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    Atrocità e uccisioni di massa in Sudan, la crisi umanitaria più grave al mondo precipita ancora

    Bruxelles – Non c’è pace in Sudan, dove il conflitto in corso da due anni e mezzo sta toccando in queste ore un nuovo apice. Da El Fasher, capitale della regione del Darfur settentrionale, giungono notizie di uccisioni sommarie e atrocità da parte delle Forze di Supporto Rapido (RSF), il corpo paramilitare che si oppone all’esercito regolare e che ha preso il controllo della città dopo 18 mesi di logorante assedio. Le Forze congiunte – fedeli alla capitale Khartoum – hanno denunciato più di 2 mila esecuzioni di civili disarmati negli ultimi giorni.In un comunicato, l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato di aver ricevuto “numerose segnalazioni allarmanti” di crimini e violenze commesse dalle RSF a El Fasher e nella città di Bara, nello Stato del Kordofan settentrionale, nei giorni scorsi. Già lunedì Volker Türk, capo dell’Ufficio dell’Onu, aveva lanciato l’allarme per il rischio crescente di “violazioni e atrocità motivate da ragioni etniche” a El Fasher. Nella primavera del 2023, dopo aver conquistato la città di Geneina, nel Darfur occidentale, le RSF uccisero fino a 15 mila civili, per lo più appartenenti a gruppi non arabi.La situazione sul terreno è confusa, le notizie difficilmente verificabili, ma diversi filmati diffusi da attivisti locali nella città mostrano persone morte a terra e spari contro gruppi di civili disarmati. Le comunicazioni satellitari Starlink – l’unica rete funzionante – sono state interrotte, lasciando la città in un “blackout totale”, secondo il Sindacato dei giornalisti sudanesi.Tra le segnalazioni ricevute dall’UNHCR, “esecuzioni sommarie di civili che tentavano di fuggire, con indicazioni di motivazioni etniche per le uccisioni”, “violenza sessuale diffusa contro donne e ragazze da parte di gruppi armati insieme a notizie di esecuzioni raccapriccianti a El Fasher”. Domenica 26 ottobre le RSF avevano dichiarato di aver espugnato la base militare principale dell’esercito nella città e di aver “esteso il controllo sulla città di El Fasher”. Il capo dell’esercito sudanese, il generale Abdel Fattah al-Burhan, ha confermato lunedì che le truppe governative si sono ritirate “in un luogo più sicuro”.Negli ultimi mesi El Fasher era diventata uno dei principali fronti della guerra civile in corso tra la giunta militare e le RSF, guidate da Mohamed Hamdan Dagalo. Dall’inizio del conflitto, secondo l’Onu più di un milione di persone sarebbero fuggite dalla città e circa 260 mila sarebbero rimaste intrappolate all’interno, senza aiuti umanitari, strette dall’assedio e logorate dai combattimenti. Da domenica, più di 26 mila sarebbero riuscite a scappare, carcando rifugio nelle periferie o verso Tawila, a circa 70 chilometri.La lotta di potere tra le due branche dell’esercito ha innescato una delle crisi umanitarie più gravi della storia recente, in cui più di 150 mila persone sono rimaste uccise oltre 14 milioni di civili sono stati sfollati. Sia l’esercito della capitale sia le RSF sono accusate di crimini di guerra, per aver deliberatamente preso di mira i civili e bloccato gli aiuti umanitari. Già nell’ottobre 2023, l’Unione europea aveva istituito un regime di sanzioni dedicato alla crisi sudanese, inserendo nella lista individui ed entità che facevano capo ad entrambe le parti in guerra.La commissaria europea per la gestione delle crisi, Hadja Lahbib, ha scritto su X che “l’incubo a El Fasher sta raggiungendo il suo apice. I civili vengono uccisi. Le famiglie sono costrette a fuggire dalla violenza delle Fsr (Forze di sostegno rapido). Ricordiamo alle parti in conflitto il loro obbligo di rispettare il diritto internazionale umanitario. I civili devono essere protetti e beneficiare di un passaggio sicuro».Questa mattina, un portavoce della Commissione europea ha espresso “seria preoccupazione per l’intensificarsi delle ostilità a El Fasher”, ricordando che “per oltre 18 mesi, i civili sono stati sottoposti a un assedio imposto dalle Forze di supporto rapido, che ha portato a carenze croniche di cibo, acqua e assistenza medica, mentre sono esposti a bombardamenti costanti”. La Commissione europea, che negli ultimi due anni ha mobilitato più di 300 milioni di euro per l’emergenza umanitaria in Sudan, ha invitato “tutte le parti in conflitto a ridurre l’escalation della situazione, in conformità con la Risoluzione 2736 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, che nel giugno 2024 chiedeva di fermare l’assedio di El Fasher e di cessare i combattimenti, oltre a chiedere ad entrambe le parti di rispettare il diritto umanitario internazionale.D’altra parte la stessa UE negli anni è stata accusata da diverse inchieste e testimonianze di aver arricchito indirettamente le casse delle RSF: attraverso il cosiddetto Processo di Khartoum, il patto che nel 2014 impegnò lo Stato africano a combattere la migrazione illegale in direzione dell’Europa in cambio di finanziamenti per lo sviluppo, l’UE avrebbe versato decine di milioni di euro proprio alle milizie, che all’epoca facevano della gestione della migrazione un business con cui finanziarsi e rafforzare la loro spesa militare.La conquista dell’ultima grande città del Darfur controllata dall’esercito, conferisce ora al gruppo paramilitare delle RSF il controllo su tutte e cinque le capitali degli Stati del Darfur e potrebbe segnare una svolta significativa nella guerra. L’esercito regolare è escluso in sostanza da circa un terzo del territorio sudanese.

