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    L’UE in pressing sulla Serbia: “Si allinei alle sanzioni contro la Russia e si impegni sul rispetto dello Stato di diritto”

    Bruxelles – Si riparte, ancora, da Aleksandar Vučić e dal suo rapporto ambiguo con Vladimir Putin. Dopo il trionfo alle elezioni di domenica (3 aprile) da parte del suo Partito Progressista Serbo, Bruxelles torna a pressare Belgrado per un maggiore allineamento della Serbia a livello di politica estera con l’Unione – in quanto Paese candidato all’adesione – e soprattutto perché cambi la sua posizione sulle sanzioni contro la Russia. La volontà del presidente Vučić di rimanere “neutrale” rispetto al campo occidentale, nel quale comunque sta cercando di entrare, e al Cremlino, tradizionale alleato politico e partner commerciale, nasconde tutta l’ambiguità di una scelta che sta creando non pochi problemi all’UE per il possibile aggiramento delle misure restrittive.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić
    Proprio in virtù dell’aggressione militare russa “non provocata e ingiustificata” contro la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, “ci aspettiamo che la Serbia, come Paese che sta negoziando la sua adesione all’UE, si allinei progressivamente alle nostre posizioni, comprese le dichiarazioni e le misure restrittive, in linea con il quadro negoziale”, hanno dichiarato in una nota l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. I Ventisette sono “il principale partner politico e, di gran lunga, economico della Serbia” ed è per questo che la condivisione dei pacchetti di sanzioni contro la Russia dovrebbe essere la naturale conseguenza dell’impegno dell’Unione nel Paese: “Continuiamo a sostenere la ripresa economica, l’energia, la sicurezza alimentare”, anche attraverso il Piano economico e di investimento per i Balcani occidentali.
    Oltre all’allineamento sulle sanzioni, c’è bisogno anche di un maggiore impegno della Serbia sul rispetto dello Stato di diritto, a partire dal risultato delle elezioni di domenica. “Il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche è un pilastro centrale del processo di adesione all’UE”, hanno ricordato Borrell e Várhelyi, puntualizzando che “una serie di carenze hanno portato a una competizione ineguale” alla vigilia del voto, come fatto notare dagli eurodeputati dopo la missione di osservazione elettorale in Serbia. “Incoraggiamo il nuovo Parlamento e la leadership politica a continuare a lavorare per un dialogo autentico e costruttivo in tutto lo spettro politico”, con l’obiettivo di arrivare a “un ampio consenso interpartitico sulle riforme“, necessario per il cammino verso l’UE: indipendenza del sistema giudiziario, lotta alla corruzione e al crimine organizzato, libertà di stampa e condanna senza eccezione dei crimini di guerra. Un riferimento particolare anche alla normalizzazione delle relazioni con il Kosovo attraverso il dialogo mediato dall’UE, “che determina il ritmo generale” dei negoziati di adesione all’UE di entrambe le parti.
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e l’autocrate russo, Vladimir Putin
    Ma nello stesso momento in cui Bruxelles chiede alla Serbia di allinearsi alle sanzioni contro la Russia, proprio da Mosca arrivano le congratulazioni di Putin a Vučić per la sua “convincente vittoria” alle elezioni presidenziali. Come riportato dall’agenzia di stampa russa Tass, in un telegramma l’autocrate russo ha invitato il presidente serbo a “rafforzare la partnership strategica” tra i due Paesi, dimostrando quanto la politica di Vučić sia più vicina al Cremlino di quanto le sue dichiarazioni di “neutralità” vogliano far sembrare.

    Dopo l’esito delle elezioni di domenica 3 aprile, che hanno sancito il triplice trionfo del partito al potere, la Commissione Europea ha chiesto a Belgrado di “avvicinarsi alle posizioni dell’Unione” e prendere le distanze da Putin (che si è congratulato per la vittoria del presidente Vučić)

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    La Polonia chiede un rafforzamento della NATO su tutto il fronte orientale per rispondere alle minacce russe

