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    Dieci ospiti alla porta dell’Ue. L’anno in cui i Ventisette hanno rotto gli indugi sul processo di allargamento dell’Unione

    Bruxelles – Un anno di stravolgimenti nella politica internazionale scatenati dall’invasione russa dell’Ucraina hanno lasciato un segno a diversi livelli sul continente europeo e sull’Unione a 27. Ma dopo quasi due decenni di stagnazione e di progressi a rilento, il rischio di destabilizzazione del Cremlino nei Paesi partner più stretti dell’Unione Europea ha segnato una svolta positiva nel processo di allargamento Ue, in un 2022 che ha visto un’ondata di novità tra nuovi Paesi candidati all’adesione – o in attesa di risposta – e altri nuovi avviati sulla strada dei negoziati. In totale 10 capitali che guardano all’Unione come la propria futura casa.
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio dal presidente Volodymyr Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano Irakli Garibashvili e della presidente moldava Maia Sandu. In soli quattro giorni (7 marzo) gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordato di invitare la Commissione a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate dai tre Paesi richiedenti, da trasmettere poi al Consiglio per la decisione finale sul primo step del processo di allargamento Ue.
    Prima di dare il via libera formale, un mese più tardi (8 aprile) a Kiev la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, ha consegnato al presidente Zelensky il questionario necessario per il processo di elaborazione del parere della Commissione, promettendo che sarebbe stata “non come al solito una questione di anni, ma di settimane”. Lo stesso ha fatto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’11 aprile. Meno di settanta giorni dopo, il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde a tutti e tre i Paesi, specificando che Ucraina e Moldova meritavano subito lo status di Paesi candidati, mentre la Georgia avrebbe dovuto lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue.
    L’avvio dei negoziati di Albania e Macedonia del Nord
    Ma il 2022 non è stato memorabile a proposito dell’allargamento Ue solo per l’attenzione rivolta da Bruxelles verso Est. Dal 2004 (anno in cui l’Unione è passata da 15 a 25 membri) si è messa in moto la politica di avvicinamento dei Balcani Occidentali, ma senza nessun nuovo ingresso – fatta eccezione per la Slovenia nel 2004 e la Croazia nel 2013 – da allora. La situazione più delicata negli ultimi anni si è registrata con Albania e Macedonia del Nord, pronte ad avviare i negoziati di adesione all’Unione già nel 2019 e che solo dopo le aspre tensioni dell’ultimo anno sono state ammesse ai tavoli negoziali. Tirana e Skopje sono candidate rispettivamente dal 2014 e 2005 (con un’attesa per la risposta di cinque anni e mezzo per la prima e di quasi due anni per la seconda) e sono legate dallo stesso dossier, ovvero possono avanzare solo insieme.
    Da sinistra: il primo ministro della Repubblica Ceca e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Petr Fiala, della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski, dell’Albania, Edi Rama, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (19 luglio 2022)
    Il processo di allargamento Ue a Skopje è stato ostacolato fino al 2018 dalla Grecia, per la contesa identitaria e sul cambio del nome del Paese balcanico: solo con gli Accordi di Prespa la Repubblica di Macedonia è diventata Repubblica della Macedonia del Nord. A quel punto la Commissione Ue ha stimolato due volte il Consiglio Ue ad aprire i negoziati di adesione con i due Paesi, ma il 19 ottobre 2019 Francia, Danimarca e Paesi Bassi hanno chiuso la porta a Tirana, chiedendo di implementare le riforme strutturali prima di sedersi ai tavoli negoziali. Dopo cinque mesi, al Consiglio del 25-26 marzo 2020, è arrivato il via libera dei Ventisette, prima di un nuovo stop determinato dal veto della Bulgaria all’avvio dei negoziati di adesione di Skopje il 9 dicembre 2020. A nulla sono serviti due vertici Ue-Balcani Occidentali – il primo a Kranji (Slovenia) nel 2021 e il secondo il 23 giugno a Bruxelles – per trovare una via d’uscita.
    La svolta si è concretizzata solo grazie alla spinta decisiva della presidenza di turno francese del Consiglio dell’Ue, con la proposta di mediazione tra Sofia e Skopje per risolvere una disputa storico-culturale che ha provocato la frustrazione di tutti i leader balcanici. Grazie a questa iniziativa il Parlamento bulgaro ha revocato il veto il 24 giugno e sono iniziate le trattative con Skopje, che considerava “irricevibile” la prima versione del testo. Dopo il discorso della presidente von der Leyen al Parlamento nazionale il 14 luglio per placare le tensioni e divisioni che si sono registrate nel Paese proprio in merito della proposta francese, anche i deputati macedoni hanno dato il via libera al compromesso e il 17 luglio è stato firmato il protocollo bilaterale tra Bulgaria e Macedonia del Nord. Solo due giorni più tardi il momento atteso da tre anni, con l’avvio dei negoziati di adesione Ue di Tirana e Skopje e le prime conferenze intergovernative svoltesi a Bruxelles. Albania e Macedonia del Nord sono diventate il quarto e quinto Paese candidato ad aprire i capitoli di negoziazione nell’ambito del processo di allargamento Ue.
    Il cammino degli altri balcanici
    A completare il quadro dei successi dell’allargamento Ue nel 2022 ci sono Bosnia ed Erzegovina e Kosovo, che hanno fatto progressi nel loro cammino di avvicinamento all’Unione. Per quanto riguarda Sarajevo (che ha fatto domanda di adesione nel 2016) il primo momento di svolta è arrivato nel corso del vertice dei leader Ue del 23 giugno, quando le tre ‘colombe’ in Consiglio – Slovenia-Croazia-Austria – avevano bloccato le discussioni su Ucraina e Moldova fino a quando non si fosse trovata almeno una parziale risposta alla questione bosniaca. Il breve stallo ha portato alla decisione di conferire anche alla Bosnia ed Erzegovina la prospettiva europea (come alla Georgia), con l’obiettivo di “tornare a decidere nel merito” quanto prima, a condizione che la Commissione riferisse “senza indugio” sull’attuazione delle 14 priorità-chiave.
    Il ponte di Mostar (Bosnia ed Erzegovina) illuminato con la bandiera dell’Unione Europea
    La leader dell’esecutivo comunitario von der Leyen ha continuato a inviare segnali incoraggianti alla Bosnia ed Erzegovina sul suo coinvolgimento nell’allargamento Ue, sia con la raccomandazione al Consiglio di concedere lo status di candidato all’adesione arrivata il 12 ottobre, sia con un discorso particolarmente appassionato a Sarajevo nel corso del suo viaggio nelle capitali balcaniche per annunciare il supporto energetico dell’Unione alla regione (28 ottobre). Dopo aver valutato il parere della Commissione, l’ultimo vertice dei leader Ue del 15 dicembre ha dato il via libera alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue, sottolineando allo stesso tempo la necessità di implementare le riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, del rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione. Nel processo di allargamento Ue Sarajevo è diventato l’ottavo candidato all’adesione.
    Per quanto riguarda il Kosovo, la situazione è resa complicata da due fattori: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza dalla Serbia nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e allo stesso tempo con Belgrado è in atto un dialogo più che decennale mediato da Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi che ancora non ha portato a un accordo definitivo. Mentre si sono riaccese aspre tensioni a partire da fine luglio con la Serbia per il controllo politico del nord del Kosovo, Pristina ha comunque deciso di puntare tutto sul processo di allargamento Ue e ha iniziato a fine agosto i lavori per presentare la domanda di adesione all’Unione. Mentre l’opinione pubblica internazionale era concentrata sulla cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘ e a carpire i dettagli della proposta franco-tedesca sulla mediazione finale nel 2023, il 6 dicembre al vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana la presidente Vjosa Osmani ha confermato che la lettera era pressoché ultimata. Otto giorni più tardi è stata firmata a Pristina la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato e consegnata dal premier Albin Kurti alla presidenza di turno ceca del Consiglio dell’Ue il 15 dicembre a Praga.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e il ministro ceco per gli Affari europei e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Mikuláš Bek (15 dicembre 2022)
    Meno positivo è invece il quadro degli altri tre Paesi coinvolti nel processo di allargamento Ue (che dal 22 giugno 2021 è stato riformato con una nuova metodologia). Il Montenegro sta portando avanti i negoziati di adesione dal 2012 e al momento è il Paese allo stadio più avanzato. Tuttavia la crisi istituzionale che ha paralizzato Podgorica negli ultimi due anni e mezzo ha determinato uno stallo prolungato sui capitoli negoziali relativi allo Stato di diritto, in particolare il 23 (potere giudiziario e diritti fondamentali) e il 24 (giustizia e affari interni). La Serbia ha avviato i negoziati di adesione nel 2014 e quest’anno ha conosciuto una forte battuta d’arresto a causa della guerra russa in Ucraina: nel tentativo di seguire una politica di non-allineamento tra Bruxelles e Mosca, Belgrado non si è allineata alle sanzioni internazionali contro la Russia, ma per l’Ue non è concepibile che un partner candidato all’adesione non si allinei Politica estera e di sicurezza comune (Pesc). Infine, nel processo di allargamento Ue sarebbe coinvolta dal 1987 anche la Turchia: il Paese ha ottenuto lo status di candidato nel 1999 e ha avviato i negoziati di adesione nel 2005. Tuttavia, a causa delle continue provocazioni nel Mediterraneo orientale e delle violazioni dello Stato di diritto da parte del presidente Recep Tayyip Erdoğan, non c’è all’orizzonte nessun tipo di avanzamento.
    Come funziona il processo di allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.
    Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.

