More stories

  • in

    Stoltenberg spera nell’ingresso Nato della Svezia al vertice di Vilnius. Ma Erdoğan lo lega all’adesione Ue della Turchia

    Bruxelles – Una mossa a sorpresa, che sa di ricatto a due organizzazioni, una a cui appartiene a l’altra a cui vorrebbe aderire. Alla vigilia del vertice Nato di Vilnius il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha aggiunto una mezza minaccia alla propria opposizione all’ingresso della Svezia nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord: “Prima si aprano le porte alla Turchia verso l’Ue, poi apriremo la strada alla Svezia nella Nato come abbiamo fatto con la Finlandia”. Due processi che non hanno nulla a che fare uno con l’altro, ma che il leader turco sta cercando di collegare per aumentare il proprio potere negoziale con Bruxelles, sfruttando l’arma del veto che gli permette di continuare a tenere in ostaggio la richiesta di adesione svedese all’Alleanza Atlantica.
    Sbloccare il processo di adesione Ue per la Turchia nella speranza che la Nato possa portare a termine l’allargamento iniziato un anno fa al vertice di Madrid. Finora il veto di Erdoğan – che ha di fatto impedito al Parlamento turco di ratificare la richiesta di Stoccolma, come previsto dalla procedura per l’ingresso di un nuovo membro nell’Alleanza – è sempre stato legato alla questione curda. È per questo motivo che la nuova rivendicazione dell’autocrate turco ha spiazzato entrambe le organizzazioni, sia la Nato sia l’Unione Europea: “Sostengo le ambizioni della Turchia di diventare membro dell’Unione Europea, ma allo stesso tempo dobbiamo ricordare che la Svezia ha rispettato le condizioni concordate a Madrid“, ha voluto sottolineare alla stampa nel pre-vertice di Vilnius il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, a proposito della lista di richieste fatte a Stoccolma nella riunione dei leader della Nato del 2022: “Si trattava di rimuovere le restrizioni sull’export di armi, rafforzare la cooperazione con la Turchia per combattere il terrorismo, cambiare la Costituzione e rafforzare le leggi anti-terrorismo, e tutto questo la Svezia l’ha fatto”. Ecco perché – nonostante il nuovo ricatto di Erdoğan – il segretario generale Stoltenberg si mostra ancora positivo sull’ingresso della Svezia alla Nato: “È ancora possibile avere una decisione positiva, sfrutteremo lo slancio del vertice per garantire quanti più progressi possibili”.
    Non poteva essere più netta la risposta da Bruxelles. “I due processi che avvengono in parallelo – l’adesione di nuovi membri alla Nato e il processo di allargamento dell’Unione Europea – sono separati“, ha messo in chiaro la portavoce della Commissione Ue, Dana Spinant, nel corso del punto quotidiano con la stampa di Bruxelles. L’Unione ha un processo di allargamento “molto strutturato” e misure “molto chiare”, che sono richieste a “tutti i Paesi candidati e anche quelli che desiderano diventarlo”, ha aggiunto la portavoce dell’esecutivo comunitario, ribadendo con fermezza che “non si possono collegare i due processi“. Anche il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha voluto ricordare nella sua conferenza pre-vertice di Vilnius che non esistono legami tra i due allargamenti: “Non va considerato come un argomento correlato” e – fatta eccezione per le resistenze di Erdoğan – “nulla ostacola l’adesione della Svezia alla Nato”.
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati avviati nel 2005 durante il primo mandato di Erdoğan come primo ministro, ma ormai da anni sono “a un punto morto” a causa dei “continui gravi passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura”, ripete dal 2020 il commissario responsabile per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Nonostante il quadro di rapporti tesi tra Bruxelles e Ankara, nel marzo 2016 il leader turco è riuscito a far pesare il proprio potere negoziale nell’accordo stretto tra l’Ue e la Turchia per bloccare e accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani in fuga dalla guerra in cambio di finanziamenti comunitari.
    Il veto di Erdoğan alla Svezia nella Nato
    La Svezia – insieme alla Finlandia – ha presentato domanda di adesione alla Nato nel maggio dello scorso anno, dando seguito alla più grande svolta strategica storica nella propria politica di sicurezza nazionale in risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. A sbarrare la strada a un percorso che sembrava essere destinato a procedere in modo spedito è stato proprio Erdoğan, a causa dei rapporti tesi sulla repressione della minoranza curda in Turchia. Le tensioni con Stoccolma e Helsinki sembravano essere diminuite con la firma del memorandum d’intesa alla vigilia del vertice di Madrid del 29 giugno 2022, in cui sono state definite le condizioni per lo sblocco dell’allargamento della Nato ai due Paesi scandinavi: tra queste in particolare le richieste di estradare i membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan).
    Da sinistra: il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan (credits: Adem Altan / Afp)
    La posizione irremovibile del leader turco non ha però portato a sostanziali progressi nella seconda metà dell’anno, in particolare per quanto riguarda la Svezia. Il punto più basso dei rapporti con gli altri leader Nato e Ue è stato raggiunto in occasione del via libera alla richiesta della Finlandia, quando è stato ribadito lo stop a Stoccolma: in questo modo è sfumato l’ingresso congiunto dei due Paesi scandinavi nell’Alleanza Atlantica nello stesso giorno (il 4 aprile 2023). Il leader turco – fresco vincitore delle elezioni presidenziali di maggio – continua a sostenere che la Svezia non stia facendo abbastanza contro quelli che Ankara definisce terroristi. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan è considerato un’organizzazione terroristica anche dall’Unione Europea – di cui Finlandia e Svezia fanno parte – ma l’attribuzione è controversa proprio per le persecuzioni messe in atto dal regime turco. Nel pomeriggio di oggi si svolgerà un vertice trilaterale tra Erdoğan, Stoltenberg e il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, per cercare un punto d’intesa prima del vertice di Vilnius. Che è sempre più distante dopo l’ultimo ricatto dell’uomo forte di Ankara.

