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    INTERVISTA / Reuten: “La liberalizzazione dei visti per il Kosovo è l’inizio di un nuovo capitolo. Ma ci abbiamo messo troppo”

    Bruxelles – Un piccolo passo per l’Unione Europea, un grande passo per il Kosovo. Anche se, a ben vedere, le condizioni per arrivarci c’erano già tutte da anni e questo non fa particolare onore ai Ventisette. Con il voto favorevole in Parlamento Europeo è arrivato il via libera definitivo alla liberalizzazione dei visti per i cittadini del Kosovo, gli ultimi in tutta Europa – fatta eccezione per Russia e Bielorussia – a cui non bastava esibire il proprio passaporto per accedere ai Paesi membri dell’Ue e dello spazio Schengen. “È l’inizio di un nuovo capitolo nelle nostre relazioni”, lo ha definito il relatore per il Parlamento Europeo, Thijs Reuten (S&D), in un’intervista concessa a Eunews.
    Fra pochi mesi per tutti i Paesi dei Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – varranno le stesse regole di ingresso nell’area che ha abolito le frontiere interne: per i soggiorni di breve durata (fino a 90 giorni in un periodo complessivo di 180) non è necessario richiedere un visto, ma è sufficiente presentare il passaporto. Ciò che per i cittadini dell’Unione Europea è pressoché scontato diventerà una realtà anche per quelli kosovari, finalmente più vicini a sentirsi davvero parte “dello stesso continente, della stessa famiglia, dello stesso patrimonio culturale, della stessa storia”, è la speranza dell’eurodeputato olandese.
    Che significato ha il via libera alla liberalizzazione dei visti per il Kosovo?
    “L’adozione definitiva della liberalizzazione dei visti per il Kosovo da parte della sessione plenaria del Parlamento Europeo significa che abbiamo completato l’iter legislativo e che domani [19 aprile, ndr] si potrà svolgere la cerimonia di firma. Era un momento atteso da tempo, perché il Kosovo soddisfa i criteri da molti anni. Si tratta di una svolta storica, considerato il fatto che i cittadini kosovari che non hanno accesso a un passaporto albanese o serbo non possono viaggiare facilmente nel resto d’Europa. E ha anche un valore simbolico: per me è l’inizio di una nuova era, perché finalmente il Kosovo si unirà a tutti gli altri Paesi esenti da visto”.
    Quando entrerà in vigore l’esenzione?
    “Al più tardi il primo gennaio 2024 i cittadini kosovari saranno esenti dal visto. Avrei voluto fosse prima, ma l’esenzione è legata all’entrata in vigore dell’Etias [Sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi, ndr], che è stato rimandato troppe volte. Avrebbe dovuto essere già attivo, secondo il piano originale. Se accadrà un miracolo e il sistema entrerà in funzione prima, teoricamente la liberalizzazione dei visti per il Kosovo potrebbe arrivare in una data precedente. Ma ora concentriamoci sul primo gennaio 2024″.
    Il relatore per la liberalizzazione dei visti per il Kosovo, Thijs Reuten, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Cosa cambierà in quel momento per i cittadini kosovari?
    “Che potranno decidere di viaggiare liberamente nell’Unione Europea. Dovranno comunque mostrare il passaporto quando entreranno nei Paesi membri Ue o dell’area Schengen, come molte altre persone provenienti da tutto il mondo, ma non dovranno più pensare a ottenere un visto. Ogni volta che si deve passare attraverso questa procedura, è come passare da un esame, anche se si soddisfano tutte le condizioni. Noi cittadini dell’Unione Europea siamo abituati a viaggiare facilmente ovunque con il nostro passaporto e dobbiamo chiedere un visto in pochissimi Paesi. Ma per i cittadini kosovari finora è stato l’esatto contrario”.
    Perché ci è voluto tanto tempo?
    “Credo che ci sia voluto così tanto tempo per questioni politiche in seno al Consiglio. Alcuni governi hanno usato quest’ultimo dossier in sospeso sulla liberalizzazione dei visti in Europa per dibattiti politici interni. Ma ci sono sempre elezioni in programma o problemi politici per posticipare le decisioni. È molto semplice: se stabiliamo regole e condizioni – e un Paese le raggiunge tutte – dobbiamo rispettare gli impegni. Purtroppo l’Unione Europea ha una tradizione nel non rispettare sempre le condizioni, ma questo mina la fiducia nel processo di allargamento, come nel caso della liberalizzazione dei visti in Kosovo”.
    Il primo ministro albanese, Edi Rama, ha dichiarato che i cittadini kosovari erano meglio collegati all’Europa quando facevano parte della Jugoslavia…
