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    Quattro Paesi candidati all’adesione entrano per la prima volta nel rapporto Ue sullo Stato di diritto

    Bruxelles – È una prima volta storica, che “mira a mettere subito sullo stesso piano degli Stati membri” i quattro Paesi candidati all’adesione Ue che hanno già avviato i negoziati con Bruxelles. Nel rapporto sullo Stato di diritto 2024 pubblicato oggi (24 luglio) dalla Commissione Europea fanno ingresso anche Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, con quattro capitoli specifici per i più avanzati tra i 10 Paesi coinvolti nel processo di allargamento Ue. Quella che lo stesso esecutivo dell’Unione definisce “la principale novità” del rapporto annuale sullo Stato di diritto arrivato alla sua quinta edizione, costituirà insieme alle raccomandazione del Pacchetto Allargamento Ue la base per “sostenere i loro sforzi di riforma, aiutare le autorità a compiere ulteriori progressi nel processo di adesione, e prepararsi a continuare il lavoro sullo Stato di diritto come futuri Stati membri”.La commissaria europea per i Valori e la trasparenza, Vera Jourová (24 luglio 2024)Nella visione di Bruxelles, rispetto dello Stato di diritto e allargamento Ue vanno di pari passo, in quanto “un obiettivo fondamentale dell’allargamento dell’Unione è quello di radicare saldamente lo Stato di diritto nel nostro continente“. Di qui deriva la decisione di estendere la valutazione del quadro dei progressi e delle carenze su questo “elemento centrale” dell’impalcatura dell’Unione – solitamente riservato ai Ventisette – anche a quattro Paesi che hanno già avviato i negoziati di adesione. L’esclusione momentanea di Ucraina e Moldova è dovuta al fatto che si sono unite da troppo poco tempo (un mese esatto), mentre la Turchia è già stata analizzata separatamente nel novembre dello scorso anno per il suo stallo ormai totale dal 2018.L’analisi generale del gabinetto von der Leyen sul quadro dello Stato di diritto in Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia parte dallo scenario “particolarmente preoccupante” dei “tentativi di interferenza da parte della Russia, con la disinformazione e la retorica antidemocratica e anti-Ue“, in particolare dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. Ma c’è di più, ovvero la necessità di “riforme credibili e sostenibili per progredire verso l’adesione all’Unione” da parte di questi Paesi candidati, oltre che per accedere ai finanziamenti consistenti dello Strumento per la riforma e la crescita dei Balcani occidentali e dello Strumento per l’Ucraina. “Sulla base di criteri oggettivi e basati sul merito” il nuovo approccio adottato dalla Commissione potrà essere “esteso in futuro ad altri Paesi dell’allargamento Ue” (Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Kosovo, Moldova, Turchia e Ucraina), non solo “per ottenere progressi irreversibili in materia di democrazia e Stato di diritto prima dell’adesione”, ma anche “per garantire standard elevati e duraturi dopo l’adesione”.Lo Stato di diritto in AlbaniaL’analisi dello Stato di diritto in Albania parte dalla questione della riforma giudiziaria “sostanziale” attuata dal 2016. Nonostante “il controllo di tutti i giudici e procuratori ha rafforzato la responsabilità”, la Commissione rileva “carenze nelle nomine dei membri non magistrati del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio superiore della procura”, ma soprattutto “preoccupazioni” per la “limitata trasparenza e difficoltà nel garantire valutazioni tempestive e qualitative” nel processo di nomina, promozione e trasferimento dei magistrati, così come per i “tentativi di interferenza e pressione sul sistema giudiziario da parte di funzionari pubblici o politici“. Grosse sfide derivano dalla carenza di risorse finanziarie e umane, che influisce “negativamente” sulla qualità della giustizia, e dalla “lunghezza e grande arretrato” dei procedimenti giudiziari.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama“Sono incoraggianti” i risultati iniziali della Struttura speciale anticorruzione (Spak), ma le autorità specializzate nella repressione e nella prevenzione “segnalano carenze per quanto riguarda le risorse specializzate e gli strumenti disponibili”, mentre il numero di persone indagate, perseguite e condannate per reati in questo campo “è aumentato negli ultimi tre anni”. Dal momento in cui la corruzione “è diffusa in molti settori, anche durante le campagne elettorali” e il quadro giuridico “troppo complesso” limita le misure preventive, Bruxelles punta il dito sia contro la recente legge sull’amnistia sia sulla carenza di coordinamento tra le autorità nazionali. Vengono menzionate anche la “profonda” polarizzazione politica, che ha “un impatto negativo sull’efficacia, la trasparenza e l’obiettività del lavoro parlamentare”, e il “contesto difficile” per le organizzazioni della società civile, “anche in relazione ai requisiti di registrazione e ai limitati finanziamenti pubblici”.Tra gli elementi di maggiore preoccupazione per il rispetto dello Stato di diritto in Albania ci sono in particolare quelli relativi al settore della libertà dei media, tra cui spiccano soprattutto quelli sull’indipendenza dell’emittente pubblica, sulla “limitata regolamentazione sulla trasparenza della proprietà dei media e l’elevata concentrazione“, e sul mancato rispetto di “un’equa allocazione della pubblicità statale e di altre risorse statali”. Anche se il quadro per la protezione dei giornalisti è già in vigore, “le aggressioni verbali e fisiche, le campagne diffamatorie e le azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica sono motivo di preoccupazione”.Lo Stato di diritto in Macedonia del NordLa Macedonia del Nord “ha subito diverse ondate di riforme giudiziarie”, ma l’indipendenza della magistratura e la capacità istituzionale di proteggerla da influenze indebite “rimangono una seria preoccupazione”, così come il livello di indipendenza giudiziaria percepito “è molto basso”. Le decisioni di nomina di pubblici ministeri e giudici “sono state criticate dalla società civile perché non sono motivate in modo esaustivo o basate su criteri oggettivi”, le “limitate” risorse stanziate “possono incidere sull’autonomia finanziaria” e il deficit di risorse umane “potrebbe avere un impatto sulla qualità e sull’efficienza della giustizia”, come dimostrato dal fatto che “sono diminuite per le cause civili, commerciali e penali di primo grado”.Il nuovo primo ministro della Macedonia del Nord, Hristijan Mickoski (credits: Robert Atanasovski / Afp)Nonostante esista una strategia nazionale contro la corruzione, “la sua attuazione è in ritardo”, avverte la Commissione: “Il rischio rimane elevato in molte aree” e le recenti modifiche al Codice penale “hanno indebolito il quadro giuridico, incidendo negativamente