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    La Polonia contro Zelensky: “Ucraina ingrata”. Kiev richiama l’ambasciatore

    Bruxelles – Guerra in Ucraina e guerra del grano, tra Kiev e il blocco dei Ventisette si consuma lo strappo politico e diplomatico probabilmente più forte da quando l’Ue ha deciso di sostenere l’ex repubblica sovietica. La decisione di Varsavia di chiedere un’estensione fino a fine anno allo stop delle importazioni di quattro prodotti agricoli ucraini ha incrinato i rapporti bilaterali. Di fronte ai malumori ucraini il segretario di Stato presso la cancelleria del presidente della Polonia, Marcin Przydacz, non ha saputo tenere a freno la lingua. “L’Ucraina dovrebbe iniziare ad apprezzare ciò che la Polonia sta facendo per essa“, la dichiarazione ‘scappata’ nel corso dell‘intervista concessa al quotidiano Wprost.
    Parole “inaccettabili” per il governo ucraino, che ha immediatamente convocato l’ambasciatore polacco. A parole considerate forti si è risposto con un atto forte, il più forte, nelle dinamiche Ue-Ucraina, dall’avvio delle operazioni militari russe. Inoltre il presidente ucraino, Volodymir Zelensky, ha affidato a uno dei portavoce di governo, Andrii Sybiha, il compito di rispondere. “Respingiamo categoricamente i tentativi di alcuni politici polacchi di imporre alla società polacca l’idea infondata che l’Ucraina non apprezzi l’aiuto della Polonia“.
    Rapporti e relazioni dunque si incrinano. Scambi verbali e convocazioni di diplomatici che fanno il giro del mondo, assecondando il Cremlino. Anche in Russia si vedono segnali di cedimento nel sostegno europeo fin qui deciso all’Ucraina. Un prolungamento della guerra rischia di ledere la capacità di resistenza di un’unità a Ventisette fin qui poco scalfita. Anche se a ben vedere fin qui la politica adottata dall’Ungheria è stata meno risoluta di quella degli altri partner a dodici stelle. I segnali che arrivano dalla Polonia si aggiungono a quelli già registrati, sempre all’interno del blocco di Vysegrad.

    Uscita tutt’altro che felice quella del segretario di Stato presso la cancelleria del presidente della Polonia. Replica piccata dall’esecutivo ucraino. Il grano tra i motivi alla base delle tensioni

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    Uranio e influenza in Africa, il dilemma Ue del Niger tra interessi russi e cinesi