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    L’Ue sanziona sei entità responsabili della guerra civile in Sudan

    Bruxelles – Il Consiglio dell’Ue ha adottato oggi (22 gennaio) misure restrittive nei confronti di sei entità “responsabili del sostegno ad attività che minano la stabilità e la transizione politica del Sudan“. Nel Paese più orientale del Sahel è in corso – dal 15 aprile 2023 – una guerra civile tra le forze armate sudanesi (Saf) e le forze di supporto rapido (Rsf).La decisione fa seguito all’istituzione, il 9 ottobre scorso, di un regime europeo di sanzioni dedicato alla crisi sudanese. Tra le entità inserite nel nuovo elenco figurano due società coinvolte nella produzione di armi e veicoli per l’esercito regolare, la Defence Industries System e la SMT Engineering, oltre alla Zadna International Company for Investment Limited, controllata da dalla Saf. Parallelamente, le misure restrittive toccheranno anche tre società coinvolte nell’approvvigionamento di attrezzature militari per la Rsf, la Al Junaid Multi Activity Co Ltd, la Tradive General Trading e la GSK Advance Company Ltd.Le società elencate sono soggette al congelamento dei beni sul territorio comunitario. Nei Paesi Ue sarà inoltre vietata la fornitura di fondi o risorse economiche , direttamente o indirettamente, a loro o a loro vantaggio . L’Ue “resta profondamente preoccupata per la situazione umanitaria in Sudan e riafferma il suo fermo sostegno e la sua solidarietà al popolo sudanese”, si legge in una nota pubblicata dal Consiglio dell’Ue.

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    L’Ue alza l’allarme sulla situazione in Darfur dopo tre mesi di guerra in Sudan: “Violenze sessuali, uccisioni e sfollamenti”