    Alla vigilia della riunione dei 31 leader dell’Alleanza Atlantica in Lituania, il segretario generale ricorda che Stoccolma “ha rispettato le condizioni concordate a Madrid”. Da Bruxelles i portavoce della Commissione respingono il ricatto inaspettato del presidente turco: “Sono processi separati”

  • in

    Che cosa implicano le misure “temporanee e reversibili” (e non trasparenti) della Commissione Ue contro il Kosovo

    Bruxelles – Non una comunicazione, non una nota, non una pubblicazione scritta. Le misure “temporanee e reversibili” – perché la Commissione Europea è attenta che nessuno le chiami sanzioni – contro il Kosovo sono tutto fuorché trasparenti e solo analizzando pazientemente le parole dei funzionari e mettendo in fila i commenti rilasciati dai portavoce si può arrivare a ricostruire a grandi linee di cosa si tratta nel concreto. E di come l’azione di Bruxelles abbia un peso specifico – che va ben oltre le sole parole e minacce – al momento concentrato quasi solo su Pristina.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (22 giugno 2023)
    “La Commissione adotterà una serie di misure che saranno comunicate formalmente nel corso della settimana”, aveva annunciato martedì scorso (27 giugno) il direttore generale di Dg Near (direzione generale della Commissione responsabile per la Politica di vicinato e negoziati di allargamento), Gert Jan Koopman, nel corso di un’audizione alla commissione per gli Affari esteri (Afet) del Parlamento Ue. Misure comunicate effettivamente il 28 giugno al Kosovo – come ha reso noto a Eunews il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano – ma che non sono in nessun modo disponibili sul sito dell’esecutivo comunitario per la consultazione pubblica. “Voglio sottolineare molto chiaramente che non prendiamo queste azioni alla leggera e che devono essere viste come temporanee e reversibili, a seconda dei passi credibili, decisivi e tempestivi che ci aspettiamo che le autorità del Kosovo compiano per smorzare la situazione” nel nord del Paese, aveva affermato lo stesso Koopman, senza scendere nei dettagli con gli eurodeputati.
    È il portavoce del Seae a tratteggiare quanto è stato messo in atto contro il Kosovo per fare pressione su Pristina e arrivare a una de-escalation della situazione dopo lo scoppio delle violente proteste di fine maggio e le conseguenze socio-politiche del mese successivo. “Purtroppo il Kosovo non ha ancora preso le misure necessarie” richieste dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, nel corso riunione di emergenza a Bruxelles del 22 giugno, ed è per questo che Bruxelles è passata all’azione (coercitiva). Prima di tutto l’Ue ha “temporaneamente sospeso il lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione” avviato nel 2016, mentre sul piano diplomatico i rappresentanti del Kosovo “non saranno invitati a eventi di alto livello” e saranno sospese le visite bilaterali, “fatta eccezione per quelle incentrate sulla risoluzione della crisi nel nord del Kosovo nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue”, precisa Stano. Dure anche le due decisioni sul piano finanziario: sospesa la programmazione dei fondi per il Kosovo nell’ambito dell’esercizio di programmazione Ipa 2024 (Strumento di assistenza pre-adesione) e le proposte presentate da Pristina nell’ambito del Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) “non sono state sottoposte all’esame del Consiglio di amministrazione” riunitosi il 29-30 giugno.
    “Queste misure sono temporanee e completamente reversibili, a seconda degli sviluppi sul campo e delle decisioni di attenuazione prese dal primo ministro Kurti”, continuano a ripetere dal Berlaymont. Se al momento l’azione di pressione diplomatica si sta concentrando prevalentemente su Pristina, nemmeno Belgrado è esentata dal rispetto delle richieste di Bruxelles: “Stiamo monitorando attentamente e siamo pronti ad adottare misure contro la Serbia in caso di inadempienza“, ha spiegato sempre il portavoce del Seae parlando con Eunews. Lo stesso avvertimento è stato lanciato oggi (5 luglio) dal rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, in visita al presidente serbo, Aleksandar Vučić, nel corso della sua due-giorni tra Serbia e Kosovo per spingere il dialogo tra i due Paesi. La Serbia deve esentarsi dall’appoggiare i manifestanti violenti nel nord del Kosovo e di interferire in modo indiretto con la sicurezza del Paese vicino, anche attraverso l’aumento delle accuse e della retorica incendiaria contro Pristina.
    Cosa sta succedendo tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
    Proprio mentre il direttore di Dg Near Koopman informava gli eurodeputati sulle misure previste contro il Kosovo, l’alto rappresentante Borrell ha messo in guardia che “gli Stati membri stanno perdendo la pazienza davanti a una situazione che continua a deteriorarsi“. La questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i leader Ue hanno condannato “i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo” e hanno chiesto “un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione Europea il 3 giugno 2023″ (riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese). Entrambe le parti sono state invitate a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo“, con la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. La soluzione risiede sempre nella ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo), con l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.

    A causa della mancanza di “azioni necessarie” da parte di Pristina per diminuire la tensione nel nord del Paese, l’esecutivo comunitario ha deciso di sospendere “temporaneamente” le visite bilaterali, i fondi Ipa 2024 e il lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione

  • in

    Prima del Consiglio Ue von der Leyen sente i leader di Kosovo e Serbia. Borrell: “Stati membri stanno perdendo la pazienza”

