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    Niente crescita e meno commercio, per Londra la Brexit cinque anni dopo è un ‘flop’

    Bruxelles – Meglio soli che male accompagnati. Il noto detto devono conoscerlo anche oltre Manica, dove si è deciso di dire addio all’Unione europea per un futuro più radioso che però non c’è. Ecco che il noto detto mostra i suoi limiti, riassunti nei numeri certificati anche dall’Ufficio per la responsabilità di bilancio, l’ente pubblico finanziato dal Tesoro britannico. Meno crescita, meno produttività, meno commercio: ecco il Regno Unito post-Brexit, a cinque anni dalla ‘nuova indipendenza’.L’analisi dell’Ufficio governativo, certifica che essere usciti dal mercato unico non è stato un vantaggio. Al contrario, “sia le esportazioni che le importazioni saranno inferiori di circa il 15 percento nel lungo periodo rispetto a quanto sarebbe stato se il Regno Unito fosse rimasto nell’Ue“. Questo per via di costi alle dogane in termini di nuovi dazi e tempi lunghi per i nuovi controlli delle merci scattati quale effetto della Brexit. Inoltre, la libertà di decidere da sé come fare libero scambio si riflette nell’incapacità di essere davvero innovativiDavid Cameron, primo ministro del Regno Unito dall’11 maggio 2010 al 13 luglio 2016. Fu lui a volere il referendum sulla Brexit, e si dimise a seguito dell’esito del voto [foto: imagoeconomica] “I nuovi accordi commerciali con Paesi non Ue non avranno un impatto materiale e qualsiasi effetto sarà graduale”, sottolinea ancora l’Ufficio britannico. “Questo perché gli accordi conclusi fino a oggi replicano (o ‘rinnovano’) accordi di cui il Regno Unito ha già beneficiato come stato membro dell’Ue”. Inoltre, il nuovo accordo di commercio e cooperazione (Tca) Ue-Regno Unito entrato in vigore l’1 maggio 2021 “ridurrà la produttività a lungo termine del 4 percento rispetto alla permanenza nell’Ue”.Dove il Regno Unito ci guadagna dalla Brexit è sull’immigrazione. Si stima che il nuovo regime del governo possa ridurre la migrazione netta in entrata. Sempre che questo sia un vantaggio per il sistema economico e produttivo britannico. Il National Institute of Economic and Social Research di Londra rileva come a seguito della Brexit la carenza di manodopera ha messo “a dura prova l’economia” del Regno Unito. Se prima del recesso dall’Ue le imprese potevano facilmente soddisfare le loro esigenze di lavoro attraverso il mercato del lavoro integrato dell’Ue, a seguito della Brexit settori critici come agricoltura, assistenza sanitaria e ristorazione hanno incontrato carenze di manodopera, con conseguente aumento dei costi operativi e limitazioni di produzione.

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    Serbia, le proteste segneranno “la fine del regime” di Aleksandar Vučić. Intervista a Srđan Cvijić

