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    La svolta militarista in Scandinavia: la minaccia russa spinge le neutrali Svezia e Finlandia verso l’adesione alla NATO

    Bruxelles – Forse solo Vladimir Putin poteva riuscire nell’impresa di spingere Svezia e Finlandia sulla strada dell’adesione all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). L’aggressione militare della Russia ai danni dell’Ucraina ha provocato uno tsunami politico nei due Paesi, che per la prima volta dal secondo dopoguerra a oggi sono pronti ad abbandonare la tradizionale neutralità per confluire sotto l’ombrello di assistenza militare reciproca garantito dall’Alleanza.
    Da sinistra: la prima ministra della Svezia, Magdalena Andersson, e della Finlandia, Sanna Marin (Stoccolma, 13 aprile 2022)
    “La Finlandia deciderà entro poche settimane“, ha annunciato oggi (mercoledì 13 aprile) la premier, Sanna Marin, durante la conferenza stampa congiunta con l’omologa svedese, Magdalena Andersson, a Stoccolma. Proprio oggi è stato pubblicato il rapporto strategico sulla sicurezza della Finlandia – preambolo della posizione a favore dell’ingresso nella NATO – che il governo ha presentato all’Eduskunta (il Parlamento monocamerale) per il confronto tra forze politiche. Se emergerà una chiara maggioranza a favore dell’adesione all’Alleanza, Helsinki potrebbe presentare domanda già entro la metà di maggio, per ambire all’adesione un mese dopo, durante Summit di Madrid (29-30 giugno).
    Ma il governo Marin spinge perché la strada dell’ingresso nella NATO della Finlandia sia condivisa con le stesse tempistiche anche dalla Svezia. A inizio settimana, il ministro degli Esteri finlandese, Pekka Haavisto, aveva sottolineato a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo che “è importante che Stoccolma segua un processo simile“, anche grazie al “continuo scambio di informazioni” che rende più probabile “prendere decisioni condivise nello stesso momento”. Nel corso della conferenza stampa di oggi a Stoccolma, la premier Andersson ha mostrato evidenti segnali di apertura: nonostante sia necessario “soppesare con molta attenzione tutti i pro e i contro”, la leader dell’esecutivo svedese ha sottolineato che “non vedo alcun motivo per rinviare la decisione“. In ogni caso, la premier ha confermato che “per la Svezia sarà importante la scelta della Finlandia sulla NATO: un cambio di rotta ovviamente ci influenzerà”.
    Finlandia e Svezia hanno perseguito per decenni le proprie politiche di non allineamento militare e fino allo scoppio della guerra in Ucraina sembrava tutt’altro che verosimile che potessero metterle in discussione. Solo sette settimane fa la possibilità di adesione alla NATO non era nemmeno in discussione, nonostante i due Paesi siano strettamente coinvolti in qualità di partner nel confronto sulla sicurezza dell’Alleanza. L’aggressione militare del Cremlino alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina ha fatto cambiare idea all’opinione pubblica finlandese e svedese, che ora sembra propendere verso l’integrazione nella NATO. La Finlandia condivide con la Russia un confine lungo 1.340 chilometri e nella sua storia ha già subito un’invasione (nel 1939), mentre le tensioni tra Mosca e Stoccolma si sono acuite negli ultimi anni, in particolare per le manovre militari del Cremlino nel Mar Baltico, attorno all’isola di Gotland (a metà strada tra la capitale svedese e l’enclave russa di Kaliningrad).
    Da Mosca sono già arrivate minacce all’indirizzo dei due Paesi scandinavi. “La NATO non è un’Alleanza che fornisce pace e un’ulteriore espansione non porterà più stabilità nel continente europeo“, ha avvertito in modo sibillino il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, facendo presagire “conseguenze” in caso di adesione da parte di Svezia e Finlandia. È opportuno sottolineare che un’eventuale decisione in questo senso – come per qualsiasi altro Paese libero e sovrano anche nelle scelte sulla propria sicurezza nazionale – sarà discussa nelle opportune sedi istituzionali e potrebbe anche passare da un referendum popolare (non obbligatorio né vincolante).
    Alla riunione del Consiglio Atlantico di una settimana fa, il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha ribadito che l’Alleanza accoglierebbe a braccia aperte Svezia e Finlandia se decidessero di trasformare la propria cooperazione rafforzata in un’adesione formale: “Spetta a loro decidere, naturalmente. Ma se fanno domanda, mi aspetto che i 30 alleati li accetteranno“.

