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    Unione Europea, oscar come attore non protagonista

    In questo contesto drammaticamente difficile e spietato si leggono i nomi degli attori che possono porsi come intermediari nel conflitto tra Russia ed Ucraina: gli Stati Uniti, la Cina, la Turchia e… l’Unione Europea?
    La posizione dei paesi dell’Unione Europea
    Sia chiaro, è ben noto che l’UE, attraverso i suoi leader nazionali, si muove verso la direzione diplomatica, ma è qui, paradossalmente, che il suo limite si evidenzia e si rende visibile.
    Prendiamo come esempio i casi più rappresentativi.
    Il premier francese Emmanuel Macron, che con il suo partito “En Marche” ha più volte espresso il desiderio e la visione di un’Unione Europea salda e compatta, ha avuto colloqui privati con Vladimir Putin.
    Essere risolutore della controversia potrebbe portare un enorme consenso che, con ogni probabilità, può tradursi in un risultato elettorale favorevole in vista delle prossime elezioni presidenziali che si terranno ad aprile nel Paese d’Oltralpe e che porranno l’attenzione dei “cugini” ad un bivio riguardo la percezione della Francia nel mondo.
    Infatti, probabilmente, il presidente in carica si troverà al ballottaggio contro il presidente del Rassemblement National,  Marine Le Pen, che più volte si è espressa, se non favorevole al regime russo, critica nei confronti dell’unità europea.
    Da più fronti si è fatta avanti la proposta di porre l’ex cancelliera tedesca, Angela Merkel, per mediare con il presidente russo, in virtù delle sue qualità e competenze.
    Tuttavia è necessario far notare che per quanto credibile, l’ex leader dell’Unione Cristiana Democratica è, ad oggi, “in pensione” e il suo partito non è più al governo del suo paese.
    In Germania infatti, dopo i risultati elettorali, vede l’SPD, i Liberali e i Verdi come forza di maggioranza e il CDU all’opposizione.
    Per cui, pur non potendo fare un bilancio negativo della figura politica e amministrativa rappresentata dalla Merkel alla guida della “locomotiva d’Europa”, viene spontaneo chiedere e chiedersi: possibile che non vi sia nessun rappresentante istituzionale europeo, ad oggi in carica, in grado di rappresentare l’Unione e la sua posizione in questo momento delicato?
    Risulta davvero necessario lasciare il passo ad Erdogan, Xi Jinping o Biden?
    Ultimo, e per certi versi più doloroso, capitolo riguarda il ruolo italiano.
    L’Italia sta gradualmente vivendo un periodo di ridimensionamento nello scenario internazionale, senza prolungarsi nell’annoso discorso riguardante i nostri vicini, Albania e Libia in primis, nei quali sono sempre meno presenti posizioni solide di interesse nazionale, i suoi rapporti con l’orso russo sembrano deteriorati, Pratica di Mare è lontana.
    Il ministro degli Esteri, Luigi di Maio, pubblicamente viene sbeffeggiato dagli organi della Federazione e dichiara in una nota trasmissione televisiva che:
    “Tra un cane e Putin, quello atroce è il secondo”.
    Non è necessario essere Bismark o Cavour per comprendere che in situazioni delicate la forma e la sostanza spesso coincidono e che la cautela è un prerequisito fondamentale in diplomazia.
    Il premier Draghi dal canto suo cerca di porsi in una condizione intermedia, facendo i conti con la realtà.
    Le sanzioni, per quanto stringenti, potrebbero non bastare in un’ottica di organizzazione comunitaria.
    Se, da un lato il mercato europeo è appetibile per Mosca e inevitabilmente esiste una perdita nel paese, dall’altro è bene far notare che non è l’unico interlocutore commerciale e per certi versi le misure stringenti adottate si avvertono anche in Europa che vede aumentare i prezzi di beni di consumo come il grano e i costi dell’energia.
    Il costo della vita aumenta mentre, in Italia, gli stipendi restano stabili, certo, la condizione non è figlia esclusivamente del conflitto, ma è bene far notare come le tensioni sociali si rendono sempre più evidenti.
    Attraverso questa breve e sommaria analisi infatti è possibile riassumere che i singoli Paesi siano attenti al conflitto, limitandone, per quanto possibile, ulteriori eventi catastrofici e facendosi largo procedendo verso la strada diplomatica, la migliore auspicabilmente.
    L’Unione Europea necessita di perseguire i propri interessi e la sua politica estera comune
    Una politica estera comune per sopravvivere al contesto globale
    Tuttavia viene a mancare la direzione unitaria dell’attore europeo, che risulta essere carente, in questo contesto, di una dimensione politica e strategica comune e unitaria.
    Risulta possibile dunque evidenziare, per certi versi, dei limiti dell’Unione nel contesto internazionale?
    Un attore internazionale che è primario in termini di diritti, di welfare nei confronti dei suoi, purtroppo pochi, cittadini, e che è unito da cultura, storia e trattati, per quanto tempo ancora può non avere rilevanza a favore di vere e proprie autocrazie?
    Siamo ben lontani dai falsi miti del “fardello dell’uomo bianco” o da altre narrazioni etnocentriche che pongono l’Occidente, in questo caso declinato nel contesto europeo, come guida ispirata ed illuminata del mondo, ma non possiamo sottovalutare i rischi che si rendono sempre più evidenti.
    Ora è necessario distinguere i due criteri di “potenza” degli attori in gioco: l’hard e il soft power.
    L’hard power russo, cinese, pakistano, è noto, come lo è il deterrente che inevitabilmente si crea quando il proprio interlocutore è una potenza nucleare.
    Tuttavia non è possibile sottovalutare anche il soft power, ovvero quelli elementi culturali, sociali, che vengono perpetrati attraverso metodi comunicativi e mediatici, basti pensare a Russia Today o Sputnik e la propaganda filo-cinese, specialmente durante la prima fase pandemica.
    Interessi strategici, economici, militari, ma anche sistemici di valori, che l’UE non può abbandonare se l’intenzione è sopravvivere.
    In ottica “coloniale” abbiamo visto come Pechino si espande in Africa, nel Mediterraneo e ponendosi sempre più come traino asiatico; altri attori emergono sempre più; l’Occidente sembra diviso tra Stati Uniti che, gradualmente “tornano a casa” e un’Europa ancora in formazione, non compatta e immatura.
    Lo scenario che si prospetta è verosimilmente, diversamente a quanto vissuto negli ultimi 80 anni, multipolare, ed esiste la forte necessità di un’Unione Europea unita, stabile e salda, non frammentata in Stati che si renderanno sempre più marginali.
    L’Occidente europeo saprà rinnovarsi e sciogliere i nodi rappresentati dalle sfide future?

