoranza etnica serba per ricevere stipendi da Belgrado e per effettuare pagamenti in dinari, vietati dallo scorso primo febbraio sul territorio nazionale. Sono queste le prime conseguenze del Regolamento sulla trasparenza e stabilità dei flussi finanziari e sulla lotta al riciclaggio di denaro e alla contraffazione, che sta impattando su tutti quei servizi pubblici nel nord del Kosovo che non si sono mai adeguati all’adozione dell’euro da parte di Pristina nel 2002 (ancora prima dell’indipendenza nel 2008). Belgrado non ha mai riconosciuto la sovranità del Kosovo e per questo motivo paga ancora stipendi, pensioni e assegni per le famiglie in dinari a una quota consistente di cittadini kosovari nelle zone del Paese a maggioranza serba.Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il primo ministro del Kosovo, Albin KurtiL’Unione Europea sta faticando a tenere sotto controllo le tensioni politiche tra Pristina e Belgrado, ma non molla sulla sua opera di mediazione: “Nell’ambito degli accordi sulle telecomunicazioni raggiunti nel 2013 e del piano d’azione concordato nel 2015, entrambe le parti hanno deciso di discutere i servizi postali ‘in una fase successiva’“, in altre parole “riconoscendo che la questione può essere affrontata solo nell’ambito del dialogo” Pristina-Belgrado. Ecco perché, dopo l’ultimo fallimentare vertice trilaterale di fine giugno a Bruxelles tra l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, i negoziatori Ue sono “pronti a inserire la questione nell’agenda della prossima riunione del dialogo”. Ma rimane la richiesta al governo del Kosovo di “riconsiderare la sua decisione e di trovare una soluzione negoziata”.È chiaro che il nodo principale alla base di tutte le questioni regionali nel nord del Paese rimane sempre e comunque l’istituzione dell’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo, ovvero la comunità nel Paese a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative, inclusa l’operatività della Banca Nazionale di Serbia, della Cassa di risparmio e delle Poste di Serbia. “Azioni unilaterali e non coordinate non possono offrire soluzioni a questa o a qualsiasi altra questione che rientra nel processo di normalizzazione tra Kosovo e Serbia”, è l’avvertimento del Seae, che mette in chiaro come “la chiusura dei servizi esistenti per i serbi del Kosovo, senza un nuovo accordo preventivo, avrà un ulteriore impatto negativo sulla vita quotidiana e sulle condizioni di vita di queste comunità”.Le tensioni nel nord del KosovoÈ passato oltre un anno da quando è andato in scena il primo evento che ha aperto uno degli scenari più difficili e violenti per le relazioni tra Serbia e Kosovo. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica il 26 maggio 2023 sono scoppiate violentissime proteste, trasformatesi nel giro di tre giorni in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato. La tensione è deflagrata per la decisione del governo di Pristina di far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa per la bassissima affluenza al voto.Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)Nel frattempo il 14 giugno è andato in scena un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine. Bruxelles ha convocato una riunione d’emergenza con il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, per uscire dalla “modalità gestione della crisi” e solo il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari. Ma a causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo (ancora in atto, nonostante la tabella di marcia concordata il 12 luglio). La situazione è però degenerata con l’attacco terroristico del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska. Nella giornata di scontri tra la Polizia del Kosovo e un gruppo di una trentina di uomini armati sono rimasti uccisi un poliziotto e tre attentatori.Gli sviluppi dell’attentato hanno evidenziato chiare diramazioni nella vicina Serbia. Tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska – come confermato da lui stesso qualche giorno dopo l’attacco armato – oltre a Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. A peggiorare il quadro il un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo denunciato dagli Stati Uniti. La minaccia non si è concretizzata, ma l’Ue ha iniziato a riflettere sulla possibilità di imporre le stesse misure in vigore contro Pristina anche ai danni di Belgrado. Ma per il via libera serve l’unanimità in Consiglio e il più stretto alleato di Vučić dentro l’Unione – il premier ungherese, Viktor Orbán – ha posto il veto. Come se non bastasse, prima delle elezioni anticipate in Serbia il 17 dicembre, l’ultimo atto del governo guidato da Ana Brnabić è stato inviare una lettera a Bruxelles per avvertire che le istituzioni serbe non riconoscono il valore giuridico degli impegni verbali presi nel contesto del dialogo Pristina-Belgrado e che non sarà riconosciuta nemmeno de facto la sovranità del Kosovo.L’unica notizia positiva