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    Falsa partenza (causa meteo) della Global Sumud Flotilla. Tutti gli occhi su Tel Aviv

    Bruxelles – La Global Sumud Flotilla è dovuta tornare indietro poche ore dopo essere salpata. La gigantesca mobilitazione della società civile internazionale per portare aiuti umanitari alla Striscia di Gaza via mare è partita ieri da diversi porti alla volta dell’exclave palestinese assediata. Dovrebbe arrivare al largo delle coste gazawe tra un paio di settimane, e punta a mantenere alta l’attenzione mediatica per mettere pressione su Israele, che con ogni probabilità impedirà alle imbarcazioni di sbarcare.È partita ieri (31 agosto) la prima parte della Global Sumud Flotilla, una flotta di decine di navi di dimensioni medio-piccole messe in acqua dagli aderenti a quella che potrebbe essere la più grande mobilitazione transnazionale della storia recente, ma è dovuta rientrare in porto poche ore dopo a causa delle condizioni meteorologiche avverse. Non è chiaro, al momento, quando potrà ritentare il mare.Una ventina di navi sono salpate da Barcellona, dove oltre 5mila persone hanno salutato i circa 300 naviganti: non solo marinai ma anche attivisti, giornalisti, avvocati, medici, personaggi pubblici e membri della società civile. Sulle imbarcazioni, tonnellate di aiuti umanitari per i palestinesi della Striscia, intrappolati da oltre 18 anni di assedio illegale dello Stato ebraico, iniziato nel giugno 2007.Tra gli altri c’era anche Greta Thunberg, che figura nel board dell’iniziativa. “La questione riguarda come le persone vengono deliberatamente private dei mezzi di sussistenza più elementari e come il mondo possa tacere“, ha dichiarato la giovane attivista svedese, accusando Tel Aviv di voler “cancellare la nazione palestinese“.Contemporaneamente, da Genova mollavano gli ormeggi altre imbarcazioni con la “benedizione” della sindaca Silvia Salis. La sera precedente, una manifestazione partecipatissima (gli organizzatori parlano di 50mila presenze) ha portato sul lungomare la cittadinanza per l’ennesima dimostrazione di solidarietà coi gazawi vittime dello sterminio. I rappresentanti dei portuali hanno promesso di “bloccare tutto” – riferendosi alle spedizioni per Israele, incluse quelle di armi, che partono regolarmente dalla Liguria – se verrà usata violenza contro la Flotilla.Altre navi sono partite da altri porti del Mediterraneo occidentale e tutte stanno facendo vela verso la zona centrale del Mare Nostrum dove, il prossimo 4 settembre, raccoglieranno ulteriori naviganti da altre località, incluse Tunisia, Grecia e Sicilia, per un totale di circa 50 imbarcazioni con oltre 500 naviganti provenienti da 44 Paesi. Obiettivo: forzare il blocco, o almeno trasmettere in diretta mondiale la risposta israeliana (negli scorsi mesi, Tel Aviv ha fermato diverse spedizioni umanitarie che avevano tentato di raggiungere Gaza, talvolta ricorrendo a metodi pirateschi come attacchi con droni in acque internazionali). L’arrivo era originariamente previsto per metà settembre.Come qualunque iniziativa simile, nemmeno la Global Sumud Flotilla è esente da critiche. Alcuni osservatori ne hanno messo in dubbio la genuinità e l’opportunità, domandandosi se si tratti di un gesto realmente utile – date le probabilità di successo dell’impresa, prossime allo zero, ma anche dati i costi esorbitanti della mobilitazione e una serie di apparenti inefficienze logistiche – o non piuttosto di una spettacolarizzazione mediatica per fornire all’ennesimo slancio del performattivismo occidentale una veste di dignità umanitaria con la quale l’opinione pubblica globale si potrà lavare la coscienza.