    Bruxelles – Come nelle tessere del domino, in Serbia il crollo fatale di una pensilina alla stazione ferroviaria di Novi Sad ha innescato il più grande movimento di protesta dai tempi della caduta del regime di Slobodan Milošević. Venticinque anni dopo, un altro regime rischia di sbriciolarsi di fronte alle manifestazioni che si susseguono da ormai tre mesi, quello “violento e brutale” del Partito progressista serbo (Sns) e del suo leader, il presidente Aleksandar Vučić. “In un modo o nell’altro, questa è la fine del regime di Vučić”, ha predetto in un’intervista a Eunews Srđan Cvijić, analista politico e presidente dell’International Advisory Committee of the Belgrade Centre for Security Policy.Pochi giorni fa, nel tentativo di placare le proteste studentesche, si è dimesso il primo ministro Miloš Vučević, al centro della bufera perché sindaco di Novi Sad ai tempi della ristrutturazione della stazione ferroviaria. “Un non evento”, secondo Cvijić, perché Vučević altro non era che un burattino del presidente, che nei dodici anni al potere “ha concentrato progressivamente tutto il potere su di sé”. Per questo – spiega da Belgrado Cvijić – “non ha sortito alcun effetto sulle manifestazioni“: gli studenti non si sono fermati, e non si fermeranno.Srđan Cvijić, presidente dell’International Advisory Committee of the Belgrade Centre for Security PolicyLa morte di 15 persone – più due feriti gravi – nell’incidente del 15 novembre scorso a Novi Sad ha scoperchiato il vaso di pandora sulla corruzione dilagante nel Paese balcanico, rovesciando per strada migliaia di persone al grido di ‘Corruption kills’. L’avanguardia della mobilitazione sono le Università: gli studenti hanno insediato nelle facoltà dei plenum, organi “dal basso” incaricati di prendere le decisioni e coordinati tra loro a livello nazionale. Senza colori politici e senza leader riconoscibili. “Gli studenti sono estremamente cauti a non avere niente a che fare con la politica, non c’è nessun contatto nemmeno con l’opposizione“, racconta ancora Cvijić, che ha potuto partecipare in prima persona – in quanto membro della società civile – ad alcuni di questi plenum.Nelle piazze di Belgrado e delle principali città serbe, a differenza di quanto succede in Georgia, non si vedono nemmeno bandiere dell’Unione europea. Eppure entrambi sono paesi candidati all’adesione all’Ue, e – a Belgrado come a Tbilisi – nelle mobilitazioni entrano in gioco anche le posizioni marcatamente filo-russe dei propri governi. Ma “qui l’Unione europea è percepita come un alleato di Vučić“, ammette Cvijić, che è stato anche analista politico senior per le relazioni esterne dell’Ue. “A causa di tutta una serie di rapporti economici. È comprensibile, l’Ue non vuole isolare la Serbia, ma ha creato questa percezione”, spiega ancora, mettendo in chiaro che “non vuol dire che popolazione è anti-europea, ma che è delusa dall’Unione europea”.A livello nazionale invece, secondo il politologo serbo l’elusione delle etichette politiche non è soltanto una “decisione pragmatica” per evitare di esporsi alla “macchina del fango incredibilmente feroce” dell’apparato governativo, ma il frutto di anni di “antipolitica di Vučić”, che ha fatto sì che la popolazione “percepisce con sospetto qualsiasi attore politico”. È proprio la mancanza del legame con la politica la chiave del successo travolgente delle proteste: “Gli studenti hanno canalizzato la rivolta di una popolazione intera“, la “frustrazione di dodici anni di questo regime violento e brutale”, e “il livello di solidarietà è incredibile”, conferma Cvijić.Addirittura, dopo una prima fase di arresti coatti durante i cortei di novembre, ultimamente – come durante il blocco stradale messo in atto lo scorso 27 gennaio da studenti e agricoltori su due importanti arterie verso il centro di Belgrado – la polizia stessa non ha voluto intervenire contro i manifestanti. Il partito nazionalista di Vučić si fa vendetta da solo: i responsabili delle violenze commesse sui manifestanti – sarebbero una ventina le persone attaccate in questi mesi – si sono spesso dimostrati affiliati all’Sns, come nel caso dell’agguato, sempre il 27 gennaio, subito a Novi Sad da un gruppo di studenti, colpevoli di aver imbrattato con graffiti e adesivi anti-governativi un ufficio del Partito progressista serbo, e nel quale è rimasta gravemente ferita una donna.Il presidente serbo, Aleksandar Vučić, e di spalle l’ex premier Miloš Vučević (credits: Oliver Bunic / Afp)“Anche quando il coinvolgimento non è diretto, le violenze sono il risultato dell’istigazione e della propaganda” del regime, accusa Cvijić. Un regime “che assomiglia più a un’organizzazione mafiosa piuttosto che a un governo“. A questo punto, Vučić sembra essere scivolato in uno stretto pozzo, e qualsiasi tentativo di dimenarsi e risalire la china non fa altro che ricacciarlo più in giù. Come le accuse esplicite contro l’ingerenza nelle proteste di “agenti stranieri, provenienti da diversi Paesi occidentali”, che rischiano di alienargli definitivamente il già scarso supporto di cui gode nel resto d’Europa. Come l’apertura ad un rimpasto del governo e le dimissioni del premier: “Ora il regime è in difficoltà, perché se nominerà semplicemente un altro primo ministro come Vučević farà infuriare la gente – spiega Cvijić -, ma nemmeno le elezioni sono un’opzione perché i partiti di opposizione hanno già dichiarato che non parteciperebbero”.L’unica opzione – indica l’analista – è “nominare un governo tecnico di transizione, con due scopi: liberare i media controllati dal governo e creare condizioni per elezioni libere”. A quel punto, sarà fondamentale scoprire se il movimento studentesco si sfilaccerà o se appoggerà uno dei candidati. Per ora, questa questione non si pone perché, più che politica, in Serbia è in atto “una vera rivoluzione morale e emotiva”. E questo, “in un modo o nell’altro, è la fine del regime di Vučić”.

