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    L’attivismo di Borrell per una pace tra Israele e Palestina. A New York lancia il ‘Peace Day Effort’ e incontra il primo ministro di Ramallah

    Bruxelles – La causa è di quelle sacrosante, l’orizzonte appare più lontano che mai. Il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, non demorde e rilancia un processo di pace tra Israele e Palestina fondato sulla soluzione di vecchia data dei due Stati. Non è solo, con lui ci sono anche la Lega degli Stati Arabi, l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania. Ma le più distanti sembrano proprio essere Tel Aviv e Ramallah.
    Nel corso del 2023, già segnato da un’escalation di scontri che – secondo i dati di Ocha-opt, l’Ufficio delle Nazioni Unite nei territori Palestinesi occupati – hanno causato 219 vittime palestinesi e 29 israeliane, l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri ha lanciato numerosi appelli a entrambe le parti per mettere fine alle violenze. Per ora sono rimasti inascoltati, e gli unici motivi che possono far pensare ad un esito diverso di questo ennesimo sforzo sono il palcoscenico scelto per inaugurarlo e gli obiettivi pratici che si è dato.
    Il lancio del Peace Day Effort a New York, 18/09/23
    A New York per la 78esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, lunedì 18 settembre l’Unione europea, il Regno dell’Arabia Saudita, la Lega degli Stati Arabi, in collaborazione con la Repubblica Araba d’Egitto e il Regno di Giordania – e alla presenza di quasi cinquanta ministri degli Esteri di tutto il mondo-, hanno inaugurato il ‘Peace Day Effort‘. Uno sforzo che “mira a produrre un pacchetto di sostegno alla pace”, con programmi e contributi dettagliati, condizionati al raggiungimento di un accordo tra le parti sullo status finale della regione dilaniata da un conflitto secolare.
    Durante l’incontro, sono stati avviati gruppi di lavoro incaricati di elaborare le componenti di questo pacchetto: un team dedicato al lavoro politico e di sicurezza, incentrato sullo “sviluppo di uno schema di potenziali meccanismi di cooperazione regionale, politica e di sicurezza post-pace”, un gruppo di lavoro economico e ambientale, che si è concentrato sullo sviluppo di “proposte di cooperazione economica, anche nei settori del commercio, dell’innovazione, delle infrastrutture di trasporto, delle risorse naturali, dell’ambiente”, ed un ultima equipe di lavoro sulla dimensione umana, dedicata allo sviluppo di “proposte di cooperazione in questioni umanitarie, interculturali e di sicurezza umana”. I progressi dei tre gruppi verranno valutati ogni tre mesi, a partire dal prossimo dicembre, con l’obiettivo di unire i loro contributi e presentare il Pacchetto di sostegno alla pace entro il settembre del 2024.
    Borrell incontra il primo ministro Shtayyeh: “Necessario garantire uno stato palestinese sovrano”
    Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh e l’Alto rappresentane Josep Borrell, 23/01/23
    Questo vasto piano di supporto entrerebbe in vigore il giorno in cui venisse siglata la storica pace. Ma non una qualunque: come assicurato da Borrell al primo ministro palestinese, Mohammed Shtayyeh, con cui ha avuto un bilaterale nella giornata di ieri (19 settembre), il rinnovato impegno non potrà prescindere dalla “necessità di preservare la soluzione dei due Stati garantendo uno stato palestinese sovrano, indipendente e contiguo“, basato sulle linee antecedenti alla guerra dei 6 giorni del giugno 1967. In attesa del vertice politico ad alto livello tra i ministri degli Esteri dei 27 e l’Autorità palestinese, previsto per novembre, Borrell ha insistito con Shtayyeh sulla necessità che “entrambe le parti collaborino per porre fine al terrorismo e all’incitamento alla violenza e per fermare le misure unilaterali che minano ulteriormente le prospettive di una soluzione a due Stati”. E ha sollecitato il primo ministro di Ramallah a convocare elezioni nazionali “attese da tempo”.
    Come si legge in una nota pubblicata dal Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae), Shtayyeh “è stato informato dell’incontro presieduto dall’Alto rappresentante con l’Arabia Saudita, la Lega degli Stati arabi, l’Egitto e la Giordania, incentrato sulle possibili modalità di rilancio del processo di pace in Medio Oriente” e sullo sviluppo di “una visione positiva con un ampio sostegno da parte della comunità internazionale per contribuire a promuovere la pace, la stabilità e la sicurezza nella regione”. Un incontro a cui però, oltre all’Autorità palestinese, non era presente neanche Israele. Che sulla condanna di “tutte le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status del territorio palestinese occupato dal 1967”, ribadita durante il vertice, avrebbe qualcosa da ridire.