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (sinistra) e il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Sia come sia, quel che è certo è che si tratta dell’unica azione concreta attualmente sul tavolo tesa a fermare la carneficina in corso a Gaza e a cercare di mettere all’angolo Benjamin Netanyahu, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità ma intoccabile fintantoché gode della protezione incondizionata delle potenze occidentali, a partire dagli Stati Uniti.Nessun governo sta esercitando una reale pressione su Tel Aviv affinché ponga fine allo sterminio dei palestinesi (bollato come genocidio dalle stesse ong israeliane, oltre che da un buon numero di giuristi ed esperti), alla pulizia etnica nella Striscia, allo sfollamento forzato, all’apartheid in Cisgiordania, alle violazioni estese e sistematiche dei diritti umani e, in definitiva, allo smantellamento delle fondamenta stesse del diritto internazionale.Quest’ultimo sembra ormai evaporato, cancellato insieme agli edifici rasi al suolo dall’esercito israeliano (Idf), alla carestia creata artificialmente come ai tempi dell’Holodomor, agli assassini di civili, giornalisti e personale sanitario perpetrati con metodi terroristici, alla violenza impunita dei coloni, alle detenzioni extragiudiziali e ai soprusi di ogni genere che il popolo palestinese subisce da decenni, intensificatisi gravemente negli ultimi 22 mesi. Indisturbato, Netanyahu procede nel fare a pezzi la Palestina, dalle demolizioni in Cisgiordania all’assalto su Gaza City tutt’ora in corso, e il suo sodale Donald Trump continua a vaneggiare di trasformare Gaza nella “riviera del Medio Oriente“.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Consiglio europeo)Mentre Tel Aviv starebbe valutando di annettere l’intera zona C – la porzione di Cisgiordania (circa il 60 per cento) che, in base agli accordi di Oslo di trent’anni fa, si trova attualmente sotto il “temporaneo” controllo amministrativo e militare israeliano – come risposta (sic) alle “minacce” di diversi Paesi di riconoscere lo Stato di Palestina all’imminente Assemblea generale dell’Onu, i leader Ue rimangono divisi e in diversi casi rischiano crisi politiche paralizzanti.Non si vede all’orizzonte nemmeno una maggioranza qualificata per una misura cosmetica come la sospensione parziale dei fondi Horizon+ a Israele, come certificato dall’Alta rappresentante Kaja Kallas. “Gli Stati membri non sono d’accordo su come far cambiare rotta al governo israeliano“, ha ammesso il capo della diplomazia comunitaria al termine dell’informale Difesa svoltosi l’altroieri a Copenaghen, dichiarandosi “non molto ottimista” sulla possibilità di fare progressi a stretto giro. Il portavoce della Commissione Thomas Regnier ha rifiutato di commentare su “casi specifici”, rispondendo ad una domanda sulle tecnologie militari vendute da Bruxelles all’Idf per lo sviluppo di droni usati contro i palestinesi.

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    Nell’inerzia del mondo (e dell’Ue), Israele sta smantellando la Palestina

    Bruxelles – L’Europa e il mondo restano a guardare mentre Israele seppellisce definitivamente ogni prospettiva per la costruzione di uno Stato palestinese. E probabilmente, allo stesso tempo, anche la possibilità di una ricomposizione politica della decennale crisi mediorientale. Dopo aver approvato il controverso piano per la creazione dell’insediamento E1, che spezza la Cisgiordania in due, il gabinetto di Benjamin Netanyahu ha avviato stanotte un’offensiva terrestre su Gaza City.Approfittando della disattenzione dei partner occidentali, febbrilmente indaffarati a preparare il terreno per una potenziale soluzione negoziata della guerra in Ucraina, Tel Aviv sta premendo sull’acceleratore per distruggere completamente quel poco che resta della Palestina, conducendo in contemporanea due azioni diverse ma complementari tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata.Dopo giorni di intensi bombardamenti, nella notte tra il 20 e il 21 agosto sono iniziate le operazioni di terra dell’esercito israeliano (Idf) per la conquista definitiva di Gaza City, la capitale dell’exclave costiera ormai rasa quasi completamente