sul perseguimento della corruzione”, soprattutto nei casi di alto livello. Tra le maggiori criticità c’è la “scarsità di risorse e la mancanza di cooperazione tra le autorità nazionali”, le lacune sul finanziamento dei partiti politici e “nessun lobbista registrato” nelle liste ufficiali apposite.Rimane centrale la polarizzazione politica al Parlamento nazionale, che “ha causato ritardi nel suo lavoro e ha portato a un uso eccessivo e talvolta inappropriato di procedure legislative accelerate”, anche se le organizzazioni della società civile possono operare in un ambiente “complessivamente favorevole”. A questo proposito le misure legislative “hanno rafforzato le garanzie legali” per la protezione dei giornalisti, “ma sono state registrate minacce e atti di violenza contro i giornalisti”. Il Consiglio per l’etica dei media “continua a essere messo sotto pressione” e persistono sfide sulla trasparenza della proprietà dei media, con “preoccupazioni su alcuni elementi della reintroduzione della pubblicità finanziata dallo Stato”.Lo Stato di diritto in MontenegroPer quanto riguarda il Montenegro, il Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue, “sta attraversando un’intensa fase di riforme, che prevede l’adozione e la revisione di un pacchetto completo di leggi” sull’indipendenza, la responsabilità e l’imparzialità del sistema giudiziario e della procura, compresa una nuova strategia di riforma giudiziaria 2024-2027. I significativi ritardi nelle nomine giudiziarie di alto livello andati in scena tra il 2022 e l’inizio del 2023 hanno avuto un impatto sul sistema in generale, “ma ormai manca solo la nomina del nuovo presidente della Corte suprema” ed esistono ancora “serie sfide” in particolare per la lunghezza dei procedimenti per le cause amministrative.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro del Montenegro, Milojko SpajićAll’interno della strategia 2024-2028 per la lotta alla corruzione, il Montenegro “criminalizza la maggior parte delle forme di corruzione” e il bilancio delle indagini e dei procedimenti giudiziari nei casi di alto livello “è stabile”, anche se “la mancanza di processi e decisioni finali contribuisce a creare una percezione di impunità“. Mentre numerose istituzioni hanno codici di condotta specifici, quello del governo “è inefficace” e attende l’adozione della legge sul governo con sanzioni disciplinari. Se è positiva l’adozione della nuova legislazione sul lobbismo lo scorso 6 giugno, lo è meno il fatto che il quadro giuridico che regola il finanziamento dei partiti politici “è ostacolato da carenze nella sua portata, chiarezza e attuazione”.Approfondito il capitolo sul pluralismo e la libertà dei media, con il pacchetto legislativo ad hoc composto da emendamenti alla legge sull’emittente pubblica nazionale, una nuova legge sui servizi di media audiovisivi e una sui media che “introduce miglioramenti sulla trasparenza della proprietà e su altre aree sistemiche, con l’obiettivo di allinearla all’acquis dell’Ue“. La nuova legislazione conferisce nuovi poteri all’Agenzia per i servizi di media audiovisivi, “affrontando l’annosa questione della sua efficacia nell’applicazione del quadro normativo, dotandola di strumenti sanzionatori completi”, rileva la Commissione Ue, anche se non si può dimenticare che “sono limitate” le informazioni su pagamenti del settore pubblico e pubblicità istituzionale. Nei casi di violenza contro i giornalisti le autorità montenegrine “forniscono risposte efficaci” a livello istituzionale e di applicazione della legge, “ma non è stato dato un seguito giudiziario efficace a casi emblematici del passato”.Lo Stato di diritto in SerbiaIl rapporto sullo Stato di diritto 2024 si conclude con il capitolo sulla Serbia. “L’attuazione della riforma costituzionale per il rafforzamento dell’indipendenza giudiziaria è in corso”, sottolinea la Commissione, che rileva come “le pressioni politiche sul sistema giudiziario e sulla procura rimangono elevate“. Nel Paese balcanico manca ancora un sistema completo di gestione dei tribunali che colleghi i casi tra i vari tribunali e le procure, mentre “l’efficienza mostra una tendenza positiva per le cause civili, commerciali e penali, ma ci sono serie difficoltà nella gestione delle cause amministrative e dei reclami costituzionali”. La capacità del Parlamento di garantire l’esercizio dei necessari controlli e contrappesi “è limitata da questioni di efficacia, autonomia e trasparenza, anche in termini di supervisione dell’esecutivo e del processo legislativo”.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente della Serbia, Aleksandar VučićL’adozione della Strategia nazionale anticorruzione 2023-2028 “è ancora in sospeso” e il quadro giuridico in vigore mostra “carenze nella pratica”. Nonostante la maggior parte delle forme di corruzione siano considerate reato, “sono necessari ulteriori miglioramenti per stabilire un solido track record di indagini, rinvii a giudizio e condanne definitive nei casi di alto livello”, anche considerate le carenze nella verifica e nell’applicazione delle dichiarazioni patrimoniali e nel finanziamento dei partiti politici. La normativa sul lobbismo “è di portata limitata”, la legislazione sulla protezione degli informatori “non è ancora allineata” all’acquis Ue e quello degli appalti pubblici è un settore “ad alto rischio” di corruzione. Le organizzazioni della società civile “non dispongono di un ambiente favorevole alla loro costituzione, alle loro attività e al loro finanziamento”, avvisa la Commissione, aprendo uno dei capitoli più delicati per il rispetto dello Stato di diritto in Serbia.L’Autorità di regolamentazione per i media elettronici “non riesce a esercitare appieno il suo mandato di salvaguardia del pluralismo e degli standard professionali, e vi sono anche serie preoccupazioni sulla sua indipendenza”. Le misure per la trasparenza delle strutture proprietarie e della pubblicità con risorse statali “non sono ancora state pienamente attuate” e, “sullo sfondo delle denunce di notizie tendenziose”, rimane critica l’autonomia editoriale e il pluralismo del servizio pubblico. A questo si somma il fatto che i giornalisti continuano a trovarsi di fronte a “frequenti rifiuti da parte di enti pubblici di divulgare informazioni di importanza pubblica o a non ricevere alcuna risposta”, e la loro sicurezza “è fonte di preoccupazione, così come la crescente pressione esercitata da cause legali abusive”. A questo proposito, rispondendo alle domande della stampa sul rispetto dello Stato di diritto in Serbia, la commissaria europea per i Valori e la trasparenza, Vera Jourová, ha messo in chiaro che “seguiremo molto da vicino la situazione in Serbia” e la Commissione non tollererà “attacchi, minacce o intimidazioni da parte di politici che bollano i giornalisti come minacce pubbliche”.