al momento è la risoluzione della ‘battaglia delle targhe’ tra Serbia e Kosovo, grazie alla decisione arrivata tra fine 2023 e inizio 2024 sul mutuo riconoscimento per i veicoli in ingresso alla frontiera. Anche considerati i presupposti non promettenti di quest’anno. Con l’entrata in vigore del Regolamento sulla trasparenza e stabilità dei flussi finanziari e sulla lotta al riciclaggio di denaro e alla contraffazione, dal primo febbraio l’euro è diventato l’unica valuta di cambio e di deposito nei conti bancari: il dinaro serbo può ancora essere scambiato al pari del lek albanese o del dollaro, ma la decisione avrà un impatto su tutti quei servizi pubblici che non si mai adeguati all’adozione dell’euro da parte di Pristina nel 2002 (ancora prima dell’indipendenza). Il 5 febbraio hanno sollevato polemiche a Bruxelles le operazioni di polizia speciale presso gli uffici delle istituzioni temporanee gestite dalla Serbia in quattro comuni del nord del Kosovo (Dragash, Pejë, Istog e Klinë) e presso la sede dell’Ong Center For Peace and Tolerance a Pristina: dal 2008 Belgrado ha continuato a finanziare comuni, aziende, imprese pubbliche, asili, scuole, università pubbliche e ospedali a disposizione della minoranza serba, in modo illegale secondo la Costituzione del Kosovo.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    In Bosnia non c’è l’accordo sull’Agenda di riforme. A rischio i fondi Ue del Piano di crescita

    Bruxelles – Non basta il via libera del Consiglio Europeo all’avvio dei negoziati di adesione. La Bosnia ed Erzegovina rimane nel caos istituzionale, che ora mette a rischio – come da tempo temuto – i fondi Ue stanziati dal nuovo Piano per i Balcani Occidentali che lega la crescita economica con le riforme interne. “La Bosnia ed Erzegovina non ha ancora presentato alla Commissione Europea un’agenda di riforma definitiva, è quindi molto probabile che non riceva già dopo l’estate la prima rata non condizionata di prefinanziamento del 7 cento”, è quanto reso noto dalla delegazione Ue a Sarajevo in una nota pubblicata su X: “Si tratta di un’occasione persa per un finanziamento anticipato e sostanziale“.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, a Sarajevo (primo novembre 2023)Che Sarajevo corresse questo pericolo era già emerso lo scorso autunno, quando la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, nella sua tappa bosniaca del consueto viaggio annuale nei Balcani Occidentali aveva messo in chiaro che la mancata implementazione delle riforme fondamentali comporterà che “le risorse saranno ridistribuite ad altri Paesi che sono in grado di farlo“. Con il Piano di crescita approvato in tempi record dai co-legislatori Ue all’inizio di quest’anno, l’esecutivo Ue aveva confermato due mesi fa che in caso di non rispetto degli standard sulle riforme l’Ue potrà decidere di tagliare i fondi. “La prima rata del Piano di crescita potrà essere erogata solo dopo che l’Agenda di riforma sarà stata presentata e formalmente approvata dalla Commissione Europea e dalla Bosnia ed Erzegovina”, ha precisato ieri (25 luglio) la delegazione Ue a Sarajevo, incoraggiando il lavoro “senza ulteriori ritardi, per non perdere del tutto questa opportunità”. La quota di finanziamenti per la Bosnia ed Erzegovina dal Piano di crescita è stimata complessivamente a un miliardo di euro: al momento salta una prima rata di prefinanziamento senza condizioni dal valore di circa 70 milioni di euro.A provocare lo stallo istituzionale sull’approvazione dell’Agenda di riforma è stato il caos istituzionale emerso di fronte alla bozza presentata dal Gruppo di lavoro ad hoc, nonostante la proroga alla scadenza concessa dalla Commissione Ue per raggiungere in extremis in accordo. In quello che a tutti gli effetti è uno degli assetti istituzionali più complicati al mondo – come emerso dagli Accordi di Dayton del 1995 che hanno chiuso tre anni e mezzo di guerra civile ed etnica nel Paese – prima il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, si è rifiutato di accettare due punti (dei 112 dell’Agenda) sulla nomina dei giudici della Corte costituzionale centrale e sul riconoscimento delle decisioni della Corte stessa, poi i rappresentanti di quattro cantoni della Federazione di Bosnia ed Erzegovina (Bosnia Centrale, Tuzla, Zenica-Doboj e Una-Sana) non hanno dato il consenso al documento, accusandolo di privilegiare le istituzioni delle due entità rispetto a quelle statali e di dare priorità ai progetti nella Republika Srpska e nei cantoni a maggioranza croato-bosniaca rispetto a quelli a maggioranza bosgnacca.Il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik (credits: Elvis Barukcic / Afp)“Nonostante tutti gli sforzi e il sostegno delle istituzioni europee, non tutti hanno mostrato un livello minimo di responsabilità politica per indirizzare le nostre attività verso un percorso europeo comune“, ha attaccato la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, annunciando