    L’aggressione dell’Ucraina sta avendo un effetto non calcolato da parte del Cremlino: per la prima volta i due Paesi potrebbero decidere di iniziare il processo per entrare nell’Alleanza Atlantica. Lo hanno confermato le rispettive prime ministre, Magdalena Andersson e Sanna Marin

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    La timida fuga dei colossi aziendali italiani dalla Russia: la metà prende tempo o non rinuncia ancora agli affari

    Bruxelles – Una ritirata scoordinata, con tanti che restano, alcuni che temporeggiano e altri ancora che – ognuno a proprio modo – fanno le valigie. Le grandi aziende italiane (ma anche globali) stanno mettendo in luce diverse strategie di approccio alla risposta dura dell’Unione Europea e dei 40 partner in tutto il mondo all’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina. È quanto emerge dallo studio della Yale School of Management, che ha affinato la ricerca su oltre mille aziende internazionali e la loro risposta all’aggressione militare russa e al regime di misure restrittive messo in atto dall’Occidente.
    Come già era emerso un mese fa, quando lo studio era stato pubblicato nella sua prima versione, non esiste un approccio coordinato da parte delle aziende, anche perché la decisione di abbandonare il Paese avviene per motivi morali, economici o politici, ma non strettamente legali. È per questo motivo che oltre 600 multinazionali hanno già preso la decisione di fare un passo indietro – ritirandosi, sospendendo o riducendo le attività – ma ancora molte non rinunciano a fare affari in Russia, in particolare quelle cinesi (in tre casi su quattro), o cercano di prendere tempo per capire in che direzione proseguirà la guerra e come indirizzare gli investimenti futuri.

    In questo discorso rientrano in pieno anche le aziende italiane, che dimostrano un tasso limitato di disimpegno dalle operazioni industriali e commerciali in Russia. Su 27 gruppi industriali, quasi un terzo ha deciso di rimanere nel Paese, a causa di “un’esposizione significativa” al mercato russo e al rischio sia di andare incontro a ingenti perdite di fatturato, sia di esporsi a grosse incognite di approvvigionamento di materie prime. In questa categoria rientrano soprattutto i gruppi industriali dell’abbigliamento e calzaturieri come Calzedonia, Zegna Group e Geox, ma anche quelli del settore alimentare, come Cremonini Group e De Cecco. Spiccano anche l’istituto bancario UniCredit, oltre alla casa farmaceutica Menarini Group e all’impresa multinazionale attiva nella produzione di cemento e calcestruzzo Buzzi Unichem.
    Cinque gruppi aziendali cercano di prendere tempo, rimandando i futuri investimenti pianificati e contemporaneamente continuando a fare affari “sostanziali”. Non è un caso se in questa categoria compare anche il colosso alimentare Barilla (per la stessa questione dell’approvvigionamento di grano dalla Russia, che insieme all’Ucraina rappresenta il 30 per cento del commercio mondiale), oltre a Campari. A trovarsi in una posizione scomoda anche i giganti del settore energetico, come Saipem e Maire Tecnimont, così come dei piccoli elettrodomestici, come Delonghi, e Intesa Sanpaolo.
    Sulle 27 grandi aziende italiane individuate dallo studio della Yale School of Management, meno della metà (13) ha deciso di intraprendere un’azione di smarcamento dal mercato della Russia, a diversi livelli. Assicurazioni Generali, ENI, Ferragamo e YOOX (moda) hanno interrotto gli impegni commerciali o industriali e si sono ritirati definitamente dal Paese. Altri gruppi, come CNH Industrial (macchine per agricoltura e costruzioni), Ferrari, Leonardo, Moncler e Prada, hanno invece deciso di sospendere temporaneamente la maggior parte delle operazioni, mantenendo aperte le opzioni di ritorno. Infine, un’altra categoria di imprese ha ridotto le operazioni, ridimensionando alcuni ambiti in modo “significativo” e proseguendone altri: sono Enel, Ferrero, Iveco e Pirelli.

    Da Calzedonia a De Cecco, Geox, Intesa e UniCredit: uno studio della Yale School of Management ha individuato 8 aziende italiane (su 27) che sono rimaste nel Paese nonostante le sanzioni UE. Altre 6 posticipano a data da destinarsi i nuovi investimenti (anche Barilla, Campari e Delonghi)

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    La NATO avverte sul rischio di una guerra lunga “mesi, se non anni” in Ucraina: “Rafforzeremo gli aiuti militari a Kiev”