    “Il Kosovo è stato lasciato indietro per troppo tempo, è l’ultimo Paese europeo a cui è stata garantita la liberalizzazione dei visti. Persino la Bosnia ed Erzegovina e il Montenegro l’hanno ottenuta molto tempo fa. I cittadini kosovari sono stati marginalizzati, con il risultato che si sono sentiti meno liberi o meno inclusi rispetto ai tempi dell’ex-Jugoslavia. Più ci si pensa, più la situazione è ridicola. In ogni caso, il Kosovo ha mantenuto la propria fiducia nel processo legislativo e ora ci siamo lasciati tutto questo alle spalle”.
    Qual è stata la posizione dei gruppi politici del Parlamento Europeo?
    “Al Parlamento Europeo non c’è mai stato alcun problema e siamo sempre stati i co-legislatori che hanno spinto per la liberalizzazione dei visti. Da quando il Kosovo ha soddisfatto tutte le condizioni più di quattro anni fa, sulla base del rapporto della Commissione Europea, abbiamo spinto con una larga maggioranza per andare avanti con la liberalizzazione. E alla fine anche al Consiglio dell’Ue, quando l’anno scorso la presidenza ceca ha intravisto una finestra di opportunità, abbiamo potuto finalmente trovare un accordo grazie a tutti i governi. Perché in fondo spostare il Kosovo da una lista all’altra non era una questione così complicata a livello tecnico”.
    Eppure cinque Stati membri dell’Ue non riconoscono ancora il Kosovo come Stato indipendente.
    “Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia hanno avuto percorsi diversi nella loro posizione di non-riconoscimento del Kosovo, ma spero che tutti si impegnino in questo dibattito. Conto davvero su di loro nella valutazione dela situazione: non deve accadere la settimana prossima o il mese prossimo, ma abbiamo bisogno di un cambiamento. Penso che non sarebbe molto logico se questi cinque Paesi non mostrassero almeno la loro volontà di muoversi nella direzione del riconoscimento del Kosovo. In particolare considerando la direzione che l’Ue sta prendendo sull’accordo di normalizzazione, che vogliamo sia vincolante e implementato”.
    Si riferisce agli accordi tra Kosovo e Serbia raggiunti tra febbraio e marzo.
    “Sì, e vedo una situazione che va verso il riconoscimento del Kosovo. Perché l’accordo prevede il riconoscimento dei documenti di viaggio e dei simboli nazionali, la non-opposizione da parte della Serbia all’adesione di Prishtina alle organizzazioni internazionali, e anche il non incoraggiare altri a bloccarla. Sono fiducioso che arriveranno buone notizie nei prossimi mesi, grazie a questo accordo: sarà istituito un comitato di attuazione e sono già in corso colloqui molto importanti, per esempio quello sulle persone scomparse. A piccoli passi, ci stiamo muovendo”.
    Si è discusso molto sul fatto che l’accordo non è stato firmato. Allo stesso tempo, l’Ue sta usando la leva finanziaria come strumento di persuasione per la sua implementazione.
    “Se l’accordo non sarà implementato, ci saranno pesanti conseguenze. Dobbiamo essere rigorosi e alzare la posta in gioco. Perché ora abbiamo un accordo vincolante, e credo che l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, abbia fatto un ottimo lavoro. Non ci deve essere nessuna questione a proposito della firma, l’attenzione in Serbia e in Kosovo deve essere rivolta solo all’implementazione dell’accordo, perché inseriremo quanto concordato nel quadro dei processi di adesione all’Ue di Kosovo e Serbia”.
    Che implicazioni ha tutto ciò per la Serbia?
    “Entrambi i Paesi devono attuare l’accordo il più velocemente possibile, naturalmente. Tuttavia, abbiamo visto il Kosovo negoziare in modo duro, ma in buona fede, mentre dall’altra parte il presidente serbo [Aleksandar Vučić, ndr] vuole creare una sorta di insicurezza nei confronti del processo. A questo si aggiunge il fatto che abbiamo un commissario ungherese [per il vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, ndr] che non sta facendo gli interessi dell’Unione Europea, cioè avvicinare tutti i Paesi candidati all’Unione Europea su un piano di parità e agli stessi standard. Solo un paio di settimane fa, il giorno dopo essere tornato a Belgrado dicendo che non avrebbe firmato l’accordo, Vučić ha ottenuto 600 milioni di euro dall’Ue, la più grande sovvenzione mai concessa alla Serbia. Per questo ho presentato un’interrogazione scritta alla Commissione Europea”.
    Cosa dovrebbe chiedere l’Ue a Belgrado?
    “Sono un amico della Serbia, voglio che anche questo Paese entri nell’Ue, ma dobbiamo essere chiari sulle condizioni: democrazia, strutture politiche imparziali, Stato di diritto. E l’adesione all’UE non può essere raggiunta se la Serbia è coinvolta in azioni destabilizzanti, dal Montenegro alla Bosnia ed Erzegovina e nell’erosione della democrazia. Se riusciamo a trovare la strada per rendere la sua adesione un successo, in qualità di più grande Paese e maggiore potenza economica, la Serbia potrebbe guidare l’intera regione a entrare nella famiglia dell’Unione Europea”.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (18 marzo 2023)