    Bruxelles – Scende in campo la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, per cercare di dare il colpo definitivo ai rischi dell’aumento delle tensioni tra Kosovo e Serbia. “Ho sottolineato l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo facilitato dall’Ue sulla normalizzazione delle relazioni con la Serbia”, ha reso noto oggi (27 giugno) in un tweet la stessa numero uno dell’esecutivo comunitario dopo la telefonata con il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e poco prima di fare lo stesso con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. Colloqui che arrivano alla vigilia del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri Ue troveranno anche la questione delle violenze degli ultimi mesi nel nord del Kosovo e della tensione tra Pristina e Belgrado sul tavolo delle discussioni.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (27 giugno 2023)
    È la seconda volta che la presidente von der Leyen affronta la questione da quando il 26 maggio sono scoppiate le violente proteste nel nord del Kosovo che hanno portato a un aggravamento della situazione nella regione. “Le recenti tensioni sono preoccupanti, mi associo agli appelli rivolti a tutte le parti ad abbandonare lo scontro e ad adottare misure urgenti per ristabilire la calma“, aveva messo in chiaro la leader della Commissione presentando il nuovo piano di crescita per i Balcani Occidentali lo scorso 31 maggio. Da allora però è passato quasi un mese e sono stati pochi i segnali di riduzione delle provocazioni tra Pristina e Belgrado. Ma – come ha messo in chiaro l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in un punto stampa con il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, al termine dell’incontro di oggi – “gli Stati membri stanno perdendo la pazienza davanti a una situazione che continua a deteriorarsi“. Della questione i 27 governi ne hanno discusso ieri (26 giugno) al Consiglio Affari Esteri, trovandosi d’accordo sul fatto che “le parti devono permettere la de-escalation della situazione e trovare una via basata sulla tabella di marcia proposta loro la settimana scorsa” alla riunione di emergenza a Bruxelles.
    A proposito delle discussioni a livello Ue, saranno proprio i 27 capi di Stato e di governo ad affrontare direttamente la questione tra giovedì e venerdì. Come emerge dall’ultima bozza delle conclusioni visionata da Eunews, il Consiglio Europeo “condanna i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo e chiede un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione europea il 3 giugno 2023″, in riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese. La specifica sulla data è una novità rispetto alla prima versione delle conclusioni, ma non è l’unica. Spicca in particolare l’esortazione a entrambe le parti a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo” (Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica), mentre rimane la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. Uguale il passaggio sulla necessità della ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo). Ma nell’ultima bozza è stato incluso anche l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.
    L’arresto/sequestro di tre poliziotti kosovari dai servizi di sicurezza serbi nell’area di confine tra Serbia e Kosovo (14 giugno 2023)
    Anche il premier albanese Rama da Bruxelles ha messo in guardia sugli “effetti devastanti che un’ulteriore deterioramento della situazione potrebbe avere non solo in Kosovo e Serbia, ma in tutta la regione” dei Balcani Occidentali. Parole di soddisfazione sono state rivolte a Belgrado per aver risolto l’ultimo episodio di tensione – la liberazione di ieri dei tre poliziotti kosovari arrestati/rapiti dalle forze di sicurezza serbe il 14 giugno – ma “ora è tempo per una de-escalation urgente e immediata”, ha rimarcato il primo ministro: “Questa situazione non può impattare in modo negativo la regione, abbiamo molto da fare dopo tanti progressi, non può cadere tutto come un castello di sabbia”. Ecco perché l’idea condivisa da Tirana è quella di “una conferenza di massimo livello con Ue e Stati Uniti, che porti i leader dei due Paesi allo stesso tavolo“, è quanto avanzato da Rama. Da quel tavolo il premier Kurti e il presidente Vučić “non devono andarsene prima di aver trovato un accordo, altrimenti rischieranno di incorrere in conseguenze negative e spiacevoli per tutti”.
    Cosa sta succedendo tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la tensione tra Pristina e Belgrado rimane ancora alta e per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.

    La presidente della Commissione Ue ha telefonato al premier kosovaro, Albin Kurti, e al presidente serbo, Aleksandar Vučić, per ribadire “l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo”. Nella bozze di conclusioni del vertice dei leader Ue inserito un punto specifico

  • in

    I progressi a metà del guado. La Commissione Ue presenta il primo stato delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia

    Bruxelles – Il primo rapporto, un inedito che rompe la tradizione dei Pacchetti di allargamento Ue autunnali “su base eccezionale”. È il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a illustrare oggi (22 giugno) alla stampa dopo il Consiglio Affari Generali informale la presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia, i tre Paesi che per ultimi hanno intrapreso il percorso verso l’adesione all’Unione Europea (candidati i primi due, con la sola prospettiva europea il terzo). “Abbiamo ricevuto una chiara richiesta dai 27 Stati membri per un rapporto orale su come questi Paesi stanno progredendo sulle priorità stabilite dalla Commissione, non l’abbiamo mai fatto e ci focalizziamo solo su queste”, ha messo ben in chiaro lo stesso commissario, spiegando ai giornalisti quanto presentato poche ore prima ai ministri degli Affari europei a Stoccolma.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Una richiesta che – come sottolineato dalla ministra svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Jessika Roswall – parte dalla necessità di “iniziare le discussioni su come prepararci per un futuro allargamento”. Ed è per questo che la Commissione Ue ha deciso di sbilanciarsi prima dell’appuntamento atteso per il prossimo mese di ottobre, per “dare un incentivo positivo” ai tre Paesi, ha spiegato Várhelyi: “Hanno fatto molto lavoro, ma molto altro è ancora all’orizzonte e nel Pacchetto allargamento Ue non saranno questi gli unici criteri che prenderemo in considerazione“. A proposito dei criteri presi in considerazione, sono cinque le categorie considerate: nessun progresso (ovvero nessun passo intrapreso), progressi limitati (stadio preliminare), alcuni progressi (diverse riforme, ma alcune importanti ancora mancanti), buoni progressi (almeno metà delle richieste implementate) e completato. Va letto così – o ascoltato, considerato il fatto che si è trattato di un rapporto orale – quanto elencato dal commissario per l’Allargamento: Kiev ha completato 2 priorità su 7, Chișinău 3 su 9 e Tbilisi 3 su 12, ma l’attenzione va rivolta a quanto è “in corso”. Più o meno sulla buona strada.
    Per l’Ucraina sono 7 le priorità identificate, di cui 2 completate già ora: quella sulla riforma di due organi giudiziari (l’alto Consiglio della giustizia e l’alta Commissione per le alte qualifiche dei giudici) e quella sull’area dei media (legislazione “pienamente in linea” con la direttiva Ue sui servizi media). Buoni progressi sono stati identificati nell’ambito delle riforme della Corte Costituzionale (ancora in sospeso per la seconda lettura in Parlamento, per cui potrebbero arrivare emendamenti “entro il 24 giugno”). Per le restanti quattro priorità ci sono alcuni progressi: nell’area dell’anti-corruzione (con la nomina dell’ufficio del procuratore e dell’ufficio nazionale, “ma ora servono misure sistematiche”), nell’area dell’anti-riciclaggio (allineamento agli standard internazionali), nell’area della de-oligarchizzazione (implementazione del piano d’azione) e nell’area della tutela delle minoranze (“in particolare sull’uso delle lingue nella sfera pubblica, nell’amministrazione, nei media e nella stampa).
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e la ministra svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Jessika Roswall
    Per la Moldova sono 9 le priorità identificate, di cui 3 completate: quella sulle riforme giudiziarie (con il Codice elettorale), quella sul rafforzamento del coinvolgimento della società civile nel processo decisionale e quella sulla tutela dei gruppi vulnerabili e contro la violenza di genere. Per quanto riguarda le restanti 6, buoni progressi sono stati registrati in 3 priorità (riforma della giustizia, de-oligarchizzazione e riforme finanziamento dell’amministrazione pubblica) e alcuni progressi in altre 3 (anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata e anti-riciclaggio). Più complessa la situazione della Georgia, con 3 priorità completate su 12: quella sull’uguaglianza di genere e sulla lotta contro la violenza di genere, quella sull’implementazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei tribunali nazionali e quella sulla nomina di un difensore d’ufficio nei processi. In altre 7 priorità sono stati registrati alcuni progressi: impegno contro la polarizzazione politica, funzionamento delle istituzioni pubbliche e del sistema elettorale, adozione delle riforme giudiziarie, rafforzamento delle agenzie anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata, rafforzamento della difesa dei diritti umani e coinvolgimento della società civile nel processo decisionale. Solo progressi limitati nella de-oligarchizzazione, mentre nessun progresso sul pluralismo dei media e gli standard sui procedimenti contro i proprietari dei media.
    Ucraina, Moldova e Georgia verso l’Ue
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio dal presidente Volodymyr Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgiae Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano Irakli Garibashvili e della presidente moldava Maia Sandu. In soli quattro giorni (7 marzo) gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordatodi invitare la Commissione a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate dai tre Paesi richiedenti, da trasmettere poi al Consiglio per la decisione finale sul primo step del processo di allargamento Ue.
    Prima di dare il via libera formale, un mese più tardi (8 aprile) a Kiev la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, ha consegnato al presidente Zelensky il questionario necessario per il processo di elaborazione del parere della Commissione, promettendo che sarebbe stata “non come al solito una questione di anni, ma di settimane”. Lo stesso ha fatto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’11 aprile. Meno di settanta giorni dopo, il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde a tutti e tre i Paesi, specificando che Ucraina e Moldova meritavano subito lo status di Paesi candidati, mentre la Georgia avrebbe dovuto lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio di quest’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.
    Come funziona il processo di allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.
    Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.