    Bruxelles – Ora la parola d’ordine è rafforzamento, di tutto il fronte orientale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). La richiesta è arrivata oggi (lunedì 7 febbraio) dal presidente della Polonia, Andrzej Duda, e si sposa perfettamente con l’impostazione del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, nella risposta da dare alla crescente presenza di forze militari russe sul confine con l’Ucraina. “Dovrebbe essere presa una scelta collettiva da parte dell’Alleanza per rafforzare tutto il fronte orientale“, ha sottolineato in conferenza stampa a Bruxelles il presidente polacco, al termine dell’incontro con Stoltenberg.
    A preoccupare non sono solo le “oltre 100 mila truppe lungo il confine con l’Ucraina, ma anche le circa 30 mila in Bielorussia, il più grande dispiegamento in quel Paese dai tempi della guerra fredda”, ha spiegato il segretario generale della NATO. “Questi schieramenti non sono giustificati, non sono trasparenti e sono molto vicini ai confini” dell’Alleanza. È in quest’ottica che si giustifica il rafforzamento della capacità di risposta degli alleati e la possibilità di dispiegare “nuovi gruppi tattici”sul fronte sud-orientale (Romania): “La NATO farà tutto il necessario per proteggere e difendere tutti gli alleati e l’invio di più truppe statunitensi in Polonia, Germania e Romania è una potente dimostrazione di impegno per uno schieramento difensivo e proporzionato”. Il presidente Duda si è detto preoccupato soprattutto per la presenza delle truppe russe in Bielorussia per esercitazioni: “Se non dovessero lasciare immediatamente il Paese, dovremo agire di conseguenza, perché si tratterebbe di un nuovo distretto militare ai suoi confini”.
    Sul piano del dialogo con Mosca, è stata ribadita la necessità di trovare “una soluzione politica a livello di Consiglio NATO-Russia”, ha ricordato Stoltenberg. Tuttavia, in linea con quanto definito nella lettera del 26 gennaio, “non scenderemo a compromessi sui principi fondamentali“, tra cui la difesa degli alleati e la possibilità per ogni Paese di scegliere le proprie alleanze per la sicurezza nazionale. A rendere necessaria questa precisazione è stata la dichiarazione congiunta di venerdì scorso (4 febbraio) di Russia e Cina, in cui entrambi i Paesi hanno chiesto alla NATO di smettere di ammettere nuovi membri nell’Alleanza: “Si tratta di un tentativo di negare alle nazioni sovrane il diritto di fare le proprie scelte e di ritornare a un’epoca di sfere d’influenza”, ha accusato con forza Stoltenberg.

    Met #Poland’s President @AndrzejDuda at a critical time for our security. We addressed #Russia’s build-up, and the Russia–#China statement, which calls on #NATO to bar new members. We must not return to spheres of influence where big powers tell others what they can & cannot do. pic.twitter.com/HN6TuU7Ua1
    — Jens Stoltenberg (@jensstoltenberg) February 7, 2022

    Il presidente Duda a Bruxelles
    Nel corso della sua visita a Bruxelles, il presidente polacco ha incontrato anche i presidenti della Commissione, Ursula von der Leyen, e del Consiglio UE, Charles Michel. Al centro delle discussioni la questione della sicurezza delle frontiere dell’Unione e del rafforzamento militare della Russia, compresa la necessità di un “coordinamento sulle sanzioni per rispondere a qualsiasi ulteriore escalation e anche sull’approvvigionamento energetico“, ha commentato von der Leyen.
    Punti ricordati da Michel, che si è anche soffermato sulla situazione al confine polacco – compreso il nuovo muro in costruzione lungo il confine con la Bielorussia – e la necessità di un “maggiore impegno sul rispetto dello Stato di diritto” nel Paese, in particolare sull’indipendenza della magistratura. Proprio il presidente Duda ha presentato la settimana scorsa un disegno di legge per abolire la sezione disciplinare della Corte Suprema, per tentare di risolvere lo scontro tra Varsavia e Bruxelles sul primato del diritto comunitario, scatenatosi nel luglio dello scorso anno.

    Good exchange with President @AndrzejDuda on the security situation and Russia’s military build-up.
    We are coordinating deeply our preparedness, including on energy supply, and on sanctions to respond to any further escalation. pic.twitter.com/OW8tohxKGa
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) February 7, 2022

    La richiesta del presidente della Polonia, Andrzej Duda, si sposa con la visione del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, per rispondere alle minacce di Mosca: “Faremo tutto il necessario per difendere gli alleati”

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    Nel 2021 la Serbia ha migliorato il proprio allineamento agli standard di adesione all’UE