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    L’Ue vara il ‘pacchetto Navalny’: stop all’export di tutto ciò che può servire alla repressione in Russia

    Bruxelles – Mai più altri Alexsey Navalny. L’Unione europea vara un nuovo pacchetto di sanzioni tutto speciale contro Mosca, volto a fermare la macchina di repressione della Russia di Vladimir Putin. La morte di uno dei principali oppositori politici del leader russo è la molla che spinge il Consiglio dell’Ue a varare un pacchetto annunciato. Scatta la messa al bando di tutto ciò che può essere utilizzato ai fini di repressione, tortura, violazione dello Stato di diritto, e che quindi non potrà essere venduto alla federazione russa. Si tratta di un divieto alle esportazioni di merci, ma anche programmi informatici e dispositivi quali apparecchi radio e monitor.Il via libera garantito oggi (27 maggio) prevede anche l’iscrizione nella lista nera dell’Ue del Servizio penitenziario federale della Federazione Russa (Fsin). Si tratta dell’autorità centrale che gestisce il sistema carcerario russo, “noto per i suoi diffusi e sistematici abusi e maltrattamenti contro i prigionieri politici in Russia”, critica il Consiglio dell’Ue. In quanto agenzia federale, la FSIN è responsabile delle colonie penali, già inserite tra le entità soggette a sanzioni, in cui il politico dell’opposizione russa Alexei Navalny è stato detenuto con accuse politicamente motivate ed è infine morto il 16 febbraio 2024.Le decisioni prese a Bruxelles sono obbligate, spiega l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. La morte di Navalny, sottolinea, “stata un altro segno dell’accelerazione e della repressione sistematica da parte del regime del Cremlino”. Come Unione europea, promette, “non risparmieremo alcuno sforzo per chiedere conto alla leadership politica e alle autorità russe” per la morte dell’oppositore politico e il rispetto dei diritti umani nel Paese, “anche attraverso questo nuovo regime di sanzioni, prendendo di mira coloro che limitano il rispetto e violano i diritti umani in Russia”.Per questo motivo l’Unione europea colpisce anche tutti quei giudici ritenuti responsabili o corresponsabili per la morte in carcere di Navalny. Per loro non sarà possibile mettere piede su suolo comunitario, e per tutti, singoli individui e autorità penitenziaria nazionale, scatterà il congelamento degli eventuali beni detenuti in uno dei Ventisette Stati membri.

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    L’Eurocamera contro la Serbia di Vučić. Stop ai finanziamenti Ue se le autorità coinvolte nei brogli

    Bruxelles – La denuncia del Parlamento Europeo su quanto andato in scena in Serbia il 17 dicembre non poteva essere più dura, considerato il livello di sostegno dell’Aula di Strasburgo. Con 461 a favore, 53 contrari (tutto il gruppo di Id a parte gli italiani della Lega, astenuti) e 43 astenuti (tra cui tutti gli eurodeputati di Fratelli d’Italia, a differenza della maggioranza del gruppo Ecr a favore), la sessione plenaria dell’Eurocamera ha dato il via libera oggi (8 febbraio) alla risoluzione congiunta sulla situazione in Serbia dopo le elezioni di dicembre, in cui non solo vengono sollevate enormi preoccupazioni sullo Stato di diritto nel Paese candidato all’adesione Ue, ma che chiede anche azioni pesanti da parte della Commissione nel caso in cui venisse accertato il coinvolgimento delle autorità e del governo uscente nei brogli elettorali.

    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, all’urna elettorale il 17 dicembre 2023 (credits: Elvis Barukcic / Afp)Una risoluzione condivisa nella sua interezza da tutti i gruppi politici all’Eurocamera (le sei mozioni di risoluzioni a firma Ppe, S&D, Renew Europe, Verdi/Ale, Ecr e Sinistra sono confluite in un unico testo), fatta eccezione per l’estrema destra di Identità e Democrazia, che come nel corso del dibattito di gennaio in sessione plenaria si è schierata contro la denuncia delle irregolarità del voto e ha portato avanti una retorica distorta dei rapporti tra Ue e Serbia (e Russia). Ma sono proprio i numeri all’Eurocamera a mettere in chiaro che per l’istituzione comunitaria è tempo di fare sul serio con Belgrado: “Esortiamo la Commissione Ue a lanciare un’iniziativa per l’invio di una missione di esperti in Serbia per valutare la situazione relativa alle recenti elezioni e agli sviluppi post-elettorali“, con l’obiettivo di facilitare il dialogo sociale e di “valutare e affrontare le questioni sistemiche dello Stato di diritto in Serbia, guardando all’esempio dei ‘rapporti Priebe’ [raccomandazioni di un gruppo di esperti incaricato dalla Commissione nel 2015 sulla Macedonia del Nord, ndr]”. Gli eurodeputati ricordano in particolare il fatto che le elezioni parlamentari anticipate di dicembre si sono “discostate dagli standard internazionali”, sia per le interferenze del presidente della Repubblica, Aleksandar Vučić, a sostegno del suo Partito Progressista Serbo (Sns), sia per la “sistematicità dei brogli che hanno compromesso l’integrità” della tornata elettorale. Per questo motivo la missione Ue dovrebbe essere accompagnata da “un’indagine internazionale indipendente” sulle “irregolarità delle elezioni parlamentari, provinciali e comunali”, con particolare attenzione a quelle per l’Assemblea di Belgrado.Nonostante i ripetuti appelli da parte della comunità internazionale, non è arrivata alcuna “risposta istituzionale alle gravi accuse di coinvolgimento in manipolazioni e abusi elettorali, che contribuisce a creare un’atmosfera di impunità e garantisce la continuazione di queste pratiche” e – avvertono gli eurodeputati – “se si lascia che persista senza alcuna ripercussione, questa pratica continuerà a minare la fiducia nel processo elettorale e nelle istituzioni serbe, ostacolando irrimediabilmente il regime democratico e l’ulteriore integrazione europea”. Di fronte a un quadro allarmante sul piano del deterioramento degli standard di rispetto dello Stato di diritto per un Paese candidato da 12 anni all’adesione Ue, il Parlamento Ue non risparmia un affondo anche all’esecutivo comunitario per la “mancanza di critiche esplicite”, in particolare da parte del più controverso membro del Collegio dei commissari, l’ungherese Olivér Várhelyi responsabile proprio per l’Allargamento.