    Bruxelles – Il Darfur torna nei radar dell’Unione Europea, ancora una volta per il rischio di un genocidio. Quando la guerra civile in Sudan sta per arrivare al suo terzo mese dall’inizio dei combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), da Bruxelles si alza l’allarme sulla situazione in una delle regioni dell’Africa orientale più tormentate degli ultimi vent’anni. “L’Unione Europea è particolarmente preoccupata per le notizie di attacchi su larga scala contro i civili, anche sulla base dell’etnia, in particolare nel Darfur“, è la denuncia dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, riferendosi a “notizie terribili di diffuse violenze sessuali e di genere, uccisioni mirate, sfollamenti forzati e costante armamento delle milizie”.
    La risposta a quesi tre mesi di guerra civile – che al momento non accenna ad arrestarsi – da parte della Commissione Ue è non solo un nuovo stanziamento di 190 milioni di euro in assistenza umanitaria (che ha raggiunto nei primi sei mesi del 2023 oltre 250 milioni), ma anche una costante pressione diplomatica. Nonostante l’azione sul campo sia resa ancora più difficile dall’assenza di corpo diplomatico Ue nel Paese da fine aprile. “Condanniamo fermamente il continuo rifiuto delle parti in conflitto di cercare una soluzione pacifica“, ha attaccato Borrell, esortandole ancora una volta ad arrivare a un cessate il fuoco “duraturo” da raggiungere “senza indugio” per garantire la protezione della popolazione. Di fronte alla realtà di una guerra che non si ferma e di continue violazioni degli accordi per un cessate il fuoco, l’alto rappresentante Ue chiede almeno di “facilitare la fornitura di assistenza umanitaria e a garantire un accesso sicuro, tempestivo e senza ostacoli alle operazioni umanitarie“.
    La guerra civile iniziata nella capitale Khartum si è espansa in questi mesi a macchia d’olio, con l’apertura di fronti di battaglia soprattutto in Darfur a ovest e nel Kordofan meridionale, al confine con il Sud Sudan: “In tali gravi circostanze garantire la protezione dei civili e prevenire ulteriori atrocità deve essere la nostra prima priorità”, è l’esortazione dell’alto rappresentante Ue ai Ventisette e a tutta la comunità internazionale. Il rischio è un ulteriore aggravamento della situazione umanitaria e migratoria, con “milioni di sudanesi costretti a fuggire dal conflitto” che si sono rifugiati nei Paesi circostanti: “L’Ue elogia gli Stati della regione per la loro costante accoglienza e apprezza l’assistenza umanitaria e gli sforzi di pace”. Ma ci sono anche due novità nell’appello di Bruxelles da considerare con attenzione: “Sosteniamo la raccolta di prove sulle gravi violazioni dei diritti umani e siamo pronti a considerare l’uso di tutti i mezzi a disposizione, comprese le misure restrittive” per mettere fine al conflitto. Una minaccia che al momento non trova altro riscontro nell’azione esterna dell’Unione né nelle discussioni dei 27 ministri degli Esteri, ma che potrebbe diventare uno strumento sempre più importante se la guerra dovesse continuare ancora per mesi e con l’intervento di attori esterni. La Russia – con o senza il gruppo mercenario Wagner – in testa.

    La guerra civile in Sudan e Darfur
    La guerra civile in Sudan è iniziata lo scorso 15 aprile, con lo scontro armato tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 presidente del Paese) e le forze paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati in guerra civile.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra. Nel corso dell’ultimo mese di guerra civile i combattimenti si sono concentrati soprattutto nel Darfur, dove il governatore Khamis Abakar è stato rapito e ucciso lo scorso 14 giugno per aver accusato le Rsf di genocidio in atto (di nuovo) contro la popolazione della regione.

    Dura condanna dell’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, al “continuo rifiuto delle parti in conflitto di cercare una soluzione pacifica”. Preoccupano le notizie di attacchi su larga scala sui civili in particolare nell’area occidentale del Paese, già luogo di genocidio a inizio anni Duemila

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    Due mesi di guerra civile in Sudan. L’Ue guida la risposta umanitaria con 190 milioni di euro di assistenza