    Dai nuovi candidati Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Ucraina all’apertura dei negoziati con Albania e Macedonia del Nord dopo 3 anni di stallo, fino alla candidatura di Georgia e Kosovo. Il rischio di destabilizzazione russa ha dato uno scossone ai tentennamenti dei Ventisette

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    A Bruxelles si sblocca il dossier Sarajevo. La Bosnia ed Erzegovina è un nuovo Paese candidato all’adesione Ue

    Bruxelles – Nessuna sorpresa, ma un passo enorme per le prospettive bosniache di entrare nell’Unione Europea. I capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri hanno dato il via libera oggi (giovedì 15 dicembre) alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue, seguendo la raccomandazione del Consiglio Affari Generali di martedì (13 dicembre) a proposito del processo di allargamento e quello di stabilizzazione e associazione. Dopo più di sei anni di attesa nell’anticamera di Bruxelles (era il 15 febbraio 2016 quando veniva presentata ufficialmente la domanda di Sarajevo), il Paese balcanico è diventato l’ottavo candidato ufficiale per l’adesione all’Unione.
    Il ponte di Mostar (Bosnia ed Erzegovina) illuminato con la bandiera dell’Unione Europea
    Lo status di Paese candidato alla Bosnia ed Erzegovina è stato confermato dalle conclusioni del Consiglio Europeo, dopo l’approvazione all’unanimità da parte dei Ventisette. Per Sarajevo si apre ora un cammino di implementazione delle riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, del rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione, come sottolineato nella raccomandazione della Commissione Europea. Proprio l’esecutivo comunitario è stato il maggiore sponsor della candidatura bosniaca – sia con l’esortazione al Consiglio dello scorso 12 ottobre sia con il discorso vibrante della presidente Ursula von der Leyen nel suo viaggio di fine ottobre a Sarajevo – ed è ora chiamato a tenere sotto osservazione i progressi del nuovo Paese candidato all’adesione.
    “L’endorsement dei leader è una grande occasione offerta alla Bosnia ed Erzegovina per spingere sulla strada della riforme e imbarcarsi davvero sul cammino europeo“, ha sottolineato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “È un grande passo per il Paese e per tutta la regione”. Congratulazioni a Sarajevo arrivano anche dal presidente del Consiglio, Charles Michel: “È un segnale forte alla popolazione, ma anche una chiara aspettativa che le nuove autorità realizzino le riforme”.
    La decisione di oggi conferma la valutazione preliminare del Consiglio Ue del 23 giugno scorso – dopo il fallimentare vertice Ue-Balcani Occidentali di Bruxelles – quando i 27 leader Ue si erano detti “pronti” a riconoscere lo status a Sarajevo, ma a condizione che la Commissione riferisse “senza indugio” sull’attuazione delle 14 priorità-chiave. Il blocco delle discussioni sulla concessione dello status di candidati per Ucraina e Moldova da parte del triangolo Slovenia-Croazia-Austria (le tre ‘colombe’ bosniache in Consiglio), fino a quando non si fosse trovata almeno una parziale risposta alla questione bosniaca, aveva permesso di definire un obiettivo chiaro: permettere ai leader Ue di “tornare a decidere nel merito” quanto prima. A sei mesi di distanza da quel Consiglio l’accelerazione sul dossier Sarajevo ha dato i suoi frutti, ma adesso la palla passa alla Bosnia ed Erzegovina, dove si dovranno affrontare criticità non indifferenti per l’apertura del negoziati di adesione all’Ue.

    Bosnia and Herzegovina was granted the status of candidate country today.
    A strong signal to the people, but also a clear expectation for the new authorities to deliver on reforms.
    The future of the Western Balkans is in the #EU
    Congratulations!#EUCO pic.twitter.com/1TUWlGlNPu
    — Charles Michel (@CharlesMichel) December 15, 2022

    Gli ostacoli sul cammino europeo della Bosnia ed Erzegovina
    Il municipio di Sarajevo (Bosnia ed Erzegovina) illuminato con la bandiera dell’Unione Europea
    Il primo livello di criticità per la Bosnia ed Erzegovina riguarda la questione istituzionale. Dopo la complessa tornata elettorale dello scorso 2 ottobre, la nuova presidenza tripartita vede la presenza di Željko Komšić (croato), Denis Bećirović (bosgnacco) e soprattutto la riconferma di Milorad Dodik (serbo), ex-presidente della Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba, complementare alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina). Dall’ottobre dello scorso anno proprio Dodik si è fatto promotore di un progetto secessionista per sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, per cui il Parlamento Europeo aveva evocato sanzioni economiche e su cui la Commissione aveva iniziato a ragionare. Dopo la dura condanna da parte dell’Unione dei tentativi secessionisti della Republika Srpska (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno i leader bosniaci si erano radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme necessarie sul piano elettorale e costituzionale nel Paese balcanico.
    Ma la costante crisi istituzionale nel Paese balcanico si accompagna a un’altra questione urgente per l’Unione Europea: quella della destabilizzazione russa e dell’allineamento alle sanzioni internazionali contro Mosca, dopo l’invasione armata dell’Ucraina. Insieme alla Serbia la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo a non aver adottato le misure restrittive, a causa dell’opposizione della componente serba della presidenza tripartita. Dodik è particolarmente vicino all’autocrate russo, Vladimir Putin, e non ha mai nascosto la propria ambiguità non solo sul conflitto in corso in Ucraina, ma anche sull’annessione illegale da parte del Cremlino delle regioni ucraine Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia: “Incontrerò personalmente Putin, per confrontarci su progetti energetici concreti e del comportamento dell’Occidente“, aveva provocato Dodik a fine settembre dopo i referendum illegali in Ucraina (anche se l’incontro non si è ancora concretizzato). Per Bruxelles non è nemmeno ipotizzabile un mancato allineamento di un Paese candidato all’adesione Ue ai principi fondanti della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc), “incluse le misure restrittive”, come avevano messo in chiaro le conclusioni del vertice Ue-Balcani Occidentali di martedì scorso (6 dicembre) a Tirana.
    Il punto sull’allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue coinvolge i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), la Turchia – i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan – Ucraina e Moldova – a cui è stato concesso al vertice dei leader Ue di giugno lo status di Paesi candidati – e Georgia, a cui è stata riconosciuta la prospettiva europea. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord si è sbloccato a metà luglio dopo quasi tre anni di stallo (prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello della Bulgaria contro Skopje). A sei anni dalla sua domanda di adesione, la Bosnia ed Erzegovina è da oggi un candidato ufficiale, mentre il Kosovo ha firmato nello stesso anno l’Accordo di stabilizzazione e associazione e ieri (mercoledì 14 dicembre) ha fatto richiesta a Bruxelles per diventare il prossimo Paese candidato.
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’Ue è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen: per i Balcani Occidentali è compresa la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra l’Unione e il Paese richiedente, a cui viene offerta la prospettiva di adesione. Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri, si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    I capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri Ue hanno dato il via libera alla concessione dello status a Sarajevo, che diventa l’ottavo candidato ufficiale nel processo di allargamento dell’Unione.