    Bruxelles – Democrazia, diritti, e poi l’uranio. Le instabilità in Niger possono di mettere in difficoltà il mercato dell’energia nucleare dell’Unione europea, che proprio dal Niger acquista uranio grezzo per i propri reattori. Per ora si rassicura, e si escludono impatti negativi dal colpo di Stato nel Paese dell’Africa occidentale. “Non c’è alcun rischio di approvvigionamento”, sostiene il portavoce della Commissione europea, Adalbert Jahnz. “Le imprese hanno sufficienti scorte di uranio naturale per mitigare qualsiasi rischio di approvvigionamento a breve termine e per il medio e lungo termine ci sono abbastanza depositi sul mercato mondiale per coprire il fabbisogno dell’Ue”.
    C’è però una questione geo-politica in ballo, fatta di energia nucleare, risorse, e presenza europea nell’area. Fin qui il Niger è stato il forniture numero uno dell’uranio nella sua forma grezza. La relazione della Commissione europea sul mercato di uranio, con dati aggiornati al 2021, afferma che “analogamente agli anni precedenti, Niger, Kazakistan e Russia sono stati i primi tre paesi a fornire uranio naturale all’Ue nel 2021, fornendo il 66,94% del totale”. Il Niger da solo, è arrivato a rappresentare un quarto dell’import complessivo a dodici stelle (24,26%). Non un fornitore marginalcina e, dunque. Alla luce delle relazioni sempre più delicate e complesse con la Russia quale risultato dell’aggressione all’Ucraina, l’Ue ha bisogno di ridurre le dipendenze con la federazione russa e un deterioramento ulteriore della situazione in Niger potrebbe indurre a rivedere la domanda di uranio.
    La Commissione Ue per ora intendere rimanere presente nel Paese. Evacuazione del personale e chiusura delle sedi di rappresentanza non sono prese in considerazione, perché andare via vorrebbe dire lasciare mano libera ad altri attori, a cominciare da quello cinese. Dopo la Francia la Repubblica popolare è il secondo più grande investitore straniero.
    Pechino è presente in Niger dal 1974, e ha dato nuovi impulsi alle relazioni bilaterali dagli inizi degli anni Duemila. Ha iniziato ad investire in infrastrutture (strade, ospedali, telecomunicazioni), scambi culturali (borse di studio per nigerini in Cina), a garantire sostegni umanitari contro disastri naturali. In cambio ha ottenuto diritto di esplorazione petrolifera e di uranio. Il progetto dell’oleodotto di circa 675 chilometri per la connessione Niger-Benin è possibile grazie a PetroChina, il colosso petrolifero cinese. Mentre Cnnc, la società di Stato attiva nel settore del nucleare, ha già avuto modo di lavorare col governo di Niamey per lo sviluppo del giacimento di Azelik.
    A livello globale il Niger rifornisce appena il 5% circa dell’uranio mondiale, ma è un fornitore leader per l’Ue. Sottrarre quote di mercato agli europei sarebbe per la Cina, già allo stato attuale fornitore principale di tutto ciò che serve all’Ue in termini di materie prime per la transizione sostenibile, un ulteriore colpo alle ambizioni di indipendenza e potenza europea.
    L’instabilità politica rischia però di complicare anche i piani cinesi, e non a caso anche la Cina segue con attenzione gli sviluppi nel Paese africano invitando a una soluzione. Per quanto a Bruxelles si cerchi di minimizzare e si ostenti sicurezza, in gioco c’è molto. Perché l’Ue ha deciso che il nucleare è ‘green’, non inserendolo la tecnologia nella tassonomia, l’insieme dei criteri che servono a determinare la sostenibilità di attività e prodotti. L’Ue ha bisogno dell’uranio per il suo nucleare, e il suo principale fornitore adesso offre meno garanzie.