    Bruxelles – Due mesi di guerra civile che, tra tregue violate ed escalation di violenze, non dà segno di volgere al termine. Dopo la fuga di fine aprile dal Sudan, l’Unione Europea cerca di trovare soluzioni percorribili per supportare la popolazione colpita dai combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), che hanno già causato oltre duemila morti e più di due milioni di sfollati interni o in altri Paesi limitrofi. È per questo che la Commissione Ue ha deciso di stanziare 190 milioni di euro in assistenza umanitaria e allo sviluppo, come parte dello sforzo europeo da mezzo miliardo complessivo raccolto alla Conferenza di alto livello per il Sudan.
    L’annuncio è arrivato nella giornata di ieri (19 giugno) dal commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, precisando i dettagli del pacchetto di supporto: 52 milioni di euro sono destinati all’assistenza umanitaria immediata, 8 milioni al sostegno dei Paesi vicini al Sudan per far fronte all’arrivo dei profughi (Etiopia, Sud Sudan, Ciad ed Egitto) e 130 milioni per la sicurezza alimentare e la salute delle persone più vulnerabili. “Nel 2022 le persone bisognose erano 16 milioni, oggi il numero complessivo ha raggiunto i 25 milioni, quasi tre volte la popolazione della Svizzera“, ha avvertito il commissario a Ginevra, nel corso della Conferenza convocata da Ue, Nazioni Unite, Unione Africana, Egitto, Germania, Qatar e Arabia Saudita. Per affrontare la situazione “abbiamo bisogno di più fondi, gli sforzi umanitari delle Nazioni Unite sono finanziati solo per il 15 per cento”, e per questo l’Ue nel 2023 sta aumentando lo sforzo a sostegno del Sudan “a più di 270 milioni di euro, con un ulteriore impegno di 226 milioni di euro da parte degli Stati membri“.
    Se l’appello del commissario Lenarčič alla comunità internazionale è di “colmare il gap di finanziamenti, perché sostenere le persone in difficoltà è una responsabilità da condividere”, non può essere dimenticata la causa scatenante della crisi del 2023. “Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco sostenibile” da entrambe le parti in conflitto in Sudan, che sono chiamate anche a “garantire il rispetto della dichiarazione di Gedda” di metà maggio per la protezione dei civili. Nel “pieno rispetto” del diritto internazionale – “spetta a ciascuno di noi esigerlo dalle parti in conflitto” – per Bruxelles è prioritario garantire un accesso umanitario “sicuro” al Sudan, “anche nelle aree colpite dal conflitto e in quelle che ospitano gli sfollati interni”. In questo senso le autorità sudanesi sono chiamate a “rimuovere le barriere amministrative e le restrizioni ai movimenti” per permettere il ritorno degli operatori umanitari nel Paese.
    La guerra civile in Sudan
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    La guerra in Sudan è iniziata lo scorso 15 aprile, con lo scontro armato tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 presidente del Paese) e le forze paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati in guerra civile.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra. Nel corso delle ultime settimane di guerra civile i combattimenti si sono tornati a concentrare soprattutto nel Darfur, dove il governatore Khamis Abakar è stato rapito e ucciso lo scorso 14 giugno per aver accusato le Rsf di genocidio in atto (di nuovo) contro la popolazione della regione.

    Raccolto mezzo miliardo a livello europeo a sostegno della popolazione sudanese colpita dai combattimenti, di cui quasi la metà stanziata dalla Commissione Ue. Sono oltre 2 milioni gli sfollati e quasi 25 milioni quelli che hanno bisogno di sostegno umanitario internazionale

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    Sudan, l’Ue attiva un ponte aereo umanitario

    Bruxelles – Trenta tonnellate di articoli essenziali, tra cui acqua, attrezzature igienico-sanitarie ed equipaggiamenti per i rifugi in Sudan. L’Unione europea si mobilita di fronte alla crisi del Paese, con uno speciale ponte aereo umanitario attivato per venire incontro alle necessità della popolazione afflitta dalla guerra civile e da una situazione di difficile gestione. La decisione di istituire questo corridoio è stata presa “in considerazione delle crescenti esigenze umanitarie dovute al furioso conflitto”, spiega il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarcic. 
    Dal 15 aprile sono in corso combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces per il controllo del potere politico e militare, e la situazione sembra fuori controllo. Secondo gli ultimi rapporti del ministero della Salute del Sudan, al 5 maggio almeno 550 persone sono state uccise, tra cui 18 operatori sanitari e umanitari, e più di cinquemila ferite, e si teme che il bilancio complessiva possa crescere.
    “Colgo l’occasione per chiedere, ancora una volta, la fine dei combattimenti e della perdita di vite umane”, l’invito del commissario.  “Condanno fermamente i combattimenti in Sudan e invito entrambe le parti a consentire al personale medico e agli operatori umanitari di fornire assistenza salvavita“.
    Il ponte aereo umanitario è organizzato nel quadro della capacità di risposta umanitaria europea, uno strumento progettato per colmare le lacune nella risposta umanitaria ai pericoli naturali e ai disastri causati dall’uomo. Le 30 tonnellate di articoli essenziali sono state trasportate dai magazzini delle Nazioni Unite a Dubai a Port Sudan. All’arrivo, sono stati consegnati all’Unicef e al Programma Alimentare Mondiale.
    L’apertura del ponte aereo umanitario si aggiunge agli impegni già profusi dall’Unione europea. Attraverso il meccanismo di protezione civile e di aiuti umanitario l‘Ue ha già stanziato 200mila euro per i soccorsi immediati e l’assistenza di primo soccorso alle popolazioni ferite o esposte ad alto rischio nella capitale, Khartoum, e in altre zone colpite dalle violenze in corso. Garantito inoltre il sostegno alla Mezzaluna Rossa sudanese nella fornitura di primo soccorso, servizi di evacuazione e supporto psico-sociale. 