    Illustrato dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, al Consiglio Affari Generali informale il rapporto orale dello stato di avanzamento dei percorsi verso l’Ue dei tre Paesi. Kiev ha completato 2 priorità su 7, Chișinău 3 su 9 e Tbilisi 3 su 12

  • in

    Per la prima volta nella storia una leader del Kosovo è intervenuta alla sessione plenaria del Parlamento Europeo

    Bruxelles – Un lungo discorso appassionato, che ha toccato molti punti di contatto tra l’Unione Europea e il Paese balcanico che più sostiene l’adesione all’Ue, nonostante le recenti tensioni che mettono Pristina di fronte al rischio concreto di sanzioni internazionali. La presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, è intervenuta alla sessione plenaria del Parlamento Europeo, la prima leader nella storia del giovane Stato europeo a rivolgersi agli eurodeputati nell’emiciclo a Strasburgo. “Oggi il Kosovo è libero, è indipendente, è un faro di democrazia“, ha aperto il suo discorso Osmani, prendendo parola dopo l’incoraggiamento da parte della presidente dell’Eurocamera, Roberta Metsola: “Conosco i suoi sforzi per la de-escalation e la stabilità nella regione”.
    La presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo (14 giugno 2023)
    Un intervento iniziato con il ricordo del Premio Sakharov 1998 consegnato dal Parlamento Ue al primo presidente del Kosovo, Ibrahim Rugova (prima che il Paese dichiarasse l’indipendenza nel 2008): “Voglio ringraziarvi dell’incommensurabile e continuo contributo che questa istituzione ha dato alla nostra libertà, democrazia e indipendenza”, ha affermato Osmani, chiedendo agli eurodeputati di “rimanere saldamente al fianco” del Paese più favorevole all’Ue, con “oltre il 90 per cento della nostra popolazione esprime il desiderio intransigente di entrare a far parte di queste istituzioni“. Esattamente sei mesi fa Pristina ha fatto richiesta di diventare Paese candidato e “il nostro avanzamento verso l’adesione fungerebbe da catalizzatore per la pace e la riconciliazione in una regione in cui le forze maligne hanno storicamente e continuano a seminare divisioni”. Così come dimostrato dall’ingresso di Slovenia e Croazia nell’Ue, o da Albania, Macedonia del Nord e Montenegro nella Nato, “l’integrazione della nostra regione non è solo di primaria importanza, ma ha anche un significato strategico“. Per la presidente Osmani, “è tempo di decisioni coraggiose, non di passi a metà, il Kosovo e i Paesi democratici dei Balcani Occidentali meritano di meglio”. D’altra parte “non ci allontaneremo mai dal nostro percorso euro-atlantico”, è la promessa della leader kosovara.
    A proposito di integrazione europea, la numero uno del Kosovo si è voluta soffermare sul fatto che il Parlamento Europeo “ha lottato insieme a noi per la causa della liberalizzazione dei visti“, fino al voto decisivo dello scorso 18 aprile: “Ha dato ai giovani brillanti e ambiziosi del mio Paese la possibilità di prosperare proprio come i loro coetanei in tutta l’Unione”. Come ricordato dalla presidente dell’Eurocamera Metsola, “è stato un percorso irto di ostacoli, ma insieme possiamo essere orgogliosi che dal primo gennaio 2024 ci sarà questa libertà di movimento”. E poi, proprio come i Ventisette, il Kosovo è particolarmente vicino all’Ucraina nella sua lotta di resistenza contro l’esercito russo: “Il 24 febbraio 2022 è stato un giorno buio per l’Europa e per noi è stato un ricordo rivissuto, a cui speravamo di non assistere mai più”, ha puntualizzato la presidente Osmani. Ecco perché “siamo stati il primo Paese della nostra regione a imporre sanzioni alla Russia” e sono state portate avanti diverse iniziative a sostegno di Kiev: “Dall’addestramento degli ucraini allo sminamento, dal lavoro per sostenere i sopravvissuti alle violenze sessuali, fino a un programma dedicato per sostenere i giornalisti ucraini per continuare a raccontare la verità”.
    Tornando alla situazione interna del Paese balcanico, Osmani si è soffermata a lungo sui miglioramenti democratici nei 15 anni di indipendenza del Kosovo e soprattutto sulla spinta verso l’uguaglianza di genere. Non solo in termini astratti. Diverse donne kosovare hanno accompagnato la presidente a Strasburgo, tra cui Vasfije Krasniqi Goodman, sopravvissuta e testimone delle violenze sessuali durante la guerra in Kosovo (1998-1999), Fahrije Hoti, vedova di guerra e proprietaria della Kooperativa Krusha – “un’azienda che ha dato il via allo sviluppo economico e all’emancipazione delle donne attraverso il loro impegno attivo nella forza lavoro” – Blerta Basholli, regista che ha trasformato la storia di Hoti in un film che ha vinto premi al Sundance Festival 2021, e Hana Qerimi, co-fondatrice delle start-up Digital School e StarLabs che “stanno facendo del Kosovo un leader nella regione come hub tecnologico”. Esempi concreti di cosa sta diventando il Paese balcanico ancora non riconosciuto da tutti i membri Ue, che dà un significato al “percorso di trasformazione, crescita e crescente prosperità” e allo “Stato di diritto come fondamento di una democrazia funzionante”.
    L’ultimo punto trattato da Osmani è legato a quanto sta accadendo nel nord del Kosovo. “Siamo assolutamente determinati nei nostri sforzi per garantire che tutti gli individui, indipendentemente dalla loro posizione o influenza, siano ritenuti responsabili delle loro azioni“, è il riferimento alle violenze dell’ultimo mese nei comuni di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Ma allo stesso tempo “costruire una società sempre più diversificata rimane il nostro impegno quotidiano” e “in questo spirito di inclusione, invito tutti i serbi che vivono in Kosovo ad avvalersi dei diritti avanzati previsti dalla Costituzione, questa Repubblica è la vostra casa e noi faremo tutto ciò che è in nostro potere per assicurarci che vi sentiate protetti, inclusi, uguali e ascoltati”, ha concluso la presidente kosovara il suo intervento davanti agli eurodeputati.
    La situazione in Kosovo
    È proprio la situazione in corso nel nord del Kosovo a preoccupare particolarmente le istituzioni comunitarie e la comunità internazionale. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 truppe aggiuntive della forza militare internazionale Kfor, sono state ripetute le richieste al primo ministro kosovaro, Albin Kurti, di non aumentare la tensioni nelle regioni di confine con la Serbia e di sospendere le operazioni di polizia, per spingere sulla strada del dialogo e di nuove elezioni amministrative. Tuttavia, per la comunità internazionale queste esortazioni non sembrano aver avuto sufficiente effetto, al punto che proprio oggi (14 giugno) il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, ha confermato esplicitamente alla stampa di Bruxelles che “mentre il lavoro diplomatico continua, l’Ue ha preparato delle proposte di misure con effetto immediato“. L’esortazione è sempre quella di rispettare le “richieste contenute nella lettera” inviata dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che rimane la chiave per ritornare al tavolo del dialogo non solo con la Serbia, ma a questo punto anche con Bruxelles, Washington e Tirana (il premier albanese, Edi Rama, ha annullato una riunione con il governo kosovaro prevista per oggi, nonostante sia il primo sponsor della causa kosovara).
    Tutto è iniziato con lo scoppio dele proteste delle frange violente della minoranza serba nel nord del Kosovo lo scorso 26 maggio, a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica, trasformatesi tre giorni più tardi in violente proteste che hanno coinvolto anche i soldati Kfor (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). A far deflagrare la tensione è stata la decisione del governo di Pristina di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci, nonostante le perplessità internazionali per l’affluenza al voto tendente all’irrisorio alle elezioni dello scorso 23 aprile – attorno al 3 per cento. Secondo il governo Kurti la decisione è stata determinata dagli episodi di ostruzionismo messi in atto dagli esponenti di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo, Aleksandar Vučić. Dopo una settimana di apparente stallo, le proteste sono scoppiate nuovamente negli ultimi giorni per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra gli organizzatori delle proteste violente di fine maggio.

    Mentre Pristina rischia sanzioni internazionali per le tensioni nel nord, la presidente Vjosa Osmani si è soffermata sul percorso di adesione all’Unione, sul sostegno alla resistenza ucraina, sul rispetto dello Stato di diritto e sulle garanzie di inclusione della minoranza serba nel Paese

  • in

    L’all-in degli europeisti di Europe Now in Montenegro. Dopo il presidente della Repubblica, il primo posto in Parlamento

