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    Viktor Orbán incassa l’appoggio di Trump in vista delle elezioni in Ungheria

    Bruxelles – A pochi mesi dalle elezioni parlamentari in Ungheria (previste nel mese di aprile), l’attuale premier, Viktor Orbán, riceve un sostegno da Oltreoceano che parla da sé: “È un leader forte e rispettato da tutti, ha il mio completo sostegno e la mia approvazione per la rielezione come primo ministro”, parola di Donald Trump, ex-presidente degli Stati Uniti e di nuovo al centro delle polemiche a Washington alla vigilia del primo anniversario dell’assalto al Campidoglio.
    Non che il sostegno di Trump possa in qualche modo influenzare le intenzioni di voto degli elettori in Ungheria, ma si tratta comunque di una conferma del lavoro di Orbán nel coltivare le relazioni con l’ala più populista e autoritaria del partito repubblicano. Il primo ministro ungherese ha appoggiato The Donald nella sua corsa alla Casa Bianca nel 2016 e di nuovo nel secondo tentativo nel 2020. Non è un caso se Orbán è stato l’unico leader UE a non ricevere l’invito dal presidente democratico, Joe Biden, al Summit per la democrazia di inizio dicembre, a causa dell’erosione degli standard democratici nel Paese.
    Per il premier ungherese è però arrivato il tempo di incassare il sostegno all’alleato statunitense. Nel mirino c’è la terza riconferma di fila a capo dell’esecutivo nel Paese, ma questa tornata elettorale è considerata la più combattuta e importante dell’ultimo decennio. A sfidare Orbán è scesa in campo tutta l’opposizione unita sotto il nome di Péter Márki-Zay, candidato-premier che ha promesso battaglia al “sistema criminale di Fidesz”. I sei partiti di opposizione (il Partito Socialista Ungherese, i verdi di Dialogo per l’Ungheria e di La politica può essere Diversa, la destra nazionalista di Jobbik, i progressisti di Coalizione Democratica e i liberali di Movimento Momentum) si sono accordati nell’organizzare le primarie per eleggere un unico candidato-premier e candidati comuni nei singoli distretti, presentando alla fine l’economista Márki-Zay come “un’alternativa credibile e pulita”.
    Nel suo endorsement a Orbán, Trump ha affermato che il premier “ha fatto un lavoro meraviglioso nel proteggere l’Ungheria, fermando l’immigrazione illegale e creando posti di lavoro, e dovrebbe poterlo continuare a fare anche dopo le prossime elezioni”. In realtà il governo ungherese è al centro di diverse polemiche, procedure d’infrazione e sentenze delle istituzioni comunitarie, tra cui sulle questioni della violazione delle procedure d’asilo, le leggi anti-LGBTI+ e il mancato rispetto dello Stato di diritto. “Probabilmente è come me, un po’ controverso, ma va bene così”, è stato il commento dell’ex-presidente statunitense Trump.

    Il premier ungherese, in corsa per il quarto mandato consecutivo, è stato definito dall’ex-presidente statunitense “un leader forte, che merita la rielezione”. Si accende la corsa contro lo sfidante Márki-Zay

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    COP26, Johnson: nuove tecnologie per dimezzare le emissioni di CO2 al 2030