    Organizzato attraverso il meccanismo di risposta alle crisi umanitarie, per la consegna di 30 tonnellate di beni essenziali Lenarcic: “Decisione legata alle crescenti esigenze umanitarie dovute al furioso conflitto”

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    Ora a Bruxelles si teme che la crisi in Sudan si propaghi oltre i confini del Paese: “Le conseguenze sarebbero disastrose”

    Bruxelles – Diciassette giorni di combattimenti, tregue che non reggono e la diplomazia internazionale che è fuggita da un Paese travolto dalla guerra civile. E che ora potrebbe innescare una crisi in tutta la regione dell’Africa subsahariana centrale e orientale. Il Sudan rischia di trasformarsi nella miccia per il crollo degli equilibri in Stati vicini “altamente fragili”, è l’avvertimento del commissario europeo per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič: “Il rischio che la crisi si propaghi agli Stati circostanti della regione è reale, le conseguenze sarebbero disastrose, nessuno può volerlo“.
    In un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt il commissario Lenarčič ha fatto il punto della situazione a una settimana dall’evacuazione della delegazione Ue in Sudan (e dell’ambasciatore Aidan O’Hara), che non presenta alcun elemento di positività. “La crisi può solo peggiorare”, dal momento in cui “il Paese è in fiamme e manca tutto: acqua pulita, cibo, medicine e carburante“. Quello che era iniziato come uno scontro tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf) alla fine si è trasformato in una vera e propria guerra civile, e ha già causato oltre 500 morti e più di quattromila feriti: centinaia di programmi umanitari sono stati sospesi, i magazzini degli operatori umanitari a Khartum e in altre città del Paese sono stati saccheggiati e distrutti, e la maggioranza degli ospedali della capitale è stata costretta a chiudere. Secondo le Nazioni Unite almeno 75 mila persone sarebbero già fuggite all’estero, soprattutto nel vicino Ciad, ma decine di migliaia sarebbero sfollate internamente.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Ufficialmente in Sudan sarebbe in atto una tregua tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 presidente del Paese) e le forze paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo vicepresidente del Sudan), dopo il cessate il fuoco negoziato con la mediazione degli Stati Uniti ed esteso per altre 72 ore domenica (30 aprile). Tuttavia i combattimenti non si sono mai effettivamente arrestati, considerato il fatto che il cessate il fuoco non regge in particolare a Khartum e nella regione occidentale del Darfur (già teatro di guerra civile e genocidio tra il 2003 e il 2006, anche se la tensione non è mai scomparsa): l’esercito sta cercando di respingere le Rapid Support Forces dalla capitale con bombardamenti aerei, mentre i paramilitari stanno organizzando una guerriglia urbana, saccheggiando uffici pubblici, sedi di organizzazioni internazionali e abitazioni private.
    In stretta collaborazione con i partner internazionali e regionali, l’Unione Europea sta cercando di pressare le due parti per arrivare a un “cessate il fuoco duraturo e a lungo termine“, è l’esortazione del commissario Lenarčič: “La priorità assoluta deve essere quella di far rinsavire le due parti in guerra, le uniche responsabili” della crisi in Sudan che è “pagata dalla popolazione civile”. Ecco perché la base di un cessate il fuoco effettivo – e non violato continuamente come nell’ultima settimana – deve essere costituita dal “rispetto del diritto internazionale, in modo che gli attori umanitari possano tornare a fare il loro lavoro“, ha messo in chiaro il titolare della Gestione delle crisi per il gabinetto von der Leyen.
    La guerra in Sudan
    Esplosioni nella capitale Khartum (credits: Afp)
    La guerra nella capitale Khartum e nel resto del Sudan è iniziata lo scorso 15 aprile, con lo scontro armato tra l’esercito regolare e le forze paramilitari composte da 100 mila membri. Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati in guerra civile.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra.

