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    L’ambasciatore Ue in Sudan è stato aggredito nella sua residenza a Khartoum durante gli scontri armati

    Bruxelles – I duri scontri armati in Sudan tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf) interessano da vicino l’Unione Europea, e non solo per gli sforzi nel coordinare la de-escalation di una potenziale guerra civile nel Paese africano. Nella serata di ieri (17 aprile) l’ambasciatore Ue in Sudan, l’irlandese Aidan O’Hara, è stato aggredito nella sua residenza nella capitale Khartoum, nel corso di quella che l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito “una grave violazione della Convenzione di Vienna” (il testo del 1961 che disciplina le prerogative di cui godono gli ambasciatori, tra cui l’inviolabilità dei funzionari diplomatici).
    Khartoum, Sudan (credits: Afp)
    La notizia è stata resa nota proprio dall’alto rappresentante Borrell a poche ore dall’aggressione dell’ambasciatore Ue in Sudan: “La sicurezza delle sedi diplomatiche e del personale è una responsabilità primaria delle autorità sudanesi e un obbligo previsto dal diritto internazionale“. Il nome di O’Hara è stato confermato dai portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), che hanno specificato di essere in contatto con il diplomatico irlandese e che “sta bene”. Parlando con Irish Times, il ministro degli Esteri irlandese, Micheál Martin, ha ribadito che l’ambasciatore Ue in Sudan non è stato “gravemente ferito”, ma si è detto “profondamente preoccupato per il grave incidente avvenuto a Khartoum”.
    Cosa sta succedendo in Sudan
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e nel resto del Paese è iniziato sabato mattina (15 aprile) e, secondo quanto riferito dall’inviato dell’Onu Volker Perthes, in tre giorni di combattimenti sono state uccise circa 185 persone e ferite più di 1.800, tra cui tre impiegati del Programma alimentare mondiale (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare). Il commissario europeo per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha ricordato che “gli operatori umanitari lavorano spesso negli ambienti più pericolosi, non sono un obiettivo e il diritto internazionale umanitario deve essere sempre rispettato”. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e ha iniziato a bombardare le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria nei centri abitati.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati da qualche giorno in violenti combattimenti armati.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur (iniziata nel 2003) furono accusati di genocidio: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, furono accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si trasformarono autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e allacciando i rapporti con il gruppo mercenario russo Wagner.

    È successo nella serata del 17 aprile nella capitale sudanese, nel corso dei combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces. L’accusa dell’alto rappresentante Ue, Josep Borrell: “Grave violazione della Convenzione di Vienna”

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    L’Ue sta cercando di coordinare gli sforzi in Africa per non far degenerare gli scontri in Sudan in una guerra civile

    Bruxelles – Non c’è pace per il Sudan e, a due anni dall’ultimo colpo di Stato che ha messo fine alla breve esperienza democratica nel Paese, a Khartum sono in corso duri combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf) per il controllo del potere politico e militare. “L’Unione Europea condanna fermamente l’esplosione di violenza”, è quanto si legge in una nota firmata dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in cui vengono esortate le due parti a “dare prova di leadership e impegnarsi per l’immediata cessazione delle ostilità”.
    Esplosioni nei pressi dell’aeroporto di Khartum (credits: Afp)
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e in altri centri abitati del Paese continua da sabato mattina (15 aprile) e ha già portato alla morte di almeno 60 civili, tra cui tre impiegati del Programma alimentare mondiale (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare). “Gli operatori umanitari lavorano spesso negli ambienti più pericolosi, quindi lo ricordo ancora una volta, non sono un obiettivo e il diritto internazionale umanitario deve essere sempre rispettato”, è il secco commento del commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič. Nonostante la situazione sul campo sia confusa e non ci siano stime affidabili né sul numero di perdite per ciascuna fazione né sul terreno effettivamente controllato dall’esercito regolare e dal gruppo paramilitare, il rischio maggiore è che la situazione possa degenerare in una nuova guerra civile.

    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e ha iniziato a bombardare anche nei centri abitati le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria anche a Port Sudan (sul mar Rosso) e nell’aeroporto di Khartoum, dove un aereo della compagnia aerea Saudia è rimasto coinvolto negli scontri a fuoco. “In questo momento critico la priorità dovrebbe essere far tacere le armi, smorzare la situazione e risolvere le divergenze attraverso il dialogo”, ha intimato l’alto rappresentante Borrell, facendo appello agli “enormi sforzi compiuti negli ultimi mesi per riportare il Paese sulla strada della democrazia attraverso un accordo generale, aprendo la strada a un governo a guida civile”.

