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    Gli aiuti allo sviluppo dell’Ue sono un problema per l’Africa

    Bruxelles – Gli aiuti dell’UE all’Africa non aiutano il continente e i suoi Stati. Al contrario, per come sono concepiti, accrescono i problemi, soprattutto economici, dei Paesi in cui l’azione concepita per portare contributi utili allo sviluppo. La strategie dell’Unione europea per i Paesi più poveri, soprattutto africani, dovrebbero essere dunque riviste. Il Parlamento europeo accende i riflettori su partenariati che, così, come sono, finiscono per produrre effetti contrari a quelli desiderati.La nota di accompagnamento alla relazione per la cooperazione allo sviluppo dell’Ue a sostegno dell’accesso all’energia nei paesi in via di sviluppo, che l’Aula del Parlamento europeo, da calendario, discuterà il 17 gennaio in occasione della prima sessione plenaria del nuovo anno, evidenzia le carenze dell’azione a dodici stelle.Tra il 2014 e il 2020, recita il passaggio allegato al testo legislativo, l’insieme dei Ventisette ha fornito 13,8 miliardi di euro complessivi di assistenza all’Africa per lo sviluppo sostenibile. Innanzitutto l’importo “non è ancora sufficiente e occorre compiere maggiori sforzi” se si vuole permettere una crescita sostenibile da un punto di vista climatico-ambientale. Ma, soprattutto, “il 53 per cento degli esborsi è avvenuto sotto forma di prestiti”, il che si traduce in “debito aggiuntivo che riduce la capacità di questi paesi di investire negli obiettivi di sviluppo sostenibile”.Aumenta in sostanza il debito dei Paesi africani, che si trovano in una situazione di difficoltà. Tanto che, viene messo in risalto, risulta che  “21 paesi africani a basso reddito si trovano o sono a rischio di sofferenza debitoria nel 2023“.C’è un’ulteriore considerazione da fare, e che viene fatta. La cooperazione allo sviluppo dell’UE, per com’è concepita, non è a misura di Green Deal europeo. “La maggior parte dei progetti finanziati dall’UE mirano a promuovere grandi infrastrutture di generazione elettrica e l’interconnessione delle reti di trasmissione per creare mercati elettrici integrati, che hanno un impatto minimo sulla promozione dell’accesso all’elettricità per coloro che non ce l’hanno”. C’è da ripensare l’intera architettura della politica per lo sviluppo. La relazione che sta per approdare in Aula chiede perciò agli Stati membri dell’UE di aumentare l’importo dell’aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore energetico in Africa, “dando priorità alle sovvenzioni rispetto ai prestiti nei paesi a rischio di indebitamento“. C’è di più. Perché si suggerisce di cambiare il modello di business condotto fin qui. “Per superare la povertà energetica in Africa, i finanziamenti dell’UE dovrebbero essere ri-orientati verso i paesi con tassi di accesso all’elettricità più bassi”.Un altro, poi, riguarda l‘idrogeno verde, quello prodotto attraverso le energie rinnovabili. L’Africa non appare una regione ottimale per spingere per questo particolare tipo di investimenti. “Sebbene possa potenzialmente svolgere un ruolo significativo” nel raggiungimento degli obiettivi internazionali di sostenibilità incardinati negli accordi di Parigi , allo stesso tempo “potrebbe innescare conflitti sull’uso del territorio e aggravare la povertà“. Questo perché produrre idrogeno verde implica estrazione mineraria e uso di materie prime e terre rare, che richiedono grandi quantità di acqua dolce e generano inquinamento idrico. Per il sud del mondo, povero di acqua e sistemi di raccolta, l’idrogeno verde “può avere impatti sociali e ambientali negativi”. L’UE, insomma, sta sbagliando calcoli e strategie, e dovrebbe correggere il tiro.

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    Il tentativo dell’Ue di sbloccare i rimpatri di migranti verso i Paesi d’origine. Schinas in Senegal, Guinea e Costa d’Avorio