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    La Bosnia ed Erzegovina è pronta a diventare un nuovo Paese candidato all’adesione Ue. L’ufficialità al prossimo Consiglio

    Bruxelles – Ora la strada per la Bosnia ed Erzegovina è tutta in discesa, facendo attenzione a – improbabili, ma mai da escludere – ostacoli sulla linea del traguardo. Il Consiglio Affari Generali riunitosi oggi (martedì 13 dicembre) a Bruxelles ha dato il proprio parere positivo alla possibilità di concedere lo status di Paese candidato all’adesione Ue per la Bosnia ed Erzegovina, con la raccomandazione ai leader dei 27 Stati membri di confermare la decisione al prossimo Consiglio Europeo di giovedì (15 dicembre).
    Approvando le conclusioni sull’allargamento e sul processo di stabilizzazione e associazione – che valutano la situazione in ciascuno dei Paesi candidati all’adesione e dei partner dell’Unione – i 27 ministri Ue hanno tenuto in particolare considerazione le riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, dello sviluppo economico e della competitività, ma anche il rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione, con attenzione agli sviluppi post-voto in Bosnia ed Erzegovina dopo la complessa tornata elettorale dello scorso 2 ottobre. La valutazione parte dalle conclusioni del vertice del 23 giugno, quando i capi di Stato e di governo dell’Ue si erano detti “pronti” a riconoscere lo status a Sarajevo, ma a condizione che la Commissione riferisse “senza indugio” sull’attuazione delle 14 priorità-chiave per il Paese balcanico: l’obiettivo dichiarato era quello di permettere ai leader Ue di “tornare a decidere nel merito” quanto prima.
    Scenario che si è reso concreto nel corso dei mesi successivi e culminato con la decisione dell’esecutivo comunitario di raccomandare al Consiglio la concessione dello status di Paese candidato alla Bosnia ed Erzegovina: “Quella che stiamo offrendo è una grande opportunità, che arriva una volta nella vita e che i cittadini meritano“, aveva sottolineato il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. A due mesi da quel momento-chiave per le prospettive di Sarajevo è arrivato il primo semaforo verde anche dal Consiglio dell’Ue, in attesa di quello definitivo di giovedì, che comunque non sarà privo di condizioni: “Dovranno essere adottate le misure specificate nella raccomandazione della Commissione, al fine di rafforzare lo Stato di diritto, la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, la gestione della migrazione e i diritti fondamentali”, è l’appunto dei 27 ministri.
    “La politica di allargamento dell’Ue è una forte ancora per la pace, la democrazia, la prosperità, la sicurezza e la stabilità nel nostro continente”, ha sottolineato il ministro ceco per gli Affari europei e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Mikuláš Bek, mettendo in chiaro che quello di oggi è “un forte messaggio di impegno nei confronti dell’allargamento”. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito “una buona notizia” la raccomandazione del Consiglio Affari Generali sullo status di candidato per la Bosnia ed Erzegovina: “È un messaggio per tutti i cittadini, il loro futuro è nell’Unione Europea“. Anche il gabinetto von der Leyen rimane ora in attesa dell’approvazione finale del Consiglio Europeo, con l’alto rappresentante Borrell che ricorda la necessità di un “costante progresso sulle riforme per portare avanti questa prospettiva” europea di Sarajevo.
    Il supporto alla Bosnia ed Erzegovina da Strasburgo
    Proprio nel giorno del Consiglio Affari Generali che ha dato il via libera alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue (in attesa della conferma dei 27 leader), dall’emiciclo del Parlamento Europeo a Strasburgo sono arrivati due endorsement di peso al cammino di Sarajevo verso l’ingresso nell’Unione. “Con Ucraina e Moldova abbiamo visto quale messaggio potente può dare l’Unione Europea concedendo lo status di Paese candidato all’adesione”, ha sottolineato con forza la presidente dell’Eurocamera, Roberta Metsola, che si è esposta senza esitazioni: “Vogliamo infondere questo coraggio anche ai nostri amici in Bosnia ed Erzegovina“.
    La presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, e il primo ministro della Slovenia, Robert Golob (Strasburgo, 13 dicembre 2022)
    Un messaggio rafforzato anche dall’intervento del primo ministro sloveno, Robert Golob, arrivato a Strasburgo per partecipare al consueto appuntamento ‘This is Europe’ tra gli eurodeputati e un leader Ue a rotazione in sessione plenaria: “La Slovenia sostiene il processo di adesione Ue della Bosnia ed Erzegovina, siamo uno Stato membro giovane, ma ricordiamo bene la speranza che nutrivamo in questo percorso”, ha ricordato il premier del Paese entrato nell’Unione 18 anni fa. “È per questo che sappiamo quanto sia importante la prospettiva di adesione” non solo per la Bosnia ed Erzegovina, “ma per tutti i Balcani Occidentali” che “sono in sala d’attesa da ormai vent’anni”, ha ammonito Golob.
    Come già ricordato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, nel corso della sua visita a fine ottobre a Sarajevo, anche il primo ministro sloveno ha puntualizzato il fatto che – come l’Ucraina – anche “la Bosnia è uno dei Paesi europei che ha subito aggressioni armate nel recente passato e noi dobbiamo rendere chiaro che non abbiamo abbandonato i cittadini bosniaci, mentre guardavamo a Kiev“. Di qui la necessità di “accelerare il processo di allargamento, anche se non è sempre semplice, perché è uno strumento essenziale per l’Unione Europea”, ha concluso il suo intervento il premier della sinistra verde e liberale slovena, eletto lo scorso 24 aprile.
    Il punto sull’allargamento dell’Ue
    Il processo di allargamento Ue coinvolge i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), la Turchia – i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan – Ucraina e Moldova – a cui è stato concesso al vertice dei leader Ue di giugno lo status di Paesi candidati – e Georgia, a cui è stata riconosciuta la prospettiva europea. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord si è sbloccato a metà luglio dopo quasi tre anni di stallo (prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello della Bulgaria contro Skopje). La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016 e dopo sei anni è quasi arrivato il momento della concessione dello status di Paese candidato. Il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione, ma entro la prossima settimana è attesa la richiesta di adesione all’Unione, come reso noto dalla presidente Vjosa Osmani al vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana martedì scorso (6 dicembre).
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’Ue è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen. Ottenuto il parere positivo della Commissione, si può arrivare o alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione – un accordo bilaterale tra l’Unione e il Paese richiedente, utilizzato in particolare per i Balcani Occidentali, a cui viene offerta la prospettiva di adesione – o direttamente il conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri, si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    Il Consiglio Affari Generali ha raccomandato ai leader dei 27 Stati Ue di riconoscere a Sarajevo lo status di candidato, a sei anni dalla richiesta. Sostegno dalla Commissione, dal Parlamento Ue e dal premier sloveno, Robert Golob, a Strasburgo: “Non abbiamo abbandonato i cittadini bosniaci”