    Strasburgo, dall’inviato – Che non si parli di ritirata in Ucraina da parte dell’esercito russo, ma piuttosto di “riorganizzazione strategica”. A lanciare il monito sugli sviluppi sul campo di battaglia è il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), Jens Stoltenberg, al termine della due-giorni di vertice dei ministri degli Esteri dell’Alleanza (6-7 aprile). “Ci aspettiamo una grande offensiva nel Donbass, per questo c’è urgenza di un sostegno a livello militare e di continuare sulla strada delle sanzioni”, ha aggiunto il segretario generale della NATO, avvertendo che la guerra in Ucraina “può durare settimane o mesi, se non addirittura anni”.
    Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg
    Il messaggio principale che dal Consiglio Atlantico è il rafforzamento del supporto armato a Kiev da parte dei partner occidentali. “Stiamo dando armi a un Paese che si sta difendendo da un’aggressione”, ha precisato Stoltenberg, anche se non si è è voluto troppo esporre sul tipo di equipaggiamento che verrà fornito all’esercito ucraino: “Non posso entrare nello specifico per ragioni operative, ma la divisione tra armi offensive e armi difensive ha poco senso, visto che il Paese ha il diritto di difendersi da un’aggressione”. Un’ambiguità che va incontro al messaggio forte inviato questa mattina dal ministro degli Esteri dell’Ucraina, Dmytro Kuleba, ospite a Bruxelles della riunione ministeriale: “Ho tre richieste per il Consiglio Atlantico: contro la guerra, armi, armi, armi“.
    Il segretario generale Stoltenberg ha sottolineato in conferenza stampa che “è visibile l’impatto del nostro sostegno sul campo, considerato il fatto che dopo l’invasione del Paese voluta dal Cremlino l’esercito ucraino ha inflitto perdite consistenti a quello russo“. Decisivo il via libera all’invio di più armi a Kiev deciso al vertice dei leader dello scorso 24 marzo. Ma sulle nuove decisioni dell’Alleanza influisce anche la scoperta dei massacri commessi dai soldati russi a Bucha e Irpin’, a cui i ministri degli Affari esteri hanno deciso di rispondere con un “supporto alle indagini internazionali“, perché “tutti i fatti devono essere stabiliti e i responsabili portati davanti alla giustizia”, ha attaccato Stoltenberg. Da parte della NATO è arrivato anche un messaggio di apprezzamento alle nuove sanzioni contro la Russia da parte degli alleati: “Sono senza precedenti e stanno danneggiando la macchina da guerra di Vladimir Putin in Ucraina”.

    Alla riunione del Consiglio Atlantico i ministri degli Esteri dell’Alleanza hanno deciso di fornire più supporto militare per respingere l’esercito di occupazione russo. Stoltenberg: “Ci aspettiamo una grande offensiva di Mosca nel Donbass”

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    L’UE in pressing sulla Serbia: “Si allinei alle sanzioni contro la Russia e si impegni sul rispetto dello Stato di diritto”

    Bruxelles – Si riparte, ancora, da Aleksandar Vučić e dal suo rapporto ambiguo con Vladimir Putin. Dopo il trionfo alle elezioni di domenica (3 aprile) da parte del suo Partito Progressista Serbo, Bruxelles torna a pressare Belgrado per un maggiore allineamento della Serbia a livello di politica estera con l’Unione – in quanto Paese candidato all’adesione – e soprattutto perché cambi la sua posizione sulle sanzioni contro la Russia. La volontà del presidente Vučić di rimanere “neutrale” rispetto al campo occidentale, nel quale comunque sta cercando di entrare, e al Cremlino, tradizionale alleato politico e partner commerciale, nasconde tutta l’ambiguità di una scelta che sta creando non pochi problemi all’UE per il possibile aggiramento delle misure restrittive.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić
    Proprio in virtù dell’aggressione militare russa “non provocata e ingiustificata” contro la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, “ci aspettiamo che la Serbia, come Paese che sta negoziando la sua adesione all’UE, si allinei progressivamente alle nostre posizioni, comprese le dichiarazioni e le misure restrittive, in linea con il quadro negoziale”, hanno dichiarato in una nota l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. I Ventisette sono “il principale partner politico e, di gran lunga, economico della Serbia” ed è per questo che la condivisione dei pacchetti di sanzioni contro la Russia dovrebbe essere la naturale conseguenza dell’impegno dell’Unione nel Paese: “Continuiamo a sostenere la ripresa economica, l’energia, la sicurezza alimentare”, anche attraverso il Piano economico e di investimento per i Balcani occidentali.
    Oltre all’allineamento sulle sanzioni, c’è bisogno anche di un maggiore impegno della Serbia sul rispetto dello Stato di diritto, a partire dal risultato delle elezioni di domenica. “Il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche è un pilastro centrale del processo di adesione all’UE”, hanno ricordato Borrell e Várhelyi, puntualizzando che “una serie di carenze hanno portato a una competizione ineguale” alla vigilia del voto, come fatto notare dagli eurodeputati dopo la missione di osservazione elettorale in Serbia. “Incoraggiamo il nuovo Parlamento e la leadership politica a continuare a lavorare per un dialogo autentico e costruttivo in tutto lo spettro politico”, con l’obiettivo di arrivare a “un ampio consenso interpartitico sulle riforme“, necessario per il cammino verso l’UE: indipendenza del sistema giudiziario, lotta alla corruzione e al crimine organizzato, libertà di stampa e condanna senza eccezione dei crimini di guerra. Un riferimento particolare anche alla normalizzazione delle relazioni con il Kosovo attraverso il dialogo mediato dall’UE, “che determina il ritmo generale” dei negoziati di adesione all’UE di entrambe le parti.
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e l’autocrate russo, Vladimir Putin
    Ma nello stesso momento in cui Bruxelles chiede alla Serbia di allinearsi alle sanzioni contro la Russia, proprio da Mosca arrivano le congratulazioni di Putin a Vučić per la sua “convincente vittoria” alle elezioni presidenziali. Come riportato dall’agenzia di stampa russa Tass, in un telegramma l’autocrate russo ha invitato il presidente serbo a “rafforzare la partnership strategica” tra i due Paesi, dimostrando quanto la politica di Vučić sia più vicina al Cremlino di quanto le sue dichiarazioni di “neutralità” vogliano far sembrare.