    Bruxelles – L’aveva promesso Ursula von der Leyen dieci giorni fa a Lampedusa, presentando il suo piano d’azione in dieci punti per decongestionare l’isola in emergenza: “Invierò il vicepresidente Margaritis Schinas a negoziare” nel continente africano per intensificare i rimpatri “rapidi” verso i Paesi d’origine. E così è stato: Schinas illustrerà domani (28 settembre) ai ministri degli Interni Ue i progressi fatti nella sua missione in Guinea, Costa d’Avorio e Senegal.
    Perché i dati parlano chiaro: ad oggi le persone migranti che lasciano il territorio Ue dopo aver ricevuto l’ordine di partire sono meno di uno su cinque. E secondo il rapporto pubblicato dall’Agenzia Ue della Guardia di Frontiera e Costiera (Frontex) il 14 settembre, nei primi otto mesi dell’anno la maggior parte degli ingressi irregolari dalle rotte del Mediterraneo Centrale e dell’Africa Occidentale sono stati effettuati da cittadini della Guinea, della Costa d’Avorio e del Senegal, oltre che di Tunisia e Marocco. Tre Paesi confinanti, che si affacciano sull’Atlantico, ma che presentano situazioni politiche molto differenti in termini di democrazia e stabilità e diversi livelli di cooperazione con Bruxelles.
    Margaritis Schinas e Macky Sall
    A Dakar, “partner essenziale dell’Ue in Africa”, il vicepresidente della Commissione europea ha incontrato il presidente senegalese Macky Sall, con cui ha avuto “una buona discussione sull’approfondimento delle relazioni, inclusa una maggiore cooperazione con Frontex”. L’agenzia Ue collabora già con le forze di polizia senegalesi attraverso l’Africa-Frontex Intelligence Community (Afic), con l’obiettivo di “rafforzare la cooperazione sui ritorni volontari e i rimpatri di migranti” e “supportare gli sforzi delle autorità senegalesi nella lotta contro la migrazione irregolare”.
    Il programma Afic è presente anche in Guinea, dove Schinas ha dialogato con il governo di transizione che guida il Paese dopo il golpe militare del 2021. “A Conakry ho ribadito la disponibilità dell’Ue ad accompagnare la Guinea nella sua transizione, in un contesto regionale molto difficile”, ha dichiarato su X il vicepresidente Ue, che ha sottolineato al primo ministro “il bisogno di iscriversi alla mobilitazione internazionale contro i trafficanti e la loro attività brutale”. In Costa d’Avorio, a cui l’Ue ha previsto di allocare 228 milioni di euro in aiuti allo sviluppo per il periodo 2021-2023 sotto Ndici-Global Europe, Schinas ha incontrato il re del popolo Awoula Tanoe Amon e il primo ministro Patrick Achi, con cui ha affrontato i temi del “cambiamento climatico, delle migrazioni e delle opportunità per i giovani”.
    Margaritis Schians e Patrick Achi
    Di questa missione Schinas riferirà direttamente ai ministri degli Interni dei 27, che si riuniscono domani (28 settembre) a Bruxelles per il Consiglio Affari Interni e Giustizia. Con lui sarà presente anche la commissaria Ue per gli Affari Interni, Ylva Johansson. In cima all’agenda sono previsti uno “scambio di opinioni sull’approccio dell’Ue alla dimensione esterna della migrazione” e la presentazione da parte della presidenza di turno spagnola del Consiglio dell’Ue di un “modello preventivo” per ridurre le partenze verso l’Europa. Un modello che non può prescindere dalla “cooperazione con i Paesi di origine e di transito” e dal ruolo che dovrebbero svolgere le agenzie dell’Ue.

    Von der Leyen ha previsto un maggiore supporto delle agenzie Ue ai rimpatri nel suo piano d’azione per Lampedusa. Il vicepresidente della Commissione europea illustrerà i progressi compiuti negli incontri con i leader africani direttamente ai ministri degli Interni dell’Ue

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    “Soluzioni africane a problemi africani”: l’Ue segue la linea dell’Ecowas sul Niger e prepara sanzioni per la giunta militare