    A margine dell’Assemblea generale dell’Onu, l’Ue, la Lega Araba, l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania si sono impegnate per ridare vigore al processo di pace in Medio Oriente. Borrell ha esortato il premier palestinese Shtayyeh a tenere “elezioni nazionali attese da tempo”

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    Gas, diritto internazionale e alleanze regionali: ecco perché l’Ue può e farà poco in Nagorno-Karabakh

    Bruxelles – L’Unione europea condanna e si inquieta ma di fronte alla nuova offensiva azera nel territorio contestato del Nagorno-Karabakh fa quel che può, poco, molto poco. Per ragioni giuridiche, geo-politiche, e per una politica estera alle volte inesistente e ancora tutta da costruire e le contraddizioni di un progetto solo in parte federale ma ancora troppo confederato. La questione armeno-azera, frutto dei rimasugli dell’era sovietica che non si è saputo risolvere ripropone solo una volta di più una questione di lungo corso: un’Europa che si muove in modo confuso e sparso, e che a tratti appare estremamente debole.
    Il diritto internazionale stabilisce e riconosce la regione del Caucaso come parte dell’Azerbaijan, che l’Armenia occupa illegalmente dal 1991. L’Assemblea generale dell’Onu, con tanto di risoluzione, già il 14 marzo 2008 ha stabilito l’integrità territoriale dell’Azerbaijan chiedendo il ritiro di tutte le forze armene. Una risoluzione approvata con 39 voti a favore, 100 astensioni e appena 7 contrari (con 46 Stati assenti al momento del voto). Gli Stati dell’Ue non hanno di fatto mai preso una posizione chiara. La Francia ha votato contro, schierandosi dunque con Yerevan. Gli altri Stati dell’Ue alle Nazioni Unite si sono astenuti.
    Di fronte a questo schieramento per l’Ue diventa difficile fare più di quanto fatto finora, vale a dire tentare di mediare ed invitare al dialogo. Ma in un periodo in cui, sopratutto a Bruxelles, è continuo insistere su “valori”, “diritti” e loro rispetto, trovarsi nella scomoda situazione di dover dire qualcosa senza poter essere davvero incisivi mette a nudo tutta l’affidabilità di un’Unione con cui comunque si interagisce.
    L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, in questi momenti concitati, ha capito perfettamente quello che sta per succedere. “Questa escalation militare non deve essere usata come pretesto per forzare l’esodo della popolazione locale”, e dunque un cacciata degli armeni da parte degli azeri. Non ha capito come può evitarlo, e probabilmente non potrà. Interventi, del resto non sono possibili. Ci sono troppi attori, e tutti scomodi, in gioco. La Russia, tradizionalmente amica dell’Armenia, anche se dell’Armenia internazionalmente riconosciuta, e che potrebbe ‘far pagare’ l’accresciuta cooperazione militare con Stati Uniti e Nato nonostante l’Armenia sia attualmente membro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), guidata dalla Russia.
    La Turchia, dichiaratamente dalla parte di Baku, con tanto di accordo bilaterale turco-azero di mutuo sostegno in caso di aggressione militare. Ecco il dilemma. Se le forze armene dovessero aprire il fuoco contro quelle azere, in un territorio considerato azero, potrebbe innescarsi un nuovo conflitto alle porte dell’Europa. E poi gli Stati Uniti, tra i sette contrari alla risoluzione Onu del 2008. Ancora l’Iran, che condivide le proprie frontiere con entrambi i contendenti.
    L’Ue non si immolerà per la causa armena in Nagorno-Karabakh. Anche per ragioni squisitamente economiche. Alla vigilia dell’ultimo incontro del Consiglio di cooperazione Ue-Azerbaigian del 19 luglio 2022, in pieno conflitto russo-ucraino e crisi energetica, le due parti hanno firmato un memorandum d’intesa (MoU) su un partenariato energetico strategico, volto ad aumentare le forniture di gas azerbaigiano all’Ue attraverso il Corridoio Sud del Gas ad almeno 20 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2027 (da 8,1 miliardi nel 2021).