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    Il congelamento degli aiuti Usa mette in ginocchio le organizzazioni umanitarie, soprattutto in Ucraina

    Bruxelles – “Il governo statunitense non è un ente benefico“. Sta tutta in queste parole, pronunciate ieri (30 gennaio) dal nuovo Segretario di Stato Marco Rubio, la direzione che la nuova amministrazione a stelle e strisce intende seguire già dal suo avvio. Tra i primi ordini esecutivi firmati da Donald Trump il giorno del suo insediamento, lo scorso 20 gennaio, c’era il congelamento per 90 giorni dei generosi aiuti allo sviluppo che Washington elargiva in giro per il mondo.Questa decisione, come prevedibile, sta mettendo in seria difficoltà moltissime organizzazioni umanitarie internazionali, che ora non saranno più in grado di operare sul campo. E i problemi maggiori si stanno già riscontrando in Ucraina, che da sola era beneficiaria di quasi metà dei fondi federali bloccati.Fondi congelatiStando ai dati compilati dal governo statunitense, nel 2023 l’Agenzia federale per lo sviluppo internazionale (Usaid) ha destinato oltre 36,5 miliardi di dollari a progetti umanitari nel mondo, di cui quasi 16,5 miliardi a Kiev. Ma, dallo scorso 24 gennaio, la quasi totalità di quei fondi è stata bloccata per un periodo iniziale di 90 giorni, cui dovrebbe seguire una revisione per valutare se continuare su questa strada o rimodulare la sospensione.In estrema sintesi, l’ordine di sospensione impone – oltre allo stop ai lavori sul campo finanziati con le risorse dell’Usaid e la proibizione di avviare nuovi progetti – anche il divieto di utilizzare i fondi già stanziati per qualunque tipo di spesa, incluso il pagamento degli stipendi del personale per tre mesi.“Stiamo eliminando gli sprechi“, si legge in un comunicato del Dipartimento di Stato pubblicato per fornire ulteriori dettagli sulla storica decisione della Casa Bianca. “Stiamo bloccando i programmi ‘woke’ e stiamo smascherando le attività contrarie ai nostri interessi nazionali“, aggiunge la nota.The U.S. contributes roughly 40% of global humanitarian aid. Americans deserve transparency and accountability. As we pause and review U.S. foreign aid, @SecRubio issued a waiver for life-saving humanitarian assistance programs. https://t.co/Kwr6Bi8MES— Department of State (@StateDept) January 29, 2025Bancarotta forzata?“Se devo essere sincero, è un maledetto disastro per l’intero settore“, confessa preoccupato a Eunews un membro dello staff di un’organizzazione attiva nella tutela dei diritti umani, che ha condiviso le sue riflessioni in condizione di anonimato poiché l’ordine esecutivo proibisce agli operatori umanitari di diffondere dettagli in materia. “Mi aspetto che entro la fine del periodo di revisione molte organizzazioni che svolgono un lavoro importante in tutto il mondo saranno in bancarotta“, spiega, aggiungendo che “questo è probabilmente, almeno in parte, intenzionale da parte di Trump” per evitare di dover continuare a sostenere programmi non più in linea con le priorità della Casa Bianca.“Ci hanno legato le mani dietro la schiena“, prosegue, illustrando la situazione: “Al momento abbiamo circa mezzo milione di dollari nel nostro conto, ma il 90 per cento non lo possiamo spendere perché proviene dal governo statunitense“, il quale evidentemente “si aspetta che noi restiamo a galla in questo modo per tre mesi, mentre loro spuntano qualche casella”. Il team della sua organizzazione attivo in Ucraina, invece, è finanziato interamente da Washington.“Per le organizzazioni più piccole che ricevevano tutti i loro finanziamenti dal governo Usa potrebbe essere più realistico riuscire a ottenere delle sovvenzioni di emergenza altrove”, ragiona, mentre la sua si troverà con ogni probabilità in difficoltà più grosse. “Anche se sospendiamo tutte le nostre attività” come richiesto dall’ordine presidenziale, “avremo bisogno di circa 450mila dollari solo per pagare il personale in questo trimestre, e non credo che nessun donatore sia disposto a concedere una simile somma ad una singola organizzazione“, dice, visto che un numero altissimo di entità stanno già richiedendo con urgenza sostegno finanziario.La situazione in UcrainaQuesta settimana, Rubio ha introdotto ulteriori esenzioni dal congelamento per i programmi umanitari che forniscono medicine salvavita, servizi medici, cibo, ripari e assistenza di sussistenza, che si vanno ad aggiungere alle deroghe inizialmente previste unicamente per i programmi alimentari di emergenza e gli aiuti militari ad Israele ed Egitto (che nel 2023 hanno ricevuto 3,3 e 1,2 miliardi rispettivamente).Il Dipartimento di Stato e il Pentagono hanno assicurato che continuerà anche l’aiuto militare all’Ucraina, così come il sostegno ai programmi “salva vita”. Ma questo lascia ancora col fiato sospeso – e in preda alla confusione – non solo i programmi civili indispensabili allo sforzo bellico di Kiev (incluso il sostegno agli stipendi pubblici che mantengono in funzione la macchina statale ucraina) ma anche l’affollata galassia di organizzazioni umanitarie attive nell’ex repubblica sovietica, dove tra meno di un mese si celebrerà il terzo anno dall’inizio dell’invasione russa su larga scala.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (foto via Imagoeconomica)“Il problema sta nella natura improvvisa della decisione“, ha spiegato a Euractiv Ivona Kostyna, direttrice di un’ong che si occupa di assistere i veterani ucraini. “Se avessimo avuto un preavviso, avremmo potuto ristrutturare le nostre attività, cercare altri donatori ed evitare danni ai nostri clienti”, ha osservato, spiegando di aver dovuto chiudere uno dei centri di lavoro.Come la sua, sono numerose le organizzazioni che, nonostante svolgano attività che di fatto salvano vite umane, sono comunque rimaste fuori dalle deroghe. Molte di queste sono costrette a licenziare personale, altre a chiudere definitivamente. C’è chi, a poche decine di chilometri dalla linea del fronte, fornisce servizi essenziali come aggiornamenti costanti sulla dislocazione delle mine antiuomo, oppure sui siti dove poter recuperare acqua non contaminata, o ancora i giubbotti antiproiettile per i giornalisti che seguono l’evoluzione della guerra, e non potrà più contare sulle sovvenzioni di Washington.Come prevedibile, dal Paese aggredito si stanno moltiplicando gli appelli di un numero crescente di organizzazione ai loro partner europei, affinché entrino in azione per compensare, almeno parzialmente, la voragine che il ritiro degli Stati Uniti ha aperto nei loro bilanci, che si traduce inevitabilmente nell’incapacità di proseguire le proprie attività in un momento in cui non è certo cessata l’urgenza.