    Bruxelles – L’Ue è pronta ad “ascoltare qualsiasi richiesta” che provenga dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas), l’attore che si sta prendendo carico degli sforzi per riportare stabilità nella polveriera africana del Sahel. È questa la linea concordata dai 27 ministri degli Esteri dell’Unione, riuniti a Toledo per il vertice informale di fine agosto, assieme al Presidente dell’Ecowas, Omar Alieu Touray e al ministro degli Esteri del governo rovesciato solo un mese fa in Niger, Hassoumi Massaoudou.
    L’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, in conferenza stampa a margine del meeting informale dei Ministri degli Esteri Ue a Toledo, in Spagna
    Per ora, per ristabilire l’ordine costituzionale a Niamey l’Ecowas ha intrapreso la strada del dialogo politico e delle sanzioni economiche. E l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, ha confermato “il pieno sostegno agli sforzi dell’Ecowas per mettere il massimo di pressione sulla giunta militare” che dallo scorso 26 luglio tiene imprigionato il presidente democraticamente eletto, Mohamed Bazoum, e governa il Paese. La prima mossa di Bruxelles è la sospensione di tutti i programmi di supporto finanziario e di cooperazione in materia di difesa e sicurezza con il Niger. Fatto salvo per gli aiuti umanitari alla popolazione nigerina.
    La seconda e più incisiva mossa sarà un regime di sanzioni individuali contro il Consiglio nazionale per la Salvaguardia del Paese, il gruppo di militari protagonisti del putsch. “Abbiamo deciso di iniziare il processo per costruire un quadro di sanzioni seguendo strettamente quelle emanate dall’Ecowas”, ha annunciato Borrell. L’istituzione dei Paesi dell’Africa Occidentale avrebbe poi illustrato ai ministri Ue la situazione sul campo e le proprie riflessioni sulla possibilità di un intervento militare. Che, almeno parzialmente, potrebbe essere sostenuto attraverso l’European Peace Facility, lo strumento finanziario Ue per la risoluzione di conflitti.
    Cittadini nigerini manifestano contro l’ex potenza coloniale francese (Photo by AFP)
    “È evidente che privilegiamo soluzioni diplomatiche, nessuno desidera azioni militari. È questo che sta facendo l’Ecowas”, ha chiarito il capo della diplomazia europea, sottolineando però che “non sappiamo cosa succederà dopo, perché è l’Ecowas a decidere”. Sull’ipotesi di sostegno ad un intervento armato le posizioni tra i 27 sono distanti: se la Francia, l’ex potenza coloniale contro cui si si è scatenata la rabbia dei nigerini che appoggiano la giunta militare – è arrivata nel pomeriggio la notizia dell’espulsione dell’ambasciatore di Parigi da parte dei golpisti-, si è mostrata più possibilista, per il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani “la soluzione militare in Niger sarebbe un disastro”.
    La crisi del Sahel è endemica, ma sul golpe in Gabon l’Ue rimane prudente
    L’ondata di colpi di stato militari che ha investito il Sahel negli ultimi due anni, dal Mali alla Guinea al Burkina Faso e ora il Niger, rischia di propagarsi anche più a sud, verso il Golfo di Guinea. “Abbiamo studiato la situazione nel Golfo di Guinea, che diventa sempre più cruciale e dove la minaccia del terrorismo jihadista sta crescendo”, ha dichiarato l’Alto rappresentante.
    Cittadini del Gabon festeggiano il colpo di Stato contro il governo del presidente Ali Bongo (Photo by AFP)
    Ieri l‘esercito del Gabon ha deposto il presidente Ali Bongo Ondimba, al potere dal 2009 e fresco della terza rielezione in un appuntamento elettorale che agli occhi della comunità internazionale è parso quanto meno dubbioso. Per ora Borrell ha voluto tracciare una linea tra Niamey e Libreville, sottolineando “la differenza tra la situazione in Niger e in Gabon“. Da un lato Bazoum, “l’unica autorità democraticamente eletta in tutta la regione”, dall’altro Bongo e un processo elettorale su cui l’Ue “condivide serie preoccupazioni”. Nonostante il contesto profondamente differente, l’Ue “respinge qualsiasi presa di potere con la forza in Gabon e invita tutti gli attori alla moderazione”, ha dichiarato Borrell.
    Nel Paese centrafricano si trovano attualmente circa 10 mila cittadini europei, ma “non è prevista alcuna evacuazione“: il capo della diplomazia europea ha assicurato che “la situazione è tranquilla e non c’è alcuna situazione che possa indicare rischio di violenza e pericolo”.

    I ministri degli Esteri dei 27 alle prese con la polveriera del Sahel. L’Alto rappresentante Borrell ammette: “Dobbiamo rivedere le nostre politiche nella regione”, ma sottolinea le differenze tra i colpi di stato in Niger e in Gabon, dove il golpe è frutto di “elezioni che hanno lasciato molto a desiderare”

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    Uranio e influenza in Africa, il dilemma Ue del Niger tra interessi russi e cinesi