    Bruxelles – ‘Ripulire’ i cinque principali settori ad alta impronta di carbonio, quelli che insieme contribuiscono al 50% delle emissioni globali di anidride carbonica, tra i principali fattori del surriscaldamento del pianeta. La comunità internazionale riunita a Glasgow per la conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP26) tenta di riscrivere le regole del gioco, con il Regno Unito che rivendica un ruolo guida in tal senso. Sul tavolo negoziale è arrivata la proposta per dimezzare le emissioni di CO2 a firma del primo ministro britannico Boris Johnson. Si tratta di un’agenda di contrasto ai cambiamenti climatici che passa per l’utilizzo di nuove soluzioni a basso impatto ambientale nei comparti energia, trasporto su strada, acciaio, idrogeno e agricoltura.
    Londra propone un piano internazionale per fornire tecnologia pulita e conveniente ovunque entro il 2030, sostenuta e sottoscritta da “oltre 40 leader mondiali”, fa sapere la delegazione britannica. Tra gli aderenti  Stati Uniti, India, UE, Cina, economie in via di sviluppo e alcuni dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, che insieme rappresentano oltre il 70 per cento dell’economia mondiale e di ogni regione .
    In base all’agenda Paesi e aziende si coordineranno per “accelerare drasticamente” lo sviluppo e l’impiego di nuovi modelli produttivi. Si punta ad energia pulita per tutti, al fine di soddisfare il proprio fabbisogno energetico in modo efficiente entro la fine del decennio. In secondo luogo i veicoli dovranno diventare “la nuova normalità”, accessibile in tutte le regioni. Ancora, nel settore siderurgico si vuole un uso efficiente e una produzione di acciaio a emissioni quasi zero. Cambiamenti anche per quanto riguarda l’idrogeno: si vuole quello rinnovabile a prezzi accessibili disponibile a livello globale. Infine si vuole un settore primario in grado di adattarsi alle sfide poste dai cambiamenti del clima.
    Tutto questo si traduce in iniziative internazionali per accelerare l’innovazione e ampliare le industrie verdi. Si tratta di in particolare di regole comuni internazionali, non solo per aree geografiche od organizzazioni. Il piano britannico suggerisce di “allineare politiche e standard”, e apre a cooperazione internazionale nel settore della ricerca industriale attraverso maggiori “sforzi di ricerca e sviluppo”.
    Riuscire in questi cinque settori, stimano i britannici, potrebbe creare 20 milioni di nuovi posti di lavoro a livello globale e aggiungere oltre 16 trilioni di dollari (cioè 16 milioni di milioni) sia nelle economie emergenti che in quelle avanzate. 
    “Facendo della tecnologia pulita la scelta più conveniente, accessibile e attraente, il punto di partenza predefinito in quelli che sono attualmente i settori più inquinanti, possiamo ridurre le emissioni in tutto il mondo”, sostiene Johnson. Il premier britannico sostiene convintamente che i Glasgow Breakthroughs, nome dato da Londra alla sua proposta per dimezzare le emissioni di CO2, “daranno una spinta in avanti, in modo che entro il 2030 le tecnologie pulite possano essere godute ovunque, non solo riducendo le emissioni ma anche creando più posti di lavoro e maggiore prosperità”.

    Il premier vuole velocizzare lo sviluppo di tecnologia pulita nei comparti energia, trasporto su strada, acciaio, idrogeno e agricoltura. Fondamentali regole e alleanze internazionali

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    Afghanistan, UE discute con i talebani a Doha

    Bruxelles – A Bruxelles si affrettano a precisare che l’avvenimento “non è un riconoscimento” del governo provvisorio, ma a Doha, in Qatar, l‘UE discute con i talebani. Si tratta di “un incontro informale”, tenuto “a livello tecnico” con la mediazione dell’emirato del Golfo, e che serve a cercare accordi.
    Dopo la caduta del governo filo-occidentale e il ritorno al potere dei talebani, l’Aghanistan è diventato un vero e proprio rompicapo per diplomazia e non solo. Da una parte c’è la necessità di sminare una crisi migratoria, dall’altra parte la difficoltà nell’individuare un interlocutore. L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Josep Borrell, ha scelto la strada della realpolitik: occorre discutere con chi comanda.
    La linea dell’UE è quella del dialogo e dell’accordo, laddove possibile. Un riconoscimento comunque de facto, anche se per ora a Bruxelles lo smentisco. E’ vero, l’UE discute con i talebani ma lo fa a livello di “inviati speciali e rappresentanti per l’Afghanistan”.
    L’incontro-confronto non è un’iniziativa dell’Unione europea. Nella capitale del Qatar si trovano anche inviati speciali degli Stati Uniti. Le due delegazioni occidentali discutono sulla possibilità di garantire accesso umanitario nel Paese, favorire l’uscita dal Paese di chi lo desidera, evitare la proliferazione del terrorismo.
    Intanto la Commissione europea annuncia un pacchetto di aiuti da un miliardo di euro per l’Afghanistan e i Paesi vicini. “Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare un grave collasso umanitario e socioeconomico in Afghanistan”, sottolinea la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, piuttosto preoccupata. Con l’approssimarsi dell’inverno “l’assistenza umanitaria da sola non sarà sufficiente per evitare la carestia e una grave crisi umanitaria“.
    UE schierata con il popolo afghano, e allo stesso tempo contro chi lo comanda. “Il popolo afghano non dovrebbe pagare il prezzo delle azioni dei talebani”, aggiunge von der Leyen. Parole che dimostrano tutta la difficoltà dell’Unione europea a gestire il dossier afghano.

