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    Borrell: “Almeno 13 miliardi per sostegno militare all’Ucraina”. Ma potrebbero essere di più

    Bruxelles – Aiuti finanziari militari, il tesoro a dodici stelle cresce sempre più. Fin qui, in termini di denaro, all’Ucraina sono stati garantiti “almeno 13 miliardi di euro” tra risorse messe a disposizione dallo Strumento europeo per la pace (Epf) e contributi dei singoli Stati membri. Le cifre le offre l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, rispondendo a un’interrogazione parlamentarie sulla strategia di assistenza a Kiev.
    “Il sostegno militare dell’Ue all’Ucraina comprende 3,6 miliardi di euro attraverso l’Epf oltre all’assistenza bilaterale degli Stati membri, per un totale di almeno 13 miliardi”. Ecco le cifre, che però non sono consolidate. Si tratta di stime, si affermano a chiarire a Bruxelles. I governi non sono obbligati a condividere con l’esecutivo le informazioni riguardanti iniziative di sostegno nazionali. La Commissione europea dunque non dispone delle quote Paese.
    A Bruxelles però sugli ordini di grandezza qualche idea c’è. Si stima che oltre a quanto finanziato dall’Epf gli Stati membri abbiamo speso circa 3-4 volte di più a livello bilaterale. Per cui, alla fine, la somma di risorse Ue e contributi dei vari Stati membri “potrebbe raggiungere i 20 miliardi di euro” per l’assistenza militare europea complessiva, confidano fonti Ue. Si tratta solo del denaro necessario per rispondere all’offensiva russa. Poi ci sono gli aiuti umanitari e il rifornimento di mezzi, munizioni e armi, due capitoli diversi.

    L’Alto rappresentante fornisce la stima dei contributi finanziari, risultato di finanziamenti Ue e contributi nazionali bilaterali. A Bruxelles si chiarisce: “Sono stime, potrebbero essere 20 miliardi”

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    Israele, l’Ue chiede un’indagine trasparente sulla morte del leader palestinese Khader Adnan

    Bruxelles – Fa discutere nell’Ue la morte in un carcere israeliano di Khader Adnan, figura di riferimento del Jihad Islamico Palestinese, dopo 86 giorni di sciopero della fame. Una morte sopraggiunta a seguito del recente deterioramento delle sue condizioni di salute denunciato dalla moglie e da diverse Ong locali e la determinazione con cui Adnan portava avanti il suo quinto sciopero della fame alla decima detenzione nelle prigioni di Israele.
    A poco sono serviti gli appelli della comunità internazionale, tra cui quelli dell’Unione Europea, che secondo quanto riferito dal portavoce del Servizio d’Azione Esterna dell’Ue (Seae), Peter Stano, avrebbe nei giorni scorsi “chiesto conto delle condizioni di salute” del prigioniero palestinese al ministro della Sanità di Tel Aviv, Yoav Ben-Tzur. A poche ore dalla morte, avvenuta nelle prime ore di questa mattina (2 maggio), Bruxelles interviene nuovamente chiedendo che venga aperta “un’indagine trasparente sulla sua morte e sulle circostanze che l’hanno causata”. Una richiesta che il capo della diplomazia Ue, Josep Borrell, potrebbe avanzare al ministro della Difesa israeliano, Eli Cohen, in visita proprio oggi nella capitale europea.
    Gli scioperi della fame di Adnan contro la detenzione amministrativa in Israele
    Khader Adnan aveva 45 anni ed era indicato da tempo come uno dei maggiori dirigenti del Jihad Islamico, formazione politica e militare che è ritenuta da Israele – ma anche da Stati Uniti e Unione Europea- un’organizzazione terroristica. Per la decima volta, lo scorso febbraio, era stato sottoposto a detenzione amministrativa, che permette alle autorità israeliane di imprigionare persone accusate di terrorismo o reati simili senza processo praticamente all’infinito, con rinnovi ogni sei mesi.
    Khader Adnan durante i 54 giorni di sciopero della fame nel 2014 (Photo by AHMAD GHARABLI / AFP)
    Il suo primo sciopero della fame risale al 2004, a cui negli anni ne sono seguiti altri quattro: nel 2012, nel 2014, nel 2021, fino all’ultimo che ne ha causato la morte.
    Già nel corso dei 54 giorni di sciopero del 2012, l’allora Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Catherine Ashton, aveva chiesto al governo di Israele “di fare tutto il possibile per preservare la salute di Adnan” e aveva ribadito “la preoccupazione di lunga data dell’Ue per l’ampio ricorso alla detenzione amministrativa senza accusa formale”. Secondo l’ong palestinese Addameer, che si occupa della tutela dei diritti dei detenuti politici in Israele, sarebbero però ancora quasi mille attualmente i prigionieri sottoposti a questa forma speciale di custodia cautelare.
    Il trattamento riservato ai prigionieri politici è uno dei motivi che avevano spinto Adnan a iniziare lo sciopero della fame e a rifiutare aiuti medici esterni e le visite dei medici della prigione. Come riportato da Afp, secondo la moglie le autorità israeliane hanno rifiutato  il trasferimento del detenuto dalla clinica della prigione di Nitzan in un ospedale civile, nonostante il grave peggioramento delle condizioni di salute.
    Alla notizia della sua morte, in mattinata dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati tre razzi sul territorio israeliano, che non avrebbero provocato danni né causato vittime. Il gruppo fondamentalista di Hamas ha immediatamente fatto sapere che “il popolo palestinese non lascerà che questo crimine passi sotto silenzio, e risponderà adeguatamente”, mentre il Jihad Islamico ha dichiarato in un comunicato che “la sua morte sarà una lezione per generazioni, e non ci fermeremo finché la Palestina rimarrà sotto occupazione”.
    L’Unione Europea ha definito “inaccettabili gli inviti alle rappresaglie” da parte dei gruppi armati palestinesi e il portavoce Peter Stano ha espresso parole di condanna per il lancio di razzi su Israele, lanciando l’ennesimo appello a entrambe le parti a evitare azioni unilaterali che portino a ulteriori escalation, dopo mesi di tensioni fortissime nella regione.