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

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    Una folta delegazione di ECR in Florida per solidarietà verso i manifestanti cubani

    Una delegazione del partito dei conservatori europei dell’Ecr è volata a Miami per partecipare alle manifestazioni del patria y vida organizzata dall’associazione degli esuli cubani della Florida per protestare contro il regime castrista cubano. Il programma è  assai ricco per il folto gruppo di parlamentari europei, composto da una rappresentanza italiana di Fdi.
    Il gruppo di parlamentari europei ha in agenda incontri con i membri dell’Asamblea de la Resistencia Cubana, una coalizione di 35 gruppi anticomunisti e pro diritti umani dentro e fuori Cuba, con simpatizzanti europei, figure di spicco dell’opposizione di Cuba, Venezuela, Nicaragua, Bolivia e altri paesi. Saranno presenti anche organizzazioni e fondazioni della società civile. Giovedì si terranno dibattiti pubblici su temi quali come gli Stati membri dell’UE dovrebbero agire nei confronti dei regimi che smantellano, violano o sopprimono direttamente i diritti e le libertà dei loro cittadini. Sabato e domenica sarà inaugurata la Coalizione parlamentare transatlantica per una Cuba libera e sarà firmata una dichiarazione comune.
    Il presidente cubano Miguel Diaz Canel ha vietato una marcia prevista nella capitale ed in altre città, ed ha vietato l’ingresso nell’isola ad un delegazione di esuli, accompagnati da alcuni parlamentari europei, tra cui l’italiano Carlo Fidanza, per manifestare la vicinanza con i dissidenti cubani e la repressione nei loro confronti da parte del regime.
    Il segretario di Stato americano Antony Blinken domenica ha condannato le “tattiche di intimidazione” del governo cubano in vista della marcia prevista per lunedì a Cuba e ha promesso che gli Stati Uniti avrebbero adottato misure volte alla “responsabilità” per la repressione.
    Il ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez ha risposto su Twitter poco dopo, dicendo agli Stati Uniti di stare fuori dagli affari cubani. “Antony Blinken dovrebbe imparare una volta per tutte che l’unico dovere del governo cubano è verso il suo popolo e rifiuta, per suo conto, l’interferenza degli Stati Uniti”, ha detto Rodriguez.
    “Ieri nella giornata delle manifestazioni a Cuba, nuovamente represse dal regime comunista, abbiamo portato il sostegno di ECR Group ai principali esponenti dell’opposizione in esilio. Con noi il Governatore della Florida Ron DeSantis e la sua Vice Jeanette Nunez, due repubblicani molto amati da queste parti perché non scendono a compromessi quando c’è da difendere la libertà” ha dichiarato Carlo Fidanza durante la manifestazione di lunedì a Miami
    “Siamo qui per lanciare un grido di libertà. Vogliamo dire alla gente che non sono soli”, ha detto alla reuters il manifestante di Miami e giornalista Serafin Moran, 43 anni. “Oggi mandiamo un saluto, un messaggio al popolo di Cuba: se tu sei nelle strade, anche noi”.
    “Patria y Vida”, prende il nome  dalla canzone dei rapper cubani, che è diventato ormai lo slogan più ripetuto durante le manifestazioni del luglio scorso a Cuba, e adesso  sembra essere diventato l’inno riconosciuto di tutto il movimento di protesta. Con un titolo in aperta contrapposizione al famoso “Patria o Muerte”, slogan della rivoluzione castrista, viene rilanciato in tutta l’isola dalle stazioni radio della Florida e da quelle semi-clandestine che si ascoltano nei barrios più popolari.