    C’è anche l’aspetto russo della questione nigerina. L’uranio è certamente una questione ‘calda’ per l’Ue, ancora troppo legato alla Russia per ciò che serve per le centrali attive in Europa, soprattutto nei Paesi membri del quadrante nord-orientale. Alternative al combustibile russo è qualcosa di tutt’altro che semplice, e l’Ue non può permettersi di finire nuovamente nelle braccia del Cremlino. Ma da anni Mosca agisce nel continente africano, attraverso forniture di armi, accordi di cooperazione militare. Il controllo del continente sta diventando sempre più strategico, per via della sue ricchezze naturali in termini di risorse e materie prime. Governi ‘amici’ fanno l’interesse della partita in atto.
    La presenza del gruppo Wagner è stata accertata in almeno cinque Paesi africani (Libia, Mali, Sudan, Repubblica centrafricana, Mozambico). Si teme che il gruppo para-militare possa diventare una presenza forte anche in Niger. Analisti ricordano l’esempio del Mali, dove la Russia ha saputo inserirsi perché più accomodante rispetto alle richieste e alla condizioni poste dagli europei. “Ci sono già segnali che l’Ue potrebbe affrontare un dilemma simile in Niger“, avvertiva un anno fa, a giugno 2022, il think-tank pan-europeo Ecfr.
    C’è dunque la possibilità che il confronto tra Europa e Russia non si consumi solo sul fronte ucraino. La destabilizzazione del Niger gioca a favore di Mosca, più che dell’Europa, che nel Niger contava e conta anche per la gestione dei flussi migratori. All’incrocio di diverse rotte migratorie, il Niger ha rafforzato la sua politica di lotta alla migrazione irregolare con il sostegno dell’Ue, nell’ambito del nuovo partenariato dell’Ue con i Paesi terzi. Ora tutto questo rischia di saltare.
    A Bruxelles c’è già chi fa i conti con le tensioni e le incertezze nel Paese. In Parlamento Ue si inizia a riconoscere che il golpe “rischia di destabilizzare ulteriormente il Paese, oltre a problemi esistenti come l’instabilità regionale, la proliferazione di gruppi jihadisti violenti, un’ondata di rifugiati e sfollati interni”. In questo clima “il colpo di stato, salutato da Yevgeny Prigozhin, il capo di Wagner, potrebbe aumentare l’influenza della Russia sul Paese“.
    Una presa d’atto anche in Commissione, con l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, che punta il dito contro Mosca. In Niger, scrive sul suo blog, “l‘unica interferenza di cui possiamo parlare oggi è quella dei militari che rovesciano un Presidente eletto e quella di una Russia imperialista che vuole usare questi regimi come pedine nella sua partita a scacchi mondiale” in cui l’Europa ha molto da perdere. Attacca frontalmente anche il leader del Cremlino. “Da diversi anni la Russia di Vladimir Putin alimenta questi colpi di stato con la sua falsa propaganda e approfitta dell’instaurazione di questi regimi militari con le sue milizie private”. Accuse e toni che confermano l’importanza della posta in gioco. L’Ue si vede scalzata dall’Africa, e non solo dal Niger e dalle sue forniture di uranio.