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    Serbia e Kosovo hanno raggiunto un’intesa sulla Dichiarazione sulle persone scomparse dell’accordo Ue

    Bruxelles – Un primo passo, per la verità e per la difficile messa a terra dell’accordo di normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia, in tutti i suoi punti e in tutti i suoi documenti vincolanti. Nonostante le polemiche per la mancata firma dell’accordo stesso – che più di un segno di penna sulla carta sembra scommettere sull’efficacia delle minacce di un taglio dei canali di finanziamento da Bruxelles per chi non lo rispetterà – Pristina e Belgrado hanno iniziato a implementare una prima parte dell’intesa: la Dichiarazione sulle persone scomparse, negoziata nell’ambito del dialogo facilitato dall’Unione Europea.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (18 marzo 2023)
    Come reso noto dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, l’intesa preliminare è stata raggiunta nel corso della riunione di ieri (4 aprile) tra i capi-negoziatori dei due Paesi balcanici, riuniti a Bruxelles per un nuovo round di discussioni a livello tecnico. Si tratta di “un primo passo” sul percorso di normalizzazione dei rapporti secondo l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio e il relativo allegato di attuazione del 19 marzo a Ohrid (Macedonia del Nord), entrambi concordati alla presenza del presidente serbo, Aleksandar Vučić, e del primo ministro kosovaro, Albin Kurti. E proprio dagli stessi leader dei due Paesi è attesa la firma ufficiale “nella prossima riunione di alto livello che convocherò”, ha precisato Borrell. La data da segnare sul calendario per il dialogo Pristina-Belgrado è il 22 aprile, mentre “è in corso la traduzione dei loro impegni nei rispettivi percorsi europei”. Le istituzioni Ue si aspettano non solo che “entrambi onorino tutti gli obblighi derivanti dall’accordo e inizino ad attuarlo al più presto”, ma anche che continuino a “evitare qualsiasi escalation”, ha avvertito Borrell, riferendosi ai rischi di nuove escalation delle frange estremiste della minoranza serba nel nord del Kosovo.
    La Dichiarazione sulle persone scomparse in Kosovo e Serbia
    La questione di un’intesa tra Serbia e Kosovo per fare luce sulle persone scomparse durante la guerra del 1998-1999 è stato messo nero su bianco nei due documenti siglati il 27 febbraio e il 19 marzo. Nell’accordo di Bruxelles in 11 punti sulla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi trova spazio all’articolo 6, quello che precisa la necessità di stipulare “accordi aggiuntivi” sulla “futura cooperazione nei settori dell’economia, della scienza e della tecnologia, dei trasporti e della connettività, delle relazioni giudiziarie e delle forze dell’ordine, delle poste e delle telecomunicazioni, della sanità, della cultura, della religione, dello sport, della tutela dell’ambiente, delle persone scomparse, degli sfollati”. Più esplicito l’allegato di attuazione dell’accordo in 12 punti, che all’articolo 4 riconosce “l’urgenza” di “approvare la Dichiarazione sulle persone scomparse, negoziata nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue”.
    Manifestazione a Pristina, Kosovo, in occasione della Giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate nel 2018 (credits: Armend Nimani / Afp)
    L’intesa raggiunta a livello tecnico – per cui ora serve solo il via libera ufficiale alla prossima riunione di alto livello – si basa su un dramma sociale nei due Paesi balcanici: sono 1600 i corpi delle persone scomparse nei due anni di guerra in Kosovo che non sono ancora stati localizzati, dopo gli oltre seimila rintracciati in più di 20 anni dalla fine della guerra. Gli scomparsi appartengono a tutte le comunità etniche: albanesi, serbi, rom, turchi, ashkali e bosgnacchi. Se per gli esperti è quasi impossibile ritrovarli tutti (durante le guerre etniche degli anni Novanta nell’ex-Jugoslavia si sono registrati anche traffici di organi), una cooperazione a livello politico potrebbe portare a una diminuzione del numero di persone la cui sorte non può essere stabilita con assoluta certezza. La base di partenza esiste già ed è il gruppo di lavoro bilaterale Pristina-Belgrado sulle persone scomparse (in stallo dal giugno 2021), su cui si dovrebbero concentrare gli sforzi di cooperazione per la ricerca, lo scambio di informazioni e le migliori pratiche.
    Si tratta inoltre di una questione umanitaria di carattere non solo regionale, ma globale. Secondo l’articolo 24 della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata del 2006, “ogni vittima [dove per ‘vittima’ si intende anche “qualsiasi individuo che abbia subito un danno come conseguenza diretta di una sparizione forzata”, ndr] ha il diritto di conoscere la verità sulle circostanze della sparizione forzata, sui progressi e sui risultati delle indagini e sulla sorte della persona scomparsa“. Ogni Stato firmatario “adotterà misure adeguate a questo proposito”, precisa la Convezione ratificata dalla Serbia nel 2011, mentre il Kosovo non può farlo fino a quando non sarà ammesso nelle Nazioni Unite.

    Alla prossima riunione di alto livello a Bruxelles del 22 aprile sarà firmato il testo concordato dai capi-negoziatori dei due Paesi balcanici. L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, lo ha definito “un primo passo” per “onorare tutti gli obblighi derivanti” dai due vertici di Bruxelles e Ohrid

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    Inizia una nuova era per il Montenegro. Bruxelles indica al nuovo presidente Milatović il lavoro sulle riforme verso l’Ue