    Dopo l’esito delle elezioni di domenica 3 aprile, che hanno sancito il triplice trionfo del partito al potere, la Commissione Europea ha chiesto a Belgrado di “avvicinarsi alle posizioni dell’Unione” e prendere le distanze da Putin (che si è congratulato per la vittoria del presidente Vučić)

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    Metsola vuole una risposta dura dall’UE ai crimini di guerra russi in Ucraina: “Embargo energetico e sanzioni forti”

    Strasburgo, dall’inviato – Di tolleranza verso il Cremlino ne era rimasta poca, ma i fatti di Bucha e Irpin’ l’hanno spezzata via completamente. “Le atrocità commesse dall’esercito della Russia sono orribili, disonorevoli e vergognose, ma la realtà è che queste immagini sono le stesse di altre città dell’Ucraina”, ha denunciato con forza la presidente del Parlamento UE, Roberta Metsola, aprendo la sessione plenaria dell’Eurocamera di ritorno dal viaggio a Kiev. “Questi sono crimini di guerra perpetrati da criminali di guerra e non possono rimanere senza risposta”, ha aggiunto Metsola, invitando i Ventisette ad “accelerare una politica di dipendenza zero dal Cremlino“.
    La presidente del Parlamento UE, Roberta Metsola, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, a Kiev (primo aprile 2022)
    In sostanza, la presidente Metsola ha chiesto di “sganciare l’Europa dalle forniture energetiche russe” e nello specifico di “attuare embarghi vincolanti” al gas e al petrolio che arriva dal territorio della Russia, smettendo così di finanziare “indirettamente” le bombe sull’Ucraina. Si spiega così l’invito agli eurodeputati di tutti gli schieramenti politici di stimolare i rispettivi governi nazionali ad allinearsi a una politica di sanzioni che coinvolga anche il settore energetico: “Dobbiamo intensificare la nostra strategia per rendere questa invasione illegale l’errore più costoso che il Cremlino abbia mai fatto”, ha incalzato Metsola, mettendo in chiaro che “il colpo all’economia della Russia deve essere proporzionato alle atrocità senza precedenti a cui stiamo assistendo”. Con un messaggio rivolto a tutte le imprese UE: “Devono cercare altrove la crescita, e noi le sosterremo nel farlo“.
    Spiegando la sua decisione di recarsi in visita di persona a Kiev lo scorso fine settimana, la presidente del Parlamento UE ha riconosciuto la “difficoltà” del viaggio, ma ha anche sottolineato che “portare il nostro messaggio e mostrare che siamo al loro fianco in questi tempi bui” è stato “significativo per coloro che combattono”. Metsola ha ricordato che “gli ucraini stanno combattendo per i nostri valori, nelle condizioni più impossibili” e il dovere dell’Unione è “sostenerli concretamente”. Questo significa, in primis, l’adozione “immediata” di un nuovo pacchetto di sanzioni forti, che chiudano “tutte le scappatoie ancora esistenti”. In secondo luogo, “offrire più sostegno all’Ucraina a livello logistico, umanitario e di attrezzature militari di cui hanno disperatamente bisogno”, ha aggiunto la presidente Metsola, prima di chiedere a tutta la plenaria un minuto di silenzio in memoria dei civili uccisi a Bucha e Irpin’ e per “tutte le vittime della guerra, del terrore e della violenza” causata dall’esercito russo nei territori occupati.