    Cartelloni delle opposizioni alla prima seduta dell’Assemblea Nazionale della Serbia il 6 febbraio 2024 contro il presidente della Repubblica, Aleksandar Vučić, definito ‘capo-mafia’ (credits: Andrej Isakovic / Afp)Ma proprio la Commissione è chiamata a prendere le azioni più dure se Belgrado non attuerà le raccomandazioni elettorali “o se i risultati di questa indagine indicano che le autorità serbe sono direttamente coinvolte nei brogli elettorali”. Vale a dire una “sospensione dei finanziamenti dell’Ue sulla base di gravi violazioni dello Stato di diritto” e, implicitamente, un possibile stop ai negoziati di adesione: “Dovrebbero avanzare solo se il Paese compie progressi significativi nelle riforme legate all’Ue”, si legge nella risoluzione. Senza dimenticare le accuse dello stesso presidente serbo all’indirizzo di Stati membri Ue e media europei, secondo cui “sarebbero stati coinvolti nell’organizzazione delle proteste post-elettorali”. A questo proposito tutte le istituzioni Ue sono allineate nella denuncia alle allusioni di Vučić di “una guerra speciale” condotta dalla stampa occidentale: “Se osserva ciò che viene fatto con il sostegno della sua amministrazione per quanto riguarda la qualità del giornalismo”, a Belgrado permette “allo strumento della propaganda e della menzogna russa di mettere piede sul suolo serbo”, ha attaccato in un punto con la stampa il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano. Il riferimento è a Russia Today Balkan (dal luglio 2022 operativa in Serbia), “un’emittente bandita dall’Unione Europea per le sue attività sovversive in relazione alla guerra illegale contro l’Ucraina”.Le tensioni in Serbia dopo le elezioni anticipateNonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza rispondendo all’appello dei partiti e movimenti che avevano tradotto in istanze politiche (europeiste) le proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio. Anche la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) – a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo – ha rilevato “l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”. Dopo quasi un mese dalle elezioni anticipate continuano le proteste contro i brogli del partito al potere, in particolare a Belgrado.

    Le proteste di piazza dell’opposizione serba a Belgrado (credits: Miodrag Sovilj / Afp)Proprio nella capitale la situazione rimane ancora tesa e non è da escludere che si possano ripetere le elezioni amministrative la cui vittoria è stata rivendicata dal Partito Progressista Serbo: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić ha conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović. La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. La stessa denuncia è arrivata dall’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale): “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska e di intimidazione dei votanti”.A questo si aggiunge il caso che Bruxelles “sta seguendo da vicino” (parole della dalla portavoce della Commissione Ue responsabile per la politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero) sulle violenze subite dal leader del Partito Repubblicano di opposizione, Nikola Sandulović, prelevato dai servizi segreti serbi il 3 gennaio e duramente picchiato durante la detenzione per aver reso omaggio alla tomba di Adem Jashari, uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk). Membri dell’Agenzia serba per le informazioni sulla sicurezza (Bia) avrebbero sequestrato e torturato Sandulović, poi detenuto nella prigione centrale di Belgrado senza accesso a cure mediche indipendenti. Tra le persone responsabili per le violenze ci sarebbe anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić) che tra l’altro ha già ammesso di aver organizzato l’attacco armato nel nord del Kosovo a fine settembre dello scorso anno. L’ex-capo dell’intelligence serba (dimessosi due mesi fa), Aleksandar Vulin, ha riferito di aver personalmente ordinato l’arresto di Sandulović, ma l’avvocato della difesa ha puntato il dito contro il presidente Vučić.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Si chiude in Bosnia ed Erzegovina il tour balcanico di von der Leyen: “Riforme cruciali per adesione Ue e Piano di crescita”