    Una mancata azione in politica estera e ragioni squisitamente economiche legate alle forniture di gas dall’Azerbaigian

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    A Pechino il secondo dialogo di alto livello Ue-Cina sul digitale. Per Jourová fondamentale “mantenere aperti i canali di comunicazione”

    Bruxelles – Mantenere aperti i canali di comunicazione con la Cina. È questa la parola d’ordine della Commissione europea, a pochi giorni dall’annuncio di Ursula von der Leyen di voler istituire un’indagine sulle sovvenzioni statali ai veicoli elettrici provenienti dal gigante asiatico, che ha creato non pochi dissapori con Pechino. E la prima occasione è andata in scena oggi (18 settembre), con la vicepresidente dell’esecutivo Ue, Věra Jourová, impegnata nel secondo appuntamento del dialogo ad alto livello con la Cina sul digitale.
    È stata propria la vice di von der Leyen, responsabile per le politiche sui valori e la trasparenza, a ricordare su X (ex Twitter) la necessità di proseguire un dialogo costruttivo con Pechino, quanto meno dove gli interessi sono convergenti. Questioni chiave come le piattaforme digitali e le normative sui dati, l’intelligenza artificiale, la ricerca e l’innovazione, il flusso transfrontaliero di dati industriali, la sicurezza dei prodotti venduti online: questi i temi sul tavolo del dialogo co-presieduto da Jourová e dal vicepremier cinese, Zhang Guoqing.
    Il piano d’azione Ue-Cina sulla sicurezza dei prodotti venduti online
    “Oggi abbiamo avuto una discussione franca con la Cina sugli aspetti cruciali delle nostre politiche e tecnologie digitali, vogliamo cooperare laddove possiamo realizzare progressi sostanziali”, ha dichiarato Jourová a margine della giornata di lavori, annunciando inoltre di aver compiuto “un importante passo avanti sul fronte della tutela dei consumatori”. La Commissione Ue e la Cina hanno infatti accolto con favore la firma del piano d’azione sulla sicurezza dei prodotti venduti online, che si pone come obiettivo di “rafforzare ulteriormente il dialogo e la cooperazione” tra l’esecutivo comunitario e l’Amministrazione generale delle dogane cinesi (Gacc).
    Un piano d’azione che prevede lo scambio più rapido di informazioni su prodotti non sicuri, l’organizzazione di workshop periodici per condividere informazioni su leggi, regolamenti e buone pratiche, e attività specifiche di formazione per le aziende sulle più avanzate norme europee sulla sicurezza dei prodotti online. “Si tratta di una situazione vantaggiosa per tutti e di un passo importante verso l’innalzamento degli standard di protezione dei consumatori all’interno dell’Unione europea e oltre”, ha commentato il commissario europeo per la Giustizia, Didier Reynders.
    Reciprocità per le aziende europee e de-risking dalla Cina. Gli attriti rimangono
    Archiviato questo piccolo successo, il dialogo è proseguito con un aggiornamento da parte della Commissione europea sugli ultimi sviluppi normativo dell’Ue, tra cui il Digital Services Act e il Digital Market Act, e con uno scambio di vedute sull’intelligenza artificiale. Jourová ha presentato a Pechino gli sviluppi della legge Ue sull’intelligenza artificiale e ha sottolineato “l’importanza di un uso etico di questa tecnologia nel pieno rispetto dei diritti umani universali, alla luce dei recenti rapporti delle Nazioni Unite”. La commissaria avrebbe espresso le preoccupazioni del blocco Ue sulle difficoltà incontrate dalle imprese europee in Cina nell’utilizzare i propri dati industriali e esortato le autorità cinesi a “garantire un contesto imprenditoriale equo e basato sulla reciprocità” del settore digitale.
    Gli attriti e la diffidenza rimangono, come dimostra il fatto che Jourová abbia dovuto rendere conto a Guoqing della politica di de-risking che l’Ue ha scelto di condurre nei confronti del gigante asiatico. Un approccio che consiste nel mitigare i rischi per le catene di approvvigionamento, le infrastrutture critiche e la sicurezza tecnologica emancipandosi da qualsiasi rischio di dipendenza da Pechino. “Dobbiamo impegnarci nelle aree in cui non siamo d’accordo. Non possiamo risolvere le nostre preoccupazioni e i nostri punti di vista diversi in un giorno, ma manterremo il dialogo sulle questioni digitali, che sono così fondamentali sia per le nostre economie che per le nostre società”, ha concluso la vicepresidente della Commissione europea. Le parti hanno concordato di proseguire le discussioni a livello tecnico, riprendendo il dialogo Cina-Ue sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic).