    Bruxelles – Ora è arrivata anche la conferma dalla istituzioni dell’Unione Europea: nel 2021 la Serbia ha fatto progressi sul livello di allineamento agli standard di adesione all’UE e con i recenti progressi sullo Stato di diritto sta dimostrando di voler continuare su questa strada. È quanto emerge dalle conclusioni del Consiglio di stabilizzazione e associazione UE-Serbia, riunitosi oggi (martedì 25 gennaio) a Bruxelles.
    A presiedere il vertice sono stati per l’UE il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario per il vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e per la parte serba la premier, Ana Brnabić, e la ministra per l’integrazione europea, Jadranka Joksimović.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la premier serba, Ana Brnabić, al Consiglio di stabilizzazione e associazione UE-Serbia (martedì 25 gennaio)
    Partendo dai risultati del referendum sulla riforma giudiziaria, i partecipanti hanno accolto “con favore” il completamento di questo “importante passo” sul fronte delle riforme costituzionali richieste dall’Unione e hanno auspicato che il Paese “continui e approfondisca l’impegno sullo Stato di diritto” nei settori del sistema giudiziario, della lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, della libertà dei media e del trattamento interno dei crimini di guerra. Rimangono ancora sotto la lente di Bruxelles il “corretto funzionamento delle istituzioni democratiche” e il “rafforzamento della fiducia nei processi elettorali”.
    Ma, in vista del prossimo incontro di alto vertice tra UE e Serbia, le conclusioni mettono in evidenza la necessità per Belgrado di “intensificare ulteriormente gli sforzi per allinearsi alla politica estera e di sicurezza comune dell’UE“. In questo senso vengono considerati apprezzabili sia la “partecipazione attiva” della Serbia alle missioni e alle operazioni militari, sia i preparativi per contribuire alle missioni civili. Per Bruxelles questo è un punto-chiave per allontanare il Paese balcanico dalle sirene russe e nazionaliste, in un momento particolarmente delicato nella regione per le tensioni etniche nella vicina Republika Srpska (l’entità serba della Bosnia ed Erzegovina). “Sono necessari ulteriori sforzi per superare le eredità del passato e per promuovere in modo costruttivo la fiducia reciproca, il dialogo e la tolleranza nella regione”, in particolare “evitando azioni e dichiarazioni che vanno contro questo obiettivo”.
    A proposito della cooperazione regionale, l’avanzamento dei negoziati di adesione della Serbia all’UE (che con la nuova metodologia ha portato all’apertura del gruppo tematico di capitoli negoziali sull’agenda verde e la connettività sostenibile) può passare solo dalla normalizzazione delle relazioni con il Kosovo, attraverso il dialogo mediato da Bruxelles. “È necessario un impegno costruttivo in buona fede e in uno spirito di compromesso per raggiungere un accordo globale giuridicamente vincolante in conformità al diritto internazionale”, sottolineano le conclusioni del Consiglio di stabilizzazione e associazione, ribadendo la “forte aspettativa che tutti gli accordi passati siano pienamente rispettati e attuati“.

    È quanto emerge dall’ultimo Consiglio di stabilizzazione e associazione UE-Serbia svoltosi oggi a Bruxelles: “Ora Belgrado deve intensificare ulteriormente i suoi sforzi sulla politica estera e di sicurezza comune”

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    Il sostegno UE alle riforme sullo Stato di diritto nei Balcani Occidentali è stato “largamente insufficiente”