    Bruxelles – Un anno dopo, con un risultato concreto alle spalle e una strada che rimane complicata ma con un nuovo impulso economico. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha chiuso ieri (primo novembre) in Bosnia ed Erzegovina la sua quattro-giorni di tour nei Balcani Occidentali, con un messaggio di incoraggiamento per il cammino del Paese verso l’adesione all’Unione Europea e un avvertimento ad accelerare sulle riforme fondamentali: “Sappiamo tutti che per raggiungere l’obiettivo di progredire abbiamo bisogno che la Bosnia ed Erzegovina parli con una sola voce e proceda unita, non possiamo accettare un arretramento sui nostri valori comuni o divisioni, in nessuna parte del vostro Paese”.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, a Sarajevo (primo novembre 2023)L’ultima tappa dell’annuale tour nella regione da parte della numero uno dell’esecutivo comunitario è stata l’occasione per riconfermare il sostegno di Bruxelles a Sarajevo dopo la concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue il 15 dicembre dello scorso anno, “una giornata storica, molto emozionante e molto importante”. Poco più di 365 giorni dopo l’ultima volta nella capitale bosniaca, von der Leyen ha messo in chiaro su quali binari dovrà procedere il cammino del Paese per l’avvio effettivo dei negoziati di adesione e per la messa a terra del nuovo Piano di crescita per i Balcani Occidentali presentato proprio dalla presidente della Commissione Ue nel suo viaggio in tutte le capitali della regione: “L’obiettivo dovrebbe essere quello di compiere progressi decisivi sulle 14 priorità-chiave” che riguardano riforme in ambito di Stato di diritto, diritti fondamentali, pubblica amministrazione ed economia.Nonostante le enormi difficoltà di un Paese diviso su molte direttrici – non da ultimo quella tra le due entità della Federazione di Bosnia ed Erzegovina e della Republika Sprska – von der Leyen ha scelto un’impostazione ottimista. “La nomina del governo e il lavoro che avete svolto nel primo anno di mandato dimostrano che il Paese è in grado di ottenere risultati” e ora sarà necessario concretizzare il pacchetto di misure sullo Stato di diritto composto di tre leggi: quella sui tribunali, quella sul conflitto d’interesse e quella sul riciclaggio di denaro sporco. “Sarebbe la prova delle capacità di rafforzare le fondamenta della democrazia”, ha messo in chiaro la leader della Commissione, rassicurata in conferenza stampa dalla presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto: “Siamo a un momento decisivo per trovare un accordo su queste riforme fondamentali”. Perché all’orizzonte non ci sono solo il Pacchetto Allargamento (atteso per l’8 novembre) e il Consiglio Europeo di dicembre, in cui si capirà se ci sono le condizioni per avviare i negoziati di adesione, ma le riforme saranno “cruciali” anche per i futuri stanziamenti economici del Piano di crescita per i Balcani Occidentali: “Se non saranno implementate, le risorse saranno ridistribuite ad altri Paesi che sono in grado di farlo, questo è un forte incentivo ad andare avanti in modo attivo”, ha avvertito von der Leyen.In altre parole, senza progressi sulle riforme rimarranno in stallo – o andranno perduti – i finanziamenti previsti per la Bosnia ed Erzegovina all’interno del pacchetto complessivo da 6 miliardi di euro e fondato su quattro pilastri. Il primo riguarda l’integrazione nelle dimensioni chiave del Mercato unico dell’Ue, il secondo è legato al completamento del Mercato regionale comune, il terzo si basa sul liberare il pieno potenziale economico attraverso riforme fondamentali sia sullo Stato di diritto sia in materia economica. E infine il pilastro del finanziamento da parte di Bruxelles: il pacchetto da 2 miliardi di euro in sovvenzioni e 4 in prestiti. “C’è un grande potenziale non sfruttato”, ha messo in chiaro la leader dell’esecutivo comunitario a Sarajevo, facendo riferimento al fatto che l’economia bosniaca “è pari al 35 per cento della media Ue”. Ecco perché “dobbiamo avvicinare le nostre economie” con l’approccio ‘riforme-investimenti’, al pari del Next Generation Eu per i Ventisette: “Sappiamo quanto sia importante la prosperità economica per il funzionamento di qualsiasi Paese” e per le prospettive di integrazione europea, è stato l’ultimo messaggio di von der Leyen nel suo tour balcanico.Il percorso di adesione Ue della Bosnia ed ErzegovinaIl cammino di avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina all’Unione Europea è iniziato il 15 febbraio 2016, con la presentazione ufficiale della domanda di adesione. Per più di sei anni non è arrivata nessuna risposta positiva da parte delle istituzioni comunitarie, proprio per la situazione quasi disastrata del Paese sul fronte delle condizioni-base (i criteri di Copenaghen) per essere considerato un candidato formale. Tuttavia negli ultimi due anni si sono intensificati i segnali di fiducia soprattutto da parte dell’esecutivo comunitario e della sua presidente, anche considerati i rischi di destabilizzazione russa di un Paese e di una regione molto delicati che si trovano nel cuore dell’Europa.È così che in occasione della presentazione del Pacchetto Allargamento 2022 è arrivata la raccomandazione al Consiglio di concedere alla Bosnia ed Erzegovina lo status di candidato all’adesione Ue, condita da un discorso particolarmente appassionato a Sarajevo di von der Leyen durante il precedente viaggio nelle capitali balcaniche per annunciare il supporto energetico di Bruxelles. Dopo aver valutato il parere della Commissione, il vertice dei leader Ue del 15 dicembre 2022 ha dato il via libera alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue, sottolineando allo stesso tempo la necessità di implementare le riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, del rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione. Nel processo di allargamento Ue Sarajevo è diventato così l’ottavo candidato all’adesione.L’ostacolo Republika SrpskaEppure il percorso di avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina all’Unione è reso particolarmente ostico dal presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, che si è fatto promotore di un progetto secessionista dall’ottobre del 2021. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche e, dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme elettorali e costituzionali nel Paese balcanico.Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)Ma da quest’anno le preoccupazioni si sono fatte sempre più concrete. A fine marzo il governo dell’entità serbo-bosniaca ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero. La cosiddetta legge sugli ‘agenti stranieri’ è simile a quella adottata da Mosca nel dicembre 2022 ed è stata approvata a fine settembre dall’Assemblea nazionale di Banja Luka, tra le apre critiche di Bruxelles. Ma parallelamente è avanzato anche l’iter per l’adozione degli emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per diffamazione. Dopo la proposta – anch’essa a fine marzo – l’entrata in vigore è datata 18 agosto e ora sono previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”. Il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) e la delegazione Ue a Sarajevo hanno attaccato Banja Luka, mettendo in luce che le due leggi “hanno avuto un effetto spaventoso sulla libertà di parola nella Republika Srpska“.Alle provocazioni secessioniste si è affiancato dal 24 febbraio dello scorso anno il non-allineamento alla politica estera dell’Unione e alle sanzioni internazionali contro il Cremlino: insieme alla Serbia la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo a non aver adottato misure restrittive a causa dell’opposizione della componente serba della presidenza tripartita. Già il 20 settembre dello scorso anno Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale delle regioni ucraine occupate dalla Russia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio di quest’anno con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco. Come se bastasse, Dodik ha compiuto un secondo viaggio a Mosca il 23 maggio, mentre a Bruxelles sono emerse perplessità sulla mancata reazione da parte dell’Unione con sanzioni. Fonti Ue hanno rivelato a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma l’Ungheria non permette il via libera. Per qualsiasi azione del genere di politica estera serve l’unanimità in seno al Consiglio.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews
    In vista del Pacchetto Allargamento e del Consiglio Europeo la presidente della Commissione Ue ha esortato Sarajevo ad attuare tre leggi fondamentali sullo Stato di diritto. Con un avvertimento: “Le risorse economiche saranno redistribuite ad altri Paesi in caso di mancata implementazione”