al suolo dalla violentissima campagna militare avviata nell’ottobre 2023 in risposta agli attacchi dei miliziani di Hamas. La situazione umanitaria nell’area è gravissima, come denunciano quotidianamente le Nazioni Unite, le ong e associazioni internazionali e locali e gli stessi alleati dello Stato ebraico, e il numero dei morti ha superato le 62mile unità.La distruzione a Gaza City (foto: Omar Al-Qattaa/Afp)Ma il primo ministro Benjamin Netanyahu (ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità) tira dritto e procede coi suoi piani di rioccupare permanentemente la Striscia, dalla quale Israele si era ritirato nel 2005. Per portarli a termine, il suo gabinetto ha richiamato 60mila riservisti da impiegare in prima linea nelle prossime settimane. Diverse ong israeliane parlano ormai apertamente delle operazioni a Gaza bollandole come genocidio del popolo palestinese, condotto sia con mezzi militari sia tramite la strumentalizzazione della fame.Diventa peraltro sempre più difficile per il mondo esterno sapere cosa accade nella Striscia, dato che le Idf continuano a massacrare indiscriminatamente i giornalisti (oltre 240 in 22 mesi, secondo i dati dell’Onu), sospettati di connivenza con Hamas. Mentre il gruppo palestinese e il governo di Tel Aviv si stanno scambiando accuse reciproche di sabotaggio dei negoziati per una tregua, i cittadini israeliani riempiono le piazze per chiedere la fine delle ostilità e il rilascio degli ostaggi (una cinquantina, di cui una ventina ancora in vita) in una serie di mobilitazioni tra le più grandi nella storia del Paese.Parallelamente, la situazione sta precipitando anche in Cisgiordania, dove il dominio della potenza occupante ha da tempo assunto i connotati di un vero e proprio sistema di apartheid (come denunciato, ancora una volta, dalle ong israeliane). Qui da molti mesi si assiste ad una recrudescenza delle violenze dei coloni (spalleggiati dall’Idf) che fa il paio con le continue demolizioni di abitazioni e infrastrutture palestinesi.Giusto ieri, il governo israeliano ha dato il via libera definitivo al controverso progetto di espansione degli insediamenti nella cosiddetta area E1 (acronimo di East 1), tramite cui verrà costruito un nuovo corridoio tra la Gerusalemme Est occupata e la colonia già esistente di Maale Adumim. Con questa mossa – nel cassetto di Tel Aviv già dagli anni Novanta, ma mai attuata per l’opposizione degli alleati occidentali, inclusi gli Usa – verrà de facto tagliata in due la Cisgiordania, uno dei nuclei di un ipotetico Stato di Palestina, interrompendo la continuità territoriale tra Ramallah a nord (sede dell’Autorità nazionale palestinese) e Betlemme a sud.Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich descrive il progetto E1 con l’ausilio di una mappa (foto: Menahem Kahana/Afp)“Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo delle trattative non con slogan, ma con azioni concrete“, ha proclamato trionfalmente il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, uno degli uomini di punta dell’estrema destra messianica dalla quale dipende la sopravvivenza del sesto governo Netanyahu. “Ogni insediamento, ogni quartiere, ogni unità abitativa è un altro chiodo nella bara di questa idea pericolosa“, ha aggiunto.Lo stesso premier, visitando un insediamento della Cisgiordania fondato un quarto di secolo fa, ha rivendicato orgogliosamente la linea dell’esecutivo: “Venticinque anni fa ho detto che avremmo fatto di tutto per garantire il nostro controllo sulla Terra di Israele, per impedire la creazione di uno Stato palestinese, per impedire i tentativi di sradicarci da qui. Grazie a Dio, abbiamo mantenuto la promessa”.Queste azioni configurano violazioni eclatanti del diritto internazionale e, come confermato da dichiarazioni di simile tenore, stanno venendo perpetrate con l’esplicito intento di mettere una pietra tombale su ogni velleità di costruire uno Stato palestinese. Sempre Smotrich