    Dopo più di due settimane di combattimenti il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, avverte che la situazione “può solo peggiorare”, perché “manca tutto: acqua pulita, cibo, medicine e carburante”. Appello per un cessate il fuoco “duraturo e a lungo termine”

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    La delegazione Ue in Sudan evacuata da Khartum. Anche l’ambasciatore ha lasciato il Paese in guerra

    Bruxelles – Un fine settimana di lavoro intenso a livello diplomatico e sul terreno per evacuare la delegazione Ue in Sudan e gli altri cittadini comunitari dal Paese scivolato ormai in una guerra civile. “È stata un’operazione complessa, ma di successo, 21 persone sono già in Europa e molti altri sono fuori dal Sudan“, ha sottolineato alla stampa l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, facendo ingresso questa mattina (24 aprile) al Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo. Si parla di “più di un migliaio di persone” in totale, evacuate grazie agli “sforzi combinati di diversi Paesi, in particolare della Francia”, dopo essere rimaste bloccate nella capitale Khartum e in altre città sudanesi per tutta la prima settimana di scontri armati tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf).
    Esplosione all’aeroporto di Khartum (credits: Afp)
    La notizia dell’evacuazione della delegazione Ue in Sudan e di tutti i cittadini comunitari che volessero abbandonare il Paese in guerra è arrivata nella serata di ieri (23 aprile) dallo stesso alto rappresentante Borrell. In un tweet ha ringraziato l’Eliseo “per aver reso possibile tutto questo, con l’aiuto di Gibuti”, specificando che anche l’ambasciatore Ue Aidan O’Hara – aggredito la scorsa settimana nella sua residenza – è stato evacuato dal Paese in guerra. In Suda è rimasto solo “il capo della sicurezza, ma non a Khartum”, ha precisato lo stesso Borrell, rettificando quanto precedentemente affermato sul fatto che l’ambasciatore Ue avrebbe continuato il lavoro nel Paese in guerra. Le operazioni militari sono state coordinate dall’esercito francese in collaborazione con diversi Paesi europei e non – tra cui anche l’Italia – e sono state complicate dal fatto che l’aeroporto internazionale della capitale è stato reso inagibile dai nove giorni di bombardamenti e scontri armati. Tutti i cittadini sono stati scortati da convogli militari fuori da Khartum e gli 11 voli militari sono partiti dall’aeroporto di Wadi Sednia, a una ventina di chilometri dalla capitale sudanese, con altri 20 previsti per la giornata di oggi.
    “Non possiamo permettere che il Sudan imploda, perché avrebbe un’onda d’urto in tutta l’Africa“, ha avvertito l’alto rappresentante Borrell, rendendo noto di aver parlato sia con il generale Abdel Fattah al-Burhan (capo dell’esercito regolare del Sudan e dal 2021 anche presidente del Paese), sia con il generale Mohamed Hamdan Dagalo (leader delle forze paramilitari e vicepresidente del Sudan), “sollecitando un cessate il fuoco immediato” e insistendo sulla “necessità di proteggere i civili”. Anche il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, ha ringraziato Francia e Gibuti per il coordinamento delle operazioni, oltre all’alto rappresentante Ue e ai diplomatici europei “per il loro impegno costante e la loro capacità di recupero”.
    Cosa sta succedendo in Sudan
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e nel resto del Paese è iniziata lo scorso 15 aprile. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan e le forze paramilitari composte 6da 100 mila membri. L’esercito ha il controllo dell’aviazione e sta bombardando le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria nei centri abitati. I paramilitari hanno chiesto ripetutamente un cessate il fuoco temporaneo in occasione dell’Eid al-Fitr (la festività della religione islamica che segna la fine del Ramadan), ma il presidente al-Burhan al momento ha rifiutato qualsiasi contatto per sedersi al tavolo dei negoziati.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati da qualche giorno in violenti combattimenti armati.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur (iniziata nel 2003) hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra.