    Bruxelles – Democrazia, diritti, e poi l’uranio. Le instabilità in Niger possono di mettere in difficoltà il mercato dell’energia nucleare dell’Unione europea, che proprio dal Niger acquista uranio grezzo per i propri reattori. Per ora si rassicura, e si escludono impatti negativi dal colpo di Stato nel Paese dell’Africa occidentale. “Non c’è alcun rischio di approvvigionamento”, sostiene il portavoce della Commissione europea, Adalbert Jahnz. “Le imprese hanno sufficienti scorte di uranio naturale per mitigare qualsiasi rischio di approvvigionamento a breve termine e per il medio e lungo termine ci sono abbastanza depositi sul mercato mondiale per coprire il fabbisogno dell’Ue”.
    C’è però una questione geo-politica in ballo, fatta di energia nucleare, risorse, e presenza europea nell’area. Fin qui il Niger è stato il forniture numero uno dell’uranio nella sua forma grezza. La relazione della Commissione europea sul mercato di uranio, con dati aggiornati al 2021, afferma che “analogamente agli anni precedenti, Niger, Kazakistan e Russia sono stati i primi tre paesi a fornire uranio naturale all’Ue nel 2021, fornendo il 66,94% del totale”. Il Niger da solo, è arrivato a rappresentare un quarto dell’import complessivo a dodici stelle (24,26%). Non un fornitore marginalcina e, dunque. Alla luce delle relazioni sempre più delicate e complesse con la Russia quale risultato dell’aggressione all’Ucraina, l’Ue ha bisogno di ridurre le dipendenze con la federazione russa e un deterioramento ulteriore della situazione in Niger potrebbe indurre a rivedere la domanda di uranio.
    La Commissione Ue per ora intendere rimanere presente nel Paese. Evacuazione del personale e chiusura delle sedi di rappresentanza non sono prese in considerazione, perché andare via vorrebbe dire lasciare mano libera ad altri attori, a cominciare da quello cinese. Dopo la Francia la Repubblica popolare è il secondo più grande investitore straniero.
    Pechino è presente in Niger dal 1974, e ha dato nuovi impulsi alle relazioni bilaterali dagli inizi degli anni Duemila. Ha iniziato ad investire in infrastrutture (strade, ospedali, telecomunicazioni), scambi culturali (borse di studio per nigerini in Cina), a garantire sostegni umanitari contro disastri naturali. In cambio ha ottenuto diritto di esplorazione petrolifera e di uranio. Il progetto dell’oleodotto di circa 675 chilometri per la connessione Niger-Benin è possibile grazie a PetroChina, il colosso petrolifero cinese. Mentre Cnnc, la società di Stato attiva nel settore del nucleare, ha già avuto modo di lavorare col governo di Niamey per lo sviluppo del giacimento di Azelik.
    A livello globale il Niger rifornisce appena il 5% circa dell’uranio mondiale, ma è un fornitore leader per l’Ue. Sottrarre quote di mercato agli europei sarebbe per la Cina, già allo stato attuale fornitore principale di tutto ciò che serve all’Ue in termini di materie prime per la transizione sostenibile, un ulteriore colpo alle ambizioni di indipendenza e potenza europea.
    L’instabilità politica rischia però di complicare anche i piani cinesi, e non a caso anche la Cina segue con attenzione gli sviluppi nel Paese africano invitando a una soluzione. Per quanto a Bruxelles si cerchi di minimizzare e si ostenti sicurezza, in gioco c’è molto. Perché l’Ue ha deciso che il nucleare è ‘green’, non inserendolo la tecnologia nella tassonomia, l’insieme dei criteri che servono a determinare la sostenibilità di attività e prodotti. L’Ue ha bisogno dell’uranio per il suo nucleare, e il suo principale fornitore adesso offre meno garanzie.
    C’è anche l’aspetto russo della questione nigerina. L’uranio è certamente una questione ‘calda’ per l’Ue, ancora troppo legato alla Russia per ciò che serve per le centrali attive in Europa, soprattutto nei Paesi membri del quadrante nord-orientale. Alternative al combustibile russo è qualcosa di tutt’altro che semplice, e l’Ue non può permettersi di finire nuovamente nelle braccia del Cremlino. Ma da anni Mosca agisce nel continente africano, attraverso forniture di armi, accordi di cooperazione militare. Il controllo del continente sta diventando sempre più strategico, per via della sue ricchezze naturali in termini di risorse e materie prime. Governi ‘amici’ fanno l’interesse della partita in atto.
    La presenza del gruppo Wagner è stata accertata in almeno cinque Paesi africani (Libia, Mali, Sudan, Repubblica centrafricana, Mozambico). Si teme che il gruppo para-militare possa diventare una presenza forte anche in Niger. Analisti ricordano l’esempio del Mali, dove la Russia ha saputo inserirsi perché più accomodante rispetto alle richieste e alla condizioni poste dagli europei. “Ci sono già segnali che l’Ue potrebbe affrontare un dilemma simile in Niger“, avvertiva un anno fa, a giugno 2022, il think-tank pan-europeo Ecfr.
    C’è dunque la possibilità che il confronto tra Europa e Russia non si consumi solo sul fronte ucraino. La destabilizzazione del Niger gioca a favore di Mosca, più che dell’Europa, che nel Niger contava e conta anche per la gestione dei flussi migratori. All’incrocio di diverse rotte migratorie, il Niger ha rafforzato la sua politica di lotta alla migrazione irregolare con il sostegno dell’Ue, nell’ambito del nuovo partenariato dell’Ue con i Paesi terzi. Ora tutto questo rischia di saltare.
    A Bruxelles c’è già chi fa i conti con le tensioni e le incertezze nel Paese. In Parlamento Ue si inizia a riconoscere che il golpe “rischia di destabilizzare ulteriormente il Paese, oltre a problemi esistenti come l’instabilità regionale, la proliferazione di gruppi jihadisti violenti, un’ondata di rifugiati e sfollati interni”. In questo clima “il colpo di stato, salutato da Yevgeny Prigozhin, il capo di Wagner, potrebbe aumentare l’influenza della Russia sul Paese“.
    Una presa d’atto anche in Commissione, con l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, che punta il dito contro Mosca. In Niger, scrive sul suo blog, “l‘unica interferenza di cui possiamo parlare oggi è quella dei militari che rovesciano un Presidente eletto e quella di una Russia imperialista che vuole usare questi regimi come pedine nella sua partita a scacchi mondiale” in cui l’Europa ha molto da perdere. Attacca frontalmente anche il leader del Cremlino. “Da diversi anni la Russia di Vladimir Putin alimenta questi colpi di stato con la sua falsa propaganda e approfitta dell’instaurazione di questi regimi militari con le sue milizie private”. Accuse e toni che confermano l’importanza della posta in gioco. L’Ue si vede scalzata dall’Africa, e non solo dal Niger e dalle sue forniture di uranio.