    Per la Commissione ciò che serve al nucleare europeo non è a rischio ma in gioco c’è molto di più, con la presenza di Mosca e Pechino tutt’altro che marginale

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    Migranti e diritti, adesso l’Ue ammette i problemi in Libia

    Bruxelles – La situazione in Libia sta sfuggendo di mano, e adesso anche la Commissione europea non può non prenderne atto. L’assistenza offerta dall’Ue per potenziare il sistema di guardia costiera ai fini del controllo e della gestione dei flussi migratori è diventata un’arma nelle mani delle autorità di Tripoli. Sandra Pereira, europarlamentare de la Sinistra, punta il dito contro la Commissione. In un’interrogazione cita il recente rapporto delle Nazioni Unite, in cui l’Onu “riferisce una serie di crimini contro l’umanità che sono stati commessi nel Paese: arresti arbitrari, omicidi, torture, stupri, schiavitù, schiavitù sessuale, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni”.
    Tutti questi crimini contro l’umanità denunciati “sono stati commessi contro migranti in luoghi di detenzione sotto il controllo effettivo o nominale della direzione libica per la lotta alla migrazione illegale, della guardia costiera libica e dell’apparato di sostegno alla stabilità”. Soggetti ed entità che “hanno ricevuto supporto tecnico, logistico e monetario dall’Unione europea e dai suoi Stati membri per, tra l’altro, l’intercettazione e il rimpatrio dei migranti“. Data la situazione l’europarlamentare chiede se non sia il caso di sospendere ogni tipo di relazione o sostegno, ma il ‘no’ che arriva dalla Commissione è categorico.
    “Nelle difficili circostanze del Paese, l’interruzione dell’assistenza dell’Ue non farebbe che peggiorare la situazione sul campo“, sostiene il commissario per l’Allargamento e le politiche di vicinato, Oliver Várhelyi. Il componente del collegio di commissari riconosce dunque una situazione complicata, che Bruxelles fa fatica a gestire, e conferma l’intenzione di non rinunciare a un elemento della dimensione esterna delle politiche per l’immigrazione considerato come fondamentale.
    “Il lavoro della Commissione in Libia – continua Várhelyi – segue gli orientamenti strategici del Consiglio europeo, le decisioni del Consiglio e il piano d’azione dell’Ue sul Mediterraneo centrale, approvato dal Consiglio” stesso, vale a dire ministri e leader degli Stati dell’Unione europea. La Commissione, in sostanza esegue un mandato frutto di un accordo politico, ma le parole del commissario sembrano scaricare le responsabilità del deterioramento della situazione sulle capitali.
    La risposta fornita dal commissario per l’Allargamento non sembra né chiarire né tanto meno rassicurare. Offre al contrario l’immagine di una situazione che ha preso una piega tanto inattesa quanto ingovernabile a livello Ue. Il massimo delle garanzie offerte da Varhelyi è la promessa che “proseguirà l’impegno costruttivo con le autorità libiche e tutti i pertinenti attori internazionali su come l’Ue possa contribuire al meglio all’obiettivo comune di garantire la protezione dei diritti umani, anche nel contesto della migrazione”.
    Potrebbe non bastare a calmare la situazione. Non è la prima volta che dal Parlamento europeo arrivano critiche per le responsabilità dell’Europa nel deterioramento della situazione in Libia con la complicità di una guardia costiere potenziata e finanziata dall’Ue. Ue che non sta facendo una bella figura, e Varhelyi riesce a fare poco per riparare al danno di immagine.