    Incontro informale e a livello tecnico in Qatar per garantire assistenza umanitaria. Con l’inviato speciale europeo anche uomini della missione degli Stati Uniti. Von der Leyen teme la carestia. “Pronto un miliardo di euro”

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    Gibilterra, UE pronta a negoziare le nuove relazioni post-Brexit

    Bruxelles – Adesso si può iniziare a dare forma al futuro di Gibilterra. Il Consiglio dell’UE ha deciso di avviare i negoziati col Regno Unito per definire le nuove relazioni con il possedimento britannico, al confine con la Spagna e incastonato tra frontiere UE terrestri e marittime. La decisione è arrivata in occasione della riunione dell’Ecofin. I ministri dell’Economia e delle Finanze dei Ventisette hanno approvato la proposta senza discussione. Un processo formale previsto dall’iter legislativo a dodici stelle.
    La decisione conferisce alla Commissione europea il mandato per avviare i negoziati con Londra. L’esecutivo comunitario aveva già rotto gli indugi presentando una sua propria strategia per il territorio d’oltre mare britannico, innescando uno scontro con Londra. L‘accordo commerciale e di cooperazione raggiunto tra la UE e UK non copre Gibilterra, lasciata fuori in sede negoziale. Un vuoto a cui si intende rimediare.
    Gibilterra. [foto: Wikimedia]L’obiettivo che si pone l’Unione europea è stabilire un accordo “ampio ed equilibrato” nei confronti di Gibilterra, in considerazione della particolare situazione geografica e delle specificità del territorio. Un qualunque accordo tra le due parti, quando raggiunto, non dovrebbe pregiudicare le questioni di sovranità e giurisdizione. 
    Gibilterra, su cui la Spagna nutre da secoli interessi, è parte del Regno Unito dal 1713. Due diversi referendum sottoposti alla popolazione della Rocca, nel 1967 e nel 2002, hanno sancito la sovranità di Londra. Madrid contesta comunque ‘sconfinamenti’ in territorio spagnolo. L’aeroporto locale si sarebbe sviluppato oltre i confini del territorio, le accuse e le denunce spagnole. Il governo spagnolo vorrebbe approfittare della situazione per garantirsi ‘voce in capitolo’ sul territorio.
    Da qui in avanti si dovrà innanzitutto capire come ragionare flussi di merci e persone, disciplinare il traffico aereo e navale, spostamenti, regimi tariffari per i beni in entrata e uscita, e requisiti di viaggio. Il lavoro dell’UE inizia adesso. Al team von der Leyen il compito di chiudere un buon accordo.