    Il portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna ha dichiarato di aver chiesto conto al ministro della Sanità israeliana delle condizioni di salute di Khader Adnan nei giorni scorsi. Il dirigente del Jihad Islamico Palestinese è morto alle prime luci dell’alba dopo 86 giorni di sciopero della fame

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    I curdi del Rojava, gli alleati dimenticati dall’Occidente. Per l’Ue devono essere parte del processo di pacificazione in Siria

    Bruxelles – Guerra in Ucraina, tensioni tra Cina e Taiwan, lo scoppio delle ostilità in Sudan. Nella dichiarazione congiunta diffusa dai ministri degli Esteri dei Paesi del G7 a margine del meeting a Karuizawa, in Giappone, gli attuali sconvolgimenti geopolitici l’hanno fatta da padroni. Ma i capi delle diplomazie dei principali Paesi industrializzati e dell’Unione europea hanno anche voluto ribadire il sostegno al processo di pacificazione in Siria, portato avanti con difficoltà dalle Nazioni Unite e dall’Inviato Speciale, il norvegese Geir Otto Pedersen. Un processo che, “in un modo o nell’altro”, secondo Bruxelles dovrà tenere conto anche dei curdi che abitano nella regione autonoma nel Nord-est del Paese.
    I circa 5 milioni di curdi che dal 2016 hanno auto proclamato l’Amministrazione autonoma del Rojava rischiano infatti di rimanere fuori dai giochi: schiacciati su due fronti, tra il brutale regime di Assad che non ha mai riconosciuto la loro autonomia e la Turchia di Erdogan che negli ultimi mesi ha intensificato i bombardamenti sulla regione, gli eroi della guerra contro l’Isis non hanno ancora conosciuto la pace. I combattenti dell’Unità di Protezione Popolare (Ypg) e le combattenti dell’Unità di Protezione delle Donne (Ypj) lottano ancora per la sopravvivenza di quel sistema confederale rivoluzionario e femminista che rappresenta un unicum in tutto il Medio Oriente.
    Le combattenti delle Ypj, l’Unità di Protezione delle Donne curde (Photo by Delil SOULEIMAN / AFP)
    E anche l’Unione Europea, baluardo di principi democratici e di autodeterminazione dei popoli, sembra essersi dimenticata di loro: per superare il veto posto dalla Turchia all’ingresso di Svezia e e Finlandia nella Nato, la scorsa estate l’Occidente cedeva al ricatto di Erdogan e, in nome di una presunta lotta al terrorismo, sceglieva di voltarsi dall’altra parte mentre Ankara ridava vigore al suo tentativo di eliminare la Confederazione democratica che i curdi hanno costruito al di là del confine.
    La situazione nella regione è drammatica: oltre alle continue tensioni con le forze governative siriane e ai bombardamenti turchi, per la popolazione del Rojava la guerra contro lo Stato Islamico non è mai finita. La maggior parte dei centri di detenzione per i terroristi si trova nel Nord est della Siria, dove sono ancora attive diverse cellule di estremisti islamici. E gli aiuti umanitari che la comunità internazionale ha cercato di mandare nei villaggi curdi a seguito del terribile terremoto del 6 febbraio vengono sistematicamente fermati dalle autorità turche, come denunciato da diverse ong internazionali.
    I Ministri degli Esteri del G7 al meeting a Karuizawa, Giappone (Photo by Yuichi YAMAZAKI / POOL / AFP)
    Al G7 in Giappone, i ministri degli Esteri non hanno parlato del Rojava, ma hanno richiamato ancora una volta quella risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che risale al 2015, in cui si afferma l’impegno “per un processo politico inclusivo, guidato dalla Siria e facilitato dalle Nazione Unite“. Un processo che, ha ricordato il portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna, Peter Stano, possa raggiungere “una soluzione duratura in pieno rispetto dell’unità, dell’integrità territoriale e della sovranità della Siria”. Può convivere l’esperimento democratico curdo con il principio dell’integrità statale? La logica, e il silenzio dell’Occidente che da mesi accompagna le azioni militari siriane contro le città curde, suggerisce di no. Ma per l’Ue “in un modo o nell’altro” i curdi dovranno essere parte del processo di pacificazione nel Paese, perché “sono una componente importante della popolazione siriana e del paesaggio politico”.