    Per la Commissione ciò che serve al nucleare europeo non è a rischio ma in gioco c’è molto di più, con la presenza di Mosca e Pechino tutt’altro che marginale

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    Non solo l’Ucraina, Borrell annuncia il rifornimento di “attrezzature letali” a Niger e Somalia

    Bruxelles – Il sostegno dell’industria bellica europea all’Ucraina ha aperto la strada, ora Bruxelles sembra pronta a fornire equipaggiamento militare nel continente africano. Al primo Forum Schuman per la sicurezza e la difesa, l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, ha annunciato che “sarà adottata presto una misura per fornire attrezzature letali ai nostri partner africani, Niger e Somalia”.
    Non si tratta dunque di equipaggiamento leggero, ma nello specifico di “munizioni per elicotteri al Niger e munizioni per scopi di addestramento alla Somalia“, sostenute attraverso lo strumento europeo per la pace (European Peace Facility), il programma con cui l’Unione europea ha stanziato in un anno oltre 4,5 miliardi di euro per rispondere all’invasione russa in Ucraina e per operazioni militari in diversi Paesi africani, in Libano, in Giordania, in Moldavia e in Georgia. Uno strumento utilizzato “così tanto”, che lo scorso 14 marzo il Consiglio dell’Ue ne ha aumentato il massimale finanziario: dai 5 miliardi originali ai 7,979 miliardi di euro (a prezzi correnti) fino al 2027.
    “La nostra risposta alla guerra in Ucraina ha cambiato il modo in cui l’Europa guarda alla propria agenda in materia di difesa e sicurezza”, ha ammesso Borrell: la rottura di un “tabù”, quello di finanziare i rifornimenti di armi di un Paese in guerra, è saltata all’occhio anche ai partner del continente africano, che “chiedono sempre di più un supporto, anche di attrezzature letali“. Per poter “soddisfare le aspettative” dei partner, esattamente un anno fa l’Ue ha lanciato la Bussola Strategica (Strategic Compass), che ha consentito un rafforzamento delle missioni e delle operazioni civili e militari, con “formazioni e attrezzature più mirate”. Ne è l’esempio la missione di addestramento in Niger lanciata il mese scorso: una missione di partenariato militare, a guida italiana, che secondo Borrell segue il modello “addestrare ed equipaggiare”, non solamente “addestrare”.
    Il contrasto alla presenza russa in Africa
    EEAS Schuman Security and Defence Partnership Forum
    I rappresentanti di oltre 50 Paesi partner dell’Ue che si sono riuniti al Forum Schuman sono per il capo della diplomazia europea la risposta “all’indebolimento del multilateralismo e al ritorno della politica di potenza in tutto il mondo”. Mentre Pechino strizza l’occhio a Mosca, il blocco occidentale si rinsalda attorno all’Ucraina, ma non vuole rischiare di cedere terreno all’autoritarismo di stampo russo-cinese in Africa. “Abbiamo tratto lezioni dalle sfide che affrontiamo nella Repubblica centrafricana e in Mali”, ha dichiarato Borrell, sottolineando lo sforzo insufficiente delle missioni europee in entrambi i Paesi, che hanno aperto la strada all’insinuazione del gruppo Wagner, lo “spietato procuratore del regime russo”.
    Perché anche il Cremlino ha la sua strategia di affermazione nel continente africano: la presenza crescente in Africa di istruttori militari russi, e quella più oscura del gruppo Wagner, viene giustificata da Mosca con il contrasto alle forze jihadiste che operano nel Sahel. In realtà, la presenza russa sul continente africano sarebbe costellata di ripetute violazioni dei diritti umani: nel giugno 2021, in un rapporto delle Nazioni Unite sulla Repubblica centrafricana, gli “istruttori” mercenari russi sono stati indicati come responsabili di numerose uccisioni, torture, violenze sessuali e saccheggi.
    “Le Nazioni Unite possono contare su di noi e sul nostro continuo sostegno” in tutte le missioni, “dal coordinamento politico e operativo alla condivisione delle informazioni e delle immagini satellitari”, ha concluso l’Alto rappresentante Ue. Perché la guerra in Ucraina ha testato la solidità del legame tra Ue e Nato, un legame “più forte che mai”. Che chiama l’Africa dalla sua parte.
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    Al primo Forum Schuman per la sicurezza e la difesa, l’Alto rappresentante Ue ha dichiarato che “nei prossimi mesi saranno consegnate munizioni per elicotteri al Niger e munizioni per scopi di addestramento alla Somalia”, grazie all’aumento di budget dello European Peace Facility