    Via libera del Consiglio per l’avvio delle trattative. Il passaggio formale conferisce alla Commissione il mandato per il confronto con Londra

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    Frédéric Grare (ECFR): “Affare AUKUS un tradimento per la Francia, ma un problema per tutta l’Europa”

    Bruxelles – La pubblicazione della Strategia dell’UE per la cooperazione nell’Indo Pacifico e la nascita di AUKUS, il patto militare tra Australia, USA e Regno Unito, segnalano un cambio di passo nei rapporti tra Stati Uniti, Cina e paesi membri dell’Unione europea. Il sodalizio militare dei paesi anglosassoni minaccia di escludere le nazioni europee dalla regione (oltre che dalla cooperazione nel settore industriale), proprio negli stessi giorni in cui viene varato il primo documento programmatico per un approccio condiviso sull’Indo Pacifico. Nell’intervista rilasciata ad Eunews, Frédéric Grare, esponente dell’European Council on Foreign Relations, spiega come leggere gli avvenimenti dell’ultima settimana, a partire dai reali interessi dei 27 e dalla tensione tra alleati.
    Eunews: Molti analisti in Italia hanno attaccato la Strategia dell’UE per la cooperazione nell’Indo Pacifico, perché ritengono che abbia un approccio poco strategico e troppo economico. Secondo lei questo documento rappresenta davvero un cambio di passo oppure si tratta di un insieme di dichiarazioni di circostanza?
    Grare: “Il documento è frutto di un compromesso tra i paesi che vogliono un approccio più strategico alla regione e quelli che vedono un’opportunità. Questa è una via di mezzo. Se si guarda alle conclusioni del Consiglio europeo di aprile e le si confronta con questo documento, forse l’aspetto strategico è maggiore: menziona la Cina come un problema e può fungere da quadro per gli obiettivi europei nell’area. In generale, se si considerano le singole questioni della strategia, si può decidere quale approccio adottare. Il documento vede l’area come uno spazio di compteizione tra Cina e Stati Uniti in termini di influenza economica: se la Cina lo ottiene, avrà anche influenza politica. Tutto dipende dal modo in cui il documento verrà effettivamente implementato. È un documento di compromesso. La strategia non è molto ambiziosa: riflette l’approccio tipico degli Stati membri dell’UE, ma non significa che il documento non abbia alcun potenziale. Dobbiamo tenere conto della realtà e quindi non possiamo impegnarci in qualcosa che non saremo in grado di realizzare”.
    E: Quanto sono profondi gli interessi dell’Unione Europea nell’Indopacifico? La nuova attenzione per questa regione riguarda gli interessi europei oppure la relazione speciale dell’Europa con gli Stati Uniti?
    Frédéric Grare, Senior Policy Fellow with the Asia Programme at the European Council on Foreign Relations