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    Il ricatto dei migranti

    Dopo Erdogan in Turchia, che da tempo usa i migranti ammassati al suo confine per ricattare l’Europa, e la Libia che si serve dei disperati che arrivano li dopo una estenuante traversata del  deserto per cercare la fuga dai loro paesi di origini, ora ci si mette anche Alexander Lukashenko che dalla Bielorussia forza centinaia di migranti ad ammassarsi ai confini con la Polonia, scatenando una dura reazione del governo di Varsavia.
    Dall’inizio dell’anno, secondo fonti Ue, circa 8 mila migranti sono arrivati in Europa dalla sua Repubblica assolutista, molto  vicina alla Russia di Putin, che sarebbe secondo alcuni uno dei veri  manovratori di questa ardita mossa della Bielorussia, da tempo in aperta polemica con l’Unione europea, che non perde occasione per accusarlo per i suoi comportamenti non proprio democratici.
    In Bielorussia il flusso migratorio è stato creato ad arte, con un ponte aereo. Quella del leader bielorusso sembra una strategia studiata a tavolino, proprio per utilizzare la leva dei migranti come arma di ricatto contro l’Europa. Da mesi in Turchia, Siria, Emirati Arabi, Azerbaigian e forse anche qualche Paese dell’Africa, le ambasciate bielorusse offrono visti turistici a chi è disposto a pagare una fortuna per una finta vacanza nelle steppe: 10/12mila euro. Il governo ha anche ridotto il numero di agenzie turistiche autorizzate, in sostanza Lukashenko starebbe lucrando sui viaggi come un qualsiasi trafficante di uomini. La promessa è di un facile passaggio verso la tanto agognata Europa.
    L’Unione sta pensando a prendere dure contromisure, come quella di impedire  ai voli delle compagnie aeree che trasportano i migranti dai Paesi africani e dal Medio Oriente verso Minsk, capitale bielorussa. E si stanno valutando anche possibili sanzioni economiche che potrebbero persino arrivare al divieto di sorvolare lo spazio aereo europeo per una ventina di compagnie.
    La situazione è resa ancora più delicata dal rapporto conflittuale, del quale anche i migranti rischiano di diventare vittime, instauratosi fra la Commissione europea e il governo polacco, che vorrebbe che la Ue finanziasse la costruzione di un muro ai suoi confini. Il premier Morawiecki ieri è andato a visitare le truppe al confine ed ha ribadito senza messi termini la assoluta urgenza  di prendere adeguate contromisure contro questo rischio: “Chiudere il confine polacco è nostro interesse nazionale. Ma oggi è in gioco la stabilità e la sicurezza di tutta l’UE”.
    Questo episodio mette ancora una volta l’Europa di fronte alle sue responsabilità verso una questione come quella degli immigrati, a cui non è riuscita ancora a a dare risposte adeguate e risolutive, se non quella di farsi ricattare dal dittatore di turno, oppure lasciare i Paesi di primo approdo come Italia, Grecia e Spagna da soli ad affrontare l’emergenza. E alle porte si affaccia l’ennesima emergenza dei profughi afghani, che Erdogan, Lukashenko e Putin stesso sfruttare per mettere in difficoltà un’Unione europea sempre più debole e disunita di fronte ad un problema che la riguarderà  sempre più da vicino.
    Continuando a mantenere questo atteggiamento ondivago da parte delle autorità europee, non si potrà non riconoscere che rispetto allo status quo e al cedere ai ricatti, sia forse meglio quello di prendere iniziative autonome da parte dei singoli Stati, magari non ortodosse come quelle di Polonia ed Ungheria che propongono la costruzione di muri alle frontiere o quelle di chi come Giorgia Meloni in Italia è per il blocco navale al largo delle coste libiche. Perché anche su questo tema a prevalere sembrano essere più gli interessi di parte che quelli della intera comunità.

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    Amess, ennesimo caso di politico ucciso in Gran Bretagna