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    Anche l’Ue è preoccupata per le modalità di svolgimento delle elezioni in Nigeria, la più grande democrazia africana

    Bruxelles – La più grande democrazia, la più forte economia e il Paese più popoloso dell’Africa di fronte alla sfida maggiore per l’intero sistema nazionale: le elezioni presidenziali. Lo scorso 25 febbraio la Nigeria si è recata al voto per eleggere il successore di Muhammadu Buhari e dimostrare alla regione, al continente e al mondo di saper gestire in maniera democratica e ordinata il passaggio di consegne, anche con l’inedita sfida a tre che ha rotto l’ormai tradizionale sistema bipolare in atto dal 1999. “Un’impresa importante, che ha rappresentato un’opportunità fondamentale per il consolidamento della democrazia”, ha sottolineato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, senza nascondere “il contesto difficile e i fallimenti operativi“.
    A sinistra, il nuovo presidente della Nigeria, Bola Tinubu (credits: Kola Sulaimon / Afp)
    Il vincitore delle elezioni presidenziali – svoltesi in parallelo a quelle per il rinnovo del Parlamento – è Bola Tinubu, candidato del partito di centro-sinistra Congresso di Tutti i Progressisti che esprime il presidente ormai dal 2015 (Buhari era stato rieletto per un secondo mandato nel 2019). Ma i due sfidanti, Atiku Abubakar del Partito Democratico del Popolo di centrodestra e Peter Obi del Partito laburista fuoriuscito dal Congresso di Tutti i Progressisti, stanno contestando il risultato delle elezioni per la scarsa trasparenza del nuovo sistema elettronico di voto utilizzato il 25 febbraio. La richiesta dei due candidati è quella di un nuovo voto, per cui dovranno fare ricorso alla Corte Suprema della Nigeria entro tre settimane: il risultato delle elezioni può essere annullato solo se saranno dimostrate irregolarità o errori nel conteggio dei voti. “Ogni contesa dovrà essere risolta solo presso la Corte Suprema“, ha puntualizzato oggi (2 marzo) alla stampa la portavoce della Commissione Ue responsabile per gli Affari esteri, Nabila Massrali.
    Per tenere sotto controllo le operazioni di voto nel Paese africano – e per riaffermare la centralità della Nigeria a livello geopolitico per Bruxelles – anche l’Unione Europea ha partecipato ai lavori della Commissione elettorale nazionale indipendente (Inec), dispiegando una Missione di osservazione elettorale Ue guidata dall’eurodeputato irlandese Barry Andrews (Renew Europe). Da Bruxelles arrivano richieste di “rispettare il processo e rimanere pacifici e calmi“, in attesa anche dei risultati delle elezioni del prossimo 11 marzo per la nomina di 28 governatori sui 36 Stati federali della Nigeria. Solo allora la missione di osservazione elettorale Ue pubblicherà la relazione finale con “raccomandazioni per contribuire al continuo approfondimento della democrazia nigeriana“. Ma la valutazione preliminare contiene già alcuni elementi che suscitano preoccupazione a Bruxelles sullo svolgimento ordinato delle elezioni presidenziali del 25 febbraio nel Paese africano.
    La valutazione preliminare Ue sulle elezioni in Nigeria
    Secondo quanto si legge nella valutazione preliminare della Missione di osservazione elettorale Ue, emerge che “le libertà fondamentali di riunione e di movimento sono state ampiamente rispettate, ma il pieno godimento di queste ultime è stato ostacolato da una pianificazione insufficiente, dall’insicurezza e dall’imperante scarsità di carburante e Naira [la moneta nazionale nigeriana, ndr]”, che ha inciso sulle capacità dei candidati di fare campagna elettorale e dei nigeriani nelle zone rurali di recarsi fisicamente alle urne. Tra le altre questioni preoccupanti anche “l’abuso di disponibilità da parte di vari titolari di cariche politiche”, che ha “distorto il campo di gioco”, ma anche “diffuse accuse di acquisto di voti” e la disinformazione che “ha interferito con il diritto degli elettori di fare una scelta informata il giorno delle elezioni”.
    La missione elettorale in particolare ha evidenziato che “la raccolta delle tessere elettorali permanenti, requisito per votare, è stata influenzata negativamente da una scarsa pianificazione istituzionale”, con 9,5 milioni di elettori in più rispetto alla precedente tornata del 2019 (93,4 milioni in totale): “Senza una verifica indipendente del registro degli elettori, non è stato possibile garantire la qualità e l’inclusività“, è un altro problema rilevato in fase pre-voto. Si temevano violenze nel Sud del Paese alla vigilia del voto, che effettivamente si sono registrate “in almeno 16 Stati, con Lagos, Kano, Rivers e Imo che sarebbero stati i più colpiti, instillando paura negli elettori”, anche se considerata tutta la Nigeria “l’atmosfera durante le votazioni è stata complessivamente pacifica”.
    La questione più grave ha invece riguardato l’introduzione del Bimodal Voter Accreditation System e della piattaforma IReV per le elezioni presidenziali. Anche se “è stata percepita come un passo importante per garantire l’integrità e la credibilità delle elezioni“, non possono passare inosservati i “ritardi nella formazione del personale tecnico, l’inadeguatezza dei test di simulazione e la mancanza di informazioni pubbliche sulle tecnologie elettorali”. A proposito di quanto contestano i due sconfitti, la missione di osservazione elettorale Ue riporta che i moduli dei risultati “hanno iniziato a essere caricati dopo le ore 22 del giorno delle elezioni, destando preoccupazione e raggiungendo solo il 20 per cento a mezzogiorno del 26 febbraio e molti erano illeggibili“. Solo più tardi, nel corso della stessa serata, la Commissione elettorale nazionale indipendente ha spiegato il ritardo con “problemi tecnici“.