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    INTERVISTA / Viola von Cramon: “Serve nuova strategia di allargamento. Reversibilità e benefici anticipati a candidati”

    Bruxelles – Una nuova strategia di allargamento dell’Unione Europea, che permetta di superare gli stalli e i ritardi prolungati mostrati dal processo in atto nei Balcani Occidentali. L’eurodeputata dei Verdi/Ale e membro della commissione Affari esteri (Afet), Viola von Cramon Taubadel, in un’intervista rilasciata a Eunews spiega come le istituzioni comunitarie dovrebbero cambiare rotta, anche considerate le nuove richieste di adesione che arrivano dall’Europa orientale e i rischi di destabilizzazione che alcuni Paesi lasciati fuori dall’Unione stanno correndo.
    Il punto di partenza per Viola von Cramon è la raccomandazione del Parlamento Ue relativa alla nuova strategia di allargamento, approvata in commissione Afet e ora attesa per il via libera definitivo in plenaria a novembre. Una base da cui ripartire per rinsaldare la fiducia dei partner candidati – o aspiranti tali – con un occhio al vertice Ue-Balcani Occidentali in programma a Tirana il prossimo 6 dicembre.
    Qual è la chiave di volta della raccomandazione del Parlamento Ue sulla nuova strategia di allargamento?
    Viola von Cramon: “Ci sono due elementi importanti. Il primo è la reversibilità: il messaggio che alcuni Paesi arretrano in determinate aree è importante solo se comporta conseguenze, come il blocco dei colloqui di adesione o dei fondi. Vogliamo che la condizionalità sia significativa, legata allo Stato di diritto, alla democrazia e all’allineamento alla Politica estera e di sicurezza dell’Unione”.
    E il secondo?
    Viola von Cramon: “Il secondo è legato al fatto che l’allargamento ha ricevuto un nuovo impulso con la guerra in Ucraina: è di nuovo sulla bocca di tutti e ci spinge a ripensare e a impegnarci nuovamente con nuovi approcci, per capire come accogliere i candidati. La strategia chiarisce che – a prescindere dai nuovi arrivati – dobbiamo essere credibili e mantenere i risultati nei Balcani Occidentali, altrimenti la nostra promessa a Est non sarà presa sul serio”.
    Su cosa ha focalizzato la sua attenzione negli emendamenti alla relazione?
    Viola von Cramon: “Il mio obiettivo si è concentrato sul rafforzare la condizionalità e anticipare i benefici per i partecipanti al processo. C’è un’ampia maggioranza di eurodeputati appartenenti a tutti i gruppi politici che sono favorevoli all’allargamento e, nonostante le differenze, l’obiettivo generale è chiaro per tutti i grandi gruppi”.
    Come pensa che i partner balcanici potrebbero beneficiare della nuova strategia?
    Viola von Cramon: “Non si tratta dell’ennesimo documento di Bruxelles, l’idea è quella di impegnarsi veramente con i partner dei Balcani Occidentali e di premiare quelli che lavorano per avvicinare i loro Paesi e le loro società all’Unione. In questo senso, il documento rafforza l’idea di un’integrazione accelerata, con l’introduzione graduale delle politiche settoriali una volta che i Paesi hanno soddisfatto i criteri. Un’enfasi particolare è posta sul ruolo della società civile, per molti aspetti uno stakeholder cruciale in tutta la regione per fornire valutazioni e prospettive credibili”.
    Nel Pacchetto Allargamento 2022 è contenuta la raccomandazione al Consiglio di concedere alla Bosnia ed Erzegovina lo status di candidato, nonostante l’assenza di grandi passi avanti sulle 14 priorità. È un rischio?
    Viola von Cramon: “I Verdi hanno organizzato una delegazione in Bosnia ed Erzegovina prima delle elezioni [del 3 ottobre, ndr] e abbiamo detto chiaramente che devono essere soddisfatte alcune condizioni cruciali perché ottenga lo status di candidato. Abbiamo compreso il senso di urgenza geopolitica e l’ingiustizia che poteva essere avvertita in Bosnia, a causa della concessione dello status di candidato dell’Ucraina.
    Tuttavia, la concessione incondizionata andrebbe solo a favore di opzioni politiche nazionalistiche radicate come l’Sda [bosgnacchi, ndr], l’Snsd [serbo-bosniaci, ndr] e l’Hdz BiH [croato-bosniaci, ndr], perciò vogliamo comunicare che questa è una ricompensa per i cittadini, non per le élite corrotte. Questo deve essere chiaro”.
    Nel frattempo la Serbia continua a sollevare preoccupazioni per il mancato allineamento con la politica estera e di sicurezza dell’Ue, in particolare per le sanzioni contro la Russia.
    Viola von Cramon: “I segnali sono davvero preoccupanti. Per la prima volta c’è un passo indietro nello Stato di diritto e la Serbia ha solo il 45 per cento di allineamento alla Politica estera e di sicurezza dell’Ue, con un calo del 20 per cento rispetto all’ultimo rapporto. La tendenza è chiara e la situazione è insostenibile. Abbiamo inviato un messaggio chiaro al presidente, Aleksandar Vučić: o siete con noi quando abbiamo bisogno dell’unità europea, o siete contro.
    L’equilibrismo serbo è inaccettabile e le conseguenze potrebbero essere l’effettivo arresto dei colloqui di adesione della Serbia. Noi vogliamo che la Serbia entri nell’Unione Europea, ma perché ciò accada deve fare un’inversione di rotta nella sua politica estera e dimostrare chiaramente la solidarietà con l’Ucraina”.
    Cosa pensa della proposta franco-tedesca sul dialogo tra Pristina e Belgrado?
    Viola von Cramon: “La ritengo un’iniziativa positiva e tempestiva. Le principali capitali europee sono coinvolte e abbiamo bisogno di vedere una direzione politica del dialogo Serbia-Kosovo per far progredire la situazione. Si tratta di un’opportunità unica, in quanto abbiamo la piena unità transatlantica su questo tema e non ci sono elezioni nel prossimo periodo.
    Incoraggio fortemente entrambe le parti a sfruttarla, così come a sfruttare la mediazione del rappresentante speciale dell’Unione Europea, Miroslav Lajčák, per giungere a un accordo sostenibile e completo. Senza di esso, nessuno dei due potrà aderire all’Ue”.