    Bruxelles – Il Paese più avanzato sul cammino verso l’adesione all’Unione Europea è entrato in una nuova era politica. Per la prima volta in 32 anni il Montenegro non è né governato né presieduto da Milo Đukanović, padre-padrone dello Stato balcanico prima e dopo l’indipendenza nazionale nel 2006. Dopo il primo turno di due settimane fa, che già aveva indicato l’alta probabilità di un cambio di guardia a Podgorica, il ballottaggio di ieri (2 aprile) ha sancito la vittoria di Jakov Milatović, che diventerà il nuovo presidente del Montenegro a partire dal prossimo 23 maggio.
    Il nuovo presidente del Montenegro, Jakov Milatović (credits: Savo Prelevic / Afp)
    “Entro i prossimi cinque anni porteremo il Montenegro nell’Unione Europea“, ha esultato il neo-presidente dopo la pubblicazione dei risultati del secondo turno di voto, che lo ha visto trionfare con il 60 per cento delle preferenze sullo sfidante ed ex-presidente Đukanović e il 70 per cento di affluenza al voto. Filtra ottimismo anche a Bruxelles, dove il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, ha subito commentato la vittoria di Milatović: “Congratulazioni al nuovo presidente, non vedo l’ora di iniziare il lavoro per accelerare le riforme necessarie sul percorso del Montenegro verso l’Ue”.
    Parlando alla stampa europea, il portavoce della Commissione Ue responsabile per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Peter Stano, ha sottolineato che l’esecutivo comunitario è pronto a lavorare con Milatović e “tutti gli attori politici per aiutare il Paese a rimanere saldo nel percorso di adesione Ue e costruire il consenso sull’implementazione delle riforme sullo Stato di diritto e sulla giustizia“. Il supporto di Bruxelles è motivato dal fatto che l’adesione all’Unione è sostenuta dalla “maggioranza schiacciante della popolazione montenegrina” e in questo contesto “la stabilità politica nel Paese è chiave per continuare il percorso” per diventare il 28esimo Stato membro Ue.
    Chi è il nuovo presidente del Montenegro
    L’economista 36enne, che aveva solo cinque anni quando Đukanović salì al potere nel 1991 come primo ministro della Repubblica di Montenegro (allora parte della Repubblica Federale di Jugoslavia), è un personaggio relativamente noto a livello nazionale. Dopo aver lavorato per il gruppo bancario e finanziario sloveno Nlb Group a Podgorica e per Deutsche Bank a Francoforte, nel 2014 è entrato nel team di analisi economica e politica della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers) e dal 4 dicembre 2020 al 28 aprile 2022 è stato ministro dell’Economia e dello Sviluppo economico nella grande coalizione anti-Đukanović guidata da Zdravko Krivokapić. Durante l’anno e mezzo di governo Milatović ha presentato insieme al ministro delle Finanze, Milojko Spajić, un programma di riforme economiche intitolato proprio ‘Europe Now’, che comprendeva misure come il taglio dei contributi sanitari e l’aumento del salario minimo a 450 euro.
    I due tecnocrati hanno annunciato la volontà di fondare un nuovo partito di centro-destra liberale, anti-corruzione ed europeista dopo la caduta del governo Krivokapić nel febbraio 2022 – poi effettivamente fondato il 26 giugno – anticipando l’intenzione di collaborare con altre formazioni civiche e di centro, come la coalizione moderata di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) del premier dimissionario, Dritan Abazović. Alle amministrative di ottobre nella capitale Podgorica Milatović ha corso come candidato sindaco per Europe Now, piazzandosi al secondo posto. Dopo la squalifica di Spajić da parte della commissione elettorale centrale per il possesso di cittadinanza serba – vietata dalla legge montenegrina per chi vuole correre per la presidenza della Repubblica – si è candidato come sfidante di Đukanović alla prima carica del Paese.
    Festeggiamenti di elettrici filo-serbe in Montenegro dopo la vittoria di Jakov Milatović alle presidenziali del 2 aprile 2023 (credits: Savo Prelevic / Afp)
    “Sarò il presidente di tutti i cittadini, guiderò il Paese verso l’integrazione europea e promuoverò il recupero morale e sociale del Montenegro, depoliticizzando e rafforzando le istituzioni”, ha promesso Milatović. Il nuovo presidente è anche favorevole a relazioni più strette con la vicina Serbia (nonostante nel 2006 abbia votato a favore dell’indipendenza da Belgrado) e non a caso è stato sostenuto esplicitamente dai candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento sconfitti al primo turno, sia il leader del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić, sia quello del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić. Anche se si tratta della questione più delicata sulla scena politica montenegrina – il co-fondatore di Europe Now Spajić ha svolto attività di lobbying negli Stati Uniti a favore degli interessi della Chiesa serbo-ortodossa nel Paese – le tendenze filo-serbe non necessariamente sono contrarie alla visione europeista delle relazioni internazionali e il processo di adesione all’Ue del Paese balcanico iniziato nel 2012 e ribadito con una nuova iniziativa balcanica non dovrebbe subire contraccolpi.
    La situazione politica in Montenegro
    Per la prima volta in 32 anni sulla scena politica nazionale Đukanović non rivestirà alcun ruolo. Il leader del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) è stato premier dal 1991 al 1998 e poi di nuovo dal 2003 al 2006, dal 2008 al 2010 e dal 2012 al 2016, portando anche all’adesione del Montenegro alla Nato (formalmente dal 5 giugno 2017). Tra il 1998 e il 2003 e dal 2018 a oggi ha rivestito il ruolo presidente, in un periodo cruciale per il passaggio della Repubblica da federata con la Serbia a indipendente. I rivali di Đukanović accusano il quasi ex-presidente e il suo partito di corruzione e di legami con la criminalità organizzata, ma anche di aver politicizzato le istituzioni nazionali, con particolare riferimento alla crisi istituzionale aggravatasi negli ultimi mesi dello scorso anno.
    L’ex-presidente del Montenegro, Milo Đukanović, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Tutto è legato alla legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, che permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi. Il problema è stata la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (manca ancora il quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina.
    Dopo il rifiuto a nominare un nuovo primo ministro, lo scorso 16 marzo Đukanović ha sciolto il Parlamento e ha indetto nuove elezioni anticipate per l’11 giugno. Il risultato delle presidenziali potrebbe ora mettere ancora più in crisi il Partito Democratico dei Socialisti, che ha perso ieri l’ultima leva di potere che ancora deteneva. Dopo il risultato fallimentare delle elezioni politiche dell’agosto 2020 i socialisti hanno perso anche il controllo delle due città più grandi del Paese, Podgorica e Nikšić, alle amministrative dello scorso autunno e dal prossimo 23 maggio non esprimeranno più nemmeno la presidenza della Repubblica. La nuova era per il Montenegro è già iniziata, e il ritorno al voto anticipato per il rinnovo del Parlamento potrebbe essere l’ultima occasione per il padre-padrone della nazione di mantenere ancora la presa sul Paese.

    Il 36enne fondatore di Europe Now è stato eletto leader del Paese balcanico, mettendo fine al potere trentennale del socialista Milo Đukanović. Il sostegno dei partiti filo-serbi non sembra preoccupare la Commissione Ue, considerato il posizionamento europeista del partito

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    La nuova iniziativa di quattro Paesi dei Balcani Occidentali per l’allineamento completo alla politica estera dell’Ue