    G: “Entrambe le cose. Dobbiamo partire dalla realtà che il documento è un compromesso e che gli interessi di politica estera sono diversi per ogni Stato membro: ad esempio, se si prende la Francia, che è potenza residente nell’Indo Pacifico perché ha territori e popolazione sia nell’Oceano Indiano che nell’Oceano Pacifico, appare ovvio che deve essere presente in loco sia che lo voglia o no. Chiaramente è un interesse molto profondo. Altri paesi, come gli Stati baltici, hanno altre priorità (principalmente la Russia). Sebbene quasi tutti gli Stati membri dell’UE (con l’eccezione forse dell’Ungheria) vedano sempre di più la Cina come un qualcosa con cui fare i conti, per molti paesi essere presenti nell’Indo Pacifico significa guadagnarsi la buona volontà degli Stati Uniti a garantire la loro sicurezza (in Europa)”.
    E: Perché crede che gli Americani non abbiano informato nessun altro partner delle trattative per AUKUS? Addirittura arrivando a indispettire platealmente la Francia per la questione della commessa dei sottomarini?
    G: “Se la Francia avesse saputo sarebbe rimasta con le mani in mano? Ovviamente no. Il trattato doveva rimanere segreto, per presentare ai Francesi il fatto compiuto. Ma questo ha conseguenze in tutta Europa, anche perché la Francia è una parte importante dell’industria europea della difesa. In generale però, riesco a capire la logica che ha spinto a concludere la trattativa in segreto. L’accordo francese è stato stracciato, dal loro punto di vista è naturale che si sentano traditi dall’Australia e dagli Stati Uniti”.
    E: L’Unione adesso ha una strategia, ma molti paesi europei (Francia, Germania, Olanda) ne hanno già una a livello nazionale ed è possibile che altri paesi se ne dotino a breve. Saranno complementari a quella della UE? Magari verranno coniugate direttamente in un approccio europeo?
    G: “No, penso che gli approcci nazionali rimarranno. Come ho detto, questo documento riflette il compromesso, cioè gli interessi di ogni paese e su alcune questioni (come la sicurezza) è difficile avere un approccio comune. Inoltre, per come funziona il sistema UE, gli interventi che vedremo saranno su base volontaria. I governi continueranno ad avere iniziative indipendenti in politica estera nell’Indo Pacifico e saranno allo stesso tempo parte dell’approccio europeo all’area. Non è detto che queste iniziative (europee e nazionali) non possano essere complementari tra di loro”.
    E: Come pensa che la strategia europea sarà percepita dalla Cina? Secondo lei la RPC deve essere contenta perchè non è esplicitamente nominata come un avversario oppure no, dato che è probabile che da qui a poco l’Indo Pacifico sarà più affollato?
    G: “In generale non credo che i Cinesi abbiano qualche motivo per essere felici. La Cina è già stata nominata nella EU China Strategy come un rivale sistemico. Il termine rivale è già presente ed utilizzato. Se si guarda il documento, si parla comunque di corrosione economica e militarizzazione dell’area con la Cina come uno dei responsabili. L’obiettivo resta comunque quello di spingere Pechino a comportarsi in modo più accettabile a livello internazionale. In definitiva, la Cina non ha motivo di essere particolarmente felice di questo documento, ma nemmeno di esserne così preoccupata. I risultati di questo primo passo non sono ancora chiari. Diciamo che si tratta di un primo passo, una direzione, ma alla fine dipenderà dagli Stati membri se e come si arriverà al passo successivo”.