    Ennesimo episodio di violenza contro un politico britannico da parte probabilmente di un estremista islamico che ha ucciso con una decina di coltellate un deputato conservatore del parlamento britannico, mentre stava effettuando il suo abituale incontro con la comunità del suo collegio.
    Sir. Amess, deputato di vecchio corso del partito conservatore,  è stato attaccato durante un regolare incontro con gli elettori in una chiesa metodista in una zona residenziale della città di mare a circa 40 miglia (62 chilometri) a est di Londra. I paramedici hanno provato senza successo a salvarlo.
    Il conservatore Sir David Amess, 69 anni, è stato uno dei parlamentari più longevi, essendo stato eletto prima per Basildon nel 1983 e poi per Southend West nel 1997.
    Un euroscettico a lungo termine, ha sostenuto la Brexit nel referendum dell’UE del 2016 e ha twittato l’immagine di un ritaglio di cartone a grandezza naturale di Margaret Thatcher il giorno dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Insomma sicuramente un conservatore che non aveva paura  di difendere le sue idee e il suo pensiero.
    Padre di cinque figli, è nato a Plaistow, nell’Essex, ed è diventato insegnante di scuola elementare a Bethnal Green, nell’East London, dopo essersi laureato in economia e governo presso l’attuale Bournemouth University.
    Eletto consigliere del distretto londinese di Redbridge, dopo aver vinto il seggio di Basildon, è stato segretario privato parlamentare di Michael Portillo per 10 anni.  Quando, contro ogni previsione, occupò il seggio marginale di Basildon nel 1992, fu la prima chiara dimostrazione che i laburisti non avrebbero vinto quelle elezioni.  In seguito ha scritto un libro sulle sue esperienze, intitolato 1992: Against All Odds, che è stato lanciato ai Comuni in occasione di un evento per celebrare il 20° anniversario delle elezioni.
    Ha visto il giubileo di platino della regina l’anno prossimo come un’altra opportunità, chiedendo nel novembre 2020 una nuova statua della regina e un concorso per lo status di città per garantire che Southend ottenesse il riconoscimento che credeva meritasse.  Un’altra campagna che ha sostenuto è stata quella di commemorare Dame Vera Lynn sulle bianche scogliere di Dover. Insomma un personaggio controverso ma che ,lottava con costanza e coerenza per le battaglie in cui credeva.
    Ma nello stesso tempo la sua grande umanità la sua profonda religiosità e il suo grande attaccamento alla politica come missione per perseguire l’interesse della comunità in cui è stato eletto, lo rendeva un politico sempre molto vicino alla gente anche e soprattutto a chi non la pensava come lui.
    Ma questo non è il primo caso in cui un politico inglese viene attaccato da estremisti e deve pagare con la vita per questioni che poco hanno a che fare con la vita democratica di un paese come la Gran Bretagna, che negli ultimi anni ha pagato uno  scotto pesante al crescente clima di odio che si è venuto a creare con la radicalizzazione delle idee religiose estremiste.
    Nel 2016, un folle ha accoltellato e sparato alla deputata Jo Cox mentre stava entrando in una riunione con i suoi elettori. La signora Cox, un membro laburista del Parlamento, aveva sostenuto la restante parte del Regno Unito dell’UE. È morta nell’attentato.
    Nel 2010, il legislatore laburista Stephen Timms è stato pugnalato due volte da una donna associata a un estremista islamico e che si è opposta al sostegno del signor Timms alla guerra in Iraq. È sopravvissuto all’attacco.
    Nel 2000, un assistente di un parlamentare liberaldemocratico è stato ucciso mentre difendeva il suo capo quando un uomo armato di spada ha fatto irruzione nella sua riunione del collegio elettorale.
    Questo anche perché in Inghilterra non è raro vedere un ministro prendere metropolitane o un deputato fare la spesa al supermercato. Ma questo pone problemi di sicurezza in un paese in cui il fondamentalismo islamico è ben radicalizzato soprattutto in verte zone della capitale e in alcune sobborghi Dell principali città industriali del paese.
    Chris Bryant, deputato laburista rivendica con orgoglio questa particolarità della democrazia britannica a cui non vuole affatto rinunciare«noi siamo orgogliosi del fatto di renderci disponibili per i nostri elettori: “chiunque può venire ai nostri incontri, trovarci al supermarket, parlarci sull’autobus o sul treno. Questa apertura è centrale per la nostra democrazia e non dobbiamo rinunciarci”.
    Ma,  dopo l’ennesimo fatto di sangue, la politica britannica si trova però quasi inevitabilmente di fronte alla necessità di rivedere i propri dispositivi di sicurezza per i parlamentari.
    “Straziante venire a sapere della morte di Sir David Amess. Uomo perbene e parlamentare rispettato, ucciso nella sua stessa comunità mentre svolgeva il suo dovere. Un giorno tragico per la nostra democrazia. I miei pensieri e le mie preghiere vanno alla famiglia di David“, ha scritto su Twitter l’ex-premier britannica Theresa May.
    “Questa è la terza volta e ogni volta diciamo che non lasceremo che accada di nuovo e niente cambia”, ha detto Halfon dopo la notizia dell’accoltellamento e della morte del collega di partito David Amess, che ha chiesto una immediata revisione delle misure di sicurezza per i politici britannici, che potrebbero essere per le loro idee presi di mira.
    “Siamo tutti esposti, e teniamo i nostri incontri con gli elettori e tutti sanno chi siamo e dove viviamo. Questo è un problema serio”, ha aggiunto il deputato, che chiede una “revisione indipendente” delle misure di sicurezza a protezione dei parlamentari.
    Il tristissimo episodio è stato anche commentato piuttosto criticamente dalla presidente dell’Ecr, di cui i tories inglesi del deputato ucciso facevano parte nel parlamento europeo Giorgia Meloni
    “Evidentemente l’omicidio di un parlamentare di centrodestra, bianco, cristiano, forse per mano islamista non è funzionale al racconto del mainstream, concentrato a rincorrere i fantasmi del passato e criminalizzare gli avversari politici invece di preoccuparsi delle emergenze del terzo millennio”, ha scritto in un post polemico pubblicato su Facebook la presidente dell’Ecr europeo.

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    L’incognita del giornalista di destra Zemmour sulle prossime elezioni francesi