mercoledì (24 luglio) il fallimento delle trattative sull’Agenda di riforme. Oltre alla delegazione Ue, che ribadisce la disponibilità a continuare a supportare le autorità bosniache “se necessario”, è intervenuta in modo duro anche l’ambasciata statunitense a Sarajevo a difesa del Piano di crescita per i Balcani Occidentali, definito in una nota pubblicata ieri “un’offerta senza precedenti dell’Ue ai cittadini della Bosnia ed Erzegovina”. L’attacco diretto di Washington è non solo al presidente serbo-bosniaco Dodik – “un uomo che mette costantemente i suoi interessi davanti a quelli di coloro che dice di rappresentare” e che rappresenta “la più grande minaccia al futuro europeo” del Paese balcanico – ma anche al principale partito bosniaco-musulmano, il Partito d’Azione Democratica (Sda): “La decisione di sfruttare l’occasione per un’esibizione politica, invece di lavorare con gli altri partiti per ottenere l’approvazione degli ultimi due punti in sospeso, è stata inutile e irresponsabile”.Cos’è il Piano di crescita per i Balcani OccidentaliIl Piano di crescita per i Balcani Occidentali è stato presentato dalla presidente von der Leyen lo scorso 8 novembre in parallelo con la pubblicazione del Pacchetto Allargamento Ue 2023. “È qualcosa di eccezionale, sappiamo che il miracolo della prosperità arriva con l’accesso al Mercato unico e stiamo già iniziando questo processo, non stiamo aspettando la decisione finale sull’adesione politica“, aveva rivendicato la numero uno della Commissione Ue, illustrando i 4 pilastri di un Piano che dovrebbe sia “chiudere il gap economico e sociale” tra Ue e regione balcanica sia permettere “l’integrazione sul campo anche prima che entrino formalmente come Paesi membri”.Il primo pilastro è proprio l’integrazione economica nel Mercato unico in sette settori fondamentali, a condizione di un allineamento alle regole Ue e dell’apertura dei settori pertinenti ai Paesi vicini: libera circolazione delle merci, libera circolazione dei servizi e dei lavoratori, accesso all’Area unica dei pagamenti in euro (Sepa), facilitazione del trasporto su strada, integrazione e de-carbonizzazione dei mercati energetici, mercato unico digitale e integrazione nelle catene di approvvigionamento industriale. Il secondo pilastro è quello dell’integrazione economica interna attraverso il Mercato regionale comune (basato su regole e standard Ue): Bruxelles stima che solo questo fattore potrebbe potenzialmente aggiungere un 10 per cento alle economie dei Sei balcanici. Il terzo pilastro riguarda le riforme socio-economiche e fondamentali da intraprendere tra il 2024 e il 2027, che nel Piano di Bruxelles andranno da una parte a sostenere il percorso dei Balcani Occidentali verso l’adesione Ue e dall’altro sosterranno gli investimenti esteri e il rafforzamento della stabilità regionale.A proposito di investimenti, è qui che si inserisce il quarto pilastro dell’assistenza finanziaria Ue alle riforme per tutti i sei partner. Si tratta nello specifico di un nuovo Strumento di riforma e crescita per i Balcani Occidentali da 6 miliardi di euro per il periodo 2024-2027, i cui pagamenti saranno vincolati all’attuazione delle riforme concordate nelle rispettive Agende (esattamente come Next Generation Eu per i Ventisette). Con la revisione intermedia del Quadro finanziario pluriennale Ue 2021-2027 è stato dato il via libera allo strumento composto di 2 miliardi di euro in sovvenzioni (finite nel bilancio Ue senza modifiche alla proposta della Commissione) e 4 miliardi in prestiti agevolati, con le assegnazioni per ciascun Paese stabilite sulla base del Pil e della popolazione. Il sostegno del Piano di crescita – effettuato due volte l’anno e condizionato dal rispetto delle fasi qualitative e quantitative delle Agende – sarà fornito per metà dal Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) e per metà da prestiti erogati direttamente ai bilanci nazionali dei partner.La ‘grana’ Republika Srpska per la BosniaÈ proprio Dodik uno degli ostacoli maggiori per il percorso di avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina all’Unione Europea – e oggi dell’accesso ai fondi Ue del Piano di crescita – da quando si è fatto promotore di un progetto secessionista dall’ottobre del 2021. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche e, dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme elettorali e costituzionali nel Paese balcanico.Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)Ma le preoccupazioni si sono fatte sempre più concrete da fine marzo 2023, quando il governo dell’entità serbo-bosniaca ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero. La cosiddetta legge sugli ‘agenti stranieri’ è simile a quella adottata da Mosca nel dicembre 2022 ed è stata approvata a fine settembre dall’Assemblea nazionale di Banja Luka, tra le apre critiche di Bruxelles. Parallelamente è avanzato anche l’iter per l’adozione degli emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per diffamazione. Dopo la proposta – anch’essa a fine marzo – l’entrata in vigore è datata 18 agosto e ora sono previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”. Il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) e la delegazione Ue a Sarajevo hanno attaccato Banja Luka, mettendo in luce che le due leggi “hanno avuto un effetto spaventoso sulla libertà di parola nella Republika Srpska“.Alle provocazioni secessioniste si è affiancata la questione del rapporto con la Russia post-invasione ucraina. Già il 20 settembre 2022 Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale delle regioni ucraine occupate dalla Russia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio 2023 con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco. Come se bastasse, Dodik ha compiuto un secondo viaggio a Mosca il successivo 23 maggio, mentre a Bruxelles sono emerse perplessità sulla mancata reazione da parte dell’Unione con sanzioni. Fonti Ue hanno rivelato a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma l’Ungheria di Viktor Orbán non permette il via libera. Per qualsiasi azione del genere di politica estera serve l’unanimità in seno al Consiglio.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Quattro Paesi candidati all’adesione entrano per la prima volta nel rapporto Ue sullo Stato di diritto

    Bruxelles – È una prima volta storica, che “mira a mettere subito sullo stesso piano degli Stati membri” i quattro Paesi candidati all’adesione Ue che hanno già avviato i negoziati con Bruxelles. Nel rapporto sullo Stato di diritto 2024 pubblicato oggi (24 luglio) dalla Commissione Europea fanno ingresso anche Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, con quattro capitoli specifici per i più avanzati tra i 10 Paesi coinvolti nel processo di allargamento Ue. Quella che lo stesso esecutivo dell’Unione definisce “la principale novità” del rapporto annuale sullo Stato di diritto arrivato alla sua quinta edizione, costituirà insieme alle raccomandazione del Pacchetto Allargamento Ue la base per “sostenere i loro sforzi di riforma, aiutare le autorità a compiere ulteriori progressi nel processo di adesione, e prepararsi a continuare il lavoro sullo Stato di diritto come futuri Stati membri”.La commissaria europea per i Valori e la trasparenza, Vera Jourová (24 luglio 2024)Nella visione di Bruxelles, rispetto dello Stato di diritto e allargamento Ue vanno di pari passo, in quanto “un obiettivo fondamentale dell’allargamento dell’Unione è quello di radicare saldamente lo Stato di diritto nel nostro continente“. Di qui deriva la decisione di estendere la valutazione del quadro dei progressi e delle carenze su questo “elemento centrale” dell’impalcatura dell’Unione – solitamente riservato ai Ventisette – anche a quattro Paesi che hanno già avviato i negoziati di adesione. L’esclusione momentanea di Ucraina e Moldova è dovuta al fatto che si sono unite da troppo poco tempo (un mese esatto), mentre la Turchia è già stata analizzata separatamente nel novembre dello scorso anno per il suo stallo ormai totale dal 2018.L’analisi generale del gabinetto von der Leyen sul quadro dello Stato di diritto in Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia parte dallo scenario “particolarmente preoccupante” dei “tentativi di interferenza da parte della Russia, con la disinformazione e la retorica antidemocratica e anti-Ue“, in particolare dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. Ma c’è di più, ovvero la necessità di “riforme credibili e sostenibili per progredire verso l’adesione all’Unione” da parte di questi Paesi candidati, oltre che per accedere ai finanziamenti consistenti dello Strumento per la riforma e la crescita dei Balcani occidentali e dello Strumento per l’Ucraina. “Sulla base di criteri oggettivi e basati sul merito” il nuovo approccio adottato dalla Commissione potrà essere “esteso in futuro ad altri Paesi dell’allargamento Ue” (Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Kosovo, Moldova, Turchia e Ucraina), non solo “per ottenere progressi irreversibili in materia di democrazia e Stato di diritto prima dell’adesione”, ma anche “per garantire standard elevati e duraturi dopo l’adesione”.Lo Stato di diritto in AlbaniaL’analisi dello Stato di diritto in Albania parte dalla questione della riforma giudiziaria “sostanziale” attuata dal 2016. Nonostante “il controllo di tutti i giudici e procuratori ha rafforzato la responsabilità”, la Commissione rileva “carenze nelle nomine dei membri non magistrati del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio superiore della procura”, ma soprattutto “preoccupazioni” per la “limitata trasparenza e difficoltà nel garantire valutazioni tempestive e qualitative” nel processo di nomina, promozione e trasferimento dei magistrati, così come per i “tentativi di interferenza e pressione sul sistema giudiziario da parte di funzionari pubblici o politici“. Grosse sfide derivano dalla carenza di risorse finanziarie e umane, che influisce “negativamente” sulla qualità della giustizia, e dalla “lunghezza e grande arretrato” dei procedimenti giudiziari.