    Al meeting del G7 in Giappone, i ministri degli Esteri dei Paesi più industrializzati hanno ribadito la necessità che la comunità internazionale continui a sostenere l’inviato speciale delle Nazioni Unite a Damasco. Per Peter Stano (Seae), la soluzione dovrà rispettare “l’unità, l’integrità territoriale e la sovranità” della Siria

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    La grande sfida cinese adombra il vertice dei leader, l’Ue teme alleanze con Mosca

    Bruxelles – Non ufficialmente in agenda ma comunque presente, nei pensieri, nelle dichiarazioni di rito, nei ragionamenti informali. Uno dei grandi elefanti nella stanza dei leader dell’Ue è la Cina, filo rosso di un Consiglio europeo dove il confronto sull’Ucraina e la competitività industriale del Vecchio continente passano per le trame del dragone. Che sono trame economiche, politiche, commerciali, di riposizionamento sullo scacchiere internazionale. Chi non ci gira troppo attorno è Krisjanis Karins. “La Cina in questo momento si sta sicuramente muovendo apertamente dalla parte della Russia, e questa è in realtà una grande sfida e una grande difficoltà per tutti noi”, riconosce il primo ministro della Lituania. Per storia del Paese che rappresenta legge le attività di Pechino in chiave russa, e teme per ciò che potrebbe derivare da una siffatta alleanza.

    . @krisjaniskarins 🇱🇻 “We need to think hard on what kind of ties we want with #China . China is moving towards the side of Russia, and this is a big challenge for us”. #EUCO @eunewsit pic.twitter.com/L4KvOBFOKx
    — emanuele bonini (@emanuelebonini) March 23, 2023