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    In nome dell’energia l’Ue “potrebbe minare gli obiettivi di promuovere la democrazia e i diritti umani”

    Bruxelles – Energia e risorse energetiche o valori e democrazia? Più di una semplice domanda. Per l’Unione europea è un bivio. Le une non sempre possono andare con le altre. Perché se il presidente russo Vladimir Putin, ormai vecchio rivenditore di gas e petrolio, e scaricato in quanto aggressore e criminale di guerra, i nuovi acquirenti a cui l’Ue si rivolge per sopperire a risorse che non ha e che deve trovare altrove non sembrano essere così migliori. Il rischio, neanche troppo velato, è che volutamente o meno l’Ue sacrifichi la sua battaglia per i valori in nome dell’economia.
    In uno degli ultimi documenti prodotti dal centro studi e ricerche del Parlamento europeo, si mette in luce proprio questo dilemma. Con il riposizionamento sul mercato globale dell’energia e l’Ue che acquista da altri produttori, “nei Paesi terzi le entrate aggiuntive possono ridurre la volontà degli elettori di chiedere conto ai propri governi, favorendo la corruzione e il clientelismo”. Di conseguenza “il risultato potrebbe essere quello di consolidare il potere di regimi autoritari con situazioni contrastanti in materia di diritti umani e politici, minando gli obiettivi dell’Ue di promuovere la democrazia e difendere i diritti umani”, e tradendo una certa visione di Europa, quella di David Sassoli.
    Si fa la lista di Paesi terzi con cui l’Ue ha già avviato e sottoscritto accordi di cooperazione economica, intesa all’acquisto e alla fornitura di energia. Arabia Saudita, Qatar, Azerbaijan, Algeria. Non proprio Paesi e sistemi presi a modello democratico. Ben venga dunque l’accordo con la Norvegia per i rifornimenti di gas, che può far dormire sonni certamente più tranquilli ad un’Europa in difficoltà sia sul fronte energetico sia per quanto riguarda l’aspetto valoriale.
    Che si tratti di gas naturale o liquefatto (Gnl), chiedere il prodotto e fare pressioni politiche per riforme interne a Stati indipendenti e sovrani risulta poco pratico e poco praticabile. L’Ue dunque, nel guardare alle necessità più urgenti, non potrà fare a meno di dare priorità a queste. Che non sono i valori.
    Nel 2020, ricorda il documento, la Russia è stata il principale fornitore dell’Ue di gas naturale (tasso di dipendenza dalle importazioni dell’83,6 per cento, dipendenza dell’Ue dalla Russia 41,1 per cento), petrolio greggio (dipendenza dalle importazioni 96,2 per cento, dipendenza dalla Russia 25,7 per cento) e carbon fossile (dipendenza dalle importazioni 10,5 per cento, dipendenza dalla Russia 52,7 per cento).
    C’è dunque un mercato energetico che l’Ue non può permettersi di non trascurare. Il prezzo da pagare, oltre il bene richiesto, forse troppe volte è finanziare i regimi che tradiscono i valori europei.

    Uno studio dell’Europarlamento mette in luce un aspetto controverso della nuova politica a dodici stelle: “Nei Paesi terzi le entrate aggiuntive possono consolidare il potere di regimi autoritari”

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    Edi Rama sbeffeggia l’Ue sul Qatargate. Ma dovrebbe prima preoccuparsi per il livello di corruzione in Albania