    L’eurodeputata dei Verdi/Ale, membro della commissione per gli Affari esteri (Afet), presenta i punti-chiave della raccomandazione del Parlamento Ue e avverte che “dobbiamo mantenere i risultati nei Balcani Occidentali, altrimenti la nostra promessa a Est non sarà presa sul serio”

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    La Commissione ha raccomandato la concessione dello status di candidato all’adesione Ue alla Bosnia ed Erzegovina

    Bruxelles – Il nuovo Pacchetto Allargamento della Commissione Europea presenta una novità particolarmente attesa in Bosnia ed Erzegovina, in particolare dopo le delusioni del vertice Ue-Balcani Occidentali di giugno. A sei anni dalla richiesta di adesione all’Unione Europea da parte di Sarajevo, la Commissione Ue ha raccomandato al Consiglio di concedere alla Bosnia lo status di Paese candidato all’adesione all’Unione. Lo ha reso noto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, in audizione alla commissione Affari esteri (Afet) del Parlamento Ue, presentando il Pacchetto Allargamento 2022: “Rispetto all’anno scorso il nostro compito è cambiato, c’è stata un’enorme evoluzione nella politica di allargamento dopo l’aggressione russa all’Ucraina”.
    L’allargamento dell’Unione nella regione balcanica è “più importante che mai per motivi geopolitici, per garantire la pace e la stabilità sul continente“, come ha dimostrato la “reazione immediata” delle richieste di adesione di Ucraina, Moldova e Georgia a pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa. Al vertice dei leader Ue di giugno “c’è stato un chiaro impegno”, con la concessione dello status di candidati a Kiev e Chişinău e la prospettiva europea per Tbilisi: “Dal prossimo nel Pacchetto Allargamento avremo 10 relazioni, ma già entro la fine dell’anno intendiamo presentare una valutazione sulle capacità dei tre nuovi partner di colmare le lacune evidenziate nelle nostre valutazioni”, ha aggiunto il commissario Várhelyi.
    Pensando al presente, però, “tutti i sei Paesi dei Balcani Occidentali devono aderire il prima possibile all’Unione”, ha avvertito il titolare per l’Allargamento nel gabinetto von der Leyen, parlando della raccomandazione del Collegio dei commissari di oggi (mercoledì 12 ottobre) ai Ventisette di concedere lo status di Paese candidato all’adesione Ue anche alla Bosnia ed Erzegovina. La decisione – che “spetterà al Consiglio Europeo, probabilmente al vertice di dicembre” – sarà comunque condizionata sia dal rispetto delle 14 priorità-chiave sia dall’adozione di diverse misure da parte di Sarajevo, elencate in un report tutt’altro che incoraggiante sui progressi fatti nel campo giudiziario, politico e dello Stato di diritto (anche considerate le tensioni nella Republika Srpska).
    Facendo appello alla “responsabilità di tutte le forze politiche” dopo le elezioni dello scorso 2 ottobre, il commissario ha spiegato che in Bosnia dovranno essere approvate “in via prioritaria” la legge sul Consiglio superiore della magistratura, quella sulla prevenzione del conflitto di interessi e misure per rafforzare la prevenzione e la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata. Fondamentale anche il coordinamento “a tutti i livelli” della gestione delle frontiere e del funzionamento del sistema di asilo, l’istituzione di un meccanismo nazionale di prevenzione contro la tortura, ma anche l’adozione di un programma nazionale per l’acquis Ue e la libertà di espressione e la protezione dei giornalisti. “Quella che stiamo offrendo è una grande opportunità per la Bosnia, che arriva una volta nella vita e che i cittadini meritano“, ha sottolineato con forza il commissario Várhelyi. Tutto questo comunque “dovrà essere soddisfatto prima di poter pensare di aprire i negoziati di adesione” all’Unione.

    ❗ BREAK: European Commission to recommend candidate status for Bosnia and Herzegovina 🇧🇦 in the European Parliament this afternoon. An absolute necessity for a geopolitical EU. Member States must now make the right call and support the people of BiH on their European path. pic.twitter.com/Q7V8D0R7WM
    — Thijs Reuten 🇪🇺🌹 (@thijsreuten) October 12, 2022

    Gli altri dossier del Pacchetto Allargamento 2022
    Non c’è solo la Bosnia al centro dell’attenzione di Bruxelles sui progressi dei Paesi candidati (o quasi) all’adesione Ue. Presentando le altre sei relazioni – compresa la Turchia, che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale – è soprattutto la Serbia a destare le maggiori preoccupazioni: “Deve essere un partner e alleato sincero, per promuovere la sicurezza sul continente, e deve rivedere le sue posizioni per allinearsi all’Ue e distanziarsi di più dalla Russia“, è l’ennesima esortazione del commissario Várhelyi. In ogni caso, Belgrado è “un importante partner economico, che va aiutato ad affrontare le sfide energetiche” e che allo stesso tempo sta proseguendo sul cammino di avvicinamento agli standard Ue, “come dimostra il referendum sulle riforme costituzionali di gennaio“.
    Tutti gli altri quattro partner balcanici sono “completamenti allineati alla politica estera e di difesa” dell’Unione Europea, in particolare dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Macedonia del Nord e Albania presentano “importanti progressi con risultati concreti” sul piano dell’attuazione delle riforme richieste, spinte anche dallo sblocco dello stallo sull’avvio dei negoziati di adesione lo scorso 19 luglio. Tirana deve però accelerare l’iter sulla libertà di espressione e il diritto di proprietà intellettuale (mentre la riforma della giustizia è “un esempio di serietà nel rafforzamento dello Stato di diritto”), Skopje deve fare passi in avanti sulla riforma dell’amministrazione pubblica ed entrambi i governi devono impegnarsi sulla lotta alla corruzione.
    In una posizione più complessa – anche se sulla carta più avanzata – è il Montenegro, ancora fermo sui capitoli negoziali 23 (potere giudiziario e diritti fondamentali) e 24 (giustizia e affari interni): “La valutazione del 2021 era identica, rimangono una seria preoccupazione“, ha confessato il commissario per l’Allargamento agli eurodeputati. Di fronte a una situazione instabile sul piano politico (che ha recentemente visto in crisi anche il governo di scopo guidato da Dritan Abazović), è necessario “un serio sforzo da parte di tutte le forze partitiche nel settore giudiziario”, così come nella libertà di espressione e dei media, e nella lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata. Oltre alla Bosnia, anche il Kosovo è l’unico Paese dei Balcani Occidentali a cui non è ancora stato riconosciuto lo status di Paese candidato (Pristina ha annunciato che entro la fine dell’anno farà richiesta di adesione). “Vorremmo vedere un cammino più rapido sul programma di riforme, ma c’è un rafforzamento dello Stato democratico”, ha confermato Várhelyi. Rinnovata la raccomandazione al Consiglio di liberalizzare il regime dei visti per i cittadini kosovari e chiesto infine un “approccio costruttivo da parte di tutti gli attori” per quanto riguarda il dialogo Pristina-Belgrado.

    A sei anni dalla richiesta di adesione all’Unione Europea, nel Pacchetto Allargamento 2022 l’esecutivo comunitario ha incluso per la prima volta l’esortazione al Consiglio di riconoscere lo status a Sarajevo. La decisione finale spetterà ora ai 27 leader Ue (probabilmente a dicembre)

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    Tra separatismo, rinnovamento e polemiche in Bosnia ed Erzegovina. Chi ha vinto le elezioni più complicate del mondo