    Bruxelles – La rotta è giusta, ma quanto fatto finora non è abbastanza. Si può riassumere così la valutazione della Corte dei Conti Europea sul sostegno UE alle riforme per lo Stato di diritto nei Balcani Occidentali. Secondo la relazione speciale pubblicato oggi (lunedì 10 gennaio) gli interventi dell’Unione Europea hanno avuto un impatto “largamente insufficiente” su questo aspetto fondamentale del cammino dei sei Paesi balcanici (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia) verso l’adesione all’UE.
    La verifica della Corte dei Conti Europea era iniziata nel gennaio dello scorso anno, con l’obiettivo di analizzare se il supporto europeo fosse stato progettato in modo appropriato, se fosse stato utilizzato “coerentemente per affrontare le questioni-chiave” e se avesse portato a miglioramenti “concreti e sostenibili”.
    Nonostante sia stato riconosciuto lo sforzo di Bruxelles nell’accelerare le riforme fondamentali per il rafforzamento dello Stato di diritto nei Balcani (separazione dei poteri, procedure legislative trasparenti e democratiche, certezza giuridica, controllo giurisdizionale efficace, indipendenza e imparzialità dei giudici, uguaglianza davanti alla legge), hanno pesato in questo contesto “l’insufficiente volontà politica e lo scarso impegno” delle istituzioni nazionali nell’affrontare “problemi persistenti” come la concentrazione del potere, le ingerenze politiche e la corruzione.
    Il contributo dell’UE ai Paesi balcanici è prima di tutto finanziario, rappresentando il principale donatore a livello globale per lo sviluppo economico della regione. Oltre al Piano economico e di investimenti da 29 miliardi di euro presentato dalla Commissione UE nell’ottobre del 2020, l’assistenza finanziaria dell’UE viene garantita grazie allo strumento di assistenza pre-adesione (IPA). Nel periodo 2014-2020 sono stati stanziati circa 12,8 miliardi di euro attraverso IPA II – di cui 700 milioni per sostenere lo Stato di diritto e i diritti fondamentali nei Balcani Occidentali – mentre a partire dallo scorso anno (fino al 2027) è attivo IPA III con una dotazione di 14,2 miliardi. Tuttavia, tra sovvenzioni, sostegno al bilancio, assistenza tecnica e scambio di informazioni, questo sostegno non è stato considerato sufficiente dalla Corte dei Conti UE e soprattutto “il suo impatto non è stato rigorosamente monitorato“.
    Dotazione finanziaria bilaterale IPA II per lo Stato di diritto e i diritti fondamentali (2014-2020)
    La cartina tornasole è l’aggravamento delle forme di autoritarismo nei sei Paesi balcanici negli ultimi dieci anni, proprio in corrispondenza dell’erogazione dei fondi attraverso gli strumenti IPA e nonostante i “progressi formali compiuti verso l’adesione all’UE” (i negoziati sono stati aperti solo con Serbia e Montenegro, mentre Macedonia del Nord e Albania sono bloccate dal veto della Bulgaria in seno al Consiglio dell’UE). Citando il rapporto 2021 dell’ONG Freedom House, la Corte dei Conti Europea ha sottolineato che “i governi dei Balcani Occidentali sono riusciti a combinare un impegno formale per la democrazia e l’integrazione europea con pratiche autoritarie informali” e che, fatta eccezione per la Macedonia del Nord, sul rispetto dello Stato di diritto “tutti questi Paesi presentano una tendenza stabile o addirittura in regresso”.
    Preoccupano le forme di corruzione che impediscono ai sistemi giudiziari di indagare, perseguire e sanzionare in modo efficace, che creano monopoli in settori strategici e che mettono a repentaglio la libertà di espressione: non a caso quest’ultimo è l’ambito in cui sono stati registrati meno progressi in tutti e sei i Paesi balcanici. Oltre alla mancanza di volontà politica interna, un altro fattore del giudizio della Corte con sede in Lussemburgo è legato al fatto che “l’UE si è avvalsa troppo di rado della possibilità di sospendere l’assistenza nel caso in cui un beneficiario non osservi i princìpi fondamentali della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”. La Corte dei Conti Europea ha avvertito che “se l’azione dell’Unione sembra aver contribuito alle riforme, è perché le comunicazioni a riguardo tendono a concentrarsi sui dati quantitativi relativi alle realizzazioni e non abbastanza su quello che le riforme hanno effettivamente conseguito“.
    “I modesti progressi compiuti negli ultimi 20 anni mettono a rischio la sostenibilità complessiva del sostegno fornito dall’UE nell’ambito del processo di adesione”, ha commentato Juhan Parts, membro della Corte dei Conti Europea e responsabile della relazione speciale. “Le riforme costanti perdono di credibilità se non conducono a risultati tangibili“, ha aggiunto. Per questo motivo è stato raccomandato alla Commissione UE e al Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) di rafforzare il meccanismo per promuovere le riforme fondamentali, di intensificare il sostegno alle organizzazioni della società civile e ai media indipendenti nei singoli Paesi dei Balcani Occidentali e, nell’ambito dello strumento IPA III, di rafforzare sia il ricorso alla condizionalità sullo Stato di diritto sia la rendicontazione e il monitoraggio dei progetti finanziati da Bruxelles.

    Lo evidenzia una relazione della Corte dei Conti UE, che sottolinea sia la mancanza di volontà politica dei governi nazionali, sia il fatto che l’UE non abbia quasi mai sospeso l’assistenza finanziaria in caso di palesi violazioni

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    Viktor Orbán incassa l’appoggio di Trump in vista delle elezioni in Ungheria