    Il commissario per l’Allargamento: “Nelle difficili circostanze del Paese, l’interruzione dell’assistenza dell’Europa non farebbe che peggiorare la situazione sul campo”

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    L’accordo tra Bruxelles e Washington sui minerali critici è più vicino

    Bruxelles – L’accordo tra Usa e Unione europea sui minerali critici è sempre più vicino. I ministri degli Esteri dei Ventisette Stati membri Ue hanno autorizzato ieri (20 luglio) la Commissione europea ad avviare i negoziati, a nome dell’Ue, con gli Stati Uniti su un accordo sui minerali critici e le relative direttive di negoziato. 
    Da mesi ormai è in corso il dialogo tra Bruxelles e Washington per rafforzare le catene di approvvigionamento di minerali critici, necessari alla produzione di tecnologia pulita, e distendere le tensioni create dall’Inflation Reduction Act (IRA), il vasto piano di sussidi verdi per quasi 370 miliardi di dollari varato dall’amministrazione Usa ormai quasi un anno fa, che Bruxelles teme possa svantaggiare le imprese europee. L’Unione europea è responsabile della politica commerciale degli Stati membri e negozia gli accordi per loro, dunque formalmente è la Commissione europea che chiede agli Stati membri una sorta di mandato politico per poter negoziare con una voce sola un accordo commerciale con un partner esterno.
    Da quando l’amministrazione Biden ha presentato l’IRA lo scorso agosto, è stata istituita una task force Usa-Ue con cui Bruxelles sta cercando di ottenere agevolazioni per le imprese dell’Ue, un trattamento di favore come quello di cui godono Canada e Messico. In assenza di un accordo globale di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti, la conclusione di un accordo mirato sui minerali critici dovrebbe consentire ai minerali critici estratti o trasformati nell’Ue di essere conteggiati ai fini di determinati requisiti di credito d’imposta dell’IRA sui veicoli puliti e dunque poter accedere alle stesse agevolazioni.
    Passi avanti nei mesi scorsi si sono registrati nell’ottenere l’accesso ai privilegi fiscali negli Stati Uniti per l’industria automobilistica europea, in particolare sulle auto elettriche aziendali in leasing. Rimane l’altra questione dei minerali critici per la produzione di batterie elettriche, su cui l’Ue vuole un accordo separato. L’Ira prevede fino a un massimo di 7.500 dollari di incentivi per le batterie elettriche, di cui 3.750 riguardano i minerali e 3.750 il resto della componentistica. Per la quota relativa ai minerali – quindi il 50 per cento – Bruxelles vuole che anche le batterie prodotte in Europa possano avvalersi degli incentivi fiscali americani.
    Mandato sui minerali critici
    Secondo il mandato adottato dagli Stati membri, l’accordo sui minerali critici alla transizione dovrebbe essere “pienamente coerente con le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio” e pienamente in linea “con gli obiettivi perseguiti nell’atto dell’Ue sulle materie prime critiche”, il Critical Raw Material Act presentato lo scorso 16 marzo. L’intesa dovrà inoltre promuovere livelli elevati di protezione ambientale e protezione dei lavoratori nel settore dei minerali critici e “incoraggiare la responsabilità sociale delle imprese lungo le filiere di approvvigionamento di minerali critici” e mirare a prevenire pratiche distorsive e protezionistiche nelle catene di approvvigionamento di minerali critici. 
    Infine, il mandato politico alla Commissione prevede che l’accordo continui a incoraggiare “la cooperazione sulle norme internazionali per la valutazione del ciclo di vita dei minerali critici, l’estrazione, l’etichettatura, il riciclaggio e la trasparenza , al fine di sostenere catene di approvvigionamento sostenibili e contribuire a prevenire futuri ostacoli al commercio Ue-Usa”. Con il mandato ora ufficialmente in mano, la Commissione europea può ora iniziare i negoziati formali con gli Stati Uniti in vista della conclusione dell’accordo. L’approvvigionamento di minerali critici per la transizione verde dipende quasi esclusivamente dalla Cina che lavora quasi il 90 per cento di terre rare e il 60 per cento di litio, indispensabile per la produzione di batterie elettriche. La Commissione ha presentato nei mesi scorsi i dettagli legislativi del suo Piano industriale per il Green Deal, una strategia di lungo termine per la competitività dell’industria: il ‘Net-Zero Industry Act’, la proposta di regolamento per l’industria a emissioni zero, il ‘Critical Raw Material Act’ per non perdere la corsa all’approvvigionamento di materie prime critiche per la transizione e la riforma del mercato elettrico dell’Ue. I due co-legislatori europei – Parlamento e Consiglio – stanno ora cercando un accordo politico su questi tre pilastri normativi del Piano per l’industria green.