    Di ritorno dal suo viaggio a Kiev, la numero uno del Parlamento Europeo ha aperto la sessione plenaria con l’invito a rispondere alle atrocità compiute dal Cremlino a Bucha e nei territori occupati: “Serve una politica di zero dipendenza da Mosca, per non finanziare le bombe russe”

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    Il vento nazionalista soffia ancora in Ungheria e Serbia: Orbán e Vučić stravincono le elezioni (tra le polemiche)

    Strasburgo, dall’inviato – Dentro e appena fuori i confini dell’UE, là dove l’Unione sta spingendo il processo di allargamento, non si è placato il vento dei populismi di destra, i più vicini alla Russia di Vladimir Putin. L’intensa domenica di elezioni (3 aprile) in Ungheria e Serbia ha sancito il trionfo rispettivamente del premier Viktor Orbán e del presidente Aleksandar Vučić, i due leader che stanno costruendo una forte alleanza nazionalista sull’asse Budapest-Belgrado, non completamente allineata alla politica di Bruxelles nei confronti della Russia. Due tornate elettorali particolarmente intense alla vigilia – per le aspettative di un cambiamento al vertice dei due Paesi – ma anche dopo la chiusura dei seggi, a causa delle grosse polemiche sul processo di voto e delle rivendicazioni di vittoria delle elezioni, sia in Ungheria sia in Serbia.
    Qui Budapest
    Niente da fare per l’opposizione unita guidata da Péter Márki-Zay. Nonostante il testa a testa previsto alla vigilia del voto, il partito Fidesz del premier Orbán ha conquistato il 53,13 per cento dei voti alle elezioni parlamentari, migliorando di quattro punti percentuali il risultato di quattro anni fa e assicurandosi nuovamente la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea nazionale (135 seggi su 199). Con il 98,96 per cento delle schede scrutinate, la commissione elettorale ungherese ha confermato il nuovo trionfo dell’uomo forte di Budapest, che ora riceverà il quarto mandato consecutivo per formare l’esecutivo (al potere ininterrottamente dal 29 maggio 2010).
    Alta l’affluenza, al 69,54 per cento – in leggera flessione rispetto alle elezioni del 2018 (70,22) – che però non ha premiato l’opposizione formata dai sei partiti guidati dall’economista conservatore Márki-Zay (socialisti, verdi, liberali, progressisti e conservatori): nel sistema elettorale che assegna 106 seggi ai collegi uninominali, la coalizione ne ha conquistati 56, fermandosi al 35,04 per cento dei voti. A superare la soglia di sbarramento al 5 per cento anche i nazionalisti di estrema destra del Movimento Nostra Patria (6,17 punti percentuali, per 7 deputati), più il seggio garantito alla minoranza tedesca.

    Hungary, national parliament election:
    With 99% counted, the right-wing Fidesz/KDNP (NI|EPP) alliance of Prime Minister Viktor Orbán wins a 2/3-parliamentary majority for the 3rd time in a row.
    The right-wing extremist Mi Hazánk (~NI) enters parliament for the 1st time. #Ungarn pic.twitter.com/kRkvIvJWyz
    — Europe Elects (@EuropeElects) April 4, 2022

    “Abbiamo ottenuto una vittoria così grande che può essere vista anche dalla luna, e sicuramente da Bruxelles”, ha esultato il premier Orbán, polemizzando contro “la più grande forza che ha provato a schiacciarci” prima del voto: “Contro il globalismo, contro i burocrati di Bruxelles, contro Soros, contro i media mainstream europei e anche contro il presidente ucraino”, Volodymyr Zelensky, in riferimento ai rimproveri rivoltigli durante l’ultimo Consiglio Europeo. La prima dichiarazione populista del premier ungherese è servita e porta con sé una nota sinistra sui rapporti con Kiev e soprattutto con Putin, tradizionale alleato di Orbán. Dopo aver tenuto un profilo basso nell’ultimo mese di campagna elettorale, che è coinciso con l’inizio della campagna militare russa in Ucraina, ora da Budapest potrebbero arrivare picconate all’unanimità sempre raggiunta tra i leader UE sulle sanzioni e sulla lotta senza quartiere a Mosca. “Fidesz rappresenta una forza conservatrice patriottica e cristiana, è il futuro dell’Europa. Prima l’Ungheria!”, ha concluso il suo messaggio post-voto Orbán, facendo capire con quale spirito tornerà ad approcciarsi a Bruxelles.
    Il premier ungherese ha però taciuto la sconfitta personale arrivata dal referendum sulla legge anti-LGBT+, che si è tenuto sempre ieri contemporaneamente alle elezioni parlamentari. Solo il 44,46 per cento degli elettori ha espresso un voto valido, non raggiungendo il quorum richiesto per avallare la proposta legislativa del governo. Un’altra criticità ha riguardato lo svolgimento del processo elettorale, reso opaco dalle modifiche alla legge elettorale, dalle regole di registrazione degli indirizzi, dai problemi di trasparenza dei finanziamenti della campagna e dall’influenza del partito al potere sui media. Riconoscendo la sconfitta “in questo sistema”, il candidato premier dell’opposizione Márki-Zay ha ribadito che “è la propaganda ad aver vinto queste elezioni, non l’onestà, abbiamo fatto tutto quello che potevamo”.