    Bruxelles – I Balcani Occidentali spingono per l’allineamento alla politica estera dell’Ue, per avvicinarsi ancora di più all’adesione all’Unione. Non tutti, perché la questione è molto delicata per Serbia e Bosnia ed Erzegovina, toccando direttamente il tema delle sanzioni internazionali contro la Russia. Ma gli altri quattro – Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro – hanno già fatto tutti i compiti a casa da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina e vedono nel rispetto totale delle misure restrittive dell’Ue uno dei punti di forza nel proprio percorso di avvicinamento all’ingresso nell’Unione.
    Ecco perché da ieri (29 marzo) è nata una nuova iniziativa politica, la Western Balkan Quad – 100% compliance with Eu foreign policy, con l’obiettivo di coordinare le politiche e le migliori pratiche dei quattro Paesi dei Balcani Occidentali. “Dopo l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina, l’allineamento alla Pesc [Politica estera e di sicurezza comune, ndr], ma ancor più in generale alle posizioni e ai valori del mondo democratico, si è trasformato in una delle priorità più importanti dei Paesi che aspirano all’adesione all’Ue, un chiaro messaggio di dove questi Paesi appartengono“, si legge nella dichiarazione congiunta dei ministri degli Esteri di Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro.
    Un’iniziativa nei Balcani Occidentali che nasce e si svilupperà “alla luce della nuova realtà geopolitica, delle minacce ibride, della crisi energetica e delle conseguenze economiche” causate dalla guerra russa, per cui l’Ue ha già deciso di stanziare un pacchetto complessivo da un miliardo di euro. I Paesi del Western Balkan Quad – un forum informale che affianca le già esistenti Open Balkan (zona economica e politica tra Albania, Macedonia del Nord e Serbia) e il Processo di Berlino (iniziativa diplomatica per l’allargamento Ue nella regione) – baseranno il proprio confronto sul fatto che “individualmente abbiamo dimostrato di essere partner affidabili della Nato e dell’Ue“, non solo con l’allineamento sulle sanzioni, ma anche attraverso “una specifica assistenza umanitaria e di altro tipo all’Ucraina”. Da qui ne scaturirà uno scambio “sugli attuali sviluppi regionali e internazionali, il processo di attuazione e applicazione delle politiche, dei regolamenti e degli standard dell’Ue”.
    Non si può non notare l’assenza di due attori centrali per i rapporti dell’Ue con i Balcani Occidentali: Serbia e Bosnia ed Erzegovina. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, la Serbia ha sempre cercato di mantenere una – quasi insostenibile – politica di non-allineamento, per non perdere da una parte il più influente partner commerciale e politico (l’Unione Europea, tra cui in particolare l’Italia riveste un ruolo chiave) e dall’altra il punto di riferimento privilegiato per la propria retorica nazionalista (la Russia). Questo riguarda anche le sanzioni internazionali contro la Russia, che Belgrado si è sempre rifiutata di adottare, e una serie di mosse politico-economiche al limite dello scontro diplomatico con Bruxelles. Più complessa la situazione in Bosnia ed Erzegovina, dove lo scenario politico è in costante stallo per le posizione manifestamente filo-russe della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del Paese: qualsiasi tentativo a Sarajevo di far passare politiche restrittive contro Mosca sono state bloccate dalla componente serba della presidenza tripartita e del Parlamento bicamerale.
    A che punto sono i sei Paesi dei Balcani Occidentali nel percorso verso l’Ue
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente deve essere implementato un delicatissimo accordo di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo.
    Il processo di allargamento Ue in cui sono impegnati i sei Paesi dei Balcani Occidentali inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.

    Si chiama “Western Balkan Quad – 100% compliance with Eu foreign policy” e riunisce Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro, ovvero i partner più allineati agli standard di Bruxelles per l’adesione all’Unione. In particolare per le sanzioni internazionali contro la Russia

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    La Moldova scaccia i fantasmi filo-russi. Michel annuncia l’avvio dei negoziati per l’ingresso in Ue entro la fine dell’anno

    Bruxelles – Le bandiere russe che un mese fa hanno riempito le strade di Chișinău nelle violente manifestazioni contro la presidente Maia Sandu potrebbero presto essere sostituite da quelle a dodici stelle dell’Unione Europea. Il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, in visita in Moldova, ha posto il suo obiettivo: aprire i negoziati per l’adesione del Paese all’Unione “entro la fine dell’anno”.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Repubblica di Moldova, Maia Sandu (28 marzo 2023)
    Il viaggio del leader Ue a Chișinău non è casuale. Dopo le mobilitazioni filo-russe fomentate dal partito di opposizione Șor e con il sospetto di ingerenze dell’intelligence di Mosca, c’era bisogno di riaffermare il “pieno sostegno” dell’Ue “per il popolo moldavo” nel suo cammino verso l’ingresso nell’Unione. E di accelerarlo, se necessario, per scongiurare le mire espansionistiche del Cremlino, che vorrebbe fare della Moldova una nuova Bielorussia. Michel ha reso onore al “coraggio e alla determinazione” con cui il Paese partner ha risposto alle minacce russe, che ha tentato di destabilizzare il Paese “usando l’arma dell’energia, gli attacchi informatici, fomentando proteste antigovernative”.
    Come a voler scacciare definitivamente qualsiasi fantasma filo-putiniano dall’orizzonte, la presidente Sandu ha dichiarato che “l’integrazione europea è l’unica strada che possa assicurare la sopravvivenza della Repubblica di Moldova come un Paese libero e prospero, l’unica possibilità per vivere in libertà, pace e benessere”. La premier europeista ha rivendicato la “determinazione a restare parte del mondo libero” con cui la Moldova sta affrontando gli attacchi ibridi che partono da Mosca, sottolineando al contempo il “supporto solido” ricevuto da Bruxelles.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, con il presidente del Parlamento della Moldova, Igor Grosu (28 marzo 2023)
    Un miliardo di euro mobilitati nel corso del 2022 a sostegno della stabilità del Paese, e la volontà a “fare ancora di più”. I 27 Stati membri hanno chiesto, nel corso dell’ultimo Consiglio Europeo, che la Commissione Ue presenti un pacchetto di misure per la Moldova “prima dell’estate”. Nel frattempo, ha ricordato Michel, è importante che il governo guidato da Dorin Recean “continui a implementare i nove passi richiesti dall’esecutivo europeo” per soddisfare i requisiti per l’ingresso nell’Unione. La presidente moldava ha assicurato di essere già al lavoro per “raggiungere gli alti standard necessari per essere un Paese membro”. Gli sforzi del governo si concentrano soprattutto su “un sistema giudiziario indipendente, sulla lotta alla corruzione, sull’eradicazione dell’influenza degli oligarchi nella politica, nell’economia, nei mass media e nella giustizia”.
    Nel corso della sua visita, Michel ha incontrato anche il primo ministroRecean e il presidente del Parlamento di Chișinău, Igor Grosu. Il numero uno del Consiglio Europeo ha infine confermato che la capitale moldava ospiterà, il prossimo primo giugno, la seconda riunione della Comunità politica europea: “Siamo certi che sarà un successo”, ha concluso Michel.