    Non c’è solo la mancata condanna della Cina all’aggressione russa dell’Ucraina a inquietare gli europei. L’incontro tra i leader della Repubblica popolare e della Federazione russa è fonte di inquietudine, e persino un Paese come il Lussemburgo, neutrale per tradizione, non può fare a meno di riconoscerlo. “Dobbiamo impedire un blocco russo-cinese contro gli altri”, dice un preoccupato Xavier Bettel. Che rilancia il riarmo dell’Europa. “Siamo neutrali, non abbiamo produzione di armamenti, ma ritengono importante accrescere quella europea”, soprattutto in ottica di un’eventuale alleanza tra due Paesi da apparati militari di grandi dimensioni ed entrambi potenze nucleari.
    L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, prova a rassicurare per quello che può. Gli chiedono se Pechino possa dare una mano a Mosca, e la risposta non è di quelle che più rassicuranti. “La Cina non sta aiutando la Russia per il momento”. Per il momento. Che non vuol dire che non possa verificarsi in futuro.
    Un avvertimento che il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si è sentito in dovere di dare a tutti i capi di Stato e di governo del club a dodici di stelle. Nell’incontro a porte chiuse, riferiscono fonti qualificate, avrebbe raccomandato cautela. Isolare la Cina non gioverebbe. Al contrario, potrebbe rappresentare un rischio troppo forte. Questo il messaggio lanciato all’Ue dal capo dell’Onu. Andrebbe sfruttata quella attitudine positiva e al dialogo che ancora viene manifestata dal Paese asiatico, partner comunque non dei più comodi.
    Nessuno nell’Ue ha interessa a isolare la Cina, anche per ragioni economiche e commerciali. Ma occorre trovare il giusto equilibrio. Occorre saper non concedere troppo, né subire eccessivamente. “La Cina è un partner, ma anche un concorrente”, ricorda Bettel. Non si vuole la concorrenza sleale che si è vista fin qui, si vogliono uguali regole del gioco.
    Allo stesso tempo si deve giocare una partita di posizionamento nel mondo senza rimettere troppo in discussione il peso globale di Pechino in modo tale da inimicarsi il Paese. “Molti discutono di importazioni dalla Cina, ma a ben vedere le materie prime non arrivano dalla Cina ma da tutto il mondo”, ricorda il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Ma in quei quadranti del mondo dove l’Ue ha preso ad essere più attiva (Asia per il gas naturale liquefatto, Africa per le materie critiche utili alla transizione verde) i cinesi sono già presenti da tempo.
    In questo rompicapo rappresentato dalla difficoltà di trovare le giuste relazioni con la Cina l’Ue ha anche l’interesse a non compromettere i legami con gli Stati Uniti, che nell’ascesa cinese vedono un minaccia per la supremazia geo-politica. L’Europa si ritrova tra le due potenze a dover mediare senza infastidire eccessivamente nessuna delle due parte. La sfida nella grande sfida. Se nella stanza dei leader c’è chi teme per possibili alleanze sino-russe, altri, come il primo ministro portoghese Antonio Costa si preoccupano per divisioni. “Vogliamo un’alleanza globale per pace e diritto internazionale, e non un mondo frammentato tra Cina e Stati Uniti”.

    La questione di un blocco sino-russo inquieta diversi capi di Stato e di governo. Tema non in agenda, eppure molto presente. Dalle Nazioni Unite l’invito a non isolare Pechino

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    L’Ue punta sul gas algerino, ma Algeri lo sta già usando come arma politica