    Mancano sette mesi circa alle elezioni francesi del 2022, ma la macchina elettorale per sfidare Emmanuel Macron alle prossime elezioni presidenziali del prossimo aprile 2022 è  già partita da un pezzo. I nomi certi sono quella dell’immancabile Marine Le Pen per il Ressemblemnt nationale, quella della sindaca di Parigi Hidalgo, per il partito dei Les repubblicans la corsa a quattro  ( che dovrebbe tenersi a Novembre) tra Valérie Pécresse, Philippe Juvin, Eric Ciotti e Michel Barnier, sembra un pura formalità per quest’ultimo dato come stra favorito. Per  i verdi sarà l’europarlamentare Yannick Jadot, che ha vinto per un soffio le primarie, a correre per l’Eliseo.  Infine in campo resta sempre aperta l’opzione di Xavier Bertrand ex ministro di Sarkozy ed attuale presidente della regione della Hauts – de – France, che però sembra assai infastidito dal dover affrontare le primarie e non esclude una presentazione di una sua lista personale.
    Questa potrebbe essere una prima incognita assai importante (Bertrand verrebbe dato intornio al 15% dai sondaggi)  sul voto di Aprile, ma la vera incognita forse è quella legata alla possibile ( sempre  più probabile a dir al verità) discesa in campo del giornalista Erik Zemmour, che potrebbe scompaginare il campo delle elezioni presidenziali nel campo  del centrodestra. Non è un caso se la più terrorizzata da questa ipotesi appare proprio la Le Pen.
    Zemmour, 63 anni, è nato nella periferia di Parigi da una famiglia di ebrei berberi venuti in Francia durante la guerra franco-algerina del 1954-62. Dopo non essere riuscito a entrare nella scuola di amministrazione d’élite (ENA), si è dedicato al giornalismo, diventando un editorialista di punta per il quotidiano conservatore Le Figaro.  Il suo libro del 2014 “Le suicide français “(Il suicidio francese: 40 anni che hanno sconfitto la Francia) è diventato un best sellers.  Secondo quanto riferito, il suo ultimo saggio autopubblicato “La France n’a pas dit son dernier mot” (La Francia non ha detto la sua ultima parola) ha venduto 78.000 copie nella prima settimana.
    La reputazione di Zemmour come il più famoso ideologo di destra francese deve molto alle sue apparizioni regolari su CNews, un canale televisivo simile al Fox News degli Stati Uniti, che ha sostenuto Donald Trump. È stato una star del dibattito quotidiano Face à l’info (Facing the News), che raggiunge il picco di oltre un milione di telespettatori. Le sue battaglie contro l’islamismo  radicale e l’immigrazione radicale lo  hanno reso un paladino della classe borghese francese, superando su questi temi la fama della Le Pen, troppo radicale e poco  convincente. In questi giorni ha anche ricevuto l’endorsement del padre della Le Pen, Jena Marie, leader storico della destra francese, il primo ad arrivare ad un ballottaggio alle presidenziali contro Chirac nel 2002, poi perso nettamente con un misero 17% dei consensi.
    Negli  ultimi sondaggi Le Pen è crollata al 16% dei consensi rispetto al 24 % di un mese prima, e secondo molti osservatori  causa principale di questo  calo  sembra essere dovuto proprio alla possibile candidatura di Zemmour, che non perde occasione per criticarla, e che viene accreditato al 15% dei consensi. Considerato antisemita e razzista, in realtà Zemmour non è  un politico convenzionale e proprio questa sua caratteristica gli permette di avere un libertà di opinione che è negata a chi come Le Pen deve invece scontrarsi da sempre con l’opinione comune che la vuole sempre sconfitta alle elezioni, malgrado parta sempre da favorita. Fuori dagli  schemi, battitore libero è  in grado di intercettare le paure e le inquietudini di un numero sempre maggiore di francesi, a cui anche lo stesso presidente Macron sembra negli  ultimi mesi aver strizzato l’occhio.
    La Pen accusa Zemmour di dividere la destra e di consegnare in questo modo il paese nuovamente alla sinistra, non è un caso se proprio Macron sarebbe, secondo gli analisti il più felice della notizia della sua candidatura, ma questo non vuol dire che il giornalista non potrebbe avere qualche chance di rendere comunque la vita difficile a Macron più della Le Pen, che sembra ormai aver perso molto dela sue credibilità e della forza elettorale che aveva fino a qualche anno fa.
    La sua grande forza, secondo gli analisti politici, sarebbe proprio  quella di riuscire ad attrarre sul suo nome, sia i voti dell’estrema destra che quelli della destra più moderata.  La sua figura viene sempre più spesso accostata a quella di Donald Trump, di cui Zemmour è  sempre stato fiero sostenitore. Difficile ma certo non impossibile che anche a lui possa riuscire il miracolo di vincere le presidenziali contro tutti i pronostici della vigilia.
    “Éric Zemmour ha aperto gli occhi a un certo numero di persone, anche nella mia famiglia politica”, ha detto Antoine Diers, portavoce di Friends of Éric Zemmour, un gruppo che sta raccogliendo fondi per una potenziale candidatura presidenziale del giornalista. Diers è anche un membro del partito dei repubblicani francesi e un funzionario del municipio di Plessis-Robinson, un sobborgo a sud di Parigi, dove le questione della immigrazioni e del radicalismo islamico sono assai sentiti.
    “A causa dell’influenza del signor Zemmour-  ha affermato Diers- i candidati del suo partito finalmente prendono posizione sull’immigrazione, sulle questioni dell’identità e della cultura francese”. La partita delle presidenziali francesi è appena partita, ma mai come ora la contesa sembra apertissima, visto anche il parterre dei candidati che proveranno a sfilare l’Eliseo ad un Macron sempre più in difficoltà.

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    Aukus: siglato patto di sicurezza trilaterale. L’Europa resta ai margini