    Per il Senior Policy Fellow del think-tank pan-europeo a questo punto diventa fondamentale la strategia UE per la cooperazione nell’Indo Pacifico. Ma “tutto dipende dal modo in cui verrà attuata”, dice a Eunews

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    Sui migranti Italia si sente nuovamente isolata, e cresce il risentimento nei confronti dell’UE

    Mentre tutti preparano i festeggiamenti per i primi soldi del Recovery Fund da Bruxelles ( 26 miliardi di euro), come tutte le estati si rinnova il problema degli sbarchi di migliaia di migranti sulle coste italiane. La Lega ha fatto sentire la sua voce di dissenso, attraverso il sottosegretario agli Interni Nicola Molteni, che ha criticato il suo ministro Lamorgese, in merito agli ultimi sbarchi di circa 800 migranti sulle coste siciliane. “Salvini ha dimostrato che bloccare l’immigrazione clandestina era ed è assolutamente possibile”, le sue parole. “La politica dei decreti sicurezza che qualcuno ha smantellato, e penso al governo Conte II, sta producendo più sbarchi più partenze e più morti e più costi di accoglienza”.
    Ma anche il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, ha lanciato tramite la sua pagina facebook un accorato appello a governo ed istituzioni europee perché si intervenga per fermare una situazione ormai insostenibile. “Non amo ripetermi – ha scritto sulla sua bacheca telematica – e neppure alimentare polemiche sterili. Dico con forza che la Sicilia continua a essere presa d’assalto dagli sbarchi e che le politiche nazionali non riescono a bloccare questo criminale commercio di carne umana”. I viaggi dei ministri degli Esteri e dell’Interno sull’altra sponda del Mediterraneo, lamenta, “non stanno raggiungendo gli obiettivi sperati”. In tutto questo “l’Europa guarda complice e silente”. La Sicilia, continua, “è la frontiera a Sud di un Continente che preferisce girarsi dall’altro lato, mentre la disperazione sale dall’Africa, cercando in Sicilia la porta di accesso a una vita che in queste condizioni non potrà mai essere migliore». Poi l’appello accorato al presidente del Consiglio: «Serve un segnale forte e ormai può venire solo da lui. Faccia quello che non ha voluto fare chi l’ha preceduto e dichiari lo stato di emergenza per gli sbarchi”.
    Secondo i dati dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNCHR) nei primi sette mesi del 2021 in Italia sono arrivati circa 29mila migranti, che rappresentano un aumento del 107% rispetto allo stesso periodo del 2020. La prima nazione di provenienza con il 24% è la Tunisia, seguita da Bangladesh ed Egitto. Solo a Luglio gli arrivi sono stati ottomila. Se si considera tutta la zona euro  gli arrivi sono stati circa 51mila contro i 39mila del 2020. Il nostro paese è il primo paese di approdo seguita dalla Spagna con circa 16mila arrivi e dalla Grecia con 4400.
    Sulla base di questi dati si pensava che al Consiglio Europeo di fine giugno si prendessero decisioni in merito. Il premier italiano Draghi era convinto, spalleggiato dal leader spagnolo Sanchez, di poter ottenere risultati concreti da parte della Ue sul tema migranti.
    Invece come al solito e come ha affermato, alla fine dei lavori, in Parlamento il presidente dell’Ecr Raffaele Fitto ” si è preferito non decidere rinviando ogni soluzione ad ottobre, quando invece avremmo avuto bisogno di progressi immediati, urgenti”. Aggiungendo che l’Europa sembra sorda alle richieste di Spagna Italia e Grecia per una redistribuzione equa dei migranti in tutti gli Stati dell’Unione.
    Il punto è che l’Europa nel senso di istituzioni comunitarie ha poca voce in capitolo. La Commissione europea già nella precedente legislatura con Jean-Claude Juncker ha messo sul tavolo la proposta di un meccanismo per la ripartizione tra Stati membri dei richiedenti asilo che arrivano nei Paesi di frontiera europea, come Italia e Grecia. La proposta è stata impallinata dai governi. Bruxelles ha cercato di giustificare la mossa come la risposta all’emergenza del 2015, ma la politica solidale legata all’emergenza non ha saputo trovare repliche.
    Gli Stati membri dell’UE proprio non vogliono sentire parlare di redistribuzione dei migranti, preferendo coprire di euro la Turchia per evitare di aprire un nuovo fronte, quello balcanico che potrebbe colpire direttamente Germania e Francia, solo a parole sono solidali con Italia, Spagna e Grecia. E la situazione complicata che si è aperta in Tunisia dal punto di vista politico, certo non può che preoccupare ulteriormente proprio chi come il nostro paese è in prima linea sul fronte sbarchi dai paesi del nord Africa.
    Ma a guardare i recenti dati dell’UNCHR il rischio che la situazione diventi presto incontrollabile è altissimo. Alla fine del 2020, erano 82,4 milioni le persone sfollate in tutto il mondo, il numero più alto mai registrato, e 235,4 milioni di persone, una su 33 in tutto il mondo, avevano bisogno di aiuti di emergenza.  L’Ufficio delle Nazioni Unite del Coordinatore per l’Assistenza Umanitaria attribuisce queste crescenti esigenze ai conflitti globali prolungati, alla crisi climatica e in particolare alle ricadute economiche della pandemia di COVID-19, che ha causato il più grande calo annuale del reddito pro capite globale su base percentuale da quando  1870.
    Gli accordi di Malta del 2020 si sono rivelati ennesimo fallimento di una politica europea che sul tema migranti continua a non decidere e a lasciare la patata bollente a Italia, Spagna e Grecia. Basti pensare che tra ottobre 2019 e marzo 2021, con gli accordi di Malta il nostro paese ha ricollocato circa 990 persone su 44.300 sbarcati, il 2,2% del totale, come ha osservato Matteo Villa, dell’Osservatorio migrazioni dell’ISPI.
    Il tempo delle discussioni sembra ormai finito e se l’Europa vuole dimostrare di essere una vera unione deve mettere in campo una strategia comune, chiara, decisa per porre un argine ad un fenomeno, che presto potrebbe divenire incontrollabile.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