    Bruxelles – A pochi mesi dalle elezioni parlamentari in Ungheria (previste nel mese di aprile), l’attuale premier, Viktor Orbán, riceve un sostegno da Oltreoceano che parla da sé: “È un leader forte e rispettato da tutti, ha il mio completo sostegno e la mia approvazione per la rielezione come primo ministro”, parola di Donald Trump, ex-presidente degli Stati Uniti e di nuovo al centro delle polemiche a Washington alla vigilia del primo anniversario dell’assalto al Campidoglio.
    Non che il sostegno di Trump possa in qualche modo influenzare le intenzioni di voto degli elettori in Ungheria, ma si tratta comunque di una conferma del lavoro di Orbán nel coltivare le relazioni con l’ala più populista e autoritaria del partito repubblicano. Il primo ministro ungherese ha appoggiato The Donald nella sua corsa alla Casa Bianca nel 2016 e di nuovo nel secondo tentativo nel 2020. Non è un caso se Orbán è stato l’unico leader UE a non ricevere l’invito dal presidente democratico, Joe Biden, al Summit per la democrazia di inizio dicembre, a causa dell’erosione degli standard democratici nel Paese.
    Per il premier ungherese è però arrivato il tempo di incassare il sostegno all’alleato statunitense. Nel mirino c’è la terza riconferma di fila a capo dell’esecutivo nel Paese, ma questa tornata elettorale è considerata la più combattuta e importante dell’ultimo decennio. A sfidare Orbán è scesa in campo tutta l’opposizione unita sotto il nome di Péter Márki-Zay, candidato-premier che ha promesso battaglia al “sistema criminale di Fidesz”. I sei partiti di opposizione (il Partito Socialista Ungherese, i verdi di Dialogo per l’Ungheria e di La politica può essere Diversa, la destra nazionalista di Jobbik, i progressisti di Coalizione Democratica e i liberali di Movimento Momentum) si sono accordati nell’organizzare le primarie per eleggere un unico candidato-premier e candidati comuni nei singoli distretti, presentando alla fine l’economista Márki-Zay come “un’alternativa credibile e pulita”.
    Nel suo endorsement a Orbán, Trump ha affermato che il premier “ha fatto un lavoro meraviglioso nel proteggere l’Ungheria, fermando l’immigrazione illegale e creando posti di lavoro, e dovrebbe poterlo continuare a fare anche dopo le prossime elezioni”. In realtà il governo ungherese è al centro di diverse polemiche, procedure d’infrazione e sentenze delle istituzioni comunitarie, tra cui sulle questioni della violazione delle procedure d’asilo, le leggi anti-LGBTI+ e il mancato rispetto dello Stato di diritto. “Probabilmente è come me, un po’ controverso, ma va bene così”, è stato il commento dell’ex-presidente statunitense Trump.

    Il premier ungherese, in corsa per il quarto mandato consecutivo, è stato definito dall’ex-presidente statunitense “un leader forte, che merita la rielezione”. Si accende la corsa contro lo sfidante Márki-Zay

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    Il Parlamento UE invoca sanzioni economiche contro Milorad Dodik e chi sobilla il secessionismo in Bosnia ed Erzegovina

    Bruxelles – La crisi in Bosnia ed Erzegovina è approdata nell’emiciclo del Parlamento UE e da parte degli eurodeputati la denuncia delle spinte secessioniste nel Paese è dura come mai prima d’ora. La parola-chiave che è stata pronunciata dai rappresentanti dei cittadini europei è “sanzioni” contro i responsabili di una situazione che rievoca lo spettro dei conflitti etnici degli anni Novanta.
    Il membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita, Milorad Dodik
    Già al Consiglio Affari Esteri dello scorso 15 novembre l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, si era detto “preoccupato” per la “retorica divisiva di alcuni leader politici nazionali” in Bosnia e aveva puntato il dito contro il membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita, Milorad Dodik, che a ottobre aveva minacciato di portare la Republika Srpska (l’entità serba) fuori dal controllo delle autorità centrali. Ma nel corso del dibattito al Parlamento UE di ieri sera (martedì 23 novembre), l’asticella è stata sposta più in alto, con gli eurodeputati che ora chiedono un intervento più deciso da parte delle istituzioni comunitarie a difesa della stabilità del Paese e della sua prospettiva europea.