    Bruxelles – L’Algeria è la nuova Russia, con risorse energetiche pronte da essere usate come arma politica contro l’Unione europea? Il rischio, in Europa, c’è chi lo vede e non può fare a meno di porre la questione ad una Commissione che però tira dritto e rinnova la fiducia ad un partner diventato ancor più strategico alla luce della guerra in Ucraina e la necessità di affrancarsi dalle forniture di Gazprom. Susana Solís Pérez, europarlamentare liberale (Re) vede però sullo sfondo un nuovo problema di indipendenza geopolitica per l’Unione, per effetto di questioni tutte regionali.
    C’è la questione del Sahara occidentale a dividere Algeria e Marocco. Rabat rivendica come propri i territori che invece la repubblica araba democratica di Saharawi (Rads) considera come parte integrante del Paese. Algeri sostiene la Rads e il suo movimento politico di riferimento, il Fronte polisario. Divergenze di vedute che hanno portato all‘interruzione delle relazioni diplomatiche nel 2021, e le tensioni in nord Africa hanno già avuto ripercussioni per l’Europa.
    Nella sua interrogazione, Susana Solís Pérez, ricorda che il gasdotto Maghreb-Europa (Mge) rifornisce la penisola iberica di gas algerino attraverso il Marocco. Una conduttura lunga 1.400 chilometri che dal 1996 trasporta oltre 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno nell’Europa occidentale. “A seguito della rottura delle relazioni diplomatiche tra Algeria e Marocco nell’agosto 2021, l’Algeria ha deciso di non rinnovare il contratto di 25 anni di Mge”, rileva l’europarlamentare. Preoccupata non a torto, visto che l‘Algeria ha sospeso l’accordo di amicizia con la Spagna per il sostegno dato a Madrid alle rivendicazioni marocchine sul Sahara occidentale.
    “L’Algeria ha aumentato il prezzo delle forniture di gas alla Spagna attraverso il gasdotto Medgaz“, denuncia ancora la parlamentare liberale. Medgaz è un’infrastruttura sottomarina lunga circa 757 chilometri, con una capacità massima annuale di 10,5 miliardi di metri cubi di gas. Una scelta, quella di rivedere i listini nei confronti di Madrid, che mostra “l‘uso dell’approvvigionamento energetico da parte dell’Algeria come arma politica“.
    La Commissione europea lascia all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, il compito di rassicurare sulla questione. “L’Ue ha costantemente lavorato per rafforzare il suo partenariato con l’Algeria, concentrandosi sulle priorità indicate nell’accordo di associazione”, ricorda il membro del collegio dei commissari. Inoltre, “a seguito della decisione dell’Ue di tagliare le sue importazioni di gas dalla Russia, l’Algeria si è impegnata ad aumentare le sue forniture di gas all’Europa nel 2022 e negli anni successivi”. Tradotto: Algeri è un partner affidabile, non è una nuova Russia, “l‘Unione europea apprezza molto la cooperazione energetica con l’Algeria ed è pronta ad approfondirla ed espanderla ulteriormente”.
    La strategia Ue ha una sua logica. L‘Algeria resta comunque parte dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec). E’ vero che l’Unione ha scelto la strada della sostenibilità e del superamento dei combustibili fossili, ma nella transizione avere interlocutori privilegiati all’interno del gruppo che fissa i prezzi del barile di greggio può rappresentare un punto di forza. Un orientamento che suona però da scommessa.
    La questione è sul tavolo anche da prima dello scoppio della guerra in Ucraina. Antonio Tajani, ora ministro degli Esteri ma allora in veste europarlamentare, sollevò la stessa questione sempre via interrogazione scritta. La decisione di Sonatrach di interrompere ogni tipo di attività in Marocco e con il Marocco “pone quesiti importanti sulla dipendenza energetica dell’Unione”. Scrisse così Tajani, a riprova del fatto che già prima di un riposizionamento sul mercato l’opzione algerina non sembra delle migliori.
    Borrell ha provato a rassicurare anche in quel frangente: “Per quanto riguarda le attuali tensioni diplomatiche tra Algeria e Marocco, l’Ue è pronta a fornire tutto il sostegno necessario al processo guidato dalle Nazioni Unite per trovare una soluzione politica giusta e reciprocamente accettabile al caso del Sahara occidentale”. Ma fino ad oggi l’Ue ha sempre privilegiato la parte marocchina nel confronto con i Saharawi, il che la potrebbe esporre alle ripicche energetiche algerine. 

    La questione del Sahara occidentale è motivo di scontro tra Algeria e Marocco, e le posizioni spagnole a sostegno di Rabat ridisegnano i contratti di Sonatrach. La questione già nota prima dello scoppio delle guerra in Ucraina

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    Borrell: “Esercitazione militare Sudafrica-Cina-Russia grave preoccupazione”

