L’invasione russa in Ucraina supera i cento giorni e le priorità europee cambiano di conseguenza. L’Unione sembra infatti aver premuto il tasto pausa su vari punti della sua agenda politica, al fine di concentrare tutte le sue forze nella ricerca di una risposta coordinata e unitaria a sostegno del popolo ucraino.
La tutela della Rule of Law nell’Unione europea
Sono sotto gli occhi tutti, da diversi anni, le dinamiche regressive che caratterizzano le politiche di alcuni Stati membri dell’Unione circa la protezione dello Stato di Diritto. L’Ungheria, in particolare, ha già da tempo introdotto una serie di misure volte all’instaurazione di un regime illiberale, concretizzatesi attraverso la repressione, su larga scala, della libertà di stampa, delle prerogative delle opposizioni e dei diritti delle minoranze. La Polonia, al contempo, ha posto in essere numerose riforme che minacciano l’indipendenza del potere giudiziario – e, di conseguenza, il principio della separazione dei poteri. Quest’ultimo, ideato espressamente per proteggere i cittadini dal rischio di arbitrarietà del potere esecutivo, costituisce uno dei capisaldi della Rule of Law su cui l’Unione si fonda. In questo contesto, inoltre, si sono spesso inserite riforme legislative ed iniziative politiche volte a ledere i diritti di persone appartenenti a minoranze, talvolta mettendo in discussione la loro stessa esistenza. Basti pensare, ad esempio, alle cosiddette “LGBT-free zones” dichiarate da numerose municipalità polacche.
Parallelamente, sono oramai noti a tutti l’insufficienza e i limiti degli strumenti posti a disposizione delle istituzioni UE per far fronte a queste dinamiche. Le numerose procedure di infrazione attivate nei confronti di Ungheria e Polonia – nonché le conseguenti pronunce della Corte di Giustizia – sembrano infatti aver esaurito tutto il loro potenziale. E ciò non stupisce affatto, in quanto esse rappresentano uno strumento ideato per le violazioni tecnico-giuridiche, e non per rispondere a problematiche politiche di carattere sistemico. Il meccanismo di cui all’articolo 7 TUE (che, in breve, permetterebbe al Consiglio di imporre sanzioni politiche ad uno Stato membro in caso di violazioni costanti e persistenti dello Stato di Diritto) è stato attivato sia nei confronti della Polonia che dell’Ungheria, nel 2017 e nel 2018 rispettivamente. La concreta imposizione delle sanzioni, tuttavia, continua a rimanere bloccata dal requisito dell’unanimità.
Infine, uno strumento nuovo e ulteriore è rappresentato dal Regolamento 2020/1092 (c.d. “Meccanismo di condizionalità”), il quale consente all’Unione di sospendere l’erogazione di fondi derivanti dal proprio bilancio ad un Paese che ponga in essere violazioni della Rule of Law idonee a compromettere la sana gestione finanziaria del bilancio UE. Tale meccanismo, peraltro recentemente attivato nei confronti dell’Ungheria, costituisce sicuramente un nuovo asset a disposizione dell’Unione; le sue potenzialità, tuttavia, sembrano limitate difronte al processo di regressione sistemica che caratterizza i due Stati membri.
Lo scoppio della guerra in Ucraina: cambio di passo?
Al di là dell’inefficienza degli strumenti europei posti a tutela dello Stato di Diritto, una cosa, almeno fino ad ora, è sempre stata chiara: la posizione delle istituzioni UE. Il Parlamento europeo, in questo contesto, è intervenuto nel dibattito adottando numerose Risoluzioni, con le quali ha espressamente e costantemente condannato le dinamiche regressive che caratterizzano Polonia e Ungheria. La Commissione, al contempo, ha (quasi) sempre mantenuto una posizione analoga, spesso anche ricorrendo all’utilizzo di strumenti atipici. Peraltro, è proprio questa istituzione ad aver recentemente attivato il meccanismo di cui al Regolamento 2020/2092 contro l’Ungheria, nonostante le reticenze iniziali.
Ciononostante, questo paradigma appare oggi decisamente cambiato. La drammatica invasione russa dell’Ucraina, come accennato, ha influenzato notevolmente l’agenda politica dell’Unione e dei suoi Stati membri. Tra i vari temi che tale situazione ha (legittimamente) sollevato, vi è quello relativo all’accoglienza di rifugiati ucraini nel territorio di tutti gli Stati membri UE. Nonostante l’impegno congiunto dei 27, tale accoglienza – in un’ottica quantitativa – non ha riguardato tutti allo stesso modo. Alcuni Paesi, soprattutto a causa della loro posizione geografica, sono stati chiamati ad uno sforzo decisamente maggiore. Tra questi figurano, in particolare, Polonia e Ungheria. Stando ai dati più recenti, infatti, si stima che la prima stia accogliendo oltre 2,7 milioni di cittadini ucraini in fuga, contro i 454 mila della seconda.
Un tale (s)bilanciamento, come ci si aspettava, è tutt’altro che privo di effetti sugli equilibri interni all’Unione europea, la quale rappresenta un’entità soggetta a geometrie politiche idonee a mutare continuamente. Tale mutevolezza è dovuta anche e soprattutto alla “struttura ibrida” dell’Unione, spesso caratterizzata da procedure e regole di voto altamente complesse, le quali richiedono una continua interazione tra attori puramente sovranazionali (quali il Parlamento e la Commissione) e governi degli Stati membri.
In ogni caso, l’emblema di questo cambio di passo è rappresentato dall’approvazione, avvenuta lo scorso 1° giugno, del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) presentato dalla Polonia nell’ambito del programma Next Generation EU. La non ancora avvenuta approvazione del piano polacco, fino a pochi giorni fa, è sempre stata ricollegata ai numerosi dubbi relativi al rispetto dei valori UE da parte del Paese. L’attivismo polacco nell’ambito dell’accoglienza europea di rifugiati ucraini, tuttavia, sembra aver ribaltato questo paradigma, inducendo la Commissione a chiudere un occhio (o forse due!) sul rispetto dei valori sui quali l’Unione europea si fonda. Il non aver (ancora?) riservato lo stesso trattamento all’Ungheria, probabilmente, sembra legato a tre fattori principali: a) il numero più modesto di rifugiati ucraini accolti; b) le violazioni, decisamente più gravi e diffuse, della Rule of Law; c) il rischio, per la Commissione, di entrare in contraddizione con la propria azione, vista la recente attivazione del “meccanismo di condizionalità” contro l’Ungheria.
Risulta spontaneo chiedersi, in conclusione, quale sarà l’impatto futuro di queste dinamiche. È vero, da un lato, che ciascun Stato membro dispone di un potere di veto – e che, di conseguenza, alcune concessioni si rendono necessarie al fine di superare eventuali blocchi decisionali; è altrettanto vera, dall’altro, la consapevolezza per cui l’Ucraina non sta semplicemente difendendo sé stessa. Essa sta difendendo, come è spesso stato correttamente sottolineato, tutti i valori sui quali l’Europa unita si fonda – dallo Stato di Diritto all’autodeterminazione dei popoli. Fino a che punto, dunque, siamo disposti a chiudere un occhio sul rispetto di questi valori da parte di Stati che sono già membri dell’Unione europea?
Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
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