    “Da Dodik e dalla Republika Srpska arrivano segnali preoccupanti, che potrebbero portare a un nuovo conflitto e a violenze etniche”, ha lanciato l’allarme il vicepresidente del gruppo del PPE, Andrey Kovatchev. L’eurodeputato bulgaro ha insistito sul fatto che “dobbiamo mandare un segnale unico e coeso“, in modo da “ribadire l’impegno dell’UE alla pace e alla stabilità della Bosnia, attraverso una riforma della legge elettorale e l’equa rappresentanza delle tre comunità costituenti” (ovvero serbi, croati e musulmani). Più duro Pedro Marques (S&D): “L’UE deve avere ruolo più forte e usare tutti gli strumenti a sua disposizione, comprese le sanzioni economiche” per rispondere alle minacce dell’ex-presidente della Republika Srpska (dal 2010 al 2018). Con un affondo ai primi ministri di Slovenia e Ungheria, che nelle ultime settimane si sono incontrati con Dodik: “Janez Janša e Viktor Orbán giocano con il fuoco, non sono di aiuto per la politica estera dell’UE“.
    Il vicepresidente del Parlamento UE, Fabio Massimo Castaldo (Movimento 5 Stelle)
    Secondo il vicepresidente del Parlamento UE Fabio Massimo Castaldo (Movimento 5 Stelle), “c’è un pericolo reale di divisione in Bosnia, per colpa di chi soffia sul fuoco del nazionalismo, anche tra gli Stati membri dell’UE”. È per questo motivo che “l‘Unione deve agire in maniera risoluta e univoca, anche con sanzioni contro Dodik e chi lo fiancheggia, tenendo in considerazione gli interessi della popolazione”, ha aggiunto Castaldo. Di sanzioni ha parlato anche Klemen Grošelj (Renew), “contro chi vuole mettere in discussione l’integrità territoriale e smembrare la Bosnia”. Tineke Strik (Verdi/ALE) ha chiesto inoltre di “non scendere a compromessi sulle riforme democratiche di cui c’è bisogno nel Paese” e di “imporre misure restrittive contro Dodik e chi lo aiuta”.
    Da sottolineare lo scontro tra i due gruppi delle destre sull’approccio ai fiancheggiatori di Dodik, ovvero Serbia e Russia. Angel Dzhambazki (ECR) ha esortato con veemenza le istituzioni comunitarie a “smettere di essere politicamente corretti e riconoscere che i problemi arrivano da Belgrado e il Cremlino, che non sono nostri amici”. Al contrario Thierry Mariani (ID) si è scagliato contro “i fallimenti diplomatici dell’UE nei Balcani Occidentali, che hanno dimostrato la nostra inefficacia in Bosnia” e ha invocato una “relazione equilibrata con la Serbia e la Russia“.
    Da parte della Commissione Europea, il vicepresidente esecutivo Valdis Dombrovskis è intervenuto in Aula per ribadire “l’impegno e le prospettive UE della Bosnia ed Erzegovina come Paese sovrano e unito”. I veri problemi che i leader politici dovranno affrontare sono “la corruzione, la debolezza della magistratura, i servizi sanitari pessimi e la disoccupazione”, oltre a “seguire le 14 priorità-chiave per avvicinarsi all’Unione Europea e superare lo stallo anche grazie al dialogo che cerchiamo di facilitare”. Così come evidenziato da parte della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel corso del suo viaggio nei Balcani a settembre, “la prospettiva europea del Paese può essere stimolata solo a condizione che vengano portate avanti le riforme essenziali e uno spirito di unità”, ha sottolineato Dombrovskis. Questo messaggio sarà ribadito dal commissario UE per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, durante gli incontri con i tre leader della Presidenza tripartita in programma tra oggi e domani in Bosnia ed Erzegovina.
    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Gli eurodeputati vogliono un intervento deciso delle istituzioni UE contro il membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita, Milorad Dodik, per le minacce di portare la Republika Srpska fuori dal controllo delle autorità centrali