    Bruxelles – Alleanze militari e geopolitiche, l’Ue guarda con preoccupazione le scelte del Sudafrica e la presenza di Russia e Cina nel quadrante africano. La decisione del governo di Pretoria di tenere esercitazioni militari congiunte non è passata inosservata a Bruxelles. L’operazione Mosi, che vede esercitazioni navali congiunte tra le tre diverse forze armate, viene considerata come “simulazione di guerra” in Parlamento Ue ed è fonte di inquietudine in Commissione europea. “Sebbene queste esercitazioni non rappresentino una minaccia diretta alla sicurezza europea, lo svolgimento di esercitazioni militari navali con Russia e Cina nell’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina è motivo di grave preoccupazione“, riconosce l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell.
    L’operazione Mosi è stata condotta per la prima volta nel 2019, a largo delle coste di Città del Capo. Un momento comunque carico di tensioni tra oriente e occidente per via della questione della Crimea. La seconda edizione di questa cooperazione, tenuta a febbraio di quest’anno, si colloca però in uno scenario internazionale completamente diverso, contraddistinto dalla guerra russo-ucraina e due Paesi, Cina e Sudafrica, che non hanno mai pubblicamente condannato l’aggressione del Cremlino. Sono gli stessi Paesi a essersi astenuti sul voto in sede Onu per la pace giusta in Ucraina.
    L’Unione europea non può fare molto al riguardo. “Il Sudafrica – ricorda Borrell  – come tutti gli altri Paesi, ha il diritto di perseguire la politica estera secondo i propri interessi”. In quanto nazione indipendente e sovrana resta libera di fare le scelte che ritiene più opportune. Per questo motivo “l’Ue non chiede al Sudafrica di schierarsi” tra oriente e occidente: “Ciò che l’Ue chiede al Sudafrica è di schierarsi dalla parte dei principi e dei valori della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale“.
    C’è anche un altro aspetto che emerge della considerazioni dell’Alto rappresentante su scelte e manovre sudafricane: un cambio di rotta chiaro nelle scelte di cooperazione militare. Per quanto riguarda le esercitazioni in mare, “in passato il Sudafrica le condotte anche con Stati membri dell’Ue”. Si prende atto dunque di un cambio di alleanze che non viene accolto con particolare favore.
    Gli Stati Uniti hanno visto questa seconda edizione di Mosi come un atto contrario alle politiche dell’occidente. Un aspetto, questo, sottolineato anche dall‘Atlantic Council, il think-tank statunitense con sede a Washington D.C. che promuove l’atlantismo e serve da centro studi di sostegno alla politica. “Le relazioni amichevoli e di routine del Sudafrica sono antitetiche agli obiettivi dell’Occidente di isolare, scoraggiare e sconfiggere la Russia“, sottolineano gli esperti del think-tank. Che avvertono: “In un ambiente diplomatico sempre più polarizzato, il non allineamento può sembrare di fatto un allineamento con la Russia“.
    Il Sudafrica è una delle principali potenze militari del continente africano per capacità marittima. Dispone di una flotta navale mista composta da fregate, sottomarini, unità d’attacco veloci, cacciamine, incrociatori e pattugliatori.

    L’Alto rappresentante si esprime sulla seconda edizione della missione Mosi. “Pretoria rispetti carta Onu e diritto internazionale”

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    Tragedia dei migranti in Calabria, il giorno dopo: l’Ue si interroga sul sistema di ricerca e salvataggio