    Hungary: national referendum today:
    “Do you support the teaching of sexual orientation to minors in public education institutions without parental consent?”
    Vote among all eligible voters
    No: 41%Yes: 3%
    Threshold to meet: 50%+ of eligible voters voting either ‘yes’ or ‘no’ pic.twitter.com/7P2F20ABIk
    — Europe Elects (@EuropeElects) April 4, 2022

    Qui Belgrado
    Contemporaneamente alle elezioni in Ungheria, anche per la Serbia il 3 aprile 2022 segna una data-chiave per la riaffermazione delle forze nazionaliste legate alla Russia di Putin. Con il 90 per cento delle schede scrutinate, il presidente Vučić è proiettato alla seconda vittoria consecutiva al primo turno delle presidenziali, con il 59,55 per cento dei voti, mentre il principale candidato dell’opposizione unita, Zdravko Ponoš, si ferma al 17. Per quanto riguarda le elezioni parlamentari, il Partito Progressista Serbo di Vučić si attesta al 43,45 per cento dei voti, assicurandosi 122 deputati sui 250 dell’Assemblea nazionale: lontano il cartello di opposizione Serbia Unita, con 13 punti percentuali e 36 seggi. Sembrano tramontare anche le possibilità per l’opposizione di strappare dalle mani dei nazionalisti la capitale Belgrado: il candidato dell’SNS, Aleksandar Šapić, si sta affermando con quasi il 40 per cento delle preferenze, mentre quelli dell’opposizione Serbia Unita, Vladeta Janković, e del movimento della sinistra ecologista Moramo, Dobrica Veselinović, rispettivamente al 20 e al 10 per cento.
    Nel mezzo di un processo elettorale su cui si attende il giudizio degli osservatori internazionali anche del Parlamento Europeo per le sospette irregolarità di voto e le violenze contro i candidati dell’opposizione al Partito Progressista Serbo fuori da alcuni seggi, l’UE guarda con preoccupazione alle dichiarazioni del presidente Vučić, che ieri sera si è attribuito la vittoria dalla sede dell’SNS. “Quello che è importante per europei, russi e americani è che proseguiremo nella nostra politica di neutralità“, ha affermato, confermando che Belgrado manterrà buoni rapporti con la Russia e, implicitamente, non aderirà alle sanzioni occidentali. “Dobbiamo vedere cosa fare sul petrolio e ci saranno colloqui sul gas” russo, ha aggiunto Vučić, ribadendo con forza che “questa crisi ha scosso economie molto più forti della nostra, ma noi siamo completamente stabili”.

    Serbia (Presidential Election), 88.7% parallel count:
    Vučić (SNS+-EPP): 59% (+4)Ponoš (US-S&D): 18% (+2)Jovanović (NADA-*): 6% (+1)…
    Source: CeSID / Ipsos
    +/- vs. 2017 election result
    ➤ https://t.co/eWnraQ39P8#Izbori2022 #Srbija #Serbia #SerbiaElections pic.twitter.com/IXba6uQHet
    — Europe Elects (@EuropeElects) April 3, 2022

    I due più stretti alleati di Putin in Europa, il premier ungherese e il presidente serbo, sono stati riconfermati con un’ampia maggioranza dai rispettivi elettorati. Contestazioni sul processo elettorale e sullo svolgimento del voto, oltre alle provocazioni rivolte all’UE

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    I Paesi UE cercano una risposta coordinata alle minacce di Putin sul gas