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    Bosnia ed Erzegovina, la prospettiva UE è un “atto di fede”: servono ancora riforme strutturali e riconciliazione etnica

    Bruxelles – L’allargamento dell’Unione Europea ai Balcani occidentali procede come un elastico: il cammino è tracciato, ma non sono rari né gli slanci di entusiasmo improvviso né la sensazione che tutto il processo stia ristagnando. Talvolta la prospettiva europea dei Balcani può essere considerata come vero e proprio “atto di fede”, prendendo in prestito l’espressione usata dall’eurodeputato Paulo Rangel (PPE) durante la presentazione della relazione sul rapporto 2019/2020 della Commissione UE sulla Bosnia ed Erzegovina.
    In plenaria il testo è stato approvato con 483 voti a favore, 73 voti contrari e 133 astenuti, l’ultimo delle sei relazioni sui progressi dei Paesi dei Balcani occidentali (il primo dibattito su Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Serbia si era tenuto lo scorso 25 marzo, il secondo sul Montenegro il 18 maggio). L’impressione rimane quella di un sostegno diffuso del Parlamento Europeo alle aspirazioni di adesione all’UE della Bosnia ed Erzegovina, anche se le condizioni in cui versano la società e le istituzioni del Paese pongono una serie di paletti sulle modalità e le tempistiche con cui questo processo potrà avere luogo.
    Il relatore per la Bosnia ed Erzegovina, Paulo Rangel (PPE)
    “La diversità etnica e religiosa è parte del DNA dell’Unione Europea, perciò la futura integrazione della Bosnia ed Erzegovina non può che essere un fenomeno naturale”, ha spiegato il relatore Rangel. Se gli eurodeputati sono “grandi sostenitori” del commino europeo di Sarajevo, servono però “riforme profonde e un impegno di riconciliazione etnica” per aspirare allo status di Paese candidato all’adesione all’UE. C’è molto da fare sui 14 criteri di Copenaghen, che disciplinano le condizioni base per iniziare il processo negoziale: dal rispetto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, alle garanzie per la democrazia in una società multietnica, passando per le fondamentali riforme costituzionali, elettorali, della giustizia e del sistema scolastico.
    Allo stesso tempo, quel “crediamo nei cittadini bosniaci e nel futuro europeo della Bosnia” prende le mosse da alcuni piccoli passi in avanti. Il vicepresidente del gruppo del PPE ha sottolineato che “nonostante la difficile situazione causata dalla pandemia COVID-19, abbiamo registrato progressi”, come le elezioni nella città di Mostar (le prime dal 2008) e la ripresa dei lavori del comitato parlamentare di stabilizzazione e di associazione UE-Bosnia Erzegovina. “I leader bosniaci devono garantire che la popolazione sia cosciente del nostro sostegno e delle prospettive europee, nell’ottica della riconciliazione”, ha concluso l’europarlamentare portoghese.
    Parola a Commissione e Consiglio
    Parole di supporto sono arrivate anche da Consiglio e Commissione UE, anche se “i progressi dipendono dal rispetto dei 14 criteri”, ha sottolineato la segretaria di Stato portoghese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Ana Paula Zacarias. In primis, la questione della “piena cooperazione con la Corte internazionale di giustizia” e la “fine della glorificazione dei criminali di guerra condannati“, come ha dimostrato la sentenza sul caso Ratko Mladić, comandante militare dei serbo-bosniaci durante la guerra del 1992-1995.
    La segretaria di Stato portoghese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Ana Paula Zacarias
    Sul fronte delle riforme, “rileviamo slanci solo in tempi più recenti”, ha precisato Zacarias: “La Costituzione continua a non essere in linea con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo” e per questo si deve “puntare sulle riforme costituzionali, che spazzino via tutte le discriminazioni ancora esistenti”. Visione condivisa dal commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi: “Come ho detto ai leader bosniaci nell’ultimo anno, ci sono ancora molte questioni in sospeso e dovranno fare la loro parte”, anche sul fronte della parità di rappresentanza, del funzionamento degli organi dello Stato, del conflitto di interessi e degli appalti pubblici. Ma soprattutto, “deve finire il negazionismo sui crimini di guerra e la retorica divisiva degli ultimi mesi“, ha avvertito il commissario Várhelyi. “L’unica prospettiva della Bosnia nell’UE è quella di un Paese unico, unito e sovrano“.
    L’Unione Europea rimane però particolarmente impegnata in tutta la regione, Bosnia compresa. L’approvazione dello strumento IPA III, per Sarajevo, significa investimenti in infrastrutture, “come il corridoio 5G, i collegamenti stradali ed energetici con Serbia e Montenegro e lo sminamento del fiume Sava per rilanciare gli scambi commerciali fluviali”, ha assicurato Várhelyi. C’è poi il capitolo della lotta al COVID-19: “Dall’inizio della pandemia abbiamo stanziato 80,5 milioni di euro in sovvenzioni immediate e 250 milioni in micro-finanziamenti”. Ma tra maggio e agosto sono in arrivo anche 651 mila dosi di vaccino Pfizer/BioNTech dall’UE (di cui 213.800 alla Bosnia), 952 mila dal programma COVAX (177 mila alla Bosnia), oltre alle 30 mila dalla Croazia e 4.500 dalla Slovenia direttamente a Sarajevo: “Non ci fermiamo qui, mobiliteremo sempre più Stati membri perché mettano a disposizione vaccini non appena saranno disponibili”.
    Il confronto in Aula
    Animato il confronto in plenaria, con i gruppi politici che hanno espresso posizioni diverse sulla strategia da adottare nei confronti del cammino europeo del Paese balcanico. “La Bosnia appartiene all’UE, perciò lanciamo un appello agli Stati membri perché le concedano lo status di Paese candidato“, è stata l’esortazione di Dietmar Köster (S&D). “Vanno però rafforzate le libertà dei media, il contrasto a ogni discriminazione e il superamento delle tensioni etniche”. Klemen Grošelj (Renew Europe) ha sottolineato che gli accordi di Dayton del 1995 avevano come priorità la pace, “non il funzionamento Stato”, ma ora la Bosnia “si trova di fronte alla scelta se continuare a basarsi sulla divisione etnica o sui principi comunitari“.
    L’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento UE, Fabio Massimo Castaldo
    A questo proposito, l’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento UE, Fabio Massimo Castaldo, ha avvertito che “non possiamo nasconderci dietro un dito, accettando questo precario status quo” e non appoggiando “soluzioni condivise da autorità politiche e società civile, per elaborare una nuova Costituzione”. L’UE non deve avere la “presunzione di imporre le 14 priorità, perché il dialogo si costruisce anche e soprattutto facilitandolo“. Ecco perché Castaldo ha accolto “con grande favore” la proposta di accogliere i Balcani occidentali nella Conferenza sul futuro dell’Europa, “per rinnovare quello slancio e quella promessa di prospettiva europea che spesso i nostri partner non hanno visto così decisa e così determinata come avrebbero dovuto”.
    Željana Zovko (PPE) ha però avvertito che “potrebbe essere un grave danno, se sarà negato il concetto dei popoli costituenti”, così come stabilito dagli accordi di pace di Dayton (ovvero bosgnacchi musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi). Dure le destre, con Dominique Bilde (ID) che ha parlato di un “rischio di diminuire la fiducia dei cittadini europei“, se l’UE insiste “acriticamente” con l’allargamento, “non considerando le questioni di sicurezza sul rimpatrio degli jihadisti nei Balcani e la crisi migratoria”. Ruža Tomašić (ECR) ha invece attaccato la linea del Parlamento Europeo di “negare l’identità di chi non vuole ascoltare e ignorare la questione dei tre popoli costituenti secondo gli accordi di Dayton”.