    La vicepresidente della Commissione Ue per i valori e la trasparenza ha presieduto i lavori con il vicepremier cinese, Zhang Guoqing. “Importante passo avanti” con la firma del piano d’azione sulla sicurezza dei prodotti online, ma Jourová avverte: “Dobbiamo impegnarci nelle aree in cui non siamo d’accordo”

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    La politica pro-russi della Serbia preoccupa l’Ue

    Bruxelles – Slavi, ortodossi, un’affinità culturale che ha prodotto amicizia e legami di lungo corso. Serbia-Russia, la relazione speciale si ripropone in una chiave tutta nuova che inquieta l’Unione europea. Belgrado, attraverso le sue politiche, starebbe attirando cittadini e imprese russi in un modo di cui si chiede conto. Al Paese balcanico, ovviamente, ma alla Commissione, affinché questa faccia pressioni sull’alleato. Ma alleato di chi? Nell’europarlamento i Verdi si pongono questa e altre domande.
    Si ritiene che dall’inizio della guerra in Ucraina siano arrivati in Serbia 219.153 cittadini russi. Di questi, sostengono i greens, “ufficialmente circa 30mila hanno attualmente il permesso approvato per il soggiorno temporaneo in Serbia”. A questo dato si aggiunge l’annuncio del governo serbo per modifiche alla legge sulla cittadinanza, che può essere concessa dopo solo un anno di residenza ininterrotta nel Paese. C’è poi la questione economica. “Il numero di aziende e imprenditori russi in Serbia nei primi quattro mesi del 2023 è cresciuto del 37 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso”. Risultato: allo stato attuale “in Serbia i russi possiedono o hanno fondato complessivamente 6.976 imprese”.
    Tutto questo pone la questione dell’aggiramento delle sanzioni, ma soprattutto il rispetto di degli obblighi che la Serbia avrebbe nei confronti dell’Ue in quanto Paese candidato all’adesione dal 2012. A Bruxelles l’auspicio è che Belgrado ‘righi dritto’, tenendo fede agli impegni derivanti dalle scelte compiute in materia di avvicinamento all’Ue. Tuttavia, riconosce il commissario per l’Allargamento, Oliver Varhely, “la Commissione ha espresso preoccupazione per il fatto che le modifiche previste alla legge sulla cittadinanza serba potrebbero comportare rischi per la migrazione o la sicurezza per l’Ue, dato che i cittadini serbi godono dell’accesso senza visto all’Unione europea”.
    A livello comunitario si esercitano pressioni sulla Serbia, o almeno ci si prova nei limiti del possibile. Se da una parta la Commissione “ha chiesto alla Serbia di prendere in considerazione le sue preoccupazioni, in particolare garantendo che nelle modifiche alla legge sull’acquisizione della cittadinanza siano introdotte forti garanzie e controlli di sicurezza”, dall’altra parte, continua Varhely, la Commissione e le autorità serbe “restano in stretto contatto su questo argomento”. L’esecutivo comunitario in sostanza monitora, e prova a correre ai ripari.