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama“Sono incoraggianti” i risultati iniziali della Struttura speciale anticorruzione (Spak), ma le autorità specializzate nella repressione e nella prevenzione “segnalano carenze per quanto riguarda le risorse specializzate e gli strumenti disponibili”, mentre il numero di persone indagate, perseguite e condannate per reati in questo campo “è aumentato negli ultimi tre anni”. Dal momento in cui la corruzione “è diffusa in molti settori, anche durante le campagne elettorali” e il quadro giuridico “troppo complesso” limita le misure preventive, Bruxelles punta il dito sia contro la recente legge sull’amnistia sia sulla carenza di coordinamento tra le autorità nazionali. Vengono menzionate anche la “profonda” polarizzazione politica, che ha “un impatto negativo sull’efficacia, la trasparenza e l’obiettività del lavoro parlamentare”, e il “contesto difficile” per le organizzazioni della società civile, “anche in relazione ai requisiti di registrazione e ai limitati finanziamenti pubblici”.Tra gli elementi di maggiore preoccupazione per il rispetto dello Stato di diritto in Albania ci sono in particolare quelli relativi al settore della libertà dei media, tra cui spiccano soprattutto quelli sull’indipendenza dell’emittente pubblica, sulla “limitata regolamentazione sulla trasparenza della proprietà dei media e l’elevata concentrazione“, e sul mancato rispetto di “un’equa allocazione della pubblicità statale e di altre risorse statali”. Anche se il quadro per la protezione dei giornalisti è già in vigore, “le aggressioni verbali e fisiche, le campagne diffamatorie e le azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica sono motivo di preoccupazione”.Lo Stato di diritto in Macedonia del NordLa Macedonia del Nord “ha subito diverse ondate di riforme giudiziarie”, ma l’indipendenza della magistratura e la capacità istituzionale di proteggerla da influenze indebite “rimangono una seria preoccupazione”, così come il livello di indipendenza giudiziaria percepito “è molto basso”. Le decisioni di nomina di pubblici ministeri e giudici “sono state criticate dalla società civile perché non sono motivate in modo esaustivo o basate su criteri oggettivi”, le “limitate” risorse stanziate “possono incidere sull’autonomia finanziaria” e il deficit di risorse umane “potrebbe avere un impatto sulla qualità e sull’efficienza della giustizia”, come dimostrato dal fatto che “sono diminuite per le cause civili, commerciali e penali di primo grado”.Il nuovo primo ministro della Macedonia del Nord, Hristijan Mickoski (credits: Robert Atanasovski / Afp)Nonostante esista una strategia nazionale contro la corruzione, “la sua attuazione è in ritardo”, avverte la Commissione: “Il rischio rimane elevato in molte aree” e le recenti modifiche al Codice penale “hanno indebolito il quadro giuridico, incidendo negativamente sul perseguimento della corruzione”, soprattutto nei casi di alto livello. Tra le maggiori criticità c’è la “scarsità di risorse e la mancanza di cooperazione tra le autorità nazionali”, le lacune sul finanziamento dei partiti politici e “nessun lobbista registrato” nelle liste ufficiali apposite.Rimane centrale la polarizzazione politica al Parlamento nazionale, che “ha causato ritardi nel suo lavoro e ha portato a un uso eccessivo e talvolta inappropriato di procedure legislative accelerate”, anche se le organizzazioni della società civile possono operare in un ambiente “complessivamente favorevole”. A questo proposito le misure legislative “hanno rafforzato le garanzie legali” per la protezione dei giornalisti, “ma sono state registrate minacce e atti di violenza contro i giornalisti”. Il Consiglio per l’etica dei media “continua a essere messo sotto pressione” e persistono sfide sulla trasparenza della proprietà dei media, con “preoccupazioni su alcuni elementi della reintroduzione della pubblicità finanziata dallo Stato”.Lo Stato di diritto in MontenegroPer quanto riguarda il Montenegro, il Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue, “sta attraversando un’intensa fase di riforme, che prevede l’adozione e la revisione di un pacchetto completo di leggi” sull’indipendenza, la responsabilità e l’imparzialità del sistema giudiziario e della procura, compresa una nuova strategia di riforma giudiziaria 2024-2027. I significativi ritardi nelle nomine giudiziarie di alto livello andati in scena tra il 2022 e l’inizio del 2023 hanno avuto un impatto sul sistema in generale, “ma ormai manca solo la nomina del nuovo presidente della Corte suprema” ed esistono ancora “serie sfide” in particolare per la lunghezza dei procedimenti per le cause amministrative.