    Bruxelles – Con un sorriso sornione e la classica loquela tra lo scherzoso e il cinico, il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, si toglie un sassolino dalla scarpa con la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, al World Economic Forum di Davos: “Quando lo scandalo di corruzione [Qatargate, ndr] è emerso, ho pensato subito che karma is a bitch“. Un’espressione piuttosto colorita – almeno per un forum internazionale come Davos – per sottolineare che il destino talvolta sa essere beffardo e che, dopo anni a chiedere all’Albania e agli altri Paesi dei Balcani Occidentali maggiori sforzi sullo Stato di diritto, è proprio Unione Europea a dover fare i conti con le falle nel sistema di integrità e trasparenza delle sue stesse istituzioni.
    La presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola (a sinistra), e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (a destra), al World Economic Forum di Davos (19 gennaio 2023)
    Nel suo intervento di ieri pomeriggio (19 gennaio) al panel ‘Widening Europe’s Horizons‘ organizzato da Politico al World Economic Forum, il premier albanese Rama ha lanciato più di una provocazione a Bruxelles, senza però strappare con il partner “a cui apparteniamo” e che dopo anni di attesa ha aperto le porte dei negoziati per l’adesione. “Dall’Ue ci è stato chiesto  di fare passi avanti contro la corruzione nel sistema giudiziario”, ha voluto ricordare l’uomo forte di Tirana: “Noi siamo stati radicali e abbiamo imposto le dimissioni di 9 giudici della Corte Costituzionale su 11 perché non potevano giustificare la propria ricchezza, ma poi ci è stato rinfacciato di non avere più una Corte Costituzionale”. Allo stesso tempo Rama ha voluto porre l’accento sul fatto che “il processo di allargamento è diventato nevrotico e ingiusto” e, se oggi Bruxelles trattasse nello stesso modo i suoi stessi Stati membri, “molti non sarebbero più in grado di entrare” nell’Unione: “E non parlo solo dei Paesi ex-comunisti, ma anche dei fondatori”.
    La presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, al World Economic Forum di Davos (19 gennaio 2023)
    Annuisce e si lascia sfuggire un “è vero” la presidente Metsola, incassando la provocazione di Rama e probabilmente pensando a Paesi come Ungheria e Polonia e alle accuse arrivate proprio ieri dagli avvocati dell’ex-vicepresidente dell’Eurocamera, Eva Kaili, sullo stato di detenzione dell’eurodeputata nella capitale del Belgio (uno dei Paesi fondatori dell’Unione, appunto). Parlando dello scandalo QatarGate, la numero uno del Parlamento Ue l’ha definito “un pugno nello stomaco” e ha assicurato che “è mia responsabilità fare in modo che i campanelli di allarme suonino prima e le contromisure vengano prese immediatamente”. Il piano in 14 punti approvato dalla Conferenza dei presidenti la settimana scorsa rappresenta “una serie di misure immediate per garantire l’integrità, la responsabilità e l’indipendenza” dell’istituzione comunitaria, che dovranno essere accompagnate da “riforme già necessarie prima”, come confermato anche dalla commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson.
    Dietro le parole di Rama: lo Stato di diritto in Albania
    Ma rinfacciare all’Unione Europea lo scoppio di uno scandalo all’interno di una delle sue istituzioni è una coperta molto corta per il premier Rama. Come emerge dal rapporto 2022 dell’organizzazione internazionale World Justice Project, l’Albania è all’87esimo posto su 140 Paesi per il livello di rispetto dello Stato di diritto, ultima in Europa a pari merito con la Serbia (se non si tengono in considerazione le paria internazionali di Russia e Bielorussia). I Paesi membri dell’Ue peggiori sono Bulgaria e Ungheria, ma comunque rispettivamente al 30esimo e 31esimo posto in classifica nel 2022. Il trend in Albania è di leggero ma costante declino della situazione negli ultimi anni, con le criticità maggiori registrate proprio nell’ambito della corruzione, della giustizia criminale e dell’applicazione delle normative.
    Il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (a destra), al World Economic Forum di Davos (19 gennaio 2023)
    A questo si aggiunge quanto messo nero su bianco dalla Commissione Europea nel dossier Albania del Pacchetto Allargamento 2022, pubblicato nell’ottobre dello scorso anno. “Nonostante alcuni progressi, l’aumento degli sforzi e l’impegno politico nella lotta alla corruzione, questa rimane un’area di grave preoccupazione“, si legge nel documento. La questione si pone “in molti settori della vita pubblica e imprenditoriale”, come dimostrato da alcune “condanne definitive di funzionari statali di alto livello”. Secondo l’esecutivo comunitario “i settori più vulnerabili alla corruzione richiedono valutazioni del rischio mirate e azioni specifiche”, in particolare sul fatto che i procedimenti penali siano avviati “in modo coerente e sistematico” contro gli accusati di condotta criminale: “Bisogna garantire che la Struttura specializzata per la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata si occupi ulteriormente della corruzione ad alto livello”.
    Per quanto riguarda specificamente il sistema giudiziario – citato da Rama – l’analisi della Commissione Ue evidenzia che “l’Albania è moderatamente preparata”, grazie ai “buoni progressi sul proseguimento dell’attuazione della riforma della giustizia” e le “nuove nomine di giudici dell’Alta Corte, che ha raggiunto il quorum per effettuare le nomine di giudici alla Corte Costituzionale, procedendo a una di queste”. Tuttavia, l’efficienza del sistema giudiziario “è influenzata negativamente dalla lunghezza dei procedimenti, dal basso tasso di liquidazione e dall’ampio arretrato di cause”. Senza cercare scuse nel QatarGate per abbassare gli standard anti-corruzione durante i negoziati di adesione all’Ue, la raccomandazione per il 2023 a Tirana rimane il “consolidamento degli sforzi per migliorare l’efficienza e la trasparenza di tutti i tribunali e le procure”.

    Al World Economic Forum di Davos il premier albanese ha punzecchiato la presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola: “Karma is a bitch”. La lotta alla corruzione rimane però di “grave preoccupazione” per Bruxelles sul piano dello Stato di diritto nel Paese in via di adesione

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    Arresti e condanne a morte, convocato l’ambasciatore iraniano presso l’Ue

    Bruxelles – Basta repressioni, basta arresti e condanne a morte. La situazione in Iran ha passato il limite, e l’Unione europea ha voluto ribadirlo una volta di più al governo di Teheran convocando l’ambasciatore delle repubblica islamica presso l’Ue. A nome dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, il segretario generale del Servizio per l’azione esterna (Seae), Stefano Sannino, ha invitato nei suoi uffici il massimo diplomatico iraniano a Bruxelles.
    Hossein Dehghani è stato convocato a seguito dell’esecuzione di Mohammad Mehdi Karami e Seyyed Mohammad Hosseini, del 7 gennaio scorso, dopo essere arrestati e condannati a morte in relazione alle proteste in corso in Iran. Proteste a cui il regime degli Ayatollah ha risposto e continua a rispondere con il pugno duro, tanto che per questo l’Ue ha già varato sanzioni a ottobre, per poi inasprirle il mese successivo.
    Sannino, a nome dell’Ue, ha ribadito l’appello alle autorità iraniane per uno stop immediato della pratica “condannabile” e per questo condannata di imporre ed eseguire condanne a morte nei confronti dei manifestanti. E’ stato inoltro rivolto l’invito ad “annullare senza indugio le recenti condanne a morte già pronunciate nel contesto delle proteste in corso e di garantire un giusto processo a tutti i detenuti”, fa sapere il Seae.
    E’ quest0 l’ultimo atto in ordine di tempo di una crisi diplomatica tra Bruxelles e Teheran che ha visto nella sospensione delle relazioni tra Parlamento europeo e parlamentari iraniani una prima dimostrazione del deterioramento dei rapporti.

    Richiamato dal segretario generale del Servizio per l’azione esterna, Stefano Sannino: “Basta condanne, e annullare tutte le decisioni prese”

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    Ucraina e Rule of Law: come cambiano gli equilibri nell’Unione