    Gli Stati membri Ue autorizzano la Commissione europea ad avviare i negoziati, a nome dell’Ue, con gli Stati Uniti su un accordo sui minerali critici che sia in linea con l’Organizzazione mondiale del commercio

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    Ucraina, danni ambientali per 52,4 miliardi e difficili da risarcire

    Bruxelles – Laghi, fiumi, boschi, aria, e soprattutto suolo, suolo agricolo. Tra le vittime del conflitto in corso in Ucraina ci sono anche loro, natura e ambiente. Danni quantificati fin qui in oltre 50 miliardi di euro, non tutti riparabili nel giro di poco tempo, e che pongono non pochi problemi, non solo per l’Ucraina. Il Parlamento europeo inizia a fare calcoli e considerazioni fin qui passate in secondo in piano, accendendo i riflettori sugli ‘eco-contraccolpi’ del conflitto, in un documento di lavoro dal titolo inequivocabile: ‘La guerra della Russia in Ucraina: l’alto pegno ambientale’.
    Al 18 luglio 2023 in Ucraina si registrano “2.317 segnalazioni verificate di azioni militari con un effetto ambientale diretto” sulla natura, anche se le denuncia sono di più (2.450). Le stime basate sulle ispezioni ambientali dell’Ucraina mostrano che l’invasione della Russia fin qui “ha causato danni ambientali per circa 52,4 miliardi di euro” tra impatti negativi sull’aria (27 miliardi), per l’acqua (1,5 miliardi), al suolo (0,3 miliardi), e inquinamento da rifiuti (23,6 miliardi).
    Numeri che confermano come e quanto la guerra ancora in corso non abbia prodotto solo morte e distruzione, ma “ha avuto anche un impatto negativo sulla ricca biodiversità dell’Ucraina”. Incendi boschivi e atti di deforestazione, esplosioni, costruzione di fortificazioni e avvelenamento del suolo e dell’acqua “hanno tutti un impatto sulla fauna selvatica e distruggono gli habitat naturali, compresi quelli protetti nelle riserve della biosfera e nei parchi nazionali, molti dei quali fanno anche parte della Rete Smeraldo paneuropea”.
    Ma è soprattutto la questione del suolo a preoccupare a Bruxelles, per le implicazioni sulla produzione agricola. Quanto accaduto finora “ha compromesso” il settore primario ucraino, “vitale per l’economia del Paese e per la sicurezza alimentare globale”, entrambe a rischio perché “la contaminazione causata dalle armi pone un problema a lungo termine”, che si aggiunge alla questione del grano. Bonificare e rendere nuovamente coltivabili e produttivi i campi del Paese “richiede risorse significative, richiede tempi lunghi e comporta rischi”. Ad ogni modo, si precisa, prima che la situazione torni alla normalità “una parte significativa dei seminativi sarebbe inutilizzabile per anni”. Tre i tipi principali di danni per il settore primario ucraino: degrado fisico, inquinamento chimico diffuso da miniere e industrie colpite, e munizioni esplose. Tutte tipologie di danni che “hanno colpito gravemente milioni di ettari di terreni agricoli ucraini”, e il cui rimborso da parte dell’aggressore non è scontato.
    La strada per esigere eventuali riparazioni dei danni ambientali causati dalla guerra in Ucraina “non è priva di sfide”, si riconosce nel documento di lavoro. Innanzitutto perché “raccogliere prove e quantificare i danni è problematico”. E poi perché “mentre potrebbero esserci alcune possibili procedure legali per ottenere un risarcimento per il danno ambientale causato, il processo è complicato e tutt’altro che semplice, con pochissimi precedenti esistenti di tali risarcimenti”.

    Dal Parlamento Ue focus sulle ricadute del conflitto per la natura. Rischi per l’agricoltura. “Raccogliere prove e quantificare i danni è problematico”

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    Borrell a L’Avana, l’Ue pronta a sostenere le neonate aziende private di Cuba