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    L’Ue cauta sulla Siria, la linea “va concordata con i Paesi della regione”. Primi contatti con la nuova leadership

    Bruxelles – Di fronte all’embrione della Siria che verrà, l’Ue sceglie la prudenza. Stretta tra due imperativi, da un lato “evitare una nuova Libia o Afghanistan” e dall’altro vincolare il sostegno a Hayʼat Tahrir al-Sham (HTS) a una serie di principi non negoziabili, la neo Alta rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Kaja Kallas, manda avanti gli altri. “È importante veicolare gli stessi messaggi con i Paesi della regione”, ha dichiarato. Per ora, i contatti tra Bruxelles e la nuova leadership restano al “livello più basso”: il capodelegazione Ue in Libano si è recato a Damasco e “sta avendo alcuni incontri”.Nel corso del primo Consiglio Ue Affari Esteri presieduto dall’ex premier estone, Kallas ha informato i ministri dei 27 dell’incontro del fine settimana in Giordania con i Paesi arabi, la Turchia, gli Stati Uniti e l’inviato speciale Onu in Siria, Geir Pederson. “Ci sono principi di base che tutti hanno concordato: integrità e sovranità della Siria, ma anche inclusività del governo, tenendo conto, in particolare, delle minoranze e dei diritti delle donne. Questo processo deve essere guidato dalla Siria e deve riflettere il popolo siriano in tutta la sua diversità”, ha spiegato Kallas in conferenza stampa. L’elefante nella stanza, ammettono fonti Ue, è la Turchia di Erdogan, che giocoforza è chiamata a svolgere un ruolo di primo piano nella regione ma che non ha mai nascosto le proprie mire espansionistiche su una fetta del territorio siriano.A livello Ue, nel dibattito con l’Alta rappresentante diversi Paesi hanno aggiunto una condizione ulteriore: perché l’Ue sostenga la Siria, è necessario che HTS si liberi dell’influenza russa nel Paese. Un punto messo in chiaro dal ministro degli Esteri olandese, Caspar Veldkamp: se Hayʼat Tahrir al-Sham vuole vedere revocato il regime di sanzioni Ue contro il regime siriano, dovrà chiudere i cancelli di tutte le basi militari russe nel Paese.Dopo aver affermato che “l’estremismo, la Russia e l’Iran non devono avere un posto nella futura Siria”, il capo della diplomazia europea ha aggiunto che l’Ue “solleverà la questione con la nuova leadership” di Damasco. “Se ne è discusso anche al tavolo con i leader arabi – ha precisato Kallas -, è una preoccupazione anche per loro”. Le sanzioni di lungo corso imposte da Bruxelles alla Siria, colpiscono diversi settori dell’economia da cui traeva profitto il regime di Assad. Settori la cui floridità è fondamentale per innescare la rinascita di un Paese devastato da quattordici anni di guerra civile.Kallas ha messo sul tavolo il tema. L’Ue dovrà “essere pronta ad adattare la politica di sanzioni quando vedremo passi significativi da parte della Siria“, ha dichiarato l’Alta rappresentante. I tempi non sono ancora maturi, perché anche se in questa prima fase della transizione HTS, che rientra nella lista delle Nazioni Unite delle organizzazioni terroristiche, “sta dicendo le cose giuste, non tutti sono convinti che faranno le cose giuste”.Almeno per ora, l’Ue proseguirà a fare quello che ha fatto meglio dal 2011 a oggi, mobilitando oltre 35 miliardi di euro in assistenza umanitaria e alla società civile siriana. Le misure restrittive di Bruxelles infatti prevedono un’ampia gamma di eccezioni umanitarie e non impediscono l’esportazione di prodotti alimentari, medicinali o attrezzature mediche e non colpiscono il sistema sanitario siriano. “Abbiamo lanciato un ponte aereo per 100 tonnellate di aiuti umanitari”, ha ricordato Kallas, annunciando inoltre che l’Ue organizzerà “la nona conferenza internazionale sulla Siria”, che permette ogni anno di raccogliere impegni di assistenza finanziaria e proseguire il dialogo con la società civile siriana. 