    La concessione più veloce della cittadinanza richiama cittadini nel Paese. Aumenta anche il numero di imprese russe sul territorio. Il timore per sicurezza e aggiramento delle sanzioni contro Mosca

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    55 morti e 146 feriti in Libia, le milizie per ora fermano gli scontri. Dall’Ue “grande preoccupazione”

    Bruxelles – La Libia è ancora una polveriera, un Paese in equilibrio precario che rischia di scivolare nel caos ad ogni azione intrapresa dalle diverse milizie che si contendono il controllo del territorio. Dopo gli scontri degli ultimi due giorni, che hanno provocato 55 morti e almeno 146 feriti, l’allarme sembra essere rientrato. Un allarme suonato forte anche a Bruxelles, che segue “con grande attenzione e preoccupazione gli ultimi avvenimenti in Libia”.
    Arriva dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, l’invito “a tutte le parti a continuare ad astenersi dalle ostilità armate” e ad “avviare un dialogo per allentare la tensione e riportare la calma” a Tripoli. Secondo il The Libya Observer, questa mattina (17 agosto) i leader dei principali gruppi armati libici si sono incontrati e hanno deciso di “porre fine ai combattimenti e ripristinare l’ordine” nella capitale. A seguito dell’incontro, sarebbe già stato liberato il generale della brigata 444, Mohamed Hamza: allineato al primo ministro del governo di unità nazionale sotoo l’egida delle Nazioni Unite, Abdel Hamid al-Dbeibeh, Hamza era stato arrestato da un’unità affiliata alla forza di deterrenza ‘Rada’ all’inizio di questa settimana. Proprio la sua cattura ha innescato le rappresaglie da parte della brigata 444 e di altre milizie alleate.

    The commander of the 444th Brigade Mahmoud Hamza, whose detention sparked deadly clashes in Tripoli, has been released. pic.twitter.com/mXEyTbV0G6
    — The Libya Observer (@Lyobserver) August 17, 2023

    “Gli ultimi eventi sono un vivido promemoria della fragilità della situazione della sicurezza in Libia e dell’urgente necessità di elezioni per trovare una soluzione politica sostenibile e inclusiva”, ha commentato il capo della diplomazia europea. Un’instabilità su cui l’Ue ha dovuto più volte chiudere un occhio, obbligata in ogni caso ad allacciare rapporti con il Paese del vicinato meridionale. Nel complesso, Bruxelles ha stanziato 700 milioni di euro dal 2015 a oggi a sostegno della Libia attraverso vari strumenti di finanziamento. 90 milioni tra il 2021 e il 2022 e altri 95 promessi dal commissario Ue per l’Allargamento, Olivér Várhelyi. Finanziamenti che hanno convogliato diverse critiche, tra cui quelle della missione d’inchiesta dell’Onu, che in un rapporto pubblicato lo scorso marzo aveva ipotizzato che una parte dei fondi europei – in particolare quelli dedicati al contenimento del fenomeno migratorio- finanziassero in realtà una serie di attività illegali perpetrate dalle diverse milizie.
    Per il primo ministro al-Dbeibeh, che avrebbe mediato l’intesa tra i miliziani, “il ritorno della guerra in Libia è inaccettabile e il Paese non tollera alcun comportamento irresponsabile”. Borrell ha voluto ribadire “il suo fermo sostegno agli sforzi di mediazione condotti dall’Onu e dal suo rappresentante in loco, Abdoulaye Bathily“.

