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Il papa: “Sempre voluto essere un pastore, la pace non mi lascia”

   Il pastore è “colui che deve stare davanti alla gente per indicare la strada, in mezzo alla gente per vivere la sua esperienza, dietro per aiutare i ritardatari e, a volte, seguire l’intuito per trovare i migliori pascoli. È quanto ho cercato di fare da quando sono stato ordinato sacerdote e in questi anni di pontificato, sempre con il forte proposito di essere fedele a Dio e alla Chiesa e utile ai cattolici e a tutti gli uomini di buona volontà”. E’ il ritratto che papa Francesco distilla di sé stesso nel volume “El pastor” (Il pastore), uscito in Argentina in vista del decennale dell’elezione a firma dei giornalisti Francesca Ambrogetti, ex responsabile dell’ANSA a Buenos Aires, e Sergio Rubin, del quotidiano El Clarin, che racconta questi dieci anni di pontificato analizzandone dettagliatamente temi e vicende attraverso periodici colloqui avvenuti nel corso del tempo con il Pontefice.

    “Spiegare, proporre, ascoltare, chiedere perdono quando è opportuno e servire – riassume Francesco -. E fondamentalmente con la vicinanza del cuore, sempre. Durante tutti questi anni, con al centro lo Spirito Santo, la pace non mi ha mai lasciato”.

    Il racconto di questo decennio del Papa fa seguito a quel “Il gesuita”, scritto da Ambrogetti e Rubin quando Jorge Bergoglio era ancora arcivescovo di Buenos Aires e diventato poi bestseller mondiale con l’elezione a Pontefice. E proprio il suo essere gesuita ricorre ancora nel libro, insieme a tanti altri aspetti, sia di rilevanza pubblica che strettamente personale.

    “Mi ha sempre colpito una massima con cui solitamente viene descritta la visione di Sant’Ignazio: non avere limiti al grande, ma concentrarsi sul piccolo. È fare le piccole cose di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. E in effetti mi è servito e continua a servirmi molto, non solo personalmente, ma anche per le decisioni del governo”, spiega il vescovo di Roma. E sulle innumerevoli e drammatiche prove del presente, “credo che in un mondo con tante lotte di ogni genere, anche religiose, sia necessario costruire ponti, promuovere l’unità. Inoltre, ricordiamo che l’esclusione e la disuguaglianza generano violenza. E la peggiore delle liti, secondo me, è tra chi ha di più e chi ha di meno”.

    Ricorre naturalmente la sua visione della Chiesa, in tutte le dimensioni possibili. “Sono contrario a quello che io chiamo ‘carrierismo’, voler fare carriera ecclesiastica. Come nell’ambito civile, purtroppo accade anche nella Chiesa. C’è chi vuole arrampicarsi e si comporta in modo simoniaco, cerca influenze. Nel mio Paese li chiamiamo ‘scalatori’. Questo non è cristiano. Essere cristiani, essere battezzati, essere ordinati sacerdoti e vescovi è puramente gratuito. I doni del Signore non sono il frutto di sforzi, tanto meno il prodotto di una transazione pecuniaria. Più di una volta ho detto durante il mio pontificato che il carrierismo è come una peste. Essere cristiano, essere prete, essere vescovo, è solo un dono”.

    Anche lo ‘humour’ dell’uomo-Francesco risalta come uno dei suoi caratteri essenziali. “Ci tengo a precisare che durante tutta la mia vita sacerdotale sono stato felice e lo sono ancora. Inoltre, mi viene in mente una frase molto carina di Chesterton che dice che la vita è una cosa troppo importante per prenderla seriamente. E non mi dispiace per il passare degli anni. L’ho sempre preso come qualcosa di naturale”. E rivela di non avere paura della morte: “Sono consapevole che può succedermi di tutto. È difficile evitare del tutto il rischio di attacchi suicidi. Ciò è stato dimostrato negli ultimi anni con le azioni dell’Isis. Quando prego dico a Dio che sono nelle sue mani. Se deve succedermi qualcosa, accadrà inevitabilmente perché non ho ottenuto un certificato di eternità. Un giorno morirò di bronchite, tumore o proiettile. O per un ‘mate’ avvelenato tra quelli che mi dànno gli argentini durante le udienze generali, come mi aveva avvertito un capo della sicurezza”.

   Infine, il Papa 86/enne sintetizza la sua ricetta per la felicità: “Non c’è una formula. Ma quando la vita interiore è racchiusa nei propri interessi e non c’è spazio per gli altri, non si gode più la dolce gioia dell’amore perché non si può essere felici da soli. La gioia non è l’emozione di un momento: è un’altra cosa!”. Secondo Francesco, “la vera gioia non viene dalle cose, dall’avere, no! Nasce dall’incontro, dalla relazione con gli altri, nasce dal sentirsi accettati, compresi, amati e dall’accogliere, comprendere e amare; e questo non per un momento, ma perché l’altro, l’altro è una persona”.

    Insomma, “la felicità viene solo amando e lasciandosi amare. E tenete presente che, come dice il detto popolare, ‘finché c’è vita, c’è speranza’, ma anche il contrario: ‘finché c’è speranza, c’è vita’”. 


Source: http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/politica_rss.xml

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