    Bruxelles – Unità. È quella che cercano Stati membri e Commissione Europea per rispondere alle pressioni della Russia sul gas, dopo la decisione di giovedì del presidente Vladimir Putin di obbligare tutti i “Paesi ostili” a Mosca (quindi, tutti i Paesi occidentali) a pagare le forniture di gas nella valuta locale. Non facendoli pagare direttamente in rubli quanto obbligando la banca di stato Gazprombank a convertire i pagamenti in euro o in dollari.
    La reazione dell’UE è stata compatta nel condannare l’ultimatum del Cremlino, ma ancora non è chiaro come e in che termini i governi si adegueranno alle condizioni poste da Putin. La Commissione sta lavorando per coordinare una posizione comune europea a quello che considera un bluff da parte di Putin, tanto che già venerdì il Cremlino ha fatto sapere che non ha intenzione di interrompere immediatamente le esportazioni di gas in Europa. L’Unione europea dipende dal gas russo per il 40 per cento del suo mix energetico totale, ma questo rende l’Europa anche il principale acquirente del gas di Mosca che quindi avrebbe non poche ripercussioni economiche tagliando completamente le esportazioni.
    “Lavoriamo a stretto contatto con gli Stati membri e gli operatori” dell’energia per definire un “approccio comune sui pagamenti in valuta per i contratti di gas con la Russia”, ha riferito venerdì Ditte Juul Jorgensen, direttore generale della DG Energia della Commissione Europea, anticipando le informazioni su un confronto tra governi e operatori di settore sulla questione, anche se l’Esecutivo europeo non ha voluto fornire ulteriori dettagli.

    Our unity is our strength 🇪🇺Working closely with Member States and operators. EU coordination today to establish a common approach on currency payments for gas contracts with Russia @Energy4Europe
    — Ditte Juul Jorgensen (@JorgensenJuul) April 1, 2022

    I Paesi del G7, compresa l’Unione Europea, hanno respinto ormai una settimana fa la possibilità di pagare in rubli il gas, appellandosi principalmente al fatto che i contratti in essere con la compagnia energetica russa Gazprom prevedono espressamente il pagamento delle forniture in euro o in dollari. A Bruxelles si discute piuttosto di come prepararsi a dover tagliare le forniture, come è in discussione anche un quinto pacchetto di sanzioni contro la Russia con l’ipotesi sempre presente di introdurre un divieto sulle importazioni di energia russa, su cui i governi sono molto divisi.

    Da quando l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe di Mosca è iniziata lo scorso 24 febbraio, i governi europei stanno mettendo a punto dei piani di emergenza in caso di interruzione completa delle forniture da parte di Mosca, volontaria o forzata. Il “come” farlo è stato lasciato completamente nelle mani dei governi, sotto la supervisione di Bruxelles, tra l’idea di prolungare l’impiego del carbone o delle centrali nucleari per aggirare il ruolo del gas naturale nella transizione verso le rinnovabili, per ridurne l’impiego e quindi la dipendenza da terzi. Ogni Stato membro ha un mix energetico diverso, c’è chi come l’Italia e la Germania usa più gas di altri, e quindi anche l’impatto in caso di tagli alle forniture da parte di Mosca sarebbe sostanzialmente diverso. Proprio Berlino, tra i Paesi più dipendenti dal gas russo, ha fatto sapere di aver già attivato un piano di emergenza con l’idea di arrivare a un razionamento del gas se le forniture dovessero diventare scarse.

    Confronto a Bruxelles tra Commissione, Stati e operatori dell’energia sulla richiesta del presidente russo di far pagare in rubli il gas all’Europa, attraverso un meccanismo di conversione attraverso la banca di stato. Si cerca un approccio comune, mentre i governi si preparano in caso di tagli alle forniture

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    Putin firma il decreto per il pagamento in rubli del gas, ma per i Paesi UE non cambierà molto