    Bruxelles – Il Montenegro è entrato definitivamente in una nuova era politica. Dopo la presidenza della Repubblica, il partito europeista Europe Now ha conquistato anche il primo posto all’Assemblea nazionale alle elezioni anticipate di ieri (11 giugno). “Questa è una grande vittoria, ora parleremo con tutti coloro che condividono i nostri valori”, è stato il commento a caldo del leader del partito, Milojko Spajić, dopo lo storico risultato nel Paese balcanico.
    (credits: Savo Prelevic / Afp)
    Europe Now non ha solo conquistato il 25,6 per cento delle preferenze degli elettori, ma per la prima volta nella storia del Montenegro ha relegato al secondo posto il Partito Democratico dei Socialisti (Dps), la maggiore forza politica dal 1991 ma ieri fermatosi al 23,2 (12 punti percentuali in meno rispetto alle elezioni del 2020). In attesa dei risultati definitivi, l’istituto Centre for Monitoring and Research ha fornito una proiezione della distribuzione dei seggi con il 98,7 per cento delle schede elettorali scrutinate, in cui emerge il trionfo di Europe Now con 24 deputati (su 81), seguito dal Dps con 21. Ma decisive saranno le alleanze che cercherà di mettere in campo la forza politica nata nel febbraio dello scorso anno: la coalizione guidata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) del premier uscente Dritan Abazović ha conquistato il 12,5 per cento dei voti e 11 seggi, mentre i filo-serbi e pro-Ue di ‘Per il futuro del Montenegro’ (guidati da un altro ex-premier, Zdravko Krivokapić) il 14,7 per cento e 13 seggi. Insieme le tre forze possono contare su 48 seggi, con la possibilità di una convergenza di altri piccoli partiti che rappresentano le minoranze etniche nel Paese (bosniaca, albanese e croata).
    Lo scorso 2 aprile il Montenegro aveva già assisto al primo tempo della transizione politica, con la fine del potere del padre-padrone del Paese, Milo Đukanović. Alle elezioni presidenziali il candidato di Europe Now, Jakov Milatović, è stato eletto con il 60 per cento delle preferenze al secondo turno di voto ed è entrato in carica il 23 maggio. “Entro i prossimi cinque anni porteremo il Montenegro nell’Unione Europea”, è stata la promessa del neo-presidente, a dimostrazione che le tendenze filo-serbe nel Paese non necessariamente sono contrarie alla visione europeista delle relazioni internazionali. Dopo il risultato delle elezioni presidenziali di ieri, il processo di adesione all’Ue del Paese balcanico iniziato nel 2012 potrebbe uscirne rafforzato con un governo più stabile. Non è un caso se dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia il 24 febbraio dello scorso anno, il Montenegro ha aderito immediatamente alle sanzioni Ue contro Mosca, ha inviato aiuti a Kiev e ha aderito a una nuova iniziativa balcanica per il rafforzamento dell’allineamento alla politica estera dell’Unione. “Il Montenegro è un partner importante per l’Ue e il più avanzato sulla strada verso l’adesione“, ha commentato il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano.
    La situazione politica in Montenegro
    L’ex-presidente del Montenegro, Milo Đukanović, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    La crisi per il Dps e Đukanović è iniziata con le elezioni del 30 agosto 2020, quando in Montenegro sono cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via a un governo di minoranza guidato da Abazović. Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stata appoggiata dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettata, perché considerata un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue.
    Mentre Abazović è rimasto premier ad interim, a partire dal settembre dello scorso anno si è aggravata anche la crisi istituzionale. A sparigliare le carte è stato il via libera a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, che permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi.
    Il presidente del Montenegro, Jakov Milatović (credits: Savo Prelevic / Afp)
    Il vero problema si è però innestato con la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Senza la sua piena funzionalità non è stato possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (si rimane ancora in attesa del quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese. Dopo il rifiuto a nominare un nuovo primo ministro, lo scorso 16 marzo Đukanović ha sciolto il Parlamento e ha indetto nuove elezioni anticipate per l’11 giugno, prima di perdere la carica di presidente il 3 aprile.
    Chi guida Europe Now
    La doppia tornata elettorale in poco più di due mesi è stato il primo vero banco di prova nazionale per il nuovo movimento europeista Europe Now, dopo essersi piazzato al secondo posto alle amministrative dell’ottobre dello scorso anno nella capitale Podgorica. A guidare il partito sono Spajić e il neo-presidente Milatović, rispettivamente ministro delle Finanze e dell’Economia e dello Sviluppo economico nella grande coalizione anti-Đukanović guidata dal 4 dicembre 2020 al 28 aprile 2022 da Krivokapić. Durante l’anno e mezzo di governo i due hanno presentato un programma di riforme economiche intitolato proprio ‘Europe Now’, che comprendeva misure come il taglio dei contributi sanitari e l’aumento del salario minimo a 450 euro.
    I due tecnocrati hanno annunciato la volontà di fondare un nuovo partito di centro-destra liberale, anti-corruzione ed europeista dopo la caduta del governo Krivokapić nel febbraio 2022 – poi effettivamente fondato il 26 giugno – anticipando l’intenzione di collaborare con altre formazioni civiche e di centro in vista delle elezioni parlamentari del 2023. Una delle missioni di Europe Now sarà proprio quella di accompagnare il Paese balcanico nell’Unione Europea: il Montenegro ha fatto richiesta di adesione il 15 dicembre 2008, ottenendo due anni più tardi lo status di Paese candidato (il 17 dicembre 2010) e dopo altri due anni l’avvio dei negoziati (29 dicembre 2012). Da 11 anni Podgorica si trova a questo stadio nel lungo processo di adesione all’Unione.

    Alle elezioni anticipate il partito del neo-presidente Jakov Milatović ha conquistato un quarto delle preferenze, relegando al secondo posto il Partito Democratico dei Socialisti per la prima volta nella storia del Paese. Ora si cerca un accordo per una larga maggioranza pro-Ue

  • in

    L’appello della presidente della Georgia alla plenaria del Parlamento Ue: “Status di candidato entro fine 2023”