ha sottolineato che si tratta anche di una risposta all’intenzione di diversi Paesi occidentali di riconoscere la Palestina il mese prossimo e sancendo formalmente una realtà che era già sotto gli occhi di tutti da molti anni.Anche se le cancellerie mondiali faticano ad ammetterlo, la “soluzione a due Stati” è ormai diventata una formula priva di qualunque significato reale, dato che nessuno dei governi succedutisi a Tel Aviv negli ultimi trent’anni ha mai compiuto passi concreti per realizzare quanto pattuito col processo di Oslo ed avvicinare la formazione di uno Stato di Palestina autonomo e indipendente che vivesse “in pace e sicurezza” accanto a Israele.Demolizioni israeliane supervisionate dall’Idf a Judeira, nella Cisgiordania occupata (foto: Zain Jaafar/Afp)Da Bruxelles, tuttavia, giungono solo i soliti commenti retorici, ritriti e stucchevoli. I portavoce della Commissione continuano a rimandare i giornalisti ai post su X di Ursula von der Leyen e Kaja Kallas, ripetendo che “la diplomazia è lo strumento principale“. Ma a questo punto, espressioni come “situazione umanitaria spaventosa” e “protezione della popolazione civile” suonano quasi grottesche se affiancate alle immagini che arrivano dal terreno, con buona pace delle pretese comunitarie di proiettare una qualche forma di soft power nell’arena internazionale.“L’Ue rifiuta qualsiasi tentativo di modifica territoriale e demografica nella Striscia di Gaza“, ha ribadito per l’ennesima volta Anitta Hipper, portavoce dell’Alta rappresentante, evidenziando al contempo che il piano sull’E1 “mina la soluzione a due Stati e viola il diritto internazionale”. Peccato che all’orizzonte, in termini di azioni concrete ci sia poco o nulla. Le proposte di sanzioni contro Tel Aviv continuano a cadere nel vuoto, e i Ventisette non sono nemmeno in grado di mettersi d’accordo su una sospensione parziale dei fondi Horizon+ destinati a Israele nel bilancio 2028-2034.

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    Nell’inerzia del mondo (e dell’Ue), Israele sta smantellando la Palestina

    Bruxelles – L’Europa e il mondo restano a guardare mentre Israele seppellisce definitivamente ogni prospettiva per la costruzione di uno Stato palestinese. E probabilmente, allo stesso tempo, anche la possibilità di una ricomposizione politica della decennale crisi mediorientale. Dopo aver approvato il controverso piano per la creazione dell’insediamento E1, che spezza la Cisgiordania in due, il gabinetto di Benjamin Netanyahu ha avviato stanotte un’offensiva terrestre su Gaza City.Approfittando della disattenzione dei partner occidentali, febbrilmente indaffarati a preparare il terreno per una potenziale soluzione negoziata della guerra in Ucraina, Tel Aviv sta premendo sull’acceleratore per distruggere completamente quel poco che resta della Palestina, conducendo in contemporanea due azioni diverse ma complementari tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata.Dopo giorni di intensi bombardamenti, nella notte tra il 20 e il 21 agosto sono iniziate le operazioni di terra dell’esercito israeliano (Idf) per la conquista definitiva di Gaza City, la capitale dell’exclave costiera ormai rasa quasi completamente al suolo dalla violentissima campagna militare avviata nell’ottobre 2023 in risposta agli attacchi dei miliziani di Hamas. La situazione umanitaria nell’area è gravissima, come denunciano quotidianamente le Nazioni Unite, le ong e associazioni internazionali e locali e gli stessi alleati dello Stato ebraico, e il numero dei morti ha superato le 62mile unità.La distruzione a Gaza City (foto: Omar Al-Qattaa/Afp)Ma il primo ministro Benjamin Netanyahu (ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità) tira dritto e procede coi suoi piani di rioccupare permanentemente la Striscia, dalla quale Israele si era ritirato nel 2005. Per portarli a termine, il suo gabinetto ha richiamato 60mila riservisti da impiegare