    Bruxelles – Si sono svolte ieri (domenica 2 ottobre) in Bosnia ed Erzegovina quelle che sono considerate dall’opinione pubblica internazionale le elezioni più complicate tra i sistemi politici di tutto il mondo. In linea generale ha vinto il rinnovamento tra le etnie croata e musulmana, ma allo stesso tempo non si è nemmeno arrestato il separatismo della componente serba, rendendo ancora più intricata l’analisi del voto politico nel Paese balcanico, che si è appesantita con la decisione dell’alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina (Ohr), Christian Schmidt, di usare i cosiddetti ‘poteri di Bonn’ per imporre modifiche alla legge elettorale e alla Costituzione proprio nel giorno del voto.
    Per capire l’esito delle elezioni, bisogna analizzare il sistema di governo in vigore in Bosnia ed Erzegovina. Il Paese è diviso in due entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska: ciascuna ha un Parlamento bicamerale e, a seconda dell’entità in cui vivono, i cittadini eleggono anche un presidente (Republika Srpska) o la rappresentanza politica cantonale (Federazione di Bosnia ed Erzegovina, divisa in 10 cantoni). A livello statale, c’è una presidenza tripartita (composta dai rappresentanti delle etnie croata, musulmana e serba) un Consiglio dei ministri e un Parlamento bicamerale statale: di quest’ultimo è importante la Camera dei popoli – di 15 membri, cinque per ciascuna etnia – che ha il compito di tutelare i rispettivi interessi etnici con un potere di veto sulle leggi approvate dalla Camera dei rappresentanti. Nella pratica, nel giorno delle elezioni in Bosnia ed Erzegovina si vota per cose diverse a seconda della propria entità politica di riferimento e della propria etnia (chi non si identifica in nessuna delle tre maggiori è escluso da alcune votazioni). Chi risiede nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina vota per i membri bosgnacco – cioè bosniaco musulmano – e croato della presidenza tripartita, per il Parlamento statale, per il Parlamento della Federazione e per l’Assemblea cantonale. Chi risiede nella Republika Srpska vota per il membro serbo della presidenza tripartita, per il Parlamento statale, per il presidente e per il Parlamento dell’entità serba.
    Su una popolazione di 3,8 milioni di persone, sono stati oltre 7 mila i cittadini che si sono candidati a una qualche carica di rappresentanza nel Paese il 2 ottobre 2022. In palio c’erano tre seggi per la presidenza tripartita, 42 per il Parlamento statale, 98 per l’Assemblea della Federazione, 83 per l’Assemblea e tre per il presidente e i vicepresidenti della Republika Srpska, oltre a tutti quelli delle 10 Assemblee cantonali. Secondo quanto riporta la Commissione elettorale centrale, solo il 50 per cento dei bosniaci ha votato nei 5.904 seggi aperti, confermando il clima di generale sfiducia nel sistema politico nazionale e di estrema complessità di quello elettorale, che è alla base dell’astensionismo cronico dalle prime elezioni dopo la fine della guerra in Bosnia nel 1996.
    Con l’85 per cento delle schede spogliate, per quanto riguarda la presidenza tripartita va segnalato il doppio risultato della socialdemocrazia nella Federazione. Il membro croato uscente, Željko Komšić (Fronte Democratico), si è imposto sulla candidata nazionalista dell’Unione Democratica Croata (Hdz), Borjana Krišto, spingendo verso la visione di uno Stato che si smarchi dalle divisioni etniche, come sostenuto anche dal futuro membro bosgnacco, Denis Bećirović (Partito Socialdemocratico), che ha sconfitto il Partito d’Azione Democratica (Sda), guidato dall’uscente Bakir Izetbegović (in carica dal 2010 a oggi e figlio del primo presidente bosniaco, Alija Izetbegović). L’asse di centro-sinistra moderato che proverà a spingere Sarajevo su una strada meno etno-centrica a riformista è frenato però dall’elezione della serbo-bosniaca Željka Cvijanović (la prima rappresentante donna di sempre in questo ruolo): presidente uscente della Republika Srpska, anche lei sarebbe una socialdemocratica, ma nell’entità a maggioranza serba questo significa che continuerà con ancora più forza il progetto secessionista iniziato dal predecessore, Milorad Dodik.

    This is the new BiH Presidency.
    Bećirović and Komšić are social democrats who will continue advocating for a civic BiH.
    Cvijanović, a Serb nationalist, will keep pushing for the secession of the RS.
    The people of BiH have sent a clear message: We want to live in a civic state. pic.twitter.com/0397EUsRdZ
    — Samir Beharić 🇺🇦 (@SamBeharic) October 3, 2022

    A proposito di Dodik, in Republika Srpska c’è un giallo sulle elezioni del nuovo presidente dell’entità. Dopo la chiusura delle urne, la candidata del Partito del Progresso Democratico (Pdp), Jelena Trivić, ha rivendicato la vittoria, sostenendo di essere sopra di oltre 11 mila voti rispetto al candidato dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti. La Commissione elettorale centrale, invece, ha confermato che è Dodik il più vicino a essere eletto per la terza volta (dopo il doppio mandato tra il 2010 e il 2018) a presidente della Republika Sprska, con uno scarto di circa 30 mila preferenze: gli avversari stanno denunciando brogli elettorali per cui dovrebbe essere invalidato il risultato delle urne. In ogni caso, entrambi i leader serbo-bosniaci spingono sulla strada del secessionismo dell’entità, e nessuno dei due scenari sembra essere più rassicurante per la stabilità del Paese e il rispetto degli impegni sulle riforme istituzionali previsti dal cammino di adesione all’Unione Europea.
    L’alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina (Ohr), Christian Schmidt (2 ottobre 2022)
    In attesa dell’esito del voto per la composizione delle 13 Assemblee parlamentari – locali, statali e delle entità – che potrebbe confermare queste le tendenze generali verso il riformismo nella Federazione e il separatismo nella Republika Srpska, è arrivata con un tempismo alquanto discutibile la decisione dell’alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina di imporre modifiche alla legge elettorale e alla Costituzione, nel pieno del processo di voto. Questa possibilità deriva dai ‘poteri di Bonn’ – previsti dagli Accordi di Dayton del 1995, che misero fine alla guerra in Bosnia iniziata tre anni prima – che consentono all’alto rappresentante di imporre misure legislative o licenziare funzionari che si oppongono all’attuazione degli stessi accordi di pace sulle modifiche alla Costituzione e alla legge elettorale.
    Le misure contenute nel ‘Pacchetto di funzionalità‘ dovrebbero snellire il processo legislativo con l’obbligo di cooperazione per le due Camere del Parlamento statale, aumentare il numero di rappresentanti nella Camera dei popoli e modificare le modalità con cui vengono eletti, oltre a definire scadenze più strette per la formazione del governo dopo le elezioni. Nonostante le dure critiche da parte dei maggiori esperti e analisti della politica bosniaca e di alcuni eurodeputati, la misura è stata sostenuta sia dall’ambasciata statunitense in Bosnia, sia da quella britannica. Più attendista è invece la Commissione Europea, che attraverso la portavoce per la Politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero, ha fatto sapere che “è una decisione dell’alto rappresentante” e ha ricordato che “i poteri di Bonn devono essere usati solo come ultimo mezzo disponibile”, esortando allo stesso tempo i leader bosniaci a “rafforzare gli impegni sanciti a giugno a Bruxelles“. Nella nota della delegazione Ue in Bosnia ed Erzegovina si legge invece che Bruxelles “prende atto” di quanto deciso da Schmidt, senza dare alcun indizio se si respiri ottimismo o irritazione per le modifiche alla Costituzione e alla legge elettorale del Paese nel giorno stesso delle elezioni.