    Bruxelles – L’Ue sembra pronta a scrivere un nuovo capitolo nella complicata storia delle relazioni con Cuba. È questo il messaggio che Josep Borrell, al suo primo viaggio a L’Avana come Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, sta portando nell’isola della rivoluzione castrista: Bruxelles guarda con interesse all’apertura verso il libero mercato che sta attuando il Paese e al suo neonato settore privato.
    Perché il governo di Miguel Diaz-Canel, alle prese con una delle peggiori crisi economiche della storia di Cuba e con forti tensioni sociali, nel 2021 ha dato il via libera alla creazione di micro, piccole e medie imprese (Mpmi), che in poco più di un anno hanno già cambiato radicalmente il panorama economico del Paese socialista. Oggi un cubano su tre lavora in una delle quasi 8 mila mpmi, che producono ormai il 12 per cento del prodotto interno lordo nazionale.
    Josep Borrell all’incontro con gli imprenditori cubani (Photo by YAMIL LAGE / AFP)
    Non a caso il primo incontro di Borrell nella due giorni a L’Avana è stato proprio con i rappresentanti delle nuove imprese private: per loro “il contesto attuale è ricco di sfide, ma anche di formidabili opportunità – ha dichiarato il capo della diplomazia europea-, speriamo che saranno in grado di consolidarsi e di continuare a contribuire alla modernizzazione economica di Cuba”. Bruxelles, ha promesso Borrell, “è impegnata a supportarle”: nel periodo 2021-24, l’Ue ha stanziato 91 milioni di euro in diversi accordi di collaborazione con Cuba, di cui 14 per il suo emergente settore privato. Corsi di formazione, supporto tecnico, consulenza, accesso ai finanziamenti: queste le carte messe sul tavolo dall’Unione per stimolare il nuovo ecosistema economico dell’isola.
    Dopo la firma dell’Accordo di Dialogo Politico e di Cooperazione nel 2017, che ha messo fine a vent’anni di allontanamento, la distanza tra l’Ue e Cuba potrebbe finalmente ridursi. All’interno di questo spazio, se per l’Avana è di primaria importanza la condanna europea del logorante embargo statunitense – in vigore da sessant’anni- e l’impegno diplomatico perché l’amministrazione Biden rimuova l’isola dall’elenco dei Paesi che sponsorizzano il terrorismo (con Corea del Nord, Siria e Iran), per Bruxelles uno dei temi chiavi del dialogo con l’Avana è il progresso nel campo dei diritti umani. “Ci sono cose che le persone dovrebbero avere anche se non possono permettersele: i diritti”, ha twittato Borrell a margine dell’incontro con gli imprenditori cubani, ricordando che “è necessario trovare un equilibrio tra libertà fondamentali, iniziativa privata, equità fiscale, azione statale e azione economica individuale”.
    L’invito a mettere da parte qualsiasi ambiguità sul rispetto dei diritti sarà probabilmente ribadito durante l’incontro di oggi (26 maggio) con il ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodríguez, nel terzo Consiglio congiunto Ue-Cuba dopo la firma dell’accordo del 2017. Sul piatto ci sarà anche la condanna della guerra d’aggressione russa in Ucraina, dal momento che il governo di Diaz-Canel negli ultimi mesi ha accresciuto, anche per far fronte alla crisi economica e sociale interna, il suo avvicinamento alla Russia sia economicamente che politicamente. Il 23 febbraio scorso, in occasione della risoluzione Onu per la pace giusta in Ucraina, che chiedeva l’immediato abbandono delle truppe russo dal territorio invaso, Cuba ha infatti preferito astenersi.

    L’Alto Rappresentante Ue ha incontrato gli imprenditori delle ormai 8 mila piccole medie imprese dell’isola della rivoluzione castrista. “Il contesto attuale è ricco di sfide e di formidabili opportunità”, ha dichiarato. Oggi l’incontro con il ministro degli Esteri, sul piatto progressi sui diritti e condanna dell’embargo statunitense

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    I territori ucraini chiedono aiuto alle Regioni Ue in vista della ricostruzione

    Bruxelles – Essere pronti per quando sarà il momento, per quando la ricostruzione dell’Ucraina potrà partire. La riforma della pubblica amministrazione, con il decentramento e il trasferimento di maggiori poteri e maggiori competenze e regioni e comuni diventa cruciale. Ucraina ed Europa sono già lavoro, ma la prima ha bisogno della seconda per non farsi trovare impreparata. Il sindaco di Kiev, Vitalii Klychko, si rivolge al Comitato europeo delle regioni per chiedere aiuto in un percorso non scontato, perché la guerra ha cambiato contesto e paradigma.
    “Abbiamo poco tempo, e dobbiamo fare adesso ciò che serve per fare dell’Ucraina un Paese europeo”, riconosce Klychko. “Serve una riforma per l’autogoverno”, e in tal senso “voglio chiedere al Comitato europeo delle regioni l’assistenza per fare queste riforme“. La richiesta di sostegno riguarda in particolare “una roamap”, quanto mai fondamentale, come l’aiuto che si cerca in Europa. “Senza questa assistenza non saremmo in grado”.
    Ripete in sostanza quanto già espresso dal presidente della Repubblica. Anche Volodymyr Zelensky ha apertamente invitato le regioni europee a lavorare con il Paese, con la differenza che il sindaco di Kiev porta il punto di vista delle comunità locali e loro esigenze, quelle che si porranno.
    Il Comitato europeo delle regioni è già al lavoro. Ospita la riunione dell’Alleanza europea delle città e delle regioni per ricostruzione dell’Ucraina, in vista delle conferenza internazionale di Londra in programma il 21 e 22 giugno. La disponibilità c’è, consapevoli che “il decentramento amministrativo nel contesto della ricostruzione è importante”, scandisce Niina Ratilainen, facente le veci del presidente Vasco Alves Cordeiro. “Il Comitato incoraggia la riforma della pubblica amministrazione e il decentramento amministrativo, e siamo d’accordo con l’andare avanti” nonostante tutto, per essere pronti.
    Alla fine delle ostilità saranno le comunità locali a dover far uso delle risorse utili per ricostruire i territori, e si vuole già un quadro legislativo chiaro, pronto per l’uso. “Vediamo pressioni di centralizzazione” legate alle logiche della guerra, ammette Andreas Schaal, direttore per la Cooperazione e le relazioni globali dell’Ocse, ma “è cruciale avere decentralizzazione quando arriverà il momento delle ricostruzione”. Territori d’Ucraina e d’Europa si preparano.