in prima linea nelle prossime settimane. Diverse ong israeliane parlano ormai apertamente delle operazioni a Gaza bollandole come genocidio del popolo palestinese, condotto sia con mezzi militari sia tramite la strumentalizzazione della fame.Diventa peraltro sempre più difficile per il mondo esterno sapere cosa accade nella Striscia, dato che le Idf continuano a massacrare indiscriminatamente i giornalisti (oltre 240 in 22 mesi, secondo i dati dell’Onu), sospettati di connivenza con Hamas. Mentre il gruppo palestinese e il governo di Tel Aviv si stanno scambiando accuse reciproche di sabotaggio dei negoziati per una tregua, i cittadini israeliani riempiono le piazze per chiedere la fine delle ostilità e il rilascio degli ostaggi (una cinquantina, di cui una ventina ancora in vita) in una serie di mobilitazioni tra le più grandi nella storia del Paese.Parallelamente, la situazione sta precipitando anche in Cisgiordania, dove il dominio della potenza occupante ha da tempo assunto i connotati di un vero e proprio sistema di apartheid (come denunciato, ancora una volta, dalle ong israeliane). Qui da molti mesi si assiste ad una recrudescenza delle violenze dei coloni (spalleggiati dall’Idf) che fa il paio con le continue demolizioni di abitazioni e infrastrutture palestinesi.Giusto ieri, il governo israeliano ha dato il via libera definitivo al controverso progetto di espansione degli insediamenti nella cosiddetta area E1 (acronimo di East 1), tramite cui verrà costruito un nuovo corridoio tra la Gerusalemme Est occupata e la colonia già esistente di Maale Adumim. Con questa mossa – nel cassetto di Tel Aviv già dagli anni Novanta, ma mai attuata per l’opposizione degli alleati occidentali, inclusi gli Usa – verrà de facto tagliata in due la Cisgiordania, uno dei nuclei di un ipotetico Stato di Palestina, interrompendo la continuità territoriale tra Ramallah a nord (sede dell’Autorità nazionale palestinese) e Betlemme a sud.Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich descrive il progetto E1 con l’ausilio di una mappa (foto: Menahem Kahana/Afp)“Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo delle trattative non con slogan, ma con azioni concrete“, ha proclamato trionfalmente il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, uno degli uomini di punta dell’estrema destra messianica dalla quale dipende la sopravvivenza del sesto governo Netanyahu. “Ogni insediamento, ogni quartiere, ogni unità abitativa è un altro chiodo nella bara di questa idea pericolosa“, ha aggiunto.Lo stesso premier, visitando un insediamento della Cisgiordania fondato un quarto di secolo fa, ha rivendicato orgogliosamente la linea dell’esecutivo: “Venticinque anni fa ho detto che avremmo fatto di tutto per garantire il nostro controllo sulla Terra di Israele, per impedire la creazione di uno Stato palestinese, per impedire i tentativi di sradicarci da qui. Grazie a Dio, abbiamo mantenuto la promessa”.Queste azioni configurano violazioni eclatanti del diritto internazionale e, come confermato da dichiarazioni di simile tenore, stanno venendo perpetrate con l’esplicito intento di mettere una pietra tombale su ogni velleità di costruire uno Stato palestinese. Sempre Smotrich ha sottolineato che si tratta anche di una risposta all’intenzione di diversi Paesi occidentali di riconoscere la Palestina il mese prossimo e sancendo formalmente una realtà che era già sotto gli occhi di tutti da molti anni.Anche se le cancellerie mondiali faticano ad ammetterlo, la “soluzione a due Stati” è ormai diventata una formula priva di qualunque significato reale, dato che nessuno dei governi succedutisi a Tel Aviv negli ultimi trent’anni ha mai compiuto passi concreti per realizzare quanto pattuito col processo di Oslo ed avvicinare la formazione di uno Stato di Palestina autonomo e indipendente che vivesse “in pace e sicurezza” accanto a Israele.Demolizioni israeliane supervisionate dall’Idf a