    Dopo che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al vertice di Arraiolos ha invocato una politica estera, di sicurezza e di difesa comune per fare sentire la voce europea nel mondo e dopo che Silvio Berlusconi ha chiosato lo stesso concetto al vertice di Roma del PPE chiedendo la fine del voto all’unanimità in politica estera l’Unione Europea rimane ancora a guardare. Che cosa? L’attivismo degli (alleati) americani. 
    Dopo il ritiro delle truppe dall’Afghanistan Joe Biden, l’attuale Presidente degli USA, si lancia a capofitto in una nuova strategia per limitare l’espansionismo cinese ed insieme a Boris Johnson, il Primo Ministro britannico, e Scott Morrison, il Primo Ministro dell’Australia, sigla un patto di sicurezza trilaterale denominato Aukus che esclude ancora una volta l’Unione Europea dallo scenario internazionale dell’indo-pacifico. 
    L’Aukus – acronimo dei tre paesi firmatari Australia, Regno Unito e Stati Uniti d’America – permetterà agli anglo-americani di fornire tecnologie militari a Canberra per la costruzione di sottomarini nucleari. I nuovi armamenti, secondo diversi analisti, serviranno per difendere gli interessi commerciali australiani nonché per difendere Taiwan dalla minaccia cinese. Nel complesso l’accordo di difesa ha un valore simbolico perchè mira a bloccare tempestivamente la volontà di potenza della Repubblica Popolare Cinese e permette agli Stati Uniti di rinnovare la propria presenza nell’area pacifica. 
    In questo clima di tensione che ricorda la guerra fredda, rimane esclusa, come detto, l’Unione Europea. O meglio, i ventisette paesi che ne fanno parte, dato che è difficile parlare di una politica estera comune e univoca europea. Ogni paese europeo ha suoi interessi strategici da perseguire, a partire dalla Francia che ha perso, nei confronti dell’Australia, una commessa da cinquanta miliardi di euro per la costruzione di dodici sottomarini nucleari. Siamo ancora lontani dalla tanto agognata sovranità europea.
    Per altro, citando l’ambasciatore francese a Roma Christian Masset, nella vicenda non si è visto l’America is back ma la continuazione dell’America first. In un momento in cui le relazioni inter-statali continuano ad essere dominate da un certo tasso di anarchia internazionale, l’Unione Europea è in totale confusione e sta ancora aspettando spiegazioni da Washington. Potenzialmente arriveranno presto, auspicabilmente al G20 di Roma.

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    E’ difficile parlare di una politica estera comune e univoca europea

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    Cina, la battaglia per i tre Imperi