    In Sicilia aumentano gli arrivi e gli amministratori locali non si sentono sostenuti. Malumori anche nel governo. Ma l’Unione europea può poco, decidono gli Stati. Il governo ha bisogno di creare consensi e trovare alleanze in seno al Consiglio

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    Non solo migranti, in Afghanistan c’è in gioco molto di più. E l’UE s’inquieta

    Bruxelles – “La situazione è molto complessa, ma non impossibile”. A Bruxelles ci si rende conto che l’Afghanistan è ormai fuori controllo. Lo indica l’avanzata dei talebani, che hanno ripreso il controllo della maggior parte del Paese, e la spigolosità di un interlocutore poco incline a dialogo e trattative. di fronte a un nuovo scenario di instabilità e incertezze c’è un parte dell’Unione europea che si preoccupa dei migranti, eredità di una missione NATO a cui 22 Stati membri dell’UE hanno partecipato dal 2003 a oggi, momento di smobilitazione.
    In Commissione come in Consiglio numeri, dati e cartine politiche si susseguono e si aggiornano continuamente. Attualmente i talebani controllano il 65% del territorio, 230 distretti rispetto ai 65 amministrati del governo. Il resto è oggetto di contese coi signori delle guerra. I talebani già controllano otto punti di attraversamento di frontiera, tutto ciò che entra ed esce lungo le frontiere con Iran, Tagikistan e Turkmenistan. A sud, gestiscono anche un punto di passaggio verso il Pakistan. Così, coloro contro i quali venne lanciata l’operazione in Afghanistan, si garantiscono il controllo delle merci e introiti annui stimati attorno ai due e i due miliardi e mezzo l’anno.
    L’avanzata dei talebani e il loro controllo del territorio al 10 agosto 2021
    “L’obiettivo è la pace”, ripetono a Bruxelles, consapevoli che è difficile da ottenere. “Si può ottenere solo se tutte le parti lavorano per questo. Ma sulle trattative i nuovi padroni del Paese frenano.  “I talebani non hanno mai detto di non volere un accordo, ma vogliono delle precondizioni: liberazione di 700 prigionieri e cancellazione delle liste di sanzioni”. Questa è la situazione per un’Unione europea che in Afghanistan vede ridimensionata la sua vocazione geopolitica.
    La Cina ha già riconosciuto i talebani, mentre l’UE e i suoi Stati membri hanno sempre puntato su altri attori e interlocutori. Il ritorno degli ‘esclusi’ e il loro riconoscimento sullo scacchiere internazionale è una sconfitta. Ora le domande che si pongono “hanno bisogno di una risposta nazionale degli Stati”. Spetta a loro decidere se riconoscere la nuova autorità, e se richiamare i loro connazionali in patria. Ci sono ancora 9 Stati membri con personale diplomatico nel Paese.
    A Bruxelles si cerca di utilizzare a proprio vantaggio una situazione anche se vantaggiosa non è. “In questi ultimi anni solo tre Paesi – Arabia Saudita, Emirati arabi e Pakistan – riconoscevano i talebani. Adesso questi ultimi hanno bisogno di noi, per il commercio, per gli aiuti umanitari…” Questo il ragionamento con cui ci si cerca di convincere che gli stranieri in Afghanistan si trovino in una situazione di forza.
    La Commissione lavora per una soluzione che porti la sicurezza, dialogando con il governo di Kabul che perde forza. Dall’altra parte “nessuna mediazione è stata accettata”, riconoscono gli addetti ai lavori. “La situazione si risolve da sola, tra afghani” Il rischio è che si risolva nel sangue e in un modo che non giovi all’occidente e all’Europa.
    Ci sono 3,5 milioni di rifugiati e sfollati in Pakistan, altri 3 milioni sono ammassati in Iran, circa 500mila sono in Turchia. L’UE si trova costretta a fare in modo che queste persone non si mettano in marcia. “Bisogna lavorare con questi Paesi per prevenire nuove rotte illegali”. In questo il ruolo della Turchia, e l’UE rischia di diventare ancor più dipendente da Recep Tayipp Erdogan e di esporsi ancora di più ai capricci del sultano.
    Alcuni Stati guardano con preoccupazione all’aspetto migratorio della questione, ma a Bruxelles si guarda ad altro. Si considera una crisi di richiedenti asilo non imminente, perché i numeri non forniscono indicazioni in tal senso. L’aumento degli afghani che bussano alle porte dell’Europa si teme, ma non c’è. L’UE lavorerà con gli Stati confinanti dell’Afghanistan per fare in modo che la situazione resti così. Vuol dire pagare per non avere richiedenti asilo e fare in modo che resti dove sono.
    In Commissione come in Consiglio si guarda ad altri aspetti. “Ci preoccupa che i talebani possano riprendere in mano il commercio della droga e fare del Paese una base per il terrorismo islamico”. Questo è interesse della Cina