Judeira, nella Cisgiordania occupata (foto: Zain Jaafar/Afp)Da Bruxelles, tuttavia, giungono solo i soliti commenti retorici, ritriti e stucchevoli. I portavoce della Commissione continuano a rimandare i giornalisti ai post su X di Ursula von der Leyen e Kaja Kallas, ripetendo che “la diplomazia è lo strumento principale“. Ma a questo punto, espressioni come “situazione umanitaria spaventosa” e “protezione della popolazione civile” suonano quasi grottesche se affiancate alle immagini che arrivano dal terreno, con buona pace delle pretese comunitarie di proiettare una qualche forma di soft power nell’arena internazionale.“L’Ue rifiuta qualsiasi tentativo di modifica territoriale e demografica nella Striscia di Gaza“, ha ribadito per l’ennesima volta Anitta Hipper, portavoce dell’Alta rappresentante, evidenziando al contempo che il piano sull’E1 “mina la soluzione a due Stati e viola il diritto internazionale”. Peccato che all’orizzonte, in termini di azioni concrete ci sia poco o nulla. Le proposte di sanzioni contro Tel Aviv continuano a cadere nel vuoto, e i Ventisette non sono nemmeno in grado di mettersi d’accordo su una sospensione parziale dei fondi Horizon+ destinati a Israele nel bilancio 2028-2034.

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    All’Onu comincia la conferenza sulla Palestina

    Bruxelles – La diplomazia prova a battere un colpo a favore della Palestina. Con oltre un mese di ritardo, inizia oggi alla sede dell’Onu la conferenza co-presieduta da Francia e Arabia Saudita per promuovere il riconoscimento dello Stato palestinese, tra le divisioni della comunità internazionale. Nel frattempo, Tel Aviv ha momentaneamente ceduto alle pressioni dei partner e sta facendo entrare col contagocce alcuni aiuti umanitari a Gaza.La conferenza era stata annunciata oltre due mesi fa, a fine maggio, e si sarebbe dovuta svolgere a metà giugno. Poi però Israele ha sferrato il suo attacco contro l’Iran e, così, era stata rimandata sine die. Fino ad oggi (28 luglio), quando ha preso ufficialmente il via la conferenza di alto livello delle Nazioni Unite sulla “risoluzione pacifica della questione palestinese e l’attuazione della soluzione dei due Stati“, promossa da Parigi e Riad per imprimere un’accelerazione alla ricomposizione politica della cosiddetta questione israelo-palestinese.L’incontro, che si svolgerà fino a mercoledì (30 luglio) al Palazzo di vetro di New York, punta anche a centrare altri obiettivi chiave. La riforma dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), l’amministrazione guidata da Mahmoud Abbas che, operando come surrogato del futuro governo del futuro Stato palestinese, gestisce quello che rimane dei territori palestinesi occupati. Sul tavolo anche la smilitarizzazione di Hamas e la sua esclusione dalla vita politica della nazione palestinese che sarà e, infine, la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e gli Stati arabi della regione.Il presidente francese Emmanuel Macron (foto: Stephane De Sakutin/Afp)Lo scorso giovedì (24 luglio), con una mossa che ha scosso il mondo politico occidentale, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che a settembre la Francia riconoscerà formalmente lo Stato di Palestina, il primo Paese G7 a farlo da quando, nel 1988, la leadership palestinese in esilio proclamò la nascita dello Stato. Per il suo ministro degli Esteri, Joel-Noël Barrot, “la prospettiva di uno Stato palestinese non è mai stata così minacciata, o così necessaria”.