    Il presidente del Consiglio Ue in visita a Chișinău ha ringraziato la presidente, Maia Sandu, per il “coraggio e la determinazione” con cui ha risposto ai tentativi di destabilizzazione di Mosca. Il Paese è al lavoro per soddisfare i nove requisiti posti dalla Commissione Europea

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    Le 12 ore di Ohrid. L’Ue riesce a far trovare l’intesa a Serbia e Kosovo per l’attuazione dell’accordo di normalizzazione

    Bruxelles – Il diavolo sta nei dettagli, “ma a volte sta nel calendario e nelle tempistiche”. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha fornito una sua personalissima interpretazione della “lunga e difficile” discussione di 12 ore a Ohrid, sulle sponde del lago in Macedonia del Nord, teatro dell’ultimo round di alto livello del dialogo per la normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia. Un appuntamento atteso con particolare urgenza a Bruxelles, dopo il vertice del 27 febbraio decisivo per far trovare alle due parti una complicatissima intesa sulla proposta Ue in 11 punti. Mancava solo il via libera all’allegato di attuazione dell’accordo – la vera chiave di volta di tutta l’intesa che stabilisce “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come” – e ad Ohrid si può dire che quantomeno non c’è stata nessuna battuta di arresto.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (18 marzo 2023)
    Perché i due leader di Kosovo e Serbia, rispettivamente il premier Albin Kurti e il presidente Aleksander Vučić, hanno avallato l’allegato di attuazione, ma non l’hanno firmato. Il 18 marzo ad Ohrid è andato in scena un duello diplomatico, in cui l’alto rappresentante Borrell e il suo braccio destro, il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, hanno dovuto destreggiarsi per arrivare alle 23.10 e poter dire “abbiamo un accordo”. Tra luci e ombre. “Devo ammettere che inizialmente abbiamo proposto un annesso più ambizioso e dettagliato, ma sfortunatamente le parti non hanno trovato un accordo“, ha confessato Borrell, puntando il dito sulla responsabilità condivisa tra Pristina e Belgrado: “Da una parte, al Kosovo è mancata flessibilità nella sostanza, dall’altra parte, la Serbia aveva dichiarato a priori che non l’avrebbe firmato, anche se era pronta a implementarlo pienamente”. Ecco perché i due diplomatici europei hanno dovuto mettere sul tavolo “diverse proposte creative” – anche se “non così ambiziose come le prime” – e così, con la dichiarazione alla stampa dell’alto rappresentante Ue, “l’annesso è considerato adottato”.
    Non si tratta solo di parole o promesse, ma di un documento che ha un impatto concreto, anche senza firma. “Quello che hanno accettato – l’accordo e l’annesso di implementazione – diventeranno una parte integrante dei rispettivi percorsi verso l’adesione Ue“, ha puntualizzato l’alto rappresentante Borrell. In altre parole, se Pristina e Belgrado vorranno continuare a seguire la strada verso l’adesione Ue, è esplicito l’obbligo di mettere a terra tutti i punti concordati e adottati in principio. Anche senza firma. “Per renderlo concreto, lancerò immediatamente i lavori per includere gli emendamenti nel capitolo di negoziazione 35 con la Serbia [sulle relazioni esterne, ndr] e nell’agenda del gruppo speciale sulla normalizzazione del Kosovo”, e da questo momento “entrambe le parti saranno legate dall’accordo”. Il retro della medaglia è perfettamente intuibile: “Ora gli obblighi sono parte del percorso europei, non rispettarli avrà conseguenze“. Anche perché il dialogo Pristina-Belgrado “non riguarda solo Kosovo e Serbia”, ha spiegato ancora Borrell, facendo riferimento alla “stabilità, sicurezza e prosperità” dell’intera regione dei Balcani Occidentali.
    Cosa prevede l’allegato di attuazione dell’accordo tra Serbia e Kosovo
    L’allegato di attuazione dell’accordo sul percorso di normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia è composto di 12 punti, che costituiscono “parte integrante dell’accordo” stesso. Le due parti si impegnano “pienamente” a rispettare tutti gli articoli non solo dell’intesa del 27 febbraio, ma anche dell’allegato che mette nero su bianco i “rispettivi obblighi da adempiere tempestivamente e in buona fede“. Il presupposto è proprio il fatto che entrambi i documenti sono ora “parte integrante dei rispettivi processi di adesione all’Ue“, con le misure annunciate dall’alto rappresentante per rendere questo punto effettivo nei rapporti bilaterali tra Bruxelles e Pristina e tra Bruxelles e Belgrado.
    Come obblighi da attuare, Kosovo e Serbia “convengono di approvare con urgenza la Dichiarazione sulle persone scomparse“, negoziata nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue e Pristina deve “avviare immediatamente negoziati per la definizione di accordi e garanzie specifici che assicurino un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo“, così come già concordato 10 anni fa. Si tratta dell’Associazione delle municipalità serbe nel Paese prevista dall’accordo del 2013, mai implementato. Sul piano dell’attuazione di tutte le disposizioni sia dell’accordo sia dell’allegato, le due parti istituiranno un Comitato congiunto di monitoraggio presieduto dall’Ue, da istituire “entro 30 giorni”. Tra le scadenze viene inclusa anche quella di metà agosto 2023 (“entro 150 giorni) per l’organizzazione di una Conferenza dei donatori per definire un pacchetto di investimenti e aiuti finanziari per Kosovo e Serbia, in modo da attuare l’articolo 9 sull’impegno dell’Ue “in materia di sviluppo economico, connettività, transizione ecologica e altri settori chiave”. In ogni caso l’Unione Europea “non effettuerà alcun esborso prima di aver accertato la piena attuazione di tutte le disposizioni dell’accordo”.
    Il rispetto dei due documenti implica il fatto che “tutti gli articoli saranno attuati indipendentemente l’uno dall’altro“, che l’ordine dei paragrafi dell’allegato “non pregiudica l’ordine di attuazione” e che non dovrà essere bloccata l’attuazione di “nessuno degli articoli”. Le discussioni tra le parti per l’attuazione dell’accordo continueranno “nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue” e il mancato rispetto degli obblighi derivanti “dall’accordo, dal presente allegato o dai precedenti Accordi di dialogo” può avere “conseguenze negative dirette sui rispettivi processi di adesione e sugli aiuti finanziari che ricevono dall’Ue“, è quanto si legge a chiare lettere nel documento avallato da Kurti e Vučić..