    Bruxelles – C’è un solo Paese che è sulla strada dell’Unione Europea, ma non ha ancora ottenuto lo status di candidato all’adesione. È la Georgia, uno dei partner più europeisti nelle aspirazioni della popolazione, ma allo stesso tempo più complicato nella gestione dei rapporti con il governo in carica. “Aldilà delle passioni politiche tutti i georgiani condividono la speranza di ritrovare la famiglia europea, è una scelta legittima e che non prevede alternative, perché si basa su valori, storia, lotte e determinazione per il futuro comuni”, è stato il messaggio della presidente della Georgia, Salomé Zourabichvili, dal cuore dell’Unione Europea, intervenendo alla sessione plenaria del Parlamento Europeo nell’emiciclo di Bruxelles. Con un chiaro messaggio per il prossimo futuro: “C’è un’unica strada da percorrere, garantire alla Georgia entro la fine dell’anno lo status di Paese candidato all’adesione Ue“.
    La presidente della Georgia, Salomé Zourabichvili, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (31 maggio 2023)
    Era da 13 anni che un leader georgiano non interveniva al Parlamento Europeo – l’ultima volta era stato Mikheil Saakashvili il 22 novembre 2010, le cui condizioni di salute in carcere oggi preoccupano gli eurodeputati – e il ritorno non poteva essere più d’impatto. “Sarebbe il riconoscimento delle lotte del nostro popolo, dell’identità e dell’importanza dell’Ue, è una richiesta come membri della stessa famiglia“, ha ricordato Zourabichvili, riconoscendo “le nostre lacune” sulla strada verso l’adesione: “Tanto deve essere ancora fatto, è il compito comune nei prossimi mesi per non perdere una seconda opportunità che il popolo stavolta non ci perdonerebbe“. Anche la numero uno dell’Eurocamera, Roberta Metsola, ha ribadito la necessità di “spingere di più per dare lo status di candidato” alla Georgia, per non rischiare di perdere un popolo fortemente europeista: “Vi sosterremo nel viaggio per diventare parte dell’Ue, ma serve più decisione sulle riforme-chiave“.
    La Georgia ha fatto richiesta di adesione all’Ue il 3 marzo dello scorso anno. Tuttavia, in linea con il parere della Commissione, al vertice dei leader del 23 giugno è stato deciso di garantire non lo status di Paese candidato ma la ‘prospettiva europea” con 12 riforme-chiave sullo Stato di diritto e le libertà fondamentali da implementare prima della concessione dello status. Proprio ai “12 passi richiesti” ha fatto riferimento nel suo intervento la presidente Zourabichvili, che non li considera un vincolo ma “raccomandazioni di essere fedeli alla nostra identità e riconciliarci con essa“. L’obiettivo è quello di “vedere una Georgia libera in un’Europa libera, l’unica strada per farlo è far parte nell’Ue”, è stata l’esortazione della leader georgiana.
    Le proteste pro-Ue dei manifestanti georgiani a Tbilisi, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    A questo si ricollega la questione delle minacce della Russia, Paese con cui confina a nord. Nell’agosto del 2008 l’esercito russo aveva invaso (per cinque giorni) la Georgia e da allora Mosca riconosce i territori separatisi dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia come Stati indipendenti e nell’area sono ancora dislocati migliaia di soldati russi, per aumentare la sfera d’influenza nella regione della Ciscaucasia. “Quando invoco il futuro europeo della Georgia, lo faccio anche per gli abitanti delle regioni di Abkhazia e Tskhinvali [capitale dell’Ossezia del Sud, ndr], non sono in vendita”, ha attaccato Zourabichvili da Bruxelles. La presidente della Georgia ha fatto anche riferimento alla guerra russa in Ucraina e alla politica di espansionismo intrinseca di Mosca: “Le politiche di appeasement non hanno mai funzionato, è la sua natura imperialistica che le fa portare avanti attacchi contro i vicini“, perché “il Paese più grande al mondo non accetta di avere dei confini”.
    La complessa strada della Georgia nell’Ue
    Per l’Unione Europea la Georgia rimane uno dei Paesi partner più complessi da gestire, a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo quantomeno controverso sulle tendenze filo-russe (anche se poi ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino concretizzatosi il 24 febbraio 2022 in Ucraina). Tra le ultime notizie che hanno sollevato più preoccupazioni va ricordato il ritiro del partito al potere a Tbilisi, Sogno Georgiano, come membro osservatore del Partito del Socialismo Europeo (Pes), a causa delle frizioni sempre più evidenti per l’avvicinamento all’Ungheria di Viktor Orbán (il premier Irakli Garibashvili ha recentemente partecipato alla convention dei conservatori europei e statunitensi a Budapest). Ma anche la ripresa dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore.
    A cavallo della decisione di Bruxelles di giugno 2022 di non concedere ancora alla Georgia lo status di candidato all’adesione, a Tbilisi si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo georgiano ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo per aver fallito l’obiettivo sulla candidatura all’adesione. I tratti comuni di queste manifestazioni sono state le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu (dell’Ue) – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia (quello ufficiale dell’Unione Europea).
    Quasi tre mesi fa sono scoppiate dure proteste popolari contro un controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria, voluta proprio dal premier Garibashvili per registrare tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo simile a quanto in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento decine di migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza con le bandiere della Georgia e dell’Unione Europea, gridando slogan come Fuck Russian law, sostenuti sia dalle istituzioni comunitarie sia dalla presidente Zourabichvili. Dopo due giorni di proteste ininterrotte il partito Sogno Georgiano ha ritirato il progetto di legge, ma senza sconfessare la propria iniziativa. Il leader del partito al potere è l’oligarca Bidzina Ivanishvili, che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo, in cui è richiesto alla Commissione di imporre nei suoi confronti sanzioni personali.

    La leader georgiana Salomé Zourabichvili si è rivolta alle istituzioni comunitarie direttamente dall’emiciclo di Bruxelles: “Tanto deve essere ancora fatto, è il nostro compito comune nei prossimi mesi per non perdere una seconda opportunità che il popolo non ci perdonerebbe”

  • in

    Von der Leyen risponde alle tensioni nei Balcani Occidentali con un nuovo piano di crescita per la regione su 4 pilastri