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    Torna la paura terrorismo nell’Ue: “La capacità di Daesh di colpire sta crescendo”

    Bruxelles – Torna a crescere l’allerta terrorismo in Europa, con gli Stati membri dell’Ue ora inquieti per Daesh e una possibile nuova stagione di attentati di matrice islamica. L’allarme c’è, e gli Stati non fanno nulla per nasconderlo. Anzi, lo mettono nero su bianco anche nel comunicato stampa che accompagna la decisione politica di rafforzare la cooperazione nella lotta al terrorismo non solo tra i Ventisette, ma soprattutto con i Paesi terzi.“Il Consiglio nota con grande preoccupazione che la capacità della provincia di Daesh Khorasan (ISKP) di ispirare e condurre operazioni esterne, anche in Europa, sta crescendo“, riconoscono i ministri degli Esteri al termine della riunione tenuta a Bruxelles. Una riunione ministeriale della coalizione globale anti-Daesh. Della coalizione fanno parte Australia, Bahrain, Belgio, Regno Unito, Canada, Danimarca, l’Egitto, Francia, Germania, Iraq, Italia, Giordania, Kuwait, Libano, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Qatar, Arabia Saudita, Spagna, Svezia, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti [foto: Angelo Carconi/imagoeconomica]La minaccia è globale. Da un parte si guarda all’Asia, perché Isis-Daesh ha sede in Afghanistan e “presente nelle aree limitrofe”. Il problema è che l’Afghanistan è ora sotto il controllo dei talebani, con cui l’Ue fa non poca fatica a relazionarsi. Un interlocutore difficile, e parlare con il governo per ragioni di sicurezza vuol dire riconoscere il regime islamico.Ancora, in questo scenario il Consiglio Ue sottolinea come “la crisi in corso in Medio Oriente stia guidando la radicalizzazione in tutto il mondo“, con tutte le ricadute del caso. A cominciare dalla regione. Per questo il consesso dei ministri degli Esteri conferma “l’impegno incrollabile dell’Ue nella lotta al terrorismo in Iraq e Siria”. Un riferimento non casuale quello del Paese appena liberato dall’ex presidente Bashar al-Assad, ma liberato da forze – la milizia islamista Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) – che l’Ue riconosce come organizzazione terroristica. L’Ue vuole lavorare ad un stabilizzazione della Siria, più per paura di migranti in marcia verso l’Europa che per i valori tanto sbandierati in questi ultimi mesi. Proprio la questione migratoria alimenta anche i rinnovati timori per il continente sulla sponda sud del Mediterraneo. “La minaccia terroristica in Africa sta aumentando, con Da’esh, al-Qaeda, i loro affiliati e altri attori non statali che sfruttano i conflitti locali e la fragilità sociale, politica ed economica”, avvertono i ministri, i quali sottolineano che “di particolare preoccupazione è il deterioramento della situazione della sicurezza nel Sahel, con effetti di ricaduta sugli stati costieri dell’Africa occidentale e potenzialmente sul Nord Africa”.

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    L’Ue dà la caccia alla “flotta fantasma” di Mosca e sanziona 52 navi che eludono l’embargo sul petrolio