    Sulle sponde del lago macedone il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, hanno avallato (ma non firmato) l’allegato di implementazione del vertice di Bruxelles. Un vincolo per i rispettivi percorsi Ue su “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come”

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    A pochi giorni dalle elezioni presidenziali, il Parlamento del Montenegro è stato sciolto. Ritorno alle urne anticipato

    Bruxelles – Dopo le elezioni presidenziali, quelle parlamentari, per tentare di rimettere il Montenegro su una strada più stabile nel suo cammino verso l’adesione all’Unione Europea. Con un decreto presidenziale il leader del Paese balcanico, Milo Đukanović, ha sciolto ieri (16 marzo) il Parlamento nazionale a soli tre giorni dal primo turno di voto per eleggere il nuovo presidente della Repubblica – in cui proprio Đukanović cerca la riconferma – e oggi ha fissato le elezioni anticipate per l’11 giugno.
    “L’Assemblea è sciolta con decreto del Presidente del Montenegro, il decreto diventa effettivo il giorno in cui viene dichiarato”, si legge in un comunicato dell’ufficio di presidenza diffuso alla stampa. La decisione di emanare il decreto sulla base dell’articolo 92 della Costituzione nazionale è stata presa dopo il fallimento del primo ministro incaricato di formare un governo, Miodrag Lekić (leader dell’Alleanza Democratica Demos), che nei 90 giorni di tempo a sua disposizione non è riuscito a mettere insieme una maggioranza parlamentare (di 41 deputati su 81).
    Il tentativo di mettere fine alla crisi politica e istituzionale – invocato da mesi dal presidente Đukanović e in linea con il mandato iniziale del poi sfiduciato governo di Dritan Abazović – nel Paese considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Ue arriva a ridosso delle presidenziali programmate per domenica (19 marzo). Il leader del Partito Democratico dei Socialisti (Dps), eletto numero uno del Montenegro cinque anni fa, tenterà di sfruttare il proprio credito europeista per conquistare un secondo mandato, ma dovrà fronteggiare non solo i candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento – il leader del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić, e quello del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić – ma anche Jakov Milatović, il candidato del nuovo movimento europeista Europe Now, al primo vero banco di prova nazionale dopo il secondo posto alle amministrative dell’ottobre 2022 nella capitale Podgorica. Il sistema elettorale è a doppio turno: se nessun candidato otterrà la maggioranza dei voti domenica, si terrà il ballottaggio tra i due più votati il 2 aprile.
    In occasione delle elezioni presidenziali in Montenegro, anche una delegazione di sei eurodeputati guidata dal croato Tonino Picula (S&D) sarà presente nel Paese balcanico da oggi a lunedì (20 marzo). La delegazione di osservazione elettorale del Parlamento Europeo sarà inquadrata nella missione internazionale dell’Ufficio per le istituzioni democratiche per i diritti umani (Odihr) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Come reso noto dai servizi dell’Eurocamera, i sei eurodeputati incontreranno i candidati dei partiti politici, i rappresentanti delle autorità nazionali, della società civile e dei media nazionali, mentre domenica osserveranno le elezioni dall’apertura dei seggi fino alla chiusura, e successivamente seguiranno lo spoglio.
    I due anni e mezzo di crisi in Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via a un governo di minoranza guidato da Abazović.
    Da sinistra: il primo ministro ad interim del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stata appoggiata dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettata, perché considerata un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue.
    Mentre da allora Abazović è premier ad interim, a partire dal settembre dello scorso anno si è aggravata anche la crisi istituzionale. A sparigliare le carte è stato il via libera a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, che permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi.
    Il vero problema si è però innestato con la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Senza la sua piena funzionalità non è stato possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (si rimane ancora in attesa del quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese.

    La legislatura si chiude con un anno e mezzo di anticipo, dopo che il leader del Paese alla ricerca di riconferma, Milo Đukanović, ha sciolto per decreto l’Assemblea nazionale, per mettere fine alla crisi politica. La tornata elettorale sarà organizzata per l’11 giugno

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    L’Ue al fianco della Moldova nella lotta contro i disordini sobillati dalla Russia: “Supporto incrollabile a Chișinău”