    Bruxelles – Dopo aver a più riprese minacciato di farlo, il presidente russo Vladimir Putin ha firmato oggi (31 marzo) infine il decreto per cambiare le regole sui pagamenti delle forniture di gas ai “Paesi ostili” alla Russia (ovvero tutti i Paesi occidentali) che di fatto non li obbliga a pagare direttamente in rubli il gas, ma obbliga la banca di stato Gazprombank a convertire in rubli tutti i pagamenti effettuati in euro e in dollari a partire da domani. E’ una cosa sostanzialmente diversa, anche se i Paesi occidentali saranno obbligati ad aprire dei conti in Gazprombank per consentire la conversione dei pagamenti in rubli ma dal punto di vista dei pagamenti per gli europei non cambierà molto.
    I dettagli di questa operazione sono stati forniti questo pomeriggio dal ​​portavoce del Cremlino Dmitry Peskov che ha riferito ai giornalisti. In sostanza, dal primo aprile i Paesi che comprano il gas dalla Russia dovranno avere un doppio conto aperto presso Gazprombank: dovranno trasferire il pagamento con la propria moneta sul primo conto, chiamato “K”, ma sarà poi Gazprombank a convertire i pagamenti in valuta straniera in rubli e trasferirli sul secondo conto. “Per quelli che ricevono gas russo e che pagano per le forniture non ci saranno cambiamenti”, ha precisato Peskov, il portavoce del Cremlino, mettendo in chiaro dunque che in questo modo non ci sarà neppure una violazione dei contratti in essere per le forniture di gas, che prevedono espressamente il pagamento in euro o dollari. Ha aggiunto che Putin e il cancelliere tedesco Olaf Scholz avevano discusso in dettaglio il sistema ieri, la stessa conversazione che poi ha avuto con il premier italiano Mario Draghi.
    Si tratta comunque di una misura eccezionale, una risposta di Mosca alla sfilza di sanzioni varate dall’UE nelle scorse settimane dopo l’invasione dell’Ucraina iniziata lo scorso 24 febbraio. Putin è ricorso infine all’arma più potente che ha contro i governi dell’Occidente che impongono sanzioni alle sue banche, alle società e ai suoi uomini, per frenarne la furia: li ricatta con le proprie esportazioni di energia, minacciando in questo modo di ridurre le forniture di cui l’UE è dipendente per circa un quarto del proprio mix energetico. Chi più e chi meno, i governi europei importano da Mosca complessivamente circa il 40 per cento del proprio gas.
    Il capo del Cremlino parlava da qualche giorno della possibilità di rendere obbligatoria la conversione dei pagamenti per il gas – fatti in euro o in dollari, come previsto dai contratti – in rubli, attraverso il coinvolgimento della banca statale Gazprombank, con cui si effettuano anche adesso i trasferimenti di soldi per il gas. I Paesi del G7, compresa l’Unione Europea, hanno subito respinto questa possibilità, appellandosi principalmente al fatto che i contratti in essere con la compagnia energetica russa Gazprom prevedono espressamente il pagamento delle forniture di gas in euro o in dollari. I “contratti devono essere rispettati e i contratti dicono in modo esplicito che il pagamento del gas deve essere in euro o in dollari”, hanno ribadito solo ieri i portavoce del Berlaymont.
    Difficile se non impossibile pensare che si possano modificare i termini di contratti a lungo termine già in essere e secondo molti osservatori l’annuncio, come la decisione presa oggi, è più che altro il tentativo di Putin di salvare l’economia russa e rivalutare il rublo, colpito dalle sanzioni occidentali per la guerra in Ucraina. Una tesi che si avvalora dal fatto che il decreto varato dal Cremlino, come riporta l’agenzia stampa russa Tass, prevede anche la possibilità che alcuni pagamenti di gas da parte degli acquirenti stranieri possano non essere effettuati in rubli, ma per questi casi sarà necessario un’autorizzazione che verrà emessa dalla Commissione governativa russa per il controllo degli investimenti stranieri. In altre parole significa che è la stessa Mosca che può decidere quando non applicare i termini di questo decreto. Anche un modo per lasciare aperto il canale delle forniture all’Europa, perché se è vero che l’UE oggi non può rinunciare al gas russo, è anche vero che per Mosca è il suo principale acquirente e dunque tagliare le forniture completamente potrebbe generare ulteriori perdite all’economia russa.
    Il cancelliere tedesco Scholz ha ribadito nel pomeriggio che i pagamenti per il gas russo verranno effettuati secondo i contratti esistenti. “È così, rimarrà così, e l’ho chiarito ieri nella mia conversazione con il presidente Putin”, ha detto su Twitter.

    Die Zahlung russischer #Gaslieferungen findet entsprechend der bestehenden Verträge in Euro und Dollar statt. Das ist so, das wird auch so bleiben, und das habe ich gestern in meinem Gespräch mit Präsident Putin auch deutlich gemacht.
    — Bundeskanzler Olaf Scholz (@Bundeskanzler) March 31, 2022

    Nel frattempo Berlino, come anche la Francia, si prepara a un piano di emergenza per limitare al minimo il ricorso al gas in arrivo da Mosca. A Bruxelles si parla di nuove sanzioni e come da settimane a questa parte sul tavolo ci sono anche i limiti sulle esportazioni di energia russa, compreso il gas, su cui i governi sono molto divisi. Per far cambiare idea ai contrari e prendere posizione agli indecisi, molto dipenderà anche da quanto Mosca si spingerà oltre sui pagamenti del gas in rubli.

    Firmato dal Cremlino il decreto per convertire in rubli i pagamenti in euro o dollari dei Paesi “ostili alla Russia”, in risposta alla raffica di sanzioni europee per l’aggressione in Ucraina. I Paesi occidentali dovranno avere dei conti in Gazprombank, ma sarà la banca statale di Mosca a prendersi carico della conversione