    These results were however overshadowed by the use of the Bonn Powers by the @OHR_BiH to impose a new election law that caters the interests of the ethno-nationalistic HDZ party and its sister party in Zagreb. By doing so, Mr. Schmidt has severely complicated the reform process.
    — Tineke Strik (@Tineke_Strik) October 3, 2022

    “Con questa missione elettorale si rende ancor più evidente l’interesse e l’attenzione dell’Unione Europea, che resta convintamente al fianco del Paese nel suo cammino verso una piena integrazione europea”, scrive in una nota l’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e unico italiano tra gli osservatori elettorali del Parlamento, Fabio Massimo Castaldo, che sottolinea anche “lo speciale legame culturale, storico e commerciale dell’Italia con la Bosnia e con l’intera regione dei Balcani Occidentali”. L’auspicio dell’eurodeputato italiano è che “il nuovo Parlamento possa superare i veti e le tensioni degli ultimi anni e proseguire nel cammino delle riforme” verso l’adesione all’Unione.
    Anche i Socialisti e Democratici (S&D) all’Eurocamera esortano i nuovi leader “a superare le divisioni etniche e a concentrarsi sulle riforme necessarie verso un futuro prospero, democratico ed europeo”. Il nuovo governo, afferma una nota, “deve attuare tutti gli impegni e le riforme, comprese le sentenze dei tribunali nazionali e internazionali, per trasformare la Bosnia ed Erzegovina in uno Stato pienamente funzionante”. Il gruppo S&D è deluso dal fatto che “le campagne elettorali siano state oscurate dalla retorica etnica divisiva dei partiti politici invece di concentrarsi su argomenti riguardanti il benessere dei cittadini come la disoccupazione, la disuguaglianza sociale, la corruzione, l’elevata inflazione e la crisi energetica”.

    Le urne hanno rinnovato la presidenza tripartita, il Parlamento statale, quelli delle due entità e il presidente della Republika Srpska. Si delineano la linea moderata di croati e bosgnacchi e quella separatista serba, mentre l’alto rappresentante impone modifiche alla legge elettorale

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    Le province separatiste dell’Ucraina indicono referendum per farsi annettere dalla Russia. L’Ue: “Illegali, nulli e invalidi”

    Bruxelles – Ora la guerra di resistenza contro Mosca potrebbe assumere un nuovo significato per Kiev. Non più solo una controffensiva per riconquistare i territori sottratti dall’esercito russo dall’inizio dell’invasione lo scorso 24 febbraio, ma soprattutto un recupero delle province separatiste annesse alla Russia. Non si parla più esclusivamente della Crimea – da cui tutto è iniziato nel 2014 – perché la novità sono ora i referendum che saranno organizzati tra il 23 e il 27 settembre nelle autoproclamate Repubbliche separatiste filo-russe di Donetsk e Luhansk (nel sud-est dell’Ucraina) per l’annessione alla Russia. Si tratta proprio di quei territori che Putin aveva riconosciuto come entità indipendenti il 21 febbraio, pochi giorni prima di iniziare l’offensiva militare su larga scala che dura ormai da sette mesi.
    La sfida alle autorità di Kiev non si ferma qui. Perché nei prossimi giorni è attesa la stessa decisione sui referendum di annessione alla Russia da parte dei separatisti delle regioni di Kherson, Kharkiv e Zaporizhzhia, con implicazioni cruciali per il proseguo della guerra di Putin in Ucraina. Per comprenderne la portata basta considerare le parole del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev, che ha affermato che “i referendum nel Donbass sono di grande importanza non solo per la protezione sistemica dei residenti” delle Repubbliche separatiste  e “degli altri territori liberati”, ma anche “per il ripristino della giustizia storica”. Il fatto che questo voto “cambierebbe completamente il vettore dello sviluppo della Russia per decenni” non è solo una questione di proclami altisonanti, ma ha una conseguenza tangibile: “Dopo aver incorporato nuovi territori alla Russia, la trasformazione geopolitica nel mondo diventerà irreversibile”, ha aggiunto Medvedev, minacciando l’Ucraina e l’Occidente che “l’invasione del territorio della Russia è un crimine, la cui commissione consente l’uso di tutte le forze di autodifesa“.
    Dichiarazioni che arrivano non solo mentre la controffensiva dell’esercito ucraino sta obbligando la Russia a ritirarsi dall’Oblast di Kharkiv, ma anche in concomitanza della mobilitazione parziale dichiarata da Putin, con il richiamo alle armi dei militari della riserva, e degli emendamenti al Codice Penale russo per il rafforzamento delle pene in caso di “mobilitazione”, “legge marziale”, “tempo di guerra” e “conflitto armato” (la renitenza alla leva sarà punita con una pena fino a dieci anni di reclusione). Si aggiunge poi la minaccia di ricorrere a “ogni mezzo necessario per la difesa della Russia”, compresa l’arma nucleare. Tutti segnali che evidenzierebbero il livello di grave difficoltà dell’autocrate russo nel condurre una guerra che sta diventando sempre più un fallimento su quasi tutta la linea, come sostiene Kiev, ma anche Bruxelles: “Queste decisioni dimostrano la disperazione di Putin e la mancanza di volontà a cercare la pace, vuole solo continuare la sua guerra distruttiva”, ha sottolineato il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, nel corso del punto quotidiano con la stampa europea.
    L’autocrate russo, Vladimir Putin, al momento della firma della dichiarazione di riconoscimento d’indipendenza delle autoproclamate Repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk (21 febbraio 2022)
    La condanna delle istituzioni comunitarie si estende anche ai referendum delle autoproclamate Repubbliche separatiste in Ucraina per l’annessione alla Russia. “L’Unione Europea condanna fermamente questi referendum illegali pianificati che vanno contro le autorità ucraine legalmente e democraticamente elette”, è la condanna dell’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “I risultati di tali azioni saranno nulli e non saranno riconosciuti dall’Ue e dai suoi Stati membri”. Il voto non può essere considerato “in nessun caso” una libera espressione della volontà popolare in queste regioni, per diverse ragioni: la fuga di una “parte significativa della popolazione” dopo l’invasione dell’esercito del Cremlino, la “costante minaccia e intimidazione militare russa”, la “sostituzione con la forza” di funzionari locali e la libertà di espressione “fortemente limitata”. Dal momento in cui Mosca intende modificare con la forza i confini dell’Ucraina, “in chiara violazione della Carta delle Nazioni Unite”, la Russia, la sua leadership politica e tutti i soggetti coinvolti nello svolgimento dei referendum di annessione “saranno ritenuti responsabili”, mentre a Bruxelles saranno prese in considerazione “ulteriori misure restrittive”, ha annunciato Borrell.

    The EU strongly condemns the illegal “referenda” in Luhansk, Kherson & Donetsk, which are in violation of Ukraine’s independence, sovereignty and territorial integrity, and in blatant breach of international law. Results of such actions will be null & void https://t.co/kqOwZYrXwG
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) September 20, 2022