    Controllo delle merci, ripristino del business della droga, terrorismo islamico, peso geopolitico: il ritorno dei talebani apre nuovi scenari difficili da gestire

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    La Commissione UE smentisce l’avvio di una missione militare in Libia. Per ora.

    Bruxelles – Una missione militare dell’UE in Libia non è in programma. Non per ora, almeno. La Commissione smentisce le voci che iniziano a circolare su un possibile impegno europeo di diversa natura nel Paese nordafricano. Il clima di instabilità è tale da indurre a pensare che l’Unione dovrebbe intervenire con una presenza militare organizzata nel contesto della Politica di sicurezza e difesa comune (CSDP), con l’obiettivo di non lasciare campo libero a forze straniere. Questo è quello a cui si starebbe ragionando, secondo indiscrezioni di stampa. 
    La linea della Commissione è quella del “no comment”. Arianna Podestà, portavoce facente funzioni di responsabile del servizio di comunicazione dell’esecutivo comunitario, ricorda a Bruxelles “non si commentano mai le indiscrezioni”. Ad ogni modo, aggiunge, “non siamo a conoscenza di alcuna discussione di missioni militari in Libia”. Al momento, ricorda, restano in essere le due missioni già operative. Si tratta di EUBAM Libia, missione civile avviata nel 2013 e gestita a livello di Politica di sicurezza e difesa comune volta ad aiutare le autorità libiche a smantellare le reti di trafficanti di esseri umani, e di EUNAVFOR MED IRINI, avviata nel 2015 con  l’obiettivo di neutralizzare le rotte consolidate del traffico di profughi nel Mediterraneo. 
    Le risposte fornite a Bruxelles però non sembrano sgombrare il campo da dubbi per il medio termine. Il 24 dicembre in Libia sono previste le elezioni politiche e presidenziali, che dovranno delineare il futuro assetto dello Stato, comunque lontano da una piena stabilità. “Siamo ad un punto critico”, che non può non indurre a “guardare oltre e vedere come aiutare la Libia” nel rafforzamento dei progressi compiuti fin qui e consolidare il processo di stabilizzazione. Possibile dunque che si prepari una nuova missione per i prossimi mesi, date le risposte criptiche fornite dalla Commissione UE.

    L’esecutivo comunitario smentisce indiscrezioni circa l’avvio di un nuovo impegno nel Paese, ma ammette che occorre “guardare oltre e vedere come aiutare la Libia”