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro del Montenegro, Milojko SpajićAll’interno della strategia 2024-2028 per la lotta alla corruzione, il Montenegro “criminalizza la maggior parte delle forme di corruzione” e il bilancio delle indagini e dei procedimenti giudiziari nei casi di alto livello “è stabile”, anche se “la mancanza di processi e decisioni finali contribuisce a creare una percezione di impunità“. Mentre numerose istituzioni hanno codici di condotta specifici, quello del governo “è inefficace” e attende l’adozione della legge sul governo con sanzioni disciplinari. Se è positiva l’adozione della nuova legislazione sul lobbismo lo scorso 6 giugno, lo è meno il fatto che il quadro giuridico che regola il finanziamento dei partiti politici “è ostacolato da carenze nella sua portata, chiarezza e attuazione”.Approfondito il capitolo sul pluralismo e la libertà dei media, con il pacchetto legislativo ad hoc composto da emendamenti alla legge sull’emittente pubblica nazionale, una nuova legge sui servizi di media audiovisivi e una sui media che “introduce miglioramenti sulla trasparenza della proprietà e su altre aree sistemiche, con l’obiettivo di allinearla all’acquis dell’Ue“. La nuova legislazione conferisce nuovi poteri all’Agenzia per i servizi di media audiovisivi, “affrontando l’annosa questione della sua efficacia nell’applicazione del quadro normativo, dotandola di strumenti sanzionatori completi”, rileva la Commissione Ue, anche se non si può dimenticare che “sono limitate” le informazioni su pagamenti del settore pubblico e pubblicità istituzionale. Nei casi di violenza contro i giornalisti le autorità montenegrine “forniscono risposte efficaci” a livello istituzionale e di applicazione della legge, “ma non è stato dato un seguito giudiziario efficace a casi emblematici del passato”.Lo Stato di diritto in SerbiaIl rapporto sullo Stato di diritto 2024 si conclude con il capitolo sulla Serbia. “L’attuazione della riforma costituzionale per il rafforzamento dell’indipendenza giudiziaria è in corso”, sottolinea la Commissione, che rileva come “le pressioni politiche sul sistema giudiziario e sulla procura rimangono elevate“. Nel Paese balcanico manca ancora un sistema completo di gestione dei tribunali che colleghi i casi tra i vari tribunali e le procure, mentre “l’efficienza mostra una tendenza positiva per le cause civili, commerciali e penali, ma ci sono serie difficoltà nella gestione delle cause amministrative e dei reclami costituzionali”. La capacità del Parlamento di garantire l’esercizio dei necessari controlli e contrappesi “è limitata da questioni di efficacia, autonomia e trasparenza, anche in termini di supervisione dell’esecutivo e del processo legislativo”.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente della Serbia, Aleksandar VučićL’adozione della Strategia nazionale anticorruzione 2023-2028 “è ancora in sospeso” e il quadro giuridico in vigore mostra “carenze nella pratica”. Nonostante la maggior parte delle forme di corruzione siano considerate reato, “sono necessari ulteriori miglioramenti per stabilire un solido track record di indagini, rinvii a giudizio e condanne definitive nei casi di alto livello”, anche considerate le carenze nella verifica e nell’applicazione delle dichiarazioni patrimoniali e nel finanziamento dei partiti politici. La normativa sul lobbismo “è di portata limitata”, la legislazione sulla protezione degli informatori “non è ancora allineata” all’acquis Ue e quello degli appalti pubblici è un settore “ad alto rischio” di corruzione. Le organizzazioni della società civile “non dispongono di un ambiente favorevole alla loro costituzione, alle loro attività e al loro finanziamento”, avvisa la Commissione, aprendo uno dei capitoli più delicati per il rispetto dello Stato di diritto in Serbia.L’Autorità di regolamentazione per i media elettronici “non riesce a esercitare appieno il suo mandato di salvaguardia del pluralismo e degli standard professionali, e vi sono anche serie preoccupazioni sulla sua indipendenza”. Le misure per la trasparenza delle strutture proprietarie e della pubblicità con risorse statali “non sono ancora state pienamente attuate” e, “sullo sfondo delle denunce di notizie tendenziose”, rimane critica l’autonomia editoriale e il pluralismo del servizio pubblico. A questo si somma il fatto che i giornalisti continuano a trovarsi di fronte a “frequenti rifiuti da parte di enti pubblici di divulgare informazioni di importanza pubblica o a non ricevere alcuna risposta”, e la loro sicurezza “è fonte di preoccupazione, così come la crescente pressione esercitata da cause legali abusive”. A questo proposito, rispondendo alle domande della stampa sul rispetto dello Stato di diritto in Serbia, la commissaria europea per i Valori e la trasparenza, Vera Jourová, ha messo in chiaro che “seguiremo molto da vicino la situazione in Serbia” e la Commissione non tollererà “attacchi, minacce o intimidazioni da parte di politici che bollano i giornalisti come minacce pubbliche”.