    L’incognita balcanica
    Come se la situazione non fosse sufficientemente calda, dalla Bosnia ed Erzegovina arrivano dichiarazioni incendiarie del membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik, a proposito della guerra russa in Ucraina e del parallelismo con la Republika Srpska (una delle due entità in cui è diviso il Paese balcanico, a maggioranza serba). “A 15 milioni di russi in Ucraina le autorità hanno negato il diritto alla propria lingua, ecco perché l’operazione speciale della Russia è giustificata dalla necessità di proteggere il suo popolo“, ha ribadito in un’intervista all’agenzia di stampa russa Tass il suo non-allineamento alla posizione del resto dell’Europa. Nemmeno il presidente serbo, Aleksandar Vučić, che rivendica una posizione di neutralità tra Mosca e l’Occidente e in questo modo giustifica la sua contrarietà alle sanzioni contro la Russia, si è mai spinto a tanto. È proprio alla Serbia che Dodik guarda con speranza, illustrando le similitudini con il Donbass ucraino: “Qui è la stessa cosa, non possiamo condividere le stesse scuole e gli stessi libri di testo con i musulmani“, ha attaccato, con riferimento ai tentativi di secessionismo che sta portando avanti nella Republika Srpska. La volontà del leader serbo-bosniaco, a meno di due settimane dalle elezioni politiche nel Paese, è quella di incontrare personalmente Putin, per confrontarsi su “progetti energetici concreti e del comportamento dell’Occidente”, ha anticipato alla Tass.
    Il membro serbo della presidenza tripartita di Bosnia, Milorad Dodik
    È anche per il rischio di un’escalation della tensione e della destabilizzazione russa nella regione dei Balcani Occidentali che Bruxelles non può permettersi di allentare il rapporto anche con i Paesi più irrequieti. Non a caso l’alto rappresentante Borrell ha incontrato ieri (martedì 20 settembre) i sei leader balcanici per un pranzo informale a New York, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dopo aver ripreso la tradizione delle cene informali a Bruxelles nel maggio dello scorso anno. Come si legge in una nota del Seae, la discussione “si è concentrata sull’impatto globale e regionale della guerra illegale” della Russia in Ucraina, in particolare “sui prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia e sulla stabilità e sicurezza in Europa e nel mondo”. Al pranzo erano presenti il premier montenegrino, Dritan Abazović, gli omologhi albanese, Edi Rama, e macedone, Dimitar Kovačevski, e i presidenti della Serbia, Aleksandar Vučić, del Kosovo, Vjosa Osmani, e della Bosnia ed Erzegovina, Šefik Džaferović (membro bosgnacco della presidenza tripartita). Proprio a sottolineare quanto l’Ue sia un partner irrinunciabile per i Balcani Occidentali, Borrell ha sottolineato il sostegno di Bruxelles per “rafforzare la sicurezza energetica e affrontare le minacce ibride“, comprese l’interferenza informatica e delle informazioni straniere, come ha dimostrato il recente caso di attacco hacker iraniano contro le istituzioni dell’Albania.

    We are living in difficult times. With the #WesternBalkans – our closest partners & future EU members – we will keep joining forces even more to respond to the challenges we all meet as consequences of Russia’s aggression against Ukraine.https://t.co/HTwZsoocJm pic.twitter.com/hffBv5eL9L
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) September 20, 2022

    Sull’esempio della Crimea nel 2014, le province occupate di Donetsk e Luhansk hanno indetto una consultazione popolare tra il 23 e il 27 settembre e presto potrebbe arrivare la stessa decisione a Kharkiv, Kherson e Zaporizhzhia. Intanto Putin annuncia la mobilitazione parziale alle armi

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    I crimini di guerra in Ucraina “riportano alla mente” gli orrori della guerra in Bosnia: l’UE ricorda il massacro di Srebrenica

    Bruxelles – Le lancette della storia indietro di 27 anni, in Bosnia ed Erzegovina, mentre emergono giorno dopo giorno sempre più immagini e testimonianze degli orrori dell’esercito russo in Ucraina. Mai come quest’anno il ricordo del massacro di Srebrenica è un monito per quanto si sta ripetendo sul territorio europeo, oltre i confini orientali dell’UE. “Le uccisioni di massa e i crimini di guerra a cui assistiamo in Ucraina riportano alla mente la guerra nei Balcani Occidentali degli anni Novanta”, hanno sottolineato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, nel ribadire che “è più che mai nostro dovere ricordare il genocidio di Srebrenica, come parte della nostra storia comune europea“.
    Nel luglio del 1995 furono 8.372 i civili bosniaci – tutti maschi, di etnia musulmana – massacrati dalle forze serbo-bosniache di Ratko Mladić nei pressi del comune di Srebrenica, nella Bosnia orientale. Sono passati 27 anni da quell’ennesima tragedia (la più grande per numero di vittime in pochi giorni) di un genocidio durato tre anni e mezzo, dall’aprile del 1992 agli accordi di Dayton del 14 dicembre 1995. Eppure “ancora oggi non possiamo dare la pace per scontata“, perché “l’aggressione ingiustificata e immotivata della Russia contro l’Ucraina ha riportato una guerra brutale nel nostro continente”. Mentre la stabilità dell’Europa e l’ordine internazionale sono “profondamente scossi”, l’UE non dimentica “la necessità di alzarci per difendere la pace, la dignità umana e i valori universali”, rimessi in discussione: “Non abbiamo dimenticato ciò che è accaduto a Srebrenica e la nostra responsabilità per non essere stati in grado di prevenire e fermare il genocidio”.

    Today, we remember the victims of the #Srebrenica genocideWe cannot take peace for granted. We must learn from the past and work daily for peace, human dignity, universal valuesWe take inspiration from the Mothers of Srebrenica in their pursuit of truth, justice, reconciliation pic.twitter.com/5DZoB9fzxq
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) July 11, 2022

    Allora “l’Europa ha fallito e noi dobbiamo affrontare la nostra vergogna”, ma quegli errori non possono essere commessi di nuovo. Né in Ucraina né ancora nella regione balcanica: “In Europa non c’è posto per la negazione del genocidio, il revisionismo e la glorificazione dei criminali di guerra“, hanno avvertito l’alto rappresnetante Borrell e il commissario Várhelyi, richiamandosi alle tensioni che da diversi mesi si stanno vivendo nella Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba del Paese): “Tutti i cittadini della Bosnia ed Erzegovina meritano una società in cui prevalgano il pluralismo, la giustizia e la dignità umana”. Lo aveva ricordato un mese fa durate la cerimonia del Premio Lux 2022 al Parlamento UE la regista di Quo Vadis, Aida? (proprio sul massacro di Srebrenica), Jasmila Žbanić: “Abbiamo bisogno del vostro supporto contro i nazionalismi appoggiati daPutin”. E quella dei membri del gabinetto guidato da Ursula von der Leyen sembra quasi una risposta al suo appello: “In questi tempi pericolosi” i leader bosnaici “devono passare dalle parole ai fatti”, scegliendo “verità, giustizia e cooperazione al posto di paura e odio per superare le tragiche eredità del passato e costruire un futuro più luminoso e prospero per le prossime generazioni”.
    Un impegno che coinvolge il cammino di adesione di Sarajevo all’UE (nonostante le difficoltà mostrate anche da parte di Bruxelles nel fornire una risposta credibile alle aspirazioni balcaniche). “L’Unione Europea è stata costruita come un progetto di pace comune e il futuro della Bosnia ed Erzegovina è all’interno dell’Unione“, hanno ribadito con forza Borrell e Várhelyi. Ma per realizzare questo obiettivo “è necessario che tutti i leader del Paese si impegnino a porre la pace, la riconciliazione, la comprensione reciproca e il dialogo in cima alla loro agenda e si impegnino nel programma di riforme” richiesto dalla comunità internazionale. Anche il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, ha collegato il massacro di Srebrenica – “uno dei momenti più bui della storia europea moderna” con il momento storico che il continente sta affrontando: “Questo tragico anniversario ci ricorda che dobbiamo continuare a lavorare insieme per la pace in Europa” e per far sì che “la Bosnia ed Erzegovina diventi parte dell’Unione Europea”.

    27 years since #Srebrenica genocide, one of the darkest moments in modern European history.
    Our hearts & thoughts are with the victims & their families. This tragic anniversary is also a reminder: we must keep working together for peace in Europe & for 🇧🇦 to become part of 🇪🇺 pic.twitter.com/nZ6iJs81k4
    — Charles Michel (@CharlesMichel) July 11, 2022

    Nel ribadire che l’assassinio di oltre 8 mila civili nel 1995 “è parte della nostra storia comune europea” e un fallimento per cui “dobbiamo affrontare la nostra vergogna”, l’alto rappresentante UE, Josep Borrell, avverte che “neanche oggi non possiamo dare la pace per scontata”