“La conferenza offre un’opportunità unica per trasformare il diritto internazionale e il consenso internazionale in un piano operativo e per dimostrare la determinazione a porre fine all’occupazione e al conflitto una volta per tutte, a beneficio di tutti i popoli“, ha dichiarato l’ambasciatore palestinese all’Onu Riyad Mansour, chiedendo “coraggio” a tutte le delegazioni (un centinaio circa) partecipanti.Per la segretaria generale di Amnesty international, Agnès Callamard, la priorità assoluta dev’essere quella di “intraprendere azioni concrete per porre fine al genocidio in corso” perpetrato da Israele nei confronti dei palestinesi, nonché di terminare “la sua occupazione militare illegale del territorio palestinese, che ha alimentato violazioni di massa contro i palestinesi e ha permesso e consolidato il crudele sistema di apartheid di Israele“.Senza “un cessate il fuoco immediato e duraturo” e la fine del “blocco illegale” imposto da Tel Aviv sulla Striscia, osserva Callamard, “qualsiasi processo volto ad affrontare il futuro dei palestinesi manca di credibilità“. “Gli Stati devono essere inequivocabili: Israele non è al di sopra della legge e la responsabilità è una priorità“, conclude.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Menahem Kahana/Afp)Tel Aviv e i suoi alleati di ferro non hanno preso bene l’iniziativa franco-saudita. Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu (sul quale pende un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale) la mossa di Parigi “premia il terrorismo” e Donald Trump ha bollato come “ininfluente” Macron e la decisione.Una cattiva idea anche per il cancelliere tedesco Friedrich Merz, mentre il primo ministro britannico Keir Starmer è finito sotto il fuoco di fila dei deputati di Sua Maestà (inclusi i suoi stessi laburisti) affinché segua l’esempio di Macron. Giorgia Meloni schiera l’Italia sul consueto equilibrismo, sostenendo che riconoscere uno Stato palestinese che non esiste sulla cartina sia “controproducente“.Attualmente, sono 147 gli Stati membri dell’Onu che riconoscono la Palestina, su un totale di 193 Paesi. Tra questi ci sono undici membri Ue (Bulgaria, Cechia, Cipro, Irlanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria), ma nessuna nazione del G7. Un futuro Stato palestinese dovrebbe sorgere, teoricamente, sui territori di Gaza e della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est), tutti occupati illegalmente da Israele sin dalla guerra dei Sei giorni del 1967.La speranza, almeno da parte dell’Eliseo, è che la spinta di Macron possa indurre altri Paesi a riconoscere la Palestina, aumentando la pressione diplomatica per una fine della guerra – virtualmente la più sanguinosa che il mondo abbia conosciuto negli ultimi decenni – e per il soccorso alla popolazione civile dell’enclave palestinese.Sfollati palestinesi si accalcano per ricevere del cibo da parte di operatori umanitari al campo profughi di Nuseirat, nella Striscia di Gaza (foto: Eyad Baba/Afp)Non solo con le bombe (metà delle quali sono made in Europe), ma anche attraverso la strumentalizzazione della fame. Tel Aviv sta affamando artificialmente centinaia di migliaia di esseri umani, negando loro gli aiuti umanitari che pure vengono stipati ai confini della Striscia – tanto che a tonnellate stanno venendo letteralmente buttati via, poiché ormai deperiti – con una deliberata strategia che ricorda l’Holodomor, il genocidio degli ucraini perpetrato dalla dirigenza sovietica nel 1932-33.Un numero crescente di Paesi, inclusi i tradizionali alleati europei, sta insistendo affinché lo Stato ebraico fermi la carneficina in corso, apra i valichi e faccia entrare a Gaza gli aiuti. Durante il weekend sono stati effettuati dei lanci di generi alimentari dal cielo, mentre il governo di Netanyahu (che incolpa l’Onu per i ritardi nella consegna degli aiuti) ha acconsentito a delle “pause tattiche” di una decina di ore al giorno “fino a nuovo avviso” e all’apertura di corridoi umanitari verso tre destinazioni nella Striscia.Ma è una goccia nel mare, che secondo gli esperti non sarà sufficiente a salvare i civili dalla malnutrizione. Nel frattempo non si interrompono i crimini di guerra dell’esercito di Tel Aviv, che ogni giorno continua ad assassinare decine di palestinesi durante la distribuzione del cibo a Gaza e continua a spalleggiare le violenze dei coloni in Cisgiordania.