    L’invasione russa in Ucraina supera i cento giorni e le priorità europee cambiano di conseguenza. L’Unione sembra infatti aver premuto il tasto pausa su vari punti della sua agenda politica, al fine di concentrare tutte le sue forze nella ricerca di una risposta coordinata e unitaria a sostegno del popolo ucraino.
    La tutela della Rule of Law nell’Unione europea
    Sono sotto gli occhi tutti, da diversi anni, le dinamiche regressive che caratterizzano le politiche di alcuni Stati membri dell’Unione circa la protezione dello Stato di Diritto. L’Ungheria, in particolare, ha già da tempo introdotto una serie di misure volte all’instaurazione di un regime illiberale, concretizzatesi attraverso la repressione, su larga scala, della libertà di stampa, delle prerogative delle opposizioni e dei diritti delle minoranze. La Polonia, al contempo, ha posto in essere numerose riforme che minacciano l’indipendenza del potere giudiziario – e, di conseguenza, il principio della separazione dei poteri. Quest’ultimo, ideato espressamente per proteggere i cittadini dal rischio di arbitrarietà del potere esecutivo, costituisce uno dei capisaldi della Rule of Law su cui l’Unione si fonda. In questo contesto, inoltre, si sono spesso inserite riforme legislative ed iniziative politiche volte a ledere i diritti di persone appartenenti a minoranze, talvolta mettendo in discussione la loro stessa esistenza. Basti pensare, ad esempio, alle cosiddette “LGBT-free zones” dichiarate da numerose municipalità polacche.
    Parallelamente, sono oramai noti a tutti l’insufficienza e i limiti degli strumenti posti a disposizione delle istituzioni UE per far fronte a queste dinamiche. Le numerose procedure di infrazione attivate nei confronti di Ungheria e Polonia – nonché le conseguenti pronunce della Corte di Giustizia – sembrano infatti aver esaurito tutto il loro potenziale. E ciò non stupisce affatto, in quanto esse rappresentano uno strumento ideato per le violazioni tecnico-giuridiche, e non per rispondere a problematiche politiche di carattere sistemico. Il meccanismo di cui all’articolo 7 TUE (che, in breve, permetterebbe al Consiglio di imporre sanzioni politiche ad uno Stato membro in caso di violazioni costanti e persistenti dello Stato di Diritto) è stato attivato sia nei confronti della Polonia che dell’Ungheria, nel 2017 e nel 2018 rispettivamente. La concreta imposizione delle sanzioni, tuttavia, continua a rimanere bloccata dal requisito dell’unanimità.
    Infine, uno strumento nuovo e ulteriore è rappresentato dal Regolamento 2020/1092 (c.d. “Meccanismo di condizionalità”), il quale consente all’Unione di sospendere l’erogazione di fondi derivanti dal proprio bilancio ad un Paese che ponga in essere violazioni della Rule of Law idonee a compromettere la sana gestione finanziaria del bilancio UE. Tale meccanismo, peraltro recentemente attivato nei confronti dell’Ungheria, costituisce sicuramente un nuovo asset a disposizione dell’Unione; le sue potenzialità, tuttavia, sembrano limitate difronte al processo di regressione sistemica che caratterizza i due Stati membri.
    Lo scoppio della guerra in Ucraina: cambio di passo?
    Al di là dell’inefficienza degli strumenti europei posti a tutela dello Stato di Diritto, una cosa, almeno fino ad ora, è sempre stata chiara: la posizione delle istituzioni UE. Il Parlamento europeo, in questo contesto, è intervenuto nel dibattito adottando numerose Risoluzioni, con le quali ha espressamente e costantemente condannato le dinamiche regressive che caratterizzano Polonia e Ungheria. La Commissione, al contempo, ha (quasi) sempre mantenuto una posizione analoga, spesso anche ricorrendo all’utilizzo di strumenti atipici. Peraltro, è proprio questa istituzione ad aver recentemente attivato il meccanismo di cui al Regolamento 2020/2092 contro l’Ungheria, nonostante le reticenze iniziali.
    Ciononostante, questo paradigma appare oggi decisamente cambiato. La drammatica invasione russa dell’Ucraina, come accennato, ha influenzato notevolmente l’agenda politica dell’Unione e dei suoi Stati membri. Tra i vari temi che tale situazione ha (legittimamente) sollevato, vi è quello relativo all’accoglienza di rifugiati ucraini nel territorio di tutti gli Stati membri UE. Nonostante l’impegno congiunto dei 27, tale accoglienza – in un’ottica quantitativa – non ha riguardato tutti allo stesso modo. Alcuni Paesi, soprattutto a causa della loro posizione geografica, sono stati chiamati ad uno sforzo decisamente maggiore. Tra questi figurano, in particolare, Polonia e Ungheria. Stando ai dati più recenti, infatti, si stima che la prima stia accogliendo oltre 2,7 milioni di cittadini ucraini in fuga, contro i 454 mila della seconda.
    Un tale (s)bilanciamento, come ci si aspettava, è tutt’altro che privo di effetti sugli equilibri interni all’Unione europea, la quale rappresenta un’entità soggetta a geometrie politiche idonee a mutare continuamente. Tale mutevolezza è dovuta anche e soprattutto alla “struttura ibrida” dell’Unione, spesso caratterizzata da procedure e regole di voto altamente complesse, le quali richiedono una continua interazione tra attori puramente sovranazionali (quali il Parlamento e la Commissione) e governi degli Stati membri.
    In ogni caso, l’emblema di questo cambio di passo è rappresentato dall’approvazione, avvenuta lo scorso 1° giugno, del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) presentato dalla Polonia nell’ambito del programma Next Generation EU. La non ancora avvenuta approvazione del piano polacco, fino a pochi giorni fa, è sempre stata ricollegata ai numerosi dubbi relativi al rispetto dei valori UE da parte del Paese. L’attivismo polacco nell’ambito dell’accoglienza europea di rifugiati ucraini, tuttavia, sembra aver ribaltato questo paradigma, inducendo la Commissione a chiudere un occhio (o forse due!) sul rispetto dei valori sui quali l’Unione europea si fonda. Il non aver (ancora?) riservato lo stesso trattamento all’Ungheria, probabilmente, sembra legato a tre fattori principali: a) il numero più modesto di rifugiati ucraini accolti; b) le violazioni, decisamente più gravi e diffuse, della Rule of Law; c) il rischio, per la Commissione, di entrare in contraddizione con la propria azione, vista la recente attivazione del “meccanismo di condizionalità” contro l’Ungheria.
    Risulta spontaneo chiedersi, in conclusione, quale sarà l’impatto futuro di queste dinamiche. È vero, da un lato, che ciascun Stato membro dispone di un potere di veto – e che, di conseguenza, alcune concessioni si rendono necessarie al fine di superare eventuali blocchi decisionali; è altrettanto vera, dall’altro, la consapevolezza per cui l’Ucraina non sta semplicemente difendendo sé stessa. Essa sta difendendo, come è spesso stato correttamente sottolineato, tutti i valori sui quali l’Europa unita si fonda – dallo Stato di Diritto all’autodeterminazione dei popoli. Fino a che punto, dunque, siamo disposti a chiudere un occhio sul rispetto di questi valori da parte di Stati che sono già membri dell’Unione europea?

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.