    Bruxelles – Il giorno dopo la tragedia di Steccato di Cutro, in cui hanno perso la vita almeno 63 persone migranti, a Bruxelles per l’ennesima volta è tempo di interrogarsi sul mancato soccorso all’imbarcazione che trasportava tra i 180 e 250 passeggeri provenienti da Turchia, Siria, Pakistan e Afghanistan. Perché il caicco, partito da Smirne, prima di schiantarsi sulle coste di Crotone, in acque territoriali italiane, ha attraversato tutto il Mar Egeo e lo Ionio senza che le venisse prestato soccorso. Nonostante, come dichiarato dalla Guardia di Finanza di Vibo Valentia, nella serata di sabato un velivolo dell’Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera (Frontex) avesse avvisato le autorità italiane della presenza dell’imbarcazione a circa 40 miglia dalle coste crotonesi.
    (Photo by Alessandro SERRANO / AFP)
    Come sempre in questi casi arrivano le dichiarazioni di “profondo dolore e rammarico” dei leader Ue per un fenomeno tornato di stretta attualità. Complice un anno di arrivi da record alle frontiere europee, da mesi a Bruxelles è tornato in auge il “dossier migrazioni”, con la Commissione europea che lo scorso 21 novembre ha presentato un Piano d’azione specifico per il Mediterraneo centrale, in cui si ribadiva la necessità di “una cooperazione più stretta tra tutti gli attori coinvolti nelle operazioni di ricerca e soccorso”. E con le conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo, tre settimane fa, che mettevano il sigillo sul principio che “la migrazione è una sfida europea e come tale va affrontata con una risposta europea”.
    Oggi la portavoce dell’esecutivo Ue per gli affari interni, le migrazioni e la sicurezza, Anitta Hipper, ha ammesso che “la situazione rimane molto complessa” e che “le operazioni di salvataggio avvengono spesso senza interazioni tra gli attori coinvolti”. Il problema di fondo, ribadisce da mesi la Commissione europea, è che le attività di ricerca e salvataggio in mare sono di competenza esclusiva degli Stati membri. E quindi, al di là degli innumerevoli richiami all’obbligo legale di soccorrere vite in mare, lo spazio di manovra dell’Ue rimane fortemente limitato.
    Il tentativo di rispolverare il Gruppo di contatto europeo di ricerca e soccorso, che si è riunito dopo un interruzione di un anno e mezzo lo scorso 31 gennaio, va nella direzione di “scambiare pratiche comuni e informazioni” tra i Paesi membri, niente di più. Ma, dopo quest’ultima tragedia, l‘invito a fare di più è arrivato direttamente dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), secondo cui “il tragico naufragio al largo della costa crotonese conferma l’urgenza di rafforzare il sistema di soccorso in mare, che resta insufficiente”.
    In passato, Frontex ha lanciato due programmi specifici per l’Italia e la Grecia, l’operazione “Triton” nel 2014 e l‘operazione “Poseidon” nel 2016, con le quali forniva personale e imbarcazioni per sorvegliare le acque territoriali dei due Paesi mediterranei. Quella italiana è stata poi sostituita nel 2018 dalla nuova operazione “Themis“, in cui “la ricerca e il salvataggio continuano a costituire un elemento fondamentale dell’operazione”. Secondo Anitta Hipper, solo l’anno scorso gli aerei e le navi di Frontex “hanno contribuito al salvataggio di 24 mila persone” nel Mediterraneo. Ma, ancora una volta, Hipper sottolinea che “non sta a Frontex il coordinamento delle missioni, che rimane competenza degli Stati membri”.
    Per questo sul tavolo delle istituzioni Ue, che si guardi al piano legislativo del Nuovo patto per le migrazioni e l’asilo o a quello operativo del Piano d’azione per il Mediterraneo centrale, “non ci sono proposte per missioni navali europee di salvataggio“. Anche perché i governi nazionali hanno scelto di prediligere gli sforzi per evitare che le imbarcazioni si mettano in moto. Una priorità anche di questo governo. La linea è adoperarsi per fare in modo che non ci siano navi cariche di migranti in acqua.

    Sono 63 per ora le vittime accertate dell’imbarcazione che si è schiantata sulla costa crotonese, più di 100 i dispersi. Sul tavolo “nessuna proposta per missioni navali europee di salvataggio”, nonostante l’invito a rafforzare il sistema di soccorso in mare pervenuto dall’Oim e dall’Unhcr

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    Tra crisi energetica e rischio recessione, un anno di guerra in Ucraina