    Siamo nel ventunesimo secolo, la Cina crea strategie politiche-economiche per sferrare attacchi mirati nello scacchiere della finanza mondiale. The trade winds, i venti del commercio orientale soffiano sempre in una precisa direzione, volti a tracciare un sentiero o un percorso nell’economia dei  tre ‘imperi’, Europa, America, Africa.
    Nell’attesissimo intervento a Davos, il presidente cinese, Xi Jinping, ha dichiarato che la Cina corre per la leadership. Di conseguenza, tutto il comparto economico cinese subirà un intervento statale con la conseguente regolamentazione, che coinvolgerà il settore finanziario, digitale, educativo, logistico e ferroviario.
    Un rapporto di Eurostat indica che gli scambi tra Cina ed Europa nel 2020 ammontano a 31 miliardi di euro rispetto agli USA, per un valore di mercato di 555 miliardi di euro. Con COSCO, il colosso statale definito da Xi Jinping “la testa del drago in Europa”, Pechino entra nelle infrastrutture UE. La compagnia statale di navigazione attualmente detiene il 51 per cento del Porto del Pireo (il più importante scalo della Grecia) e sta per rilevare un’ulteriore quota del 16 per cento dell’Autorità Portuale, raggiungendo una quota di maggioranza del 67 per cento.
    In Italia la Cina investe nella nuova ‘via della seta, Nola-Shanghai’’ attraverso un collegamento ferroviario diretto. La merce arriva via treno all’Interporto Campano di Nola (Napoli) senza nessun trasbordo intermedio, con tappe presso gli hub di Kaliningrad (Russia), Rostock (Germania) e Verona (Interterminal). L’obiettivo, il rilancio del polo logistico e del terziario avanzato dell’Interporto e un avanzamento internazionale del settore commerciale del Sud Italia. I vantaggi del servizio sono di tipo operativo, per il rapporto diretto con sdoganamento in importazione presso la dogana di Nola e per i ridotti rischi di dannosità della merce, e anche ambientali, specie in relazione alla riduzione di emissione di anidride carbonica, calcolata del 20 per cento. Già ad agosto 2019 il numero di treni merci Cina-Europa ha raggiunto i diecimila.
    Nodo cruciale è l’ampliamento delle infrastrutture cinesi, per lo più collegate a data center, cavi in fibra ottica, strutture attraverso cui scorrono le informazioni e reti Internet. Di conseguenza, porti, ferrovie e digitalizzazione sono interessi determinanti nella lotta per il dominio tecnologico, per cui lo scontro tra Stati Uniti e Cina subisce un’accelerazione. Altro tema caldo è la volontà di Pechino di rafforzare la presenza militare in Africa: l’esempio più eclatante è l’installazione militare di Gibuti, nel Corno d’Africa, proprio all’imbocco dello Stretto di Bab el-Mandeb davanti alla rotta dei flussi commerciali da e per il Canale di Suez.
    Misure in espansione sono nel settore militare. Il governo cinese, a conferma delle ambizioni globali, consolida le capacità di proiezione strutturale e rafforza la dimensione militare/strategica, sa perfettamente che laddove aumentano gli interessi economici, aumenta anche la necessità di tutelarli. La volontà d’espansione si proietta verso interessi diffusi della collettività indifferenziata. Pechino può contare su una presenza costante e assidua in campo economico/logistico, finanziario e militare nel territorio africano, partecipa a missioni di peacekeeping sotto le insegne dell’ONU.
    Altro aspetto è la situazione afghana. Il presidente Xi Jinping ha sottolineato che la Cina rispetta la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Afghanistan, persegue una politica di non interferenza negli affari interni del Paese e ha sempre svolto un ruolo costruttivo nella soluzione politica della questione afghana. Altrettanto, Putin ha dichiarato che la Cina e la Russia condividono posizioni comuni sull’Afghanistan e che i due Paesi potranno lavorare insieme per facilitare la transizione di governo in Afghanistan.
    Il confronto decisionale tra Xi Jinping  e Putin è avvenuto in seguito a un incontro del Gruppo dei Sette sull’Afghanistan. I leader del G7 hanno chiesto che venga garantita la sicurezza nel Paese, mentre l’amministrazione di Joe Biden sconta la decisione di Trump di ritirare le truppe americane dal territorio afghano durato vent’anni, anche se agli occhi del mondo appare una sconfitta dal sapore amaro.
    La rivalità tra le grandi potenze non si è attenuata nemmeno durante la crisi COVID-19. Nel 2021, il Paese del Sol Levante si apre con estremo scetticismo al dialogo con altre nazioni, nonostante la posizione di forza, ed è il primo Paese e riprendersi dal contagio e a riavviare l’economia. La Cina, attraverso una politica restrittiva e un’economia d’espansione, è stata l’unica nazione a registrare una crescita durante la pandemia dello scorso anno.
    Joe Biden, cavalcando l’onda pandemica, promuove le posizioni di coloro che sotto l’amministrazione Trump hanno sempre sostenuto di dover arginare l’espansione della Cina. L’ipotesi che il COVID-19 abbia avuto origine nell’Istituto di virologia di Wuhan consentì a Trump di dichiarare che aveva “enormi prove” che lo comprovavano. Altresì, nelle migliori delle ipotesi, gli USA sembrano intenzionati a “chiedere il conto” alla Cina.
    In attesa di nuovi sviluppi, Pechino sta contrastando le accuse al laboratorio Wuhan con una feroce propaganda anti-americana e una maggiore coercizione economica all’estero. Boicottaggio delle merci e dei servizi e dazi punitivi sono uno dei tanti mezzi utilizzati come forma di coercizione economica verso Stati terzi che intendono “appoggiare” le decisioni americane. La pandemia ha costretto i leader politici di tutto il mondo a fare i conti con una crisi economica senza precedenti, le loro decisioni appaiono irretite da un’irrazionalità politica, intrise da contraddizioni sociali. Prioritarie sono le scelte nel voler tirar fuori la propria nazione dalla recessione che, secondo questa logica, eviterebbero qualsiasi misura che porti a ulteriori restrizioni.
    Ovviamente la risposta americana non si è fatta attendere. Già da allora, l’amministrazione Trump si era mossa per imporre dazi sulle esportazioni cinesi, sanzionare i funzionari sulle mosse per limitare le libertà a Hong Kong e nello Xinjiang e negare la tecnologia vitale ad alcune delle più grandi aziende cinesi. In previsione di altri incontri in sedi più opportune, il presidente cinese Xi Jinping ha enfatizzato una politica di “doppia circolazione” che privilegia l’autosufficienza. Il team di Biden ha segnalato che continuerà a mantenere una linea dura con la Cina, mentre cerca la cooperazione verso temi che riguardano il cambiamento climatico.
    Nel tempo in cui i leader del mondo dettano le strategie, per resistere al conflitto economico tra Cina e Stati Uniti, l’Europa tenta di organizzare un controllo serrato sugli investimenti strategici provenienti dall’estero, migliorare la sua resilienza dagli attacchi diretti e indiretti e conseguentemente agli effetti collaterali della diatriba commerciale USA-Cina.
    In questi giorni si è realizzata una straordinaria alleanza indo-pacifica, che ha dato vita all’accordo AUKUS: l’acronimo riguarda i tre Paesi partecipanti, Stati Uniti-Gran Bretagna-Australia. La partnership “aggiornerà la nostra capacità condivisa di affrontare insieme il ventunesimo secolo e le sue minacce”, ha riferito Joe Biden parlando alla Casa Bianca durante la teleconferenza. Boris Johnson ha parlato di “un pilastro strategico” in quello che per Londra è il nuovo “centro geopolitico mondiale”. Ma per capire lo scopo strategico dell’accordo è necessario rileggere le parole di Johnson: “Stiamo inaugurando un nuovo capitolo della nostra amicizia e il primo compito sarà quello di sostenere l’Australia nell’acquisizione di una flotta di sottomarini a propulsione nucleare”.
    Il primo ministro australiano Scott Morrison ha replicato affermando che il Paese non porterà a completamento l’accordo da 90 miliardi di dollari australiani (66 miliardi di dollari) con la Francia per la fornitura di sottomarini, ma ne costruirà di propri, a propulsione nucleare, utilizzando la tecnologia statunitense e britannica. “La decisione che abbiamo preso di non continuare con il sottomarino Attack Class e di percorrere questa strada non è un voltafaccia ma una necessità”, ha aggiunto.
    AUKUS, soprannominato ‘patto contro la Cina’, scatena l’ira di Pechino e della Francia. Zhao Lijain portavoce del ministero degli Esteri, ha dichiarato che la Cina “monitorerà la situazione” e che “è un accordo irresponsabile”. Altrettanto dure sono le parole del ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian: “Sono veramente in collera. Avevamo instaurato un rapporto di fiducia con l’Australia’”. La ragione di tanto disappunto è la rescissione della  commessa pregressa tra Francia e Australia stipulata nel 2016, per costruire sottomarini nucleari, dal valore 31 miliardi di euro. L’UE invece ha rivelato che “non era stata informata” e che “siamo in contatto con i partner per saperne di più e ne dobbiamo discutere con gli Stati membri dell’UE per capirne le implicazioni”, ha detto il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano.
    Il giorno seguente alla pubblicazione dell’accordo, il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, ha tentato di rassicurare che “il nostro patto punta a garantire pace e stabilità”. All’unisono, il premier australiano, Scott Morrison, ha dichiarato che “i nostri sottomarini garantiranno sicurezza nella regione e saranno utili a tutti, compresa la Cina”. Ma il presidente cinese Xi Jinping, irritato, ha inviato le sue considerazioni ai tre Paesi: “Non permetteremo interferenze di forze straniere”. Su questo accordo si gioca una partita strategica per il futuro del mondo.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