    Ad annunciare la riuscita dell’operazione guidata dalla Francia con il supporto di Gibuti è stato l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, che ha parlato direttamente con i leader dell’esercito regolare e del gruppo paramilitare Rapid Support Forces per un “immediato cessate il fuoco”

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    L’Ue e i partner internazionali stanno spingendo gli sforzi di mediazione per una tregua agli scontri armati in Sudan

    Bruxelles – Non si fermano gli scontri armati in Sudan, nemmeno dopo l’annuncio di un possibile cessate il fuoco temporaneo in occasione dell’Eid al-Fitr, la festività della religione islamica che segna la fine del Ramadan. Nella capitale Khartum e negli altri centri urbani del Paese anche oggi (21 aprile) si stanno verificando combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), inclusi raid aerei sulle abitazioni civili. Dopo quasi una settimana di scontri si contano oltre 350 morti e più di tremila feriti, oltre a quasi ventimila profughi in fuga verso il Ciad.
    Khartum (credits: Afp)
    È per questo motivo che l’Unione Europea, in concerto con i partner internazionali, sta cercando di spingere sugli sforzi di mediazione per raggiungere una tregua in Sudan: “I combattimenti devono terminare per lasciare spazio al dialogo e alla mediazione”, è l’esortazione dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha ricordato il ruolo dell’Unione nel sostenere una “una cessazione immediata delle ostilità, che dovrebbe servire come primo passo verso un accordo di cessate il fuoco permanente da negoziare con urgenza”. In questo contesto sono viste positivamente le iniziative collettive regionali e internazionali, “compresi quelli delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) e della Lega degli Stati Arabi”, considerate “essenziali” per riportare il Sudan “sulla via della pace e della stabilità” e per rispettare le “aspirazioni della popolazione sudanese a un futuro pacifico, stabile e democratico”.
    Una proposta di tregua era arrivata ieri sera (20 aprile) dal capo delle forze paramilitari, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, ma l’esercito regolare guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan non ha risposto, rifiutando ogni dialogo con quelli che vengono considerati i responsabili per l’inizio degli scontri armati. “L’Unione Europea e i suoi Stati membri condannano fermamente i combattimenti in corso”, ha ricordato l’alto rappresentante Borrell, scagliandosi contro atti che mettono a rischio sia “gli sforzi per ripristinare la transizione verso un governo democratico a guida civile”, sia la “stabilità regionale”. Oltre alle vittime civili, Bruxelles condanna le violazioni del diritto internazionale: il riferimento è all’attacco all’ambasciatore Ue in Sudan, Aidan O’Hara, presso la sua residenza e al clima di insicurezza generale per volontari e operatori di organizzazioni non governati e di agenzie Onu nel Paese. “C’è bisogno di un’azione forte dell’Europa perché si fermi la violenza“, ha esortato dall’emiciclo del Parlamento Europeo il capo-delegazione del Pd, Brando Benifei.
    Cosa sta succedendo in Sudan
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e nel resto del Paese è iniziato lo scorso 15 aprile. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e sta bombardando le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria nei centri abitati.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati da qualche giorno in violenti combattimenti armati.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur (iniziata nel 2003) furono accusati di genocidio: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, furono accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si trasformarono autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e allacciando i rapporti con il gruppo mercenario russo Wagner.

    L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, spinge per la “cessazione immediata delle ostilità” tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces, che costituirebbe “il primo passo verso un accordo di cessate il fuoco permanente da negoziare con urgenza”