    Approvata dagli eurodeputati in plenaria la relazione sui progressi di Sarajevo verso l’adesione all’UE. Ma rimane ancora lunga la strada per soddisfare i 14 criteri su Stato di diritto e rispetto delle minoranze

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    Bielorussia, l’UE denuncia pratiche “disumane” di segretezza del sistema penale e di condanne a morte

    Bruxelles – Si continua a parlare di Bielorussia a Bruxelles, dopo settimane in cui la questione del dirottamento del volo Ryanair Atene-Vilnius su Minsk è stata al centro della scena internazionale. Nonostante le variazioni sul tema, il nodo cruciale rimane sempre lo stesso: le violazioni dei diritti umani da parte del regime del presidente Alexander Lukashenko.
    Con una nota del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), sono state denunciate oggi (giovedì 17 giugno) le pratiche di segretezza del sistema penale bielorusso e soprattutto il persistere della pena di morte. La Bielorussia è l’unico Paese europeo in cui vige tuttora la pena capitale. “L’Unione Europea ricorda la sua irrevocabile opposizione all’uso della pena di morte in qualsiasi circostanza”, si legge nella nota: “È una punizione crudele e disumana, che non agisce da deterrente contro il crimine e rappresenta un’inaccettabile negazione della dignità e dell’integrità umana”.
    L’accusa delle istituzioni europee è stata sollevata dal caso di Viktar Paulau, detenuto nel braccio della morte della prigione pre-processuale n. 1 di Minsk. Il 31 luglio dello scorso anno l’uomo 50enne è stato riconosciuto colpevole di un duplice omicidio commesso il 30 dicembre 2018 nel villaggio di Prysushyna, nella regione di Vitsebsk (nel Nord-Est del Paese).
    Nonostante l’effettiva esecuzione non sia stata ancora confermata ufficialmente, come riporta l’organizzazione per i diritti umani Viasna, la sorella del condannato a morte non riceve notizie da Paulau da più di sei settimane e da qualche giorno le viene negato l’accesso alla struttura. Inoltre, il personale della prigione ha comunicato in maniera generica all’avvocato difensore che il detenuto non si trova più nella struttura. “La negazione di informazioni tempestive ai parenti è stata un’indicazione in precedenti occasioni di un’esecuzione segreta eseguita dal regime autoritario in Bielorussia”, ha commentato il Servizio europeo per l’azione esterna, facendo riferimento proprio alle informazioni fornite dalla da Viasna.
    Nel frattempo, l’Unione Europea è pronta ad adottare il quarto pacchetto di sanzioni contro il regime di Lukashenko che, come anticipato dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in plenaria al Parlamento Europeo lo scorso 8 giugno, “peseranno sui settori economici-chiave, oltre a coinvolgere i responsabili del dirottamento del volo” su cui viaggiavano il giornalista e oppositore politico Roman Protasevich, e la compagna Sofia Sapega (poi arrestati).
    Secondo quanto confermano fonti di Bruxelles a Reuters, il Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) degli Stati membri UE ha deciso ieri (mercoledì 16 giugno) di imporre nuove sanzioni per la duplice violazione del diritto internazionale e dei diritti umani lo scorso 23 maggio. Dovrebbe essere compreso il congelamento dei beni e il divieto di viaggio nell’UE contro circa 70 persone, oltre alle 88 già inserite nella lista nera dai precedenti pacchetti di misure restrittive, tra cui compaiono Lukashenko e suo figlio Viktor, consigliere per la Sicurezza.
    Le sanzioni approvate dagli ambasciatori dell’UE dovrebbero essere adottate nel corso della riunione dei ministri degli Esteri UE lunedì prossimo (21 giugno). Già dal 4 giugno il Consiglio dell’UE ha rafforzato le misure restrittive nei confronti di Minsk, introducendo il divieto di sorvolo dello spazio aereo dell’Unione e di accesso agli aeroporti europei per tutti i vettori e le compagnie aeree bielorusse.

    La nuova accusa al regime di Lukashenko è arrivata a seguito della negazione di “informazioni tempestive” alla famiglia e all’avvocato di un condannato a Minsk. Intanto i Ventisette sono pronti ad adottare il quarto pacchetto di sanzioni