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    L’Ue ha iniziato a sospendere i finanziamenti diretti al governo della Georgia: “Solo il primo passo”

    Bruxelles – Non è più solo “de facto”, ora la sospensione del processo di adesione Ue della Georgia è realtà con i primi fondi congelati al governo di Tbilisi. “L’Unione Europea ha congelato il sostegno dal Fondo europeo per la pace, 30 milioni di euro per il 2024“, ha annunciato l’ambasciatore Ue in Georgia, Paweł Herczyński, parlando oggi (9 luglio) alla stampa nella capitale del Paese caucasico, anticipando che “questo è solo il primo passo, ce ne saranno altri” e a Bruxelles “si stanno valutando altre misure se la situazione dovesse ulteriormente deteriorarsi”.L’ambasciatore Ue in Georgia, Paweł Herczyński (9 luglio 2024)A determinare il taglio dei fondi alle forze armate georgiane è stata l’adozione di metà maggio della legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria che – come messo nero su bianco dalle conclusioni del Consiglio Europeo dello scorso 27 giugno – “ha determinato di fatto un arresto del processo di adesione“, nonostante lo status di Paese candidato ricevuto il 14 dicembre 2023 dallo stesso Consiglio Europeo. “Stiamo adottando misure a breve termine e stiamo rivedendo la nostra assistenza finanziaria“, ha precisato a Eunews il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, che ha fatto riferimento alle discussioni del Consiglio Affari Esterni del 24 giugno sulle “diverse opzioni per affrontare la situazione in Georgia”.Manifestanti georgiani a Tbilisi contro la legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’, 17 aprile 2024 (credits: Giorgi Arjevanidze / Afp)In ogni caso, “i nostri aiuti diretti al governo georgiano saranno ridotti e cercheremo di spostarli verso la società civile e i media“, ha voluto sgomberare il campo dai dubbi l’ambasciatore Herczyński, mantenendo chiara la distinzione per l’Unione tra il partito al potere Sogno Georgiano filo-russo e la società civile fortemente europeista. Una precisazione particolarmente importante in vista delle elezioni legislative in programma il 26 ottobre. “Spetta al popolo eleggere il prossimo governo, e spetta al prossimo governo decidere la sua politica nei confronti dell’Unione Europea”, è il secco commento dell’ambasciatore Ue, che ha messo le opzioni sul tavolo: “Devono decidere se vogliono far parte del prossimo grande allargamento dell’UE o se hanno altri piani per il loro futuro“.Quando mancano poco più di tre mesi alle elezioni, i partiti di opposizione a Sogno Georgiano si stanno organizzando su una piattaforma comune che prende le mosse dalla ‘Carta georgiana’ presentata a fine maggio dalla presidente della Repubblica, Salomé Zourabichvili. Diverse formazioni politiche hanno già confermato di correre sotto lo stesso ombrello politico (con candidati comuni o diversi, ma comunque alleati) con l’obiettivo dichiarato di “ripristinare il processo di adesione all’Ue e aprire i negoziati di adesione il più presto possibile“. Perché, secondo l’avvertimento dell’ambasciatore Herczyński, “tutto può ancora essere cambiato e siamo più che disposti ad aiutare in ogni modo possibile, ma il tempo sta per scadere”, ed è “triste vedere le relazioni tra l’Ue e la Georgia a un punto così basso, quando avrebbero potuto raggiungere un massimo storico“.La legge sugli agenti stranieri in GeorgiaLe proteste pro-Ue dei manifestanti georgiani a Tbilisi, 14 maggio 2024 (credits: Giorgi Arjevanidze / Afp)La legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ era stata presentata lo scorso anno da Sogno Georgiano e messa in stallo dopo l’ondata oceanica di proteste del marzo 2023. Con un leggero emendamento al testo, a inizio aprile la legge è stata ripresentata dal governo: tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero dovrebbero registrarsi come ‘organizzazione che persegue gli interessi di una potenza straniera’ (simile ad ‘agente di influenza straniera’ in vigore in Russia dal primo dicembre 2022). Dopo settimane di altissima tensione dentro e fuori il Parlamento di Tbilisi, e decine di migliaia di cittadini ad animare la più grande ondata di proteste dall’indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991 – ogni giorno ininterrottamente per due mesi – il partito al governo ha deciso di tirare dritto con la propria iniziativa