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    L’Europa deve avere una politica estera comune

    Se c’è un piccolo aspetto  positivo che si può ricavare dalla drammatica crisi afghana è quello che è stato resa ancora più chiara a tutti la non più prorogabile esigenza di creare una politica estera comune europea. Persino il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato apertamente di questa necessità per la politica europea che sempre più mostra tutte le sue incongruenze e debolezze. Il periodo della condivisione da parte dell Europa a quella che era la politica estera del guardiano del mondo statunitense, che spesso senza nemmeno consultare i propri alleati del vecchio continente  prendeva decisioni, a cui poi gli europei dovevano, anche loro malgrado adeguarsi ( proprio l invasione dell Afghanistan aveva incontrato molte resistenze fra i paesi europei) sembra ormai definitivamente alle spalle.
    Gli Stati Uniti hanno ormai mostrato in più occasioni di non voler più assumere quel ruolo di guardiano del mondo che dalla caduta del muro ha dovuto assumere per garantire l’ordine mondiale. Il chiaro intento della politica estera americana è quello di non impegnarsi più in dispute che non riguardino direttamente i propri interessi nazionali. Questo atteggiamento non è cominciato, come si potrebbe pensare, con l’amministrazione Trump, ma è iniziato ben prima. Già nell’ultimo periodo del secondo mandato di George W. Bush, la politica estera americana aveva cominciato una nuova fase maggiormente “attendista”, che è poi proseguita con maggiore vigore sotto le due amministrazioni Obama, soprattutto durante il secondo mandato.
    Fu proprio Obama, infatti, il primo presidente a parlare di un disimpegno dall’Afghanistan e per un graduale ridimensionamento del ruolo americano sullo  scenario mediorientale e africano. Ed è proprio da qui che forse è cominciato non a caso a crescere il peso internazionale della Cina in primis, verso cui Obama ha sempre adottato una politica distensiva e anche di Turchia e Russia, che proprio grazie alla “morbida” politica estera Usa sotto Obama hanno potuto allargare la loro influenza strategica sullo scacchiere geopolitico internazionale.
    Trump ha solo reso esplicito quello che Obama invece ha cercato di fare in maniera un po più surrettizia. Gli Stati Uniti hanno capito di non poter più sostenere il peso sia economico che politico di controllori degli equilibri geopolitici. Il cittadino medio americano non sopporta più che vengano privilegiate questioni di politica estera ben lontane dagli interessi legati alla economia al welfare alla sicurezza nazionale. La lotta la terrorismo non basta più per giustificare un simile gravoso impegno.
    L’Afghanistan è nata proprio a questo fine sulla scorta della grande spinta emotiva determinata dai drammatici  attacchi terroristici del 11 Settembre, ma aveva come fine principale quello di dare la caccia a chi questo attentato aveva preparato e finanziato Osama Bin Laden. L ‘Europa non ha potuto fare altro che allinearsi al volere del potente alleato atlantico, anche se vi erano stati alcuni distinguo all’epoca, anche da parte italiana. La gestione di questi venti anni di occupazione dell Afghanistan ha mostrato la sostanziale debolezza dei paesi europei sul piano organizzativo decisionale e politico. Basti pensare al fatto che i paesi europei impegnati militarmente in Afghanistan non siano stati in grado di evacuare i propri cittadini da Kabul, da soli o in uno sforzo coordinato dell’UE, senza l’assistenza degli Stati Uniti. Questo fatto da solo dimostra ulteriormente quale sia lo stato effettivo  delle capacità militari collettive dell’Europa
    Questo anche perché l’Europa nel conflitto ha sempre avuto un ruolo tutto sommato marginale e di appoggio a decisioni e strategie pensate a Washington. Malgrado ciò non si può non elogiare il lavoro svolto dai militari impegnati sul campo, a cominciare proprio da quello fatto dal contingente  italiano ad Herat.
    La terribile e disastrosa fine del conflitto con il ritiro unilaterale degli Usa, dopo i discutibili accordi di Doha, a cui gli europei nemmeno hanno partecipato, ha mostrato come sia necessaria che l Europa abbia finalmente una politica estera comune, che possa incidere sui principali teatri geopolitici in cui invece essa è sempre più marginale.
    Questo poi può rappresentare  il viatico per la costituzione di una sorta di esercito comune, che sia in grado di intervenire nei casi di crisi come quelli recentemente accaduti in Tunisia e Libia. In assenza di ciò potenze come Turchia e Russia potranno avere buon gioco nell’allargare la loro sfera di influenza anche in zone storicamente e geograficamente di primario interesse per l Europa. Il tempo delle scelte solitarie e non condivise è ormai antistorico e improduttivo, serve una chiara e definita azione comune che dia un senso ad una Europa sempre più ai margini del nuovo ordine mondiale.

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