    Bruxelles – Continua a infoltirsi l’elenco di persone e entità sanzionate da Bruxelles a seguito della guerra d’aggressione della Russia in Ucraina. Oggi (16 dicembre) i ministri degli Esteri dell’Ue hanno dato il via libera al quindicesimo pacchetto di sanzioni contro Mosca, che prende di mira in particolare 52 navi della flotta fantasma con cui il Cremlino elude le restrizioni occidentali sul commercio di petrolio. Ma sempre di più, Bruxelles è decisa a colpire chi sostiene lo sforzo bellico russo: Cina e Corea del Nord.Nel nuovo pacchetto, che impone misure restrittive per 54 persone fisiche e 30 entità, figurano due alti funzionari del regime di Kim Jong-un, un individuo e sei entità cinesi. Per quanto riguarda Pechino, è la prima volta dall’inizio dell’invasione russa che l’Ue adotta sanzioni “a tutti gli effetti” – che prevedono il divieto di ingresso sul suolo europeo, il congelamento dei beni e il divieto di mettere a disposizione fondi – contro individui ed entità ritenute colpevoli di facilitare l’elusione delle sanzioni occidentali a Mosca e di fornire componenti a duplice uso civile-militare alla Russia, come componenti sensibili di droni. Le sanzioni al ministro della Difesa di Pyongyang, No Kwang Chol, e al vicecapo di Stato Maggiore dell’Esercito Popolare Coreano, Kim Yong Bok, sono la diretta conseguenza del dispiegamento di truppe nordcoreane al fronte in Russia.Contro la cooperazione militare sempre più stretta tra Kim Jong-un e Putin si sono espressi oggi anche i ministri degli Esteri dei Paesi del G7, condannando “con la massima fermezza” un’intesa che “segna una pericolosa espansione del conflitto”. Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, insieme all’Unione europea e ai partner più stretti dell’Indo-pacifico – Australia, Corea del Sud e Nuova Zelanda – si dicono “profondamente preoccupati per il sostegno politico, militare o economico che la Russia potrebbe fornire ai programmi illegali di armamento” di Pyongyang.Con le nuove designazioni, l’Ue porta a 79 le imbarcazioni della “flotta fantasma” russa, navi che non battono bandiere Ue “coinvolte in pratiche di navigazione ad alto rischio nel trasporto di petrolio o prodotti petroliferi russi, nella consegna di armi, nel furto di grano o nel sostegno al settore energetico russo”. Navi che non potranno più attraccare nei porti europei e saranno sottoposta a un divieto di fornitura di servizi. In questo modo, Bruxelles spera di far lievitare i costi di utilizzo di tali navi per il Cremlino, e di ridurre il numero di imbarcazioni in grado di trasportare il greggio russo.L’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, al suo arrivo al Consiglio Ue Affari Esteri, 16/12/24La nuova stretta “dimostra l’unità degli Stati membri nel nostro continuo sostegno all’Ucraina”, ha esultato l’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, aggiungendo: “Non può esserci alcun dubbio che l’Ucraina vincerà”. In totale, il pacchetto aggiunge 32 nuove aziende all’elenco di quelle che sostengono il complesso militare e industriale di Mosca: oltre a 20 sul territorio russo, sette sotto la giurisdizione di Cina e Hong Kong, due dalla Serbia e una ciascuna da Iran, India ed Emirati Arabi Uniti. Imprese a cui si applicheranno ora restrizioni più severe sulle esportazioni di beni e tecnologie a duplice uso e di prodotti a tecnologia avanzata. L’Ue ha scelto di sanzionare inoltre l’unità militare responsabile dell’attacco all’ospedale pediatrico Okhmadyt di Kiev del luglio scorso, che ha causato decine di vittime e centinaia di feriti.Tra le misure adottate oggi, ci sono però anche alcune deroghe a “protezione degli interessi degli operatori dell’Ue”. In sostanza, l’estensione di alcune deroghe esistenti per concedere più tempo alle aziende dei Paesi membri di uscire dalla Russia. Infine, per far fronte all’aumento delle controversie e delle misure di ritorsione in Russia che portano al sequestro degli attivi dei depositari centrali di titoli (CSD) dell’Ue, il pacchetto odierno introduce una deroga per il recupero delle perdite e una clausola di non responsabilità per i CSD europei.

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    Georgia: Mikheil Kavelashvili è stato eletto presidente