legislativa prima del ritorno alle urne il 26 ottobre. E mostrando una disponibilità ad aumentare la portata della violenza messa in campo dalla polizia anti-sommossa e dagli agenti in passamontagna contro i manifestanti pacifici pro-Ue, che non hanno mai smesso di scendere a decine di migliaia in piazza ogni giorno.Dopo il primo via libera alla legge (secondo l’iter legislativo ordinario) dello scorso 14 maggio, è ricominciato un nuovo rapidissimo processo legislativo per superare la decisione della capa dello Stato, che si è sempre opposta fermamente a una legge che riprende in modo inquietante molti elementi della stessa legge in vigore in Russia. Il gesto della presidente Zourabichvili è stato puramente simbolico, dal momento in cui il governo sapeva già in partenza di poter utilizzare la propria maggioranza schiacciante in Parlamento per annullare il veto e far diventare legge la ‘trasparenza dell’influenza straniera’, così come confermato il 28 maggio dalla sessione plenaria del Parlamento.Prima della legge sugli agenti stranieriLe proteste pro-Ue dei manifestanti georgiani a Tbilisi, 7 marzo 2023 (credits: Afp)Nonostante la concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue, il rapporto tra Bruxelles e Tbilisi rimane particolarmente complesso – e ora tesissimo – a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo di tendenze filo-russe, lo stesso che ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino. Nel corso degli ultimi due anni si sono registrati diversi episodi che hanno evidenziato l’ambiguità del partito al potere Sogno Georgiano: nel maggio 2023 sono ripresi dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore, e il Paese caucasico non si è mai allineato alle misure restrittive introdotte da Bruxelles contro il Cremlino dopo l’invasione dell’Ucraina. Lo scorso autunno il governo ha anche tentato di mettere sotto impeachment (fallito) la presidente della Repubblica Zourabichvili per una serie di viaggi nell’Unione Europea che avrebbero rappresentato una violazione dei poteri della capa di Stato secondo la Costituzione nazionale.Ma la popolazione georgiana da anni dimostra di non condividere la direzione assunta da Sogno Georgiano e anche per questo motivo saranno cruciali le elezioni per il rinnovo del Parlamento il 26 ottobre. A cavallo della decisione di Bruxelles nel giugno 2022 di non concedere per il momento alla Georgia lo status di candidato all’adesione, a Tbilisi si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo (senza seguito da parte dell’esecutivo allora guidato da Garibashvili). I tratti comuni evidenziati a partire da queste manifestazioni sono le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu (dell’Ue) – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia. Un anno più tardi sono scoppiate le dure proteste popolari nel marzo 2023 – appoggiate da Bruxelles – che hanno portato al momentaneo accantonamento del controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’, fino all’approvazione di questa primavera nel pieno di una nuova ondata di proteste popolari.In questo scenario non va dimenticato il rapporto particolarmente delicato della Georgia con la Russia, Paese con cui confina a nord. La candidatura all’adesione Ue e Nato – sancita dalla Costituzione nazionale – da tempo è causa di tensioni con il Cremlino. Dopo i conflitti degli anni Novanta con le due regioni separatiste dell’Ossezia del Sud (1991-1992) e dell’Abkhazia (1991-1993) a seguito dell’indipendenza della Georgia nel 1991 dall’Unione Sovietica, sul terreno la situazione è rimasta di fatto congelata per 15 anni, con le truppe della neonata Federazione Russa a difendere i secessionisti all’interno del territorio rivendicato. Il tentativo di riaffermare il controllo di Tbilisi sulle due regioni nell’estate del 2008 – voluto dall’allora presidente Mikheil Saakashvili – determinò il 7 agosto una violenta reazione russa non solo nel respingere l’offensiva dell’esercito georgiano, ma portando anche all’invasione del resto del territorio nazionale con carri armati e incursioni aeree per cinque giorni. Da allora la Russia di Vladimir Putin riconosce l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud e ha dislocato migliaia di soldati nei due territori per aumentare la propria sfera d’influenza nella regione della Ciscaucasia, in violazione degli accordi del 12 agosto 2008.