    Due giorni di scontri tra i gruppi armati allineati con il primo ministro al-Dbeibeh e quelli antagonisti. Ad accendere la miccia l’arresto del generale della brigata filogovernativa 444, ora rilasciato. Per l’Alto rappresentante Ue Borrell “gli ultimi eventi sono un vivido promemoria della fragilità” del Paese

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    Ue preoccupata per il rischio che la Russia aggiri le sanzioni con l’Unione economica euroasiatica

    Bruxelles – Le sanzioni dell’Ue contro la Russia e il rischio di un loro aggiramento attraverso l’Unione economica euroasiatica (Eaeu). E’ più che un’ipotesi, tanto che in Parlamento europeo c’è chi si inquieta e chiede conto di alleanze politico-commerciali che rischiano di vanificare sforzi e misure senza precedenti profusi fin qui per rispondere alle manovre miliari di Mosca su suolo ucraino. 
    Fin qui l’Ue ha colpito il Cremlino, e allineato le sanzioni anti-Putin a quelle decretate contro la Bielorussia accusata di aiutare la Russia. Ma c’è l’area di libero scambio che unisce Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, garantendo un cooperazione che potrebbe permettere di aggirare le restrizioni a dodici stelle. Perché gli europei non possono vendere in Russia e Bielorussia, ma non c’è nulla che vieti loro di continuare con le esportazioni verso gli altri membri dell’Unione economica euroasiatica.
    Liudas Mažylis, europarlamentare lituano del Ppe, ha più di qualche dubbio. Innanzitutto, sottolinea, “lo scorso anno il commercio dei paesi dell’Asia centrale con la Russia è cresciuto in media dal 60 all’80 per cento” rispetto al 2021, vale a dire il periodo precedente all’avvio dell’aggressione all’Ucraina. L’europarlamentare, nella sua interrogazione in materia, cita dati commerciali riferito al periodo  gennaio-ottobre 2022. In questo lasso temporale “le aziende kazake hanno esportato in Russia oltre 500 milioni di euro in più di elettronica e telefoni cellulari, ovvero 18 volte di più rispetto allo stesso periodo del 2021“.
    I partner commerciali dell’Eaeu possono dunque contribuire a sostenere Putin, la sua economia, e la sua macchina da guerra. In barba all’Ue e alle sue sanzioni. A detta di Mažylis, “a causa dell’aumento delle esportazioni di prodotti a duplice uso in Asia centrale, i componenti fabbricati nell’Ue possono essere trovati nelle attrezzature e negli armamenti militari russi utilizzati nella guerra contro l’Ucraina”. Dunque, denuncia, “si può presumere che le sanzioni imposte dall’Ue alla Federazione russa vengano eluse deviando i flussi commerciali attraverso paesi terzi, compresi gli Stati dell’Asia centrale“.
    La questione si come eccome, tanto che “la Commissione ha avviato un dialogo con le autorità dei paesi terzi, tra cui Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, in cui è stato individuato un rischio di elusione“, riconosce la commissaria per i Servizi finanziari, Mairead McGuinness, incaricata di rispondere a nome dell’intero collegio. Questo dialogo pone “particolare attenzione agli elementi critici per lo sviluppo militare, industriale ed economico della Russia”.

    Che in Asia centrale vi siano nodi geo-politici e di alleanze da sciogliere è cosa nota. Il voto dell’Assemblea generale dell’Onu dello scorso febbraio per una pace giusta in Ucraina ha visto l’astensione sia di Kazakistan sia del Kirghizistan, entrambi membri dell’Unione economica euroasiatica. Anche l’Uzbekistan, osservatore e altro interlocutore dell’Ue, si è astenuto, al pari del Tagikistan, altro osservatore. La risoluzione votata chiede in particolare che la Russia “ritiri immediatamente, completamente e incondizionatamente tutte le sue forze militari dal territorio dell’Ucraina e chieda la cessazione delle ostilità”.
    Nessuna condanna esplicita, ma neppure uno schierarsi con l’Europa e l’occidente. Per la ‘neutralità’ scelta diventa difficile per l’Unione europea considerare questi Paesi dell’Asia centrale e membri dell’Unione economica euroasiatica come sostenitori e alleati della Russia di Putin, e dunque prendere le decisione che il caso richiederebbe. La via del convincimento è allo stato attuale l’unica che l’esecutivo comunitario ha scelto di perseguire e proseguire.
    “La Commissione ha organizzato seminari di rafforzamento delle capacità dell’Ue in materia di sanzioni in Kazakistan e Uzbekistan”, spiega ancora McGuinness, lasciando intendere che comunque non si resterà a guardare. “L’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), in collaborazione con gli Stati membri, monitora e indaga su possibili elusioni delle sanzioni dal punto di vista antifrode”.
    L’Ue cerca di sfruttare i mutamenti di equilibri politici in Asia centrale. L’uscita di scena di Nursultan Nazarbeyv in Kazakistan ha privato la Russia di Putin di un alleato da sempre incrollabile. Il nuovo presidente, Kassym-Jomart Tokayev, ha impresso un allentamento nelle relazioni col Cremlino dopo l’avvio delle operazioni militari russe in Ucraina (non va dimenticato in Kazakistan ci sono oltre 3 milioni di russi, il 15 per cento della popolazione, concentrata soprattutto a nord, a ridosso della frontiera russo-kazaka).
    Si intravedono rischi, ma allo stesso tempo anche opportunità di dialogo con Paesi sì alleati della Russia, ma un po’ meno di un tempo. Avanti dunque con il dialogo. Nell’auspicio generale di non dover andare allo scontro con l’intera Unione economica euroasiatica.