    Bola Tinubu, candidato del partito centrista, è stato eletto presidente del Paese più popoloso e con l’economia più forte del continente. Ma la missione di osservazione dell’Unione ha confermato le debolezze del sistema elettorale, su cui i due sfidanti contestano il risultato

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    Transizione energetica e sicurezza alimentare, per von der Leyen “la partnership con l’Africa è più importante che mai”

    Bruxelles – La partnership tra i 27 Paesi Ue e l’Unione Africana “è oggi più importante che mai”. Così la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha sottolineato il valore dell’undicesimo Commission-to-Commission meeting con il suo omologo dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, tenutosi oggi (28 novembre) a Bruxelles.
    L’ultimo incontro era stato l’Ue-Ua summit del 17-18 febbraio scorso, due giorni prima dell’inizio della guerra d’aggressione russa in Ucraina: durante quel vertice, von der Leyen aveva annunciato la mobilitazione di 150 miliardi di euro per il programma Africa-Europa, finanziati sotto l’ombrello del Global Gateway Investment. Poi la reazione a catena provocata dalla guerra, con la minaccia ingombrante delle crisi alimentare ed energetica.
    Moussa Faki Mahamat e Ursula von der Leyen
    Nel bilaterale di oggi tra von der Leyen e Faki, la sicurezza alimentare e l’energia l’hanno fatta da padrona: la presidente della Commissione si è detta pronta a “mobilitare più di 4,5 miliardi di euro fino al 2024” per garantire un’assistenza immediata di generi alimentari, ma anche “per migliorare e aumentare la produzione sul continente africano con tecnologie moderne”. Su quest’ultimo punto, i due leader si sono accordati oggi per lanciare una nuova task force congiunta sui fertilizzanti, per coordinare gli investimenti con l’obiettivo di rendere le nuove generazioni di fertilizzanti accessibili e convenienti sul territorio africano.
    Lo stesso principio, quello del supporto Ue allo sviluppo del know-how necessario alla produzione locale, vale anche per l’energia: “l’Africa potrebbe diventare il maggior esportatore di energia pulita del mondo”, ha dichiarato von der Leyen, sottolineando l’opportunità che la transizione energetica potrebbe rappresentare per un continente che possiede “un’enorme abbondanza di risorse per l’energia pulita”, che garantirebbero a più di 600 milioni di africani che vivono senza elettricità, “l’accesso a energia prodotta in casa”.
    Il terzo focus dell’incontro tra i due presidenti è stata l’effettiva implementazione delle priorità comuni: lo strumento finanziario da 150 miliardi è operativo e, come ribadito in mattinata anche dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, “è stato fatto tutto in modo da evitare che l’Africa paghi le conseguenze della guerra in Ucraina dal punto di vista delle risorse Ue”, che significa che “nessun euro allocato per l’Africa finirà in Ucraina”. Bruxelles ha già firmato delle partnership con Namibia e Egitto, a margine della COP27 di Sharm el-Sheik, per la produzione di idrogeno verde e sarebbe pronta a siglare “un nuovo accordo finanziario per 750 milioni di euro” da investire in progetti di digitalizzazione, infrastrutture e trasporti, che secondo Moussa Faki Mahamat sono “la chiave per lo sviluppo economico e sociale del continente”.
    Ma il progresso economico, in Africa passa per forza anche dalla giustizia climatica: il presidente dell’Unione Africana ha salutato con favore l’istituzione del fondo “loss&damage” per compensare i danni dei cambiamenti climatici nei Paesi più colpiti, ma si è detto preoccupato perché “troppo spesso le promesse non sono state mantenute”. Moussa Faki ha ricordato i 100 miliardi in aiuti economici ai Paesi più poveri, su cui la comunità internazionale si era impegnata alla COP15 di Copenaghen nel 2009, che ancora non sono arrivati.