    Ma gli scontri armati stanno “mettendo a rischio questi importanti risultati”, è l’allarme lanciato da Bruxelles, che proprio per questo motivo ha iniziato a coordinarsi con partner regionali e internazionali “per promuovere il percorso verso un accordo politico che porti pace, stabilità e sviluppo economico”. L’alto rappresentante Ue ha reso noto di essersi messo in contatto con i ministri degli Esteri di Egitto ed Emirati Arabi Uniti, e di aver contattato telefonicamente il presidente del Kenya, William Ruto, per discutere dell’impegno del Paese che confina a sud con il Sudan nell’assumere la guida degli sforzi di de-escalation: “Dobbiamo lavorare tutti per lo stesso obiettivo, la cessazione delle ostilità e il ritorno di una transizione guidata dai civili”, è l’esortazione di Borrell.
    Il Sudan tra i colpi di Stato
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e l’ex-primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok (29 febbraio 2020)
    Era l’ottobre del 2021 quando i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993).
    Dopo aver sciolto l’esecutivo in carica, il Consiglio sovrano e tutti gli organi di governo locali, i due generali hanno promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano di cui al-Burhan è presidente e Dagalo vicepresidente. L’alleanza tra i due generali però è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è però opposto e le accuse con il presidente sono diventate sempre più dure, fino a quando gli scontri politici si sono trasformati in violenti combattimenti armati.

    Dal 15 aprile sono in corso duri combattimenti nel Paese tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces per il controllo del potere politico e militare. L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, in contatto con Egitto, Emirati Arabi Uniti e Kenya

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    L’Unione Europea condanna il colpo di Stato militare in Sudan e l’arresto del primo ministro Hamdok

    Bruxelles – Scende in campo anche l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, per condannare l’ondata di violenze scaturita dal colpo di Stato in Sudan di questa mattina (lunedì 25 ottobre). “Chiediamo alle forze di sicurezza di rilasciare immediatamente coloro che hanno detenuto illegalmente”, si legge nel comunicato firmato dall’alto rappresentante UE: tra loro anche il primo ministro del Paese, Abdalla Hamdok.
    Poco prima dell’alba, verso le 6, i militari hanno preso il potere nel Paese e hanno arrestato Hamdok, insieme al ministro dell’Industria, Ibrahim al-Sheikh, dell’Informazione, Hamza Baloul, e a un consigliere del primo ministro, Faisal Mohammed Saleh. Ad annunciare la fine del governo Hamdok è stato il generale Abdel Fattah al-Burhan, fino a oggi a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). Oltre a sciogliere l’esecutivo in carica, il Consiglio sovrano e tutti gli organi di governo locali, al-Burhan ha dichiarato che la giunta militare “continuerà la transizione democratica” e governerà il Sudan fino alle prossime elezioni, nel 2023.
    Durissima la reazione da Bruxelles a queste parole: “Le azioni dei militari rappresentano un tradimento della rivoluzione, della transizione e delle richieste legittime del popolo del Sudan di pace, giustizia e sviluppo economico”, si legge nella dichiarazione dell’alto rappresentante dell’Unione Europea. Lo stesso Borrell questa mattina ha seguito “con la massima preoccupazione” gli eventi in corso nella capitale Khartum, invitando “tutte le parti interessate e i partner regionali a rimettere in pista il processo di transizione”.

    Following with utmost concern ongoing events in #Sudan.
    The EU calls on all stakeholders and regional partners to put back on track the transition process.
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) October 25, 2021

    Il Sudan vive in una condizione di instabilità sociale e politica da quando il presidente e dittatore al-Bashir fu costretto a dimettersi due anni fa a seguito di un’ondata di proteste popolari appoggiate dall’esercito. Grazie ai negoziati tra i militari e i movimenti civili che avevano guidato le proteste, nella capitale si insediò il nuovo governo con a capo Hamdok, ex-vicesegretario esecutivo della Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite (dal 2011 al 2018). In questi anni l’esercito ha però conservato un grande peso politico in Sudan, con due membri all’interno dell’esecutivo, e l’Unione Europea si è dovuta impegnare con un programma di sostegno alle strutture governative attraverso consulenza politica e di sviluppo democratico.
    Ma oggi da Khartoum arrivano notizie di scontri tra i militari e migliaia di manifestanti che si sono radunati per protestare contro il golpe, con scontri e feriti presso il quartier generale dell’esercito. È stato lo stesso ufficio del primo ministro a chiamare nelle strade il popolo, dopo l’arresto di Hamdok e dei ministri: “Chiediamo al popolo sudanese di protestare usando tutti i mezzi pacifici possibili, per riprendersi la rivoluzione dai ladri”. I militari non hanno solo bloccato le principali strade di accesso alla capitale, ma hanno anche interrotto le linee di telecomunicazione: il netto calo delle connessioni Internet nel Paese di questa mattina è stato rilevato anche dall’osservatorio indipendente Netblocks.
    L’Unione Europea, per voce del suo alto rappresentante, ha ribadito che in Sudan “la violenza e lo spargimento di sangue devono essere evitati a ogni costo” e che “le reti di comunicazione devono essere riaperte”. Per Bruxelles la “migliore garanzia per la stabilità a lungo termine” del Paese e dell’intera regione rimane il sostegno a “coloro che lavorano per un Sudan democratico con un governo civile pienamente legittimo che assicuri pace, libertà e giustizia al popolo”, ha concluso Borrell.

    L’alto rappresentante UE Borrell denuncia il “tradimento della rivoluzione, della transizione e delle richieste legittime del popolo” dopo lo scioglimento dell’esecutivo in carica da parte dell’esercito