    Bruxelles – Non ci sono stati colpi di scena, lo scorso sabato (14 dicembre), quando è stato eletto il prossimo presidente della Georgia. L’incarico è andato all’ex calciatore Mikheil Kavelashvili, che era l’unico candidato ed è sostenuto dal partito di governo, Sogno georgiano. Le opposizioni hanno boicottato il processo ma non hanno i numeri per incidere. Il capo dello Stato in carica, l’europeista Salomé Zourabichvili, ha rifiutato di riconoscere la legittimità dell’elezione del suo successore. Mentre le proteste vanno avanti senza sosta da oltre due settimane, continua ad alzarsi la temperatura dello scontro politico-istituzionale nel Paese caucasico.Kavelashvili eletto presidenteTutto come da copione. L’ex calciatore Mikheil Kavelashvili, candidato del partito ultranazionalista Potere del popolo (una costola di Sogno georgiano la cui retorica è ferocemente anti-occidentale e soprattutto anti-statunitense), è stato eletto sabato dal Collegio elettorale con 224 voti a favore sui 300 seggi totali di cui si compone l’organo, composto da tutti e 150 i deputati di Tbilisi più altrettanti rappresentanti dei territori e delle amministrazioni locali. Il Collegio, introdotto dalla riforma costituzionale del 2017 (prima l’elezione del capo dello Stato avveniva per voto diretto dei cittadini), è dominato da Sogno georgiano, esattamente come l’emiciclo. Le forze dell’opposizione stanno boicottando i lavori di entrambe le istituzioni, ma non hanno i numeri per bloccare i processi in corso.Peraltro, il 53enne ex giocatore della nazionale era l’unico candidato alla successione della presidente della Repubblica in carica, l’europeista Salomé Zourabichvili, il che rendeva la sua nomina una mera formalità. Il punto politico rimane lo stesso da mesi: con le sue azioni (la nomina di Kavelashvili è solo l’ultima in ordine cronologico), il partito del premier Irakli Kobakhidze sta portando il Paese caucasico sempre più distante dall’Ue e sempre più vicino alla Russia di Vladimir Putin.Il premier georgiano Irakli Kobakhidze e la presidente uscente Salomé Zourabichvili (foto: Irakli Gedenidze / Pool / Afp)Piano inclinatoProprio il Cremlino è accusato di ingerenze nella politica georgiana, a partire dalle interferenze nelle contestatissime elezioni dello scorso 26 ottobre, che hanno visto il partito di governo mantenere il potere con il 54 per cento dei consensi (stando ai dati ufficiali) ottenendo la quarta vittoria di fila nelle urne.Continua così ad acuirsi la profonda crisi politica, che sta facendo scivolare Tbilisi su un pericoloso piano inclinato lungo i due binari paralleli delle proteste di piazza – ininterrotte da quando, lo scorso 28 novembre, l’esecutivo ha annunciato lo stop dei negoziati di adesione all’Ue fino al 2028 – e dello scontro istituzionale frontale tra maggioranza e opposizione.Zourabichvili, il cui mandato scadrà formalmente il 29 dicembre, ha più volte ripetuto che, considerando illegittima la nuova assemblea (e, di conseguenza, il Collegio elettorale), non intende lasciare il suo posto a fine mese. Il capo dello Stato uscente ha definito  l’elezione di Kavelashvili, avvenuta un anno esatto dopo la concessione alla Georgia dello status di Paese candidato da parte di Bruxelles, una “presa in giro della democrazia”.#GeorgiaProtests one year ago, Georgia received the Candidate status, today a Central Committee like « Parliament » « elects » a « one and only » candidate in a mockery of democracy.That will never prevent Georgia to pursue its european path and democratic future!— Salome Zourabichvili (@Zourabichvili_S) December 14, 2024Le reazioni al votoIl premier Kobakhidze si è congratulato con Kavelashvili sottolineando che “darà un contributo molto significativo al rafforzamento dello Stato georgiano e della nostra sovranità, nonché alla riduzione della radicalizzazione e della cosiddetta polarizzazione nel Paese”. Il primo ministro ha criticato Zourabichvili, sostenendo che l’attuale presidente abbia usato i suoi poteri “come mezzo per dividere la società” e per “indebolire artificialmente il nostro ordine costituzionale” con l’aiuto clandestino di “forze esterne”, in riferimento ai partner occidentali di Tbilisi con cui il capo dello Stato continua a mantenersi in contatto.Dall’opposizione, il leader di Georgia forte Mamuka Khazaradze ha dichiarato che “qualsiasi azione del governo illegittimo, compresa la nomina del cosiddetto presidente, è illegale e rappresenta una provocazione contro i suoi stessi cittadini”, mentre per Sopo Japardize, della leadership del partito Unm, il Paese sta assistendo ad “un circo” e la proclamazione di un “presidente illegittimo” da parte di un “governo illegittimo” rappresenta “un insulto al popolo georgiano”.Immobilismo europeoDa Bruxelles, come al solito, si fa fatica a prendere una posizione rapida e decisa. L’Ungheria di Viktor Orbán ha già fatto sapere che si metterà di traverso se i Ventisette dovessero discutere di comminare sanzioni alla dirigenza di Sogno georgiano, dimostrandosi ancora una volta il miglior amico di Putin nell’Unione.Le violenze contro i manifestanti – che non risparmiano nemmeno i giornalisti e i leader dell’opposizione parlamentare e sono state paragonate ad atti di tortura dal mediatore civico nazionale – stanno creando una pressione sempre maggiore sulle cancellerie europee per adottare una linea più dura nei confronti del governo di Tbilisi e di maggiore supporto della popolazione civile.L’Alta rappresentante dell’Unione per la politica estera e la sicurezza comune Kaja Kallas (foto: European Union)La stessa Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas, ha dichiarato stamattina (16 dicembre) ai margini del Consiglio Affari esteri in corso a Bruxelles che la situazione “non sta andando nella giusta direzione” e che i ministri degli Stati membri discuteranno di “cosa possiamo fare dal lato europeo”, ribadendo che le due opzioni attualmente sul tavolo sono le sanzioni e la limitazione del regime di liberalizzazione dei visti.Il capo della diplomazia a dodici stelle ha sottolineato che “la lista di persone” da sanzionare “è già stata proposta e la stiamo discutendo”, ammettendo tuttavia che “tutti devono concordare e non ci siamo ancora”. Per ora, i Paesi baltici hanno imposto unilateralmente delle misure restrittive su diverse personalità collegate all’esecutivo georgiano, incluso il primo ministro Kobakhidze. Quanto alla sorte di Zourabichvili, Kallas si è limitata a notare che “la presidente è in carica fino al 29 dicembre e molte cose potrebbero ancora succedere”.