    Dal Parlamento l’interrogazione che pone il problema. La Commissione riconosce “un rischio di elusione” via Kazakistan e Kirghizistan

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    Nella giornata internazionale dei popoli indigeni i Paesi dell’Amazzonia formano un’alleanza contro la deforestazione

    Bruxelles – Il 5 per cento della popolazione globale, custode dei territori che ospitano l’80 per cento della biodiversità del pianeta. Basta questo per comprendere l’importanza che hanno i 476 milioni di indigeni nel mondo nel proteggere e conservare ecosistemi sempre più minacciati dai cambiamenti climatici.
    Oggi (9 agosto) si celebra la Giornata internazionale dei popoli indigeni, istituita nel 1994 per volere delle Nazioni unite. Si celebra la loro “resilienza e l’eccezionale diversità culturale”, come ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, in una nota per conto delle istituzioni europee. In un periodo storico in cui in diverse regioni del pianeta i gruppi indigeni subiscono discriminazioni e un progressivo ridimensionamento delle loro aree di controllo, l’Unione europea ha voluto ribadire il suo “impegno forte e costante per il rispetto, la tutela e l’esercizio dei diritti dei popoli indigeni, sanciti dal diritto internazionale dei diritti umani e dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni”.
    Oltre un milione e mezzo di indigeni, divisi in 304 gruppi etnici, vivono in Amazzonia: e non a caso nella città brasiliana di Belem, porta d’accesso ad una delle regioni simbolo della lotta per la sopravvivenza di questi gruppi etnici, è in corso un summit tra i Paesi sudamericani che condividono il polmone verde del pianeta. Aperto dal monito del presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, che ha ricordato che “l’Amazzonia non può più aspettare” e che prendersene cura “non è solo una responsabilità del Brasile, ma di tutti”, il vertice ha già raggiunto un obiettivo significativo, anche se salutato dagli esperti come non sufficiente. I membri dell’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (Otca), Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela, hanno deciso di formare una “alleanza” contro la deforestazione.
    Salutata da Lula come un “punto di svolta”, l’entità denominata “Alleanza amazzonica per la lotta alla deforestazione” si porrebbe come obiettivo “la promozione della cooperazione regionale per evitare che l’Amazzonia raggiunga il punto di non ritorno”. Non sono stati però fissati obiettivi concreti, anche se il governo di Lula ha già promesso di fermare totalmente le attività di deforestazione entro il 2030, anche in vigore della nuove regole Ue sulle importazioni di prodotti derivati da deforestazione.
    Il mantenimento e rinfoltimento della foresta pluviale amazzonica è fondamentale per l’assorbimento di carbonio e per mitigare gli effetti del riscaldamento globale. Ma lo è anche per la sopravvivenza degli indigeni e per il futuro delle nuove generazioni. Quest’anno, la Giornata internazionale è dedicata proprio ai “Giovani indigeni quali artefici del cambiamento per l’autodeterminazione“: giovani spesso in prima linea in alcune delle crisi più urgenti che l’umanità sta affrontando, ma che allo stesso tempo non dispongono dei mezzi per partecipare pienamente alla vita politica e pubblica. Per fare sì che, prendendo in prestito le parole del celebre musicista brasiliano Jorge Ben Jor, sia di nuovo “ogni giorno la giornata degli Indios”.