    Bruxelles – La situazione nei Balcani Occidentali preoccupa i vertici delle istituzioni comunitarie e non potrebbe essere altrimenti. Ma la risposta non può essere sempre e solo cercare di gettare acqua sugli incendi che regolarmente scoppiano soprattutto nella regione di confine tra Kosovo e Serbia, ma deve essere più strutturale. La pensa così la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, secondo quanto emerso dal suo intervento al GlobSec 2023 Bratislava Forum, in cui ha annunciato una nuova iniziativa dell’Unione che risponde anche a un nuovo approccio verso la regione: “Non chiediamo solo ai nostri partner di fare nuovi passi verso di noi, anche noi facciamo un grande passo verso di loro“.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in Albania (27 ottobre 2022)
    Quanto anticipato questa mattina (31 maggio) nella capitale della Slovacchia dalla numero uno dell’esecutivo comunitario è un nuovo piano di crescita per i Balcani Occidentali basato su quattro pilastri: “Avvicinarli al Mercato unico dell’Ue, approfondire l’integrazione economica regionale, accelerare le riforme fondamentali e aumentare i fondi di pre-adesione”. Una strategia che secondo la visione di Bruxelles porterà quasi nell’immediato “alcuni dei vantaggi dell’adesione all’Ue ai cittadini dei Balcani Occidentali” (ovvero Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia). Per esempio, “entrando a far parte del nostro Mercato unico digitale in settori quali il commercio elettronico o la sicurezza informatica”, ha illustrato von der Leyen, sottolineando però parallelamente il ruolo “fondamentale” di un mercato regionale comune per “rendere la regione un luogo più attraente per gli investitori europei”. Anche le riforme e l’aumento dei finanziamenti pre-adesione rientrano nella stessa visione di aumentare la “fiducia degli investitori”, ha precisato von der Leyen: “C’è un disperato bisogno di investimenti nei Balcani Occidentali“.
    Al centro di tutta la riflessione di von der Leyen c’è la questione energetica. “La regione dei Balcani Occidentali ha un enorme potenziale di diversificazione dai combustibili fossili russi“, tuttavia “deve aumentare l’efficienza energetica, intensificare la diversificazione e accelerare la diffusione di un maggior numero di energie rinnovabili” per ottenere due vantaggi: “L’indipendenza energetica dalla Russia e un più stretto allineamento con l’Unione Europea per accelerare l’adesione”. Ma allo stesso tempo anche i Ventisette devono “assumersi la responsabilità di avvicinare molto di più gli aspiranti membri dell’Unione”, perché “le onde d’urto inviate dalla guerra di aggressione di Putin hanno già raggiunto” anche i partner balcanici. Questo comunque per von der Leyen “non ha fatto altro che avvicinarci”, grazie al piano di sostegno dell’Unione che ha garantito le stesse misure di solidarietà come quelle all’interno dell’Unione: “Abbiamo sostenuto le famiglie vulnerabili contro gli alti costi dell’energia e stiamo costruendo nuove infrastrutture per ridurre la dipendenza dei Balcani Occidentali dai combustibili fossili russi“, ha rivendicato da Bratislava la numero uno della Commissione.
    Le tensioni in Kosovo
    Nel presentare il nuovo piano di crescita economica per i Balcani Occidentali, la presidente della Commissione Ue non ha dimenticato di citare la situazione in corso nel nord del Kosovo. “Le recenti tensioni sono preoccupanti, mi associo agli appelli rivolti a tutte le parti ad abbandonare lo scontro e ad adottare misure urgenti per ristabilire la calma“. Proprio questa mattina l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha salutato con favore la decisione del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, di dispiegare nel Paese balcanico 700 truppe aggiuntive della forza militare internazionale Kfor: “Continueremo lo stretto coordinamento e la cooperazione anche attraverso la nostra missione Eulex”, ha commentato Borrell (ritwittato poi dal presidente del Consiglio Ue, Charles Michel).
    Le proteste delle frange violente della minoranza serba nel nord del Kosovo sono scoppiate venerdì scorso (26 maggio) a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica, trasformatesi poi lunedì (29 maggio) in violente proteste che hanno coinvolto anche i soldati Kfor (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). A far deflagrare la tensione è stata la decisione del governo di Pristina di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci, nonostante le perplessità internazionali per l’affluenza al voto tendente all’irrisorio alle elezioni dello scorso 23 aprile – attorno al 3 per cento. Secondo il governo di Albin Kurti la decisione è stata determinata dagli episodi di ostruzionismo messi in atto dagli esponenti di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo, Aleksandar Vučić. Una scelta che però ha scatenato la dura reazione dei partner statunitensi, che hanno duramente accusato Pristina per l’escalation di tensione e imposto lo stop momentaneo alle esercitazioni ‘Defender 23’ come misura sanzionatoria.
    Mentre la Nato ha annunciato un rafforzamento della presenza attraverso il dispiegamento delle Forze di Riserva Operativa per i Balcani Occidentali, a Bruxelles le istituzioni comunitarie hanno iniziato a prepararsi per rafforzare subito il dialogo tra Serbia e Kosovo e riportare la situazione alla calma attraverso la diplomazia. “Ho chiesto a entrambe le parti di prendere misure urgenti per la de-escalation immediata e incondizionata”, ha reso noto ieri (30 maggio) in un punto stampa l’alto rappresentante Borrell, annunciando di essersi attivato per “un incontro di alto livello urgente del dialogo Pristina-Belgrado“. Se il diktat ai “manifestanti violenti” rimane sempre quello di “ritirarsi”, al governo del Kosovo la richiesta è quella di “sospendere le operazioni di polizia incentrate sui municipi nel nord del Paese”, ha ribadito Borrell, che oggi a Bratislava ha incontrato il premier Kurti: “La situazione attuale è pericolosa e insostenibile, abbiamo bisogno di una soluzione attraverso il dialogo per tornare a lavorare sull’attuazione dell’Accordo raggiunto” il 27 febbraio a Bruxelles.
    Il piano energetico per i Balcani Occidentali
    Per la presidente von der Leyen le tensioni nella regione devono però essere affrontate anche da un punto di vista strutturale, come dimostra il nuovo piano di crescita. Lo sforzo anche energetico dell’Unione Europea a sostegno dei sei Paesi dei Balcani Occidentali è stato messo su bianco nel corso del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre 2022 a Tirana, secondo le direttrici anticipate dalla stessa presidente della Commissione nel corso del suo viaggio nelle capitali balcaniche. Il pacchetto da 1 miliardo di euro complessivo sarà finanziato attraverso lo strumento di assistenza pre-adesione (Ipa III), si stima che mobiliterà in tutto 2,5 miliardi in investimenti e sarà diviso in due parti, ciascuna da 500 milioni.
    Il primo pilastro è un sostegno diretto al bilancio per affrontare l’impatto degli alti prezzi dell’energia in ciascuno dei sei Paesi dei Balcani Occidentali: 30 milioni per il Montenegro, 70 per la Bosnia ed Erzegovina, 75 per il Kosovo, 80 per la Macedonia del Nord, altrettanti per l’Albania e 165 per la Serbia. L’obiettivo è quello di mitigare i prezzi per piccole e medie imprese, tenere il costo dell’energia accessibile per le famiglie vulnerabili e supportare misure per accelerare la transizione energetica dalle fonti fossili russe.
    Per quanto riguarda il secondo pilastro da mezzo miliardo di euro del Pacchetto di supporto energetico ai Balcani Occidentali, i finanziamenti per le misure a medio termine arriveranno dal Western Balkans Investment Framework (Wbif), per far avanzare la diversificazione energetica, le fonti rinnovabili, le infrastrutture per il gas e l’elettricità e gli interconnettori. Secondo le previsioni di Bruxelles, questo importo dovrebbe generare ulteriori investimenti pubblici e privati pari a 1,4 miliardi di euro, sia per la riduzione dell’impatto della crisi energetica sia per il sostegno alla transizione verde. Tutto ciò sarà reso possibile da una copertura di garanzia Ue fino a 419 milioni di euro verso sei progetti nella regione, aumentando la capacità di investimento nelle priorità dell’energia pulita.

    Avvicinare i sei Paesi al mercato unico dell’Ue, approfondire l’integrazione economica regionale, accelerare le riforme e aumentare i fondi di pre-adesione. Ma sull’escalation in Kosovo la presidente della Commissione Ue chiede “misure immediate per ristabilire la calma”