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    Nato, l’allarme di Rutte: “Passare a una mentalità di guerra”. Il 2 per cento del Pil in difesa non basta più

    Bruxelles – Non perde tempo Mark Rutte, il nuovo segretario generale della Nato. La sua prima uscita pubblica di spicco dopo essersi insediato alla guida dell’Alleanza militare atlantica è quasi un appello alle armi: “È ora di passare a una mentalità di guerra“, ha affermato l’ex premier olandese, perché “il pericolo si muove verso di noi a tutta velocità”. Di fronte ad una Russia che “si sta preparando a un conflitto a lungo termine” e che nel 2025 spenderà tra il 7 e l’8 per cento del Pil per armarsi, la soglia del 2 per cento fissata dalla Nato non basta più.“Avremo bisogno di molto di più”, ha avvisato Rutte, incalzato dalla direttrice di Carnegie Europe, Rosa Balfour, di fronte ad una platea composta da giornalisti, funzionari europei, imprenditori ed esperti del settore della difesa. Un nuovo obiettivo di spesa militare condiviso a livello Nato ancora non c’è, “ma è evidente che nei prossimi mesi dovremmo accordarci su quale sarà la nuova soglia“. Rivolto non solo ai governi di quei pochi Paesi – tra cui l’Italia – che ancora non hanno raggiunto la soglia del 2 per cento, ma alle banche, ai fondi di pensione, fino all’opinione pubblica e ai cittadini, il segretario generale ha affermato chiaramente: “È inaccettabile rifiutarsi di investire nella difesa”. Anche se “significa spendere meno per le altre priorità”, le pensioni, la sanità, la previdenza sociale. L’Alleanza Atlantica “ha bisogno di una piccola percentuale” di quel denaro.La minaccia militare, ha messo in chiaro Rutte, non è immediata: “Per ora il nostro deterrente è buono, ma tra tre o quattro anni potrebbe non esserlo più”. Perché è sempre più evidente che Russia, Cina, Corea del Nord e Iran “stanno lavorando insieme per assicurarsi la propria sfera di influenza”. A preoccupare sempre di più, al di là del nemico pubblico numero uno, Vladimir Putin, è l’atteggiamento di Pechino. La Cina “sta aumentando in modo sostanziale le sue forze, comprese le armi nucleari, senza trasparenza e limitazioni”, ha puntato il dito Rutte.La “priorità assoluta” per i 32 alleati della Nato è quella di rafforzare l’industria della difesa, segnata da “decenni di investimenti insufficienti” e rimasta “troppo piccola, troppo frammentata e troppo lenta”. Non si tratta solo di spendere di più, ma di spendere meglio. E insieme: per Rutte, a livello europeo sarebbe importante insistere nella direzione di acquisti congiunti, “altrimenti l’impatto finanziario sarà enorme”. Per soddisfare le richieste del segretario generale, la Commissione europea ha già riconosciuto gli investimenti per la difesa come una priorità, allargando le maglie del rigore di bilancio per la spesa pubblica in questo ambito.Eppure, alle porte c’è il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, che potrebbe intavolare molto prima del previsto una trattativa di pace con il Cremlino. Dopo l’esito delle elezioni americane, l’eventualità di sedersi a un tavolo negoziale con Putin ha preso peso, anche perché altrimenti Washington potrebbe ridimensionare il suo impegno per la resistenza dell’Ucraina. Per Rutte, le speculazioni sui parametri da mettere in gioco per concludere la guerra vanno a vantaggio di Mosca: “C’è il rischio enorme di cominciare un negoziato senza nemmeno essere seduti al tavolo”, ha avvertito. L’importante sarà assicurare le garanzie di pace richieste da Zelensky, perché se sarà Putin a uscire vincitore dalla trattiva, sarà “un cattivo accordo”.Sul rapporto con il nuovo inquilino della Casa Bianca, che minaccia di chiudere l’ombrello di protezione a stelle e strisce sull’Europa, Rutte ha smorzato i toni. “Trump vuole spingerci e ha perfettamente ragione, da quando è diventato presidente nel 2017 abbiamo accelerato” sulla difesa. Ma sia chiaro, la Nato “non vuole spendere di più perché lo vuole lui, ma perché è in gioco la nostra sicurezza”.