    Anche l’Ue celebra “la resilienza e l’eccezionale diversità culturale” degli oltre 476 milioni di persone nel mondo. Intanto al summit di Belem i Paesi dell’Otca si impegnano a “promuovere la cooperazione regionale nella lotta contro la deforestazione, per evitare che l’Amazzonia raggiunga il punto di non ritorno”

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    Armi, beni ‘duali’, aviazione: l’Ue allinea le sanzioni alla Bielorussia a quelle contro la Russa

    Bruxelles – Russia e Bielorussia, due facce di una stessa medaglia fin qui trattate in modo diverso ma che l’Ue adesso decide di considerare allo stesso modo. Il Consiglio dell’Ue vara una stretta sanzionatoria che allinea le misure restrittive contro Mosca a quelle contro Minsk, con l’obiettivo chiudere gli spazi utili ad aggirare le decisioni a dodici stelle. Al fine di evitare che una nazione possa fornire all’altra beni che sono sottoposti al blocco delle esportazioni, i Ventisette estendono il divieto di vendita verso la Bielorussia di tutta una serie di beni e tecnologie altamente sensibili che contribuiscono al miglioramento militare e tecnologico del Paese alleato con la Federazione russa.
    Anche nei confronti della Bielorussia scatta il “divieto esteso” di esportazione di beni e tecnologie a duplice uso o ‘duali’ (vale a dire uso civile ma con potenziale impiego militare), come previsto nell’11esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca. Vuol dire stop a droni, sensori, laser, valvole, programmi informativi, materiale elettronico. Stop anche all’esportazione di merci utilizzate dalla Russia per la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina, quali dispositivi a semiconduttore, circuiti integrati elettronici, apparecchiature di produzione e collaudo, macchine fotografiche e componenti ottici. Niente più vendite al governo di Minsk e alle sue imprese di tecnologie adatte all’uso nell’industria aeronautica e spaziale, compresi motori di aeromobili. Anche questa una misura che si allinea all’11esimo pacchetto di sanzioni Ue contro la Russia. A tutto questo si aggiunge anche la messa al bando di vendita, fornitura, trasferimento o esportazione di armi da fuoco, loro parti e componenti essenziali e munizioni.
    “Adottiamo ulteriori misure contro il regime bielorusso in quanto complice della guerra di aggressione illegale e non provocata della Russia contro l’Ucraina”, scandisce Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue.
    L’Unione europea in realtà colpisce Alexander Lukashenko e il suo Paese due fronti. Vengono inasprite anche le sanzioni contro la Bielorussia per il deterioramento interno. Borrell denuncia le “continue violazioni sistematiche, diffuse e gravi dei diritti umani e alla brutale repressione contro tutti i segmenti della società bielorussa” da parte di quello che l’Alto rappresentante non esita a definire “un regime illegittimo“. Un riferimento alle contestate elezioni del 9 agosto 2020 di cui l’Ue non riconosce l’esito.
    Misure restrittive scattano contro nei confronti di 38 persone e 3 entità bielorusse “responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, che contribuiscono alla repressione della società civile e delle forze democratiche, nonché di coloro che beneficiare e sostenere il regime di Lukashenko”. I nuovi elenchi includono funzionari penitenziari considerati responsabili della tortura e del maltrattamento di detenuti, inclusi prigionieri politici, propagandisti di spicco, nonché membri del ramo giudiziario coinvolti nel perseguire e condannare oppositori democratici, membri della società civile e giornalisti.

    Borrell: “Bielorussia complice nella guerra in Ucraina”. La decisione per evitare che le misure anti-Putin siano aggirate