    Bruxelles – Il primo colpo, il primo sparo, e l’inizio di un periodo fatto non solo di aggressione, morti e distruzione, ma pure di crisi delle materie prime, shock energetici, rischio di una crisi alimentare mondiale, inflazione a doppia cifra, rincaro dei generi alimentari. 24 febbraio 2022–24 febbraio 2023, un anno di guerra russo-ucraina che ha ridisegnato anche l’agenda europea per la sostenibilità. Da un punto di vista a dodici stelle l’ha fatto imprimendo un’accelerazione verso la realizzazione di una vera green-economy, ma innescando all’interno della stessa unione un dibattito tutto nuovo sul nucleare tradizionale considerato come necessità, in tempi di corsa alla ricerca di alternative al gas per decenni pompato da Gazprom. Un dibattito che non ha lasciato indifferente l’Italia, dove il cambio di governo avvenuto a settembre ha visto riproporre la questione dell’energia prodotta da atomo. La Lega di Matteo Salvini torna a insistere su questo punto.
    Le sfide nella sfida. L’Unione europea che ha saputo varare nove pacchetti di sanzioni contro la Russia, in questo anno di attività militare su suolo ucraino ha dovuto cercare soprattutto di trovare un’unità non scontata. Perché sull’energia i 27 modelli economici, interconnessi ma non identici, sono andati in difficoltà. Eppure in nome dell’obiettivo di privare le casse di Mosca di risorse utili al finanziamento della guerra la Germania ha saputo liberarsi dei gasdotti NordStream e Nordstream 2, l’Ue ha prima messo una moratoria al carbone russo, poi al petrolio, quindi trovato il meccanismo per calmierare i listini del gas naturale. Una richiesta posta sul tavolo da Mario Draghi, ai tempi in cui sedeva a palazzo Chigi, e che ha richiesto mesi prima di una realizzazione pratica e condivisa. Adesso scatterà automatica un ‘price cap’ di fronte a due condizioni contemporaneamente: quando il prezzo della risorsa sul mercato olandese TTF supera i 180 euro per Megawattora per 3 giorni lavorativi e quando il prezzo TTF mensile è superiore di 35 euro rispetto al prezzo di riferimento del GNL sui mercati globali per gli stessi tre giorni lavorativi.
    E’ questo uno dei successi dell’Ue, non immediato né semplice. Ma doveroso. Perché l’aumento dei prezzi dell’energia ha trainato l’inflazione, rendendo complicata la vita di famiglie e imprese, e facendo paventare rischi di una nuova recessione per l’Eurozona. Rischi scongiurati, ma solo alla fine del 2022, quando la contrazione data per scontata non si è materializzata. Merito della sospensione delle regole europee di finanza pubblica e dell’allentamento delle regole sugli aiuti di Stato che hanno permesso di contrastare il caro-bollette. Merito anche di un accordo trovato grazie alle mediazione della Turchia che ha permesso la partenza delle navi cariche di grano ferme nel porto di Odessa.
    Uno dei mantra ripetuti è quello per cui la guerra innescata il 24 febbraio di un anno fa offre l’opportunità di accelerare la transizione verde, e il passaggio ad un’economia davvero a prova di surriscaldamento del pianeta. In questo non semplice esercizio l’Italia può giocare un ruolo da protagonista. La sostituzione del gas naturale con quello liquefatto (Gnl) rimette in moto i cantieri, crea occupazione, e può permettere al Paese di diventare il terzo hub dell’Ue per capacità. Qui, la sfida nella sfida è fare presto e bene. Presto e bene è anche la condizione numero uno per l’attuazione dei piani di ripresa, divenuti centrali per la Commissione Ue e anche per l’insieme degli Stati riuniti in Consiglio. Con l’Europa a caccia di materie prime necessarie per realizzare pannelli fotovoltaici, batterie elettriche, turbine eoliche, e alla ricerca di fornitori più affidabili di energia, si ridisegna anche la cartina geopolitica, con l’Italia anche qui protagonista. Da Draghi a Meloni il governo ha iniziato a scrivere una nuova pagina di relazioni con i Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Fondamentali, in tempi in cui gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere massicciamente la propria industria tecnologica pulita.
    La Casa Bianca produce l’Inflation Reduction Act, piano da circa 369 miliardi di dollari per rispondere all’aumento generalizzato dei prezzi. Sovvenzioni e sgravi fiscali per rilanciare l’industria, quella al centro dell’agenda dell’Ue, che sulla scia delle conseguenze della guerra vede anche lo spettro della concorrenza del partner transatlantico, e i dubbi che non sia leale. Non si vuole lo scontro, ma l’Ue si trova comunque a dover correre e rispondere in un contesto che resta di incertezza e instabilità.
    Vale anche per il piano ambientale. L’occupazione delle centrale nucleare di Zaporizhzhia, con combattimenti tutt’attorno tiene col fiato sospeso non solo l’Unione europea, per i rischi di incidenti dalle conseguenze irreparabili per natura e salute. I pacchetti di sanzioni dell’Ue includono personalità ritenute responsabili anche di questo atto. Il blocco dei Ventisette vorrebbe annunciare il decimo pacchetto di misure restrittive nelle prossime ore, per ragioni simboliche: un anno dall’inizio della guerra.
    In un anno che ha scompaginato agende e logiche, si è assistito anche all’accelerazione dei processi di allargamento, quello Ue da una parte e quello Nato dall’altro. Ucraina e Moldova hanno visto ricevere lo status di candidati all’adesione all’Unione europea, con le stesse prospettive concesse alla Georgia. Mentre Finlandia e Svezia hanno sfatato il tabù della neutralità per iniziare il percorso di adesione all’Alleanza atlantica.

    Messa al bando per carbone e petrolio, l’impegno per la ricostruzione, azzerato il sistema bancario. Dieci pacchetti di sanzioni e molto di più. Un anno di conflitto in pillole