    Il sindaco di Kiev al Comitato europeo: “Per il decentramento amministrativo ci serve la vostra assistenza”

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    Ucraina, gli aiuti Ue salgono a 70 miliardi di euro. Finanziamenti militari per 15 miliardi

    Bruxelles – Un totale di 70 miliardi di euro di aiuti. Di questi, 10 miliardi di euro solo per sostegno militare.  La Commissione europea inizia a fare un bilancio di quanto offerto all’Ucraina per far fronte all’aggressione russa e ciò che ne deriva. Cifre che rispondono agli impegni assunti, nel rispetto dei quali l’esecutivo comunitario annuncia un nuovo pacchetto di aiuti da 1,5 miliardi di euro assistenza micro-finanziaria per il governo di Kiev. Saranno sborsati “a giugno”, e serviranno per pagare stipendi e pensioni, oltre che mantenere in funzione i servizi pubblici essenziali come ospedali, scuole e alloggi.
    E’ nell’annunciare questo nuovo contributo che l’esecutivo comunitario offre i dati complessivi. Dall’inizio della guerra il sostegno all’Ucraina e agli ucraini ammonta a circa 70 miliardi di euro. E’ ripartito in aiuti finanziari, umanitari, di emergenza e militari. La parte di assistenza finanziaria per le necessità urgenti, con questo nuovo impegno appena deciso, ammonta a 18 miliardi di euro. Quasi la metà (7,5 miliardi) sono stati resi disponibili nel 2023.
    Questi 18 miliardi sono inclusi nel più ampio programma di assistenza finanziaria e umanitaria. Un totale di 37,8 miliardi di euro, tra fondi Ue (30 miliardi) e prestiti e garanzie degli Stati membri (7,8 miliardi). E’ qui che ricadono i pacchetti umanitari diretto (685 milioni), sostegno per sfollati (330 milioni), sostegno alle riforme (305 milioni).
    Mentre la parte solo militare vale da sola un oltre settimo del totale. Così spiega l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. “Complessivamente, al momento, grazie allo European Peace Facility, abbiamo incentivato 10 miliardi di euro di sostegno militare all’Ucraina“, dice in occasione della riunione dei ministri delle Difesa. Anche se, alle fine, con i contributi bilaterali il sostegno militare potrebbe arrivare anche 20 miliardi di euro. Allo stato attuale il contributo militare complessivo, tra fondi Ue e dei singoli governi, si aggira a 15 miliardi di euro.
    Il resto del sostegno Ue per gli Ucraini, 17 miliardi di euro, sono il frutto di fondi di coesione non utilizzati e che servono per sostenere donne e bambini ucraini accolti negli Stati membri grazie al meccanismo della protezione temporanea. Riconosciuta subito, è stata concessa a oltre tre milioni di persone.

    Il bilancio fornito in occasione dell’annuncio del nuovo pacchetto di aiuti da 1,5 miliardi per sostegno a stipendi e pensioni, disponibile a giugno