    A Bruxelles l’incontro con il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat: pronti 4,5 miliardi per l’assistenza alimentare e una nuova task force congiunta sui fertilizzanti. Si è parlato anche di crisi energetica, per von der Leyen “l’Africa potrebbe diventare il maggior esportatore di energia pulita al mondo”

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    Cos’è la Grande Muraglia Verde contro i cambiamenti climatici in Africa che l’UE finanzierà con il Global Gateway

    Bruxelles – Oltre 8 mila chilometri che attraversano da ovest a est il continente africano, dal Senegal a Gibuti, passando da altri 18 Paesi delle regioni del Sahara, del Sahel e del Corno d’Africa: una Grande Muraglia Verde contro la desertificazione, gli effetti dei cambiamenti climatici e l’insicurezza alimentare. L’Unione Europea sostiene dal primo giorno l’iniziativa per affrontare le più urgenti minacce che incombono in Africa – siccità, carestie, conflitti, migrazioni – e ora, attraverso la sua strategia globale per lo sviluppo di infrastrutture e interconnesioni sostenibili, è pronta a porre “un altro mattone nel muro verde” con finanziamenti e sostegno economico.
    Il progetto approvato dalla Conferenza dei capi di Stato e di governo della Comunità degli Stati del Sahel e del Sahara nel giugno del 2005 in Burkina Faso e nato ufficialmente due anni più tardi si pone l’obiettivo di attraversare per il verso della larghezza l’intero continente africano, da ovest a est, ripristinando 100 milioni di ettari di terreno degradato, sequestrando 250 milioni di tonnellate di carbonio dai terreni e creando 10 milioni di posti di lavoro verdi nelle aree rurali entro la fine del decennio. Una volta completata, la Grande Muraglia Verde sarà “la più grande struttura vivente del pianeta, tre volte più grande della Grande Barriera Corallina”, come si legge nella presentazione del progetto guidato dall’Unione Africana.
    Nel suo sforzo di combattere cambiamenti climatici e desertificazione, la Grande Muraglia Verde contribuirà direttamente anche agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) 2030 delle Nazioni Unite. A 15 anni dal via libera, è stato completato circa il 15 per cento del progetto, con risultati tangibili almeno in 11 Paesi che hanno aderito, dalla Mauritania all’Etiopia, dal Mali al Sudan, passando dalla Nigeria, il Chad, il Niger e l’Eritrea. La barriera verde svolgerà anche un ruolo cruciale nel garantire al continente africano la sicurezza alimentare messa ancora più a rischio dal blocco russo delle esportazioni di cereali dall’Ucraina, e su questo punto l’Unione Europea è toccata direttamente.
    Oltre a mobilitare 600 milioni di euro per rafforzare la produzione locale nei Paesi vulnerabili, in aggiunta al pacchetto già annunciato di 3 miliardi di euro per la sicurezza alimentare globale, la Commissione UE è pronta a mobilitare la sua strategia per le infrastrutture sostenibili Global Gateway per alzare il “baluardo contro l’insicurezza alimentare e il cambiamento climatico”. Lo ha messo in chiaro la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, nel suo intervento di apertura delle Giornate europee dello sviluppo 2022 questa mattina (21 giugno). Spiegando che Bruxelles “aiuterà a completare il progetto di milioni di ettari per un’alimentazione sostenibile nel continente”, la leader della Commissione ha sottolineato con forza che “la soluzione sul medio e lungo termine è la produzione e la resilienza in loco”. Sul breve termine, invece, l’Unione “sta lavorando duro con l’Ucraina per garantire le esportazioni di grano e con i Paesi più vulnerabili nel mondo per combattere la crisi alimentare” determinata dall’attacco del Cremlino “contro la produzione agricola e il commercio di cereali” dai porti nel Mar Nero, “che sta causando l’insicurezza alimentare soprattutto in Africa”.

    Il progetto guidato dall’Unione Africana punta a creare una barriera naturale di 8 mila chilometri contro la desertificazione e per garantire la sicurezza alimentare nella regioni del Sahara e del Sahel. L’UE metterà “un altro mattone nel muro verde” con la sua strategia globale