Bruxelles – Nell’elenco straziante senza fine di bombardamenti israeliani su Gaza – 75 mila tonnellate di esplosivo nel primo anno di conflitto – ce ne sono alcuni che fanno più rumore di altri. Come quello di ieri nel campo profughi di Jabalia, che ha completamente raso al suolo un edificio residenziale ed ucciso almeno 30 persone. E che rientra nell’assedio totale che Israele ha imposto nell’ultimo mese nel nord della Striscia di Gaza. Arriva puntuale la “ferma condanna” dell’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, che ha amaramente constatato: “Le parole ‘pulizia etnica’ sono sempre più utilizzate per descrivere ciò che sta accadendo nel nord di Gaza”.
Le forze di difesa israeliane hanno motivato il raid con la presunta presenza di terroristi sul posto. Secondo quanto riportato da un testimone dell’attacco e familiare di alcune persone uccise alla Bbc le vittime non erano che “civili innocenti che non appartenevano ad alcuna organizzazione militare”. Nelle ultime settimane, l’offensiva israeliana si è inasprita ulteriormente, facendo ipotizzare diversi osservatori che Tel Aviv stia mettendo in atto un consapevole piano di sfollamento forzato e annessione di quella porzione di territorio. Non si tratta solo del bombardamento sistematico di tutti gli edifici, ma anche dell’interruzione totale dell’ingresso di cibo e aiuti umanitari e degli ordini continui di evacuazione alla popolazione stremata.
“La realtà quotidiana degli sfollamenti forzati viola il diritto internazionale”, ha ricordato per l’ennesima volta Borrell in un post su X. Ed “anche l’uso della fame come arma di guerra è contrario al diritto internazionale umanitario”. È di pochi giorni fa infatti il rinnovato allarme dell’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc) delle Nazioni Unite, secondo cui “è molto probabile una carestia imminente nelle aree della Striscia di Gaza settentrionale”.
Il bollettino di ottobre diffuso dall’Ufficio di Coordinamento per gli Affari Umanitari dell’Onu (Ocha) non lascia dubbi: le autorità israeliane hanno “chiuso il valico di Erez e imposto l’assedio su vaste aree del governatorato di Gaza Nord, tra cui Beit Lahia, Beit Hanoun e la maggior parte di Jabalia”. Su 98 tentativi di ingresso di aiuti umanitari da sud, attraverso il checkpoint lungo Wadi Gaza, l’85 per cento è stato “negato o impedito“. Dal 6 ottobre, sulle tre principali città del governorato di Gaza nord vige un “blocco dell’accesso delle missioni umanitarie, salvo rare eccezioni”.
Il capo della diplomazia europea ha ricordato al partner israeliano che “in quanto potenza occupante, ha l’obbligo di agire facendo entrare gli aiuti”. E secondo l’Ipc è necessaria “un’azione immediata, entro pochi giorni e non settimane, da parte di tutti gli attori che partecipano direttamente al conflitto o che hanno influenza sulla sua condotta”, per scongiurare la carestia. La pulizia etnica.
“Spetta alla comunità internazionale e ai principali alleati di Israele adottare misure urgenti per porre fine alle sofferenze dei palestinesi e liberare gli ostaggi”, ha dichiarato ancora Borrell, lanciando un disperato appello ai governi dei Paesi membri, di cui l’Alto rappresentante è quasi prigioniero ogni volta che propone di aumentare la pressione diplomatica sullo Stato ebraico. Sicuramente ne discuteranno i ministri degli Esteri dei 27 il prossimo 18 novembre a Bruxelles, nell’ultimo Consiglio Affari Esteri presieduto da Borrell prima di lasciare l’incarico all’estone Kaja Kallas: alla riunione, Borrell intavolerà una discussione approfondita sul rispetto degli obblighi sui diritti umani previsti dall’Accordo di associazione Ue-Israele e chiederà ai 27 di adottare nuove sanzioni contro i coloni israeliani estremisti. Manca una settimana: in quella appena passata, sono state uccise circa 330 persone a Gaza.