    Bruxelles – Dopo l’allarme, la reazione. Le autorità della Repubblica di Moldova hanno annunciato di aver arrestato sette persone con l’accusa di favoreggiamento di disordini durante le proteste antigovernative filo-russe di ieri (12 marzo). Una rete “orchestrata da Mosca” per destabilizzare la situazione interna al Paese candidato all’adesione all’Unione Europea, di cui farebbero parte cittadini moldavi e “agenti russi” inviati direttamente dal Cremlino per organizzare “disordini di massa” a Chișinău.
    Proteste anti-governative a Chișinău, Moldova, il 12 marzo 2023 (credits: Daniel Mihailescu / Afp)
    “Congratulazioni alla polizia moldava, che ha arrestato persone sospettate di aver pagato per promuovere disordini filorussi e antigovernativi”, è il commento della commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, ricordando che “il sostegno dell’Ue alla Moldova rimane essenziale“. Una dimostrazione è stata la riunione di venerdì (10 marzo) del Nucleo di sostegno Ue insieme alla ministra degli Interni moldava, Ana Revenco, in cui è stata firmata una lettera di intenti con Europol per garantire un supporto nella lotta al crimine organizzato. A margine dello stessa riunione a Bruxelles la ministra Revenco ha avvertito che “la Repubblica di Moldova è la seconda linea dell’aggressione russa contro l’Ucraina”. Nel corso della giornata di ieri migliaia di manifestanti filo-russi hanno marciato nella capitale del Paese, guidati da esponenti di Șor, il partito di Ilan Shor, oligarca moldavo sanzionato nell’ottobre dello scorso anno dagli Stati Uniti per la sua vicinanza al governo russo (la stessa cosa il governo moldavo chiede a Bruxelles di fare) e oggi in esilio in Israele per proteggersi da un furto bancario da 1 miliardo di dollari.
    Prima della riunione con la commissaria Johansson la ministra Revenco aveva fatto un riferimento implicito alle responsabilità anche di Shor nel rischio di colpo di Stato in Moldova, parlando di “sforzi e risorse di Mosca, gruppi di interesse e oligarchi fuggiti per aumentare il livello di destabilizzazione nel Paese”. Le autorità di polizia hanno anche informato che nell’ultima settimana è stato negato l’ingresso in Moldova a 182 cittadini stranieri – tra cui un “possibile rappresentante” del gruppo militare privato russo Wagner – mentre l’agenzia anti-corruzione ha effettuato un sequestro pari a oltre 200 mila euro per un presunto finanziamento illegale di Șor da parte di un gruppo di criminalità organizzata legato a Mosca. “La Moldova è uno dei Paesi più negativamente colpiti dalle conseguenze della guerra russa in Ucraina, negli ultimi mesi è diventato sempre più target degli attacchi ibridi e della disinformazione russa”, ha ricordato alla stampa il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano: “L’obiettivo è chiaro, minare e destabilizzare il Paese e le sue riforme anti-corruzione del governo pro-Ue”.
    Nelle ultime settimane si sono svolte diverse proteste da parte del gruppo Movimento per il Popolo – che riunisce diversi gruppi, associazioni e partiti filo-russi come Șor – per spingere la presidente europeista Maia Sandu a rassegnare le dimissioni. Non è un caso se poco meno di un mese fa Sandu ha confermato un report dell’intelligence ucraina, secondo cui il Cremlino ha messo in atto un piano per “rompere l’ordine democratico e stabilire il controllo” russo sul Paese candidato all’adesione Ue: l’obiettivo sarebbe “un cambio di potere a Chișinău”, attraverso “azioni violente, mascherate da proteste della cosiddetta opposizione“, con il coinvolgimento di “cittadini stranieri”. Per sostenere la leadership moldava, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha telefonato ieri alla presidente Sandu: “Il sostegno dell’Ue è incrollabile“, ha confermato il numero uno del Consiglio, precisando che è necessario “continuare a lavorare insieme in questa nuova fase di relazioni strategiche”. La conversazione telefonica è stata anche un’occasione per discutere della seconda riunione della Comunità Politica Europea, che il primo giugno porterà i capi di Stato e di governo dei Paesi proprio a Chișinău, ma anche della “determinazione della Moldova a portare avanti le riforme e gli sforzi per avanzare sulla strada Ue”.
    Le tensioni interne in Moldova
    Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina il 24 febbraio 2022 sono aumentate le tensioni nella Repubblica di Moldova e in particolare nell’autoproclamata Repubblica filo-russa della Transnistria, nell’est del Paese, con attacchi a Tiraspol e lungo il confine con l’Ucraina (primi segnali di strategia di destabilizzazione russa e di tentativo di trovare un pretesto per un possibile intervento armato). Nell’ultimo mese si sono registrati sempre più numerosi atti di provocazione palese di Mosca, con missili che attraversano lo spazio aereo della Repubblica di Moldova in direzione del territorio ucraino, mentre lo scorso 9 febbraio il presidente Volodymyr Zelensky ha informato per primo i 27 leader Ue (come poi confermato dalla presidente Sandu) del piano del Cremlino per “rompere l’ordine democratico e stabilire il controllo” russo sul Paese che ha ottenuto lo status di candidato dal 23 giugno dello scorso anno.
    Sul piano politico la situazione è particolarmente delicata, con le dimissioni dimissioni a sorpresa dello scorso 10 febbraio da parte della prima ministra europeista, Natalia Gavrilița. A succederle è stato scelto l’ex-segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza ed ex-ministro degli Affari Interni, Dorin Recean, che ha subito tranquillizzato sul fatto che sicurezza, economia e integrazione Ue saranno le priorità del governo, a partire dalla “realizzazione di tutte le condizioni per l’adesione all’Unione Europea” nel più breve tempo possibile. La Moldova aveva fatto richiesta formale per aderire all’Ue il 3 marzo dello scorso anno, a una settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ricevendo il via libera della Commissione tre mesi più tardi e il successivo benestare del Consiglio Ue alla concessione dello status di Paese candidato il 23 giugno.

    La polizia ha arrestato sette persone legate al Cremlino durante le proteste antigovernative guidate da Șor, il partito filo-russo dell’oligarca Ilan Shor. Colloquio telefonico tra i presidenti del Consiglio Ue, Charles Michel, e del Paese candidato all’adesione Ue, Maia Sandu