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    L’attivismo di Borrell per una pace tra Israele e Palestina. A New York lancia il ‘Peace Day Effort’ e incontra il primo ministro di Ramallah

    Bruxelles – La causa è di quelle sacrosante, l’orizzonte appare più lontano che mai. Il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, non demorde e rilancia un processo di pace tra Israele e Palestina fondato sulla soluzione di vecchia data dei due Stati. Non è solo, con lui ci sono anche la Lega degli Stati Arabi, l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania. Ma le più distanti sembrano proprio essere Tel Aviv e Ramallah.
    Nel corso del 2023, già segnato da un’escalation di scontri che – secondo i dati di Ocha-opt, l’Ufficio delle Nazioni Unite nei territori Palestinesi occupati – hanno causato 219 vittime palestinesi e 29 israeliane, l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri ha lanciato numerosi appelli a entrambe le parti per mettere fine alle violenze. Per ora sono rimasti inascoltati, e gli unici motivi che possono far pensare ad un esito diverso di questo ennesimo sforzo sono il palcoscenico scelto per inaugurarlo e gli obiettivi pratici che si è dato.
    Il lancio del Peace Day Effort a New York, 18/09/23
    A New York per la 78esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, lunedì 18 settembre l’Unione europea, il Regno dell’Arabia Saudita, la Lega degli Stati Arabi, in collaborazione con la Repubblica Araba d’Egitto e il Regno di Giordania – e alla presenza di quasi cinquanta ministri degli Esteri di tutto il mondo-, hanno inaugurato il ‘Peace Day Effort‘. Uno sforzo che “mira a produrre un pacchetto di sostegno alla pace”, con programmi e contributi dettagliati, condizionati al raggiungimento di un accordo tra le parti sullo status finale della regione dilaniata da un conflitto secolare.
    Durante l’incontro, sono stati avviati gruppi di lavoro incaricati di elaborare le componenti di questo pacchetto: un team dedicato al lavoro politico e di sicurezza, incentrato sullo “sviluppo di uno schema di potenziali meccanismi di cooperazione regionale, politica e di sicurezza post-pace”, un gruppo di lavoro economico e ambientale, che si è concentrato sullo sviluppo di “proposte di cooperazione economica, anche nei settori del commercio, dell’innovazione, delle infrastrutture di trasporto, delle risorse naturali, dell’ambiente”, ed un ultima equipe di lavoro sulla dimensione umana, dedicata allo sviluppo di “proposte di cooperazione in questioni umanitarie, interculturali e di sicurezza umana”. I progressi dei tre gruppi verranno valutati ogni tre mesi, a partire dal prossimo dicembre, con l’obiettivo di unire i loro contributi e presentare il Pacchetto di sostegno alla pace entro il settembre del 2024.
    Borrell incontra il primo ministro Shtayyeh: “Necessario garantire uno stato palestinese sovrano”
    Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh e l’Alto rappresentane Josep Borrell, 23/01/23
    Questo vasto piano di supporto entrerebbe in vigore il giorno in cui venisse siglata la storica pace. Ma non una qualunque: come assicurato da Borrell al primo ministro palestinese, Mohammed Shtayyeh, con cui ha avuto un bilaterale nella giornata di ieri (19 settembre), il rinnovato impegno non potrà prescindere dalla “necessità di preservare la soluzione dei due Stati garantendo uno stato palestinese sovrano, indipendente e contiguo“, basato sulle linee antecedenti alla guerra dei 6 giorni del giugno 1967. In attesa del vertice politico ad alto livello tra i ministri degli Esteri dei 27 e l’Autorità palestinese, previsto per novembre, Borrell ha insistito con Shtayyeh sulla necessità che “entrambe le parti collaborino per porre fine al terrorismo e all’incitamento alla violenza e per fermare le misure unilaterali che minano ulteriormente le prospettive di una soluzione a due Stati”. E ha sollecitato il primo ministro di Ramallah a convocare elezioni nazionali “attese da tempo”.
    Come si legge in una nota pubblicata dal Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae), Shtayyeh “è stato informato dell’incontro presieduto dall’Alto rappresentante con l’Arabia Saudita, la Lega degli Stati arabi, l’Egitto e la Giordania, incentrato sulle possibili modalità di rilancio del processo di pace in Medio Oriente” e sullo sviluppo di “una visione positiva con un ampio sostegno da parte della comunità internazionale per contribuire a promuovere la pace, la stabilità e la sicurezza nella regione”. Un incontro a cui però, oltre all’Autorità palestinese, non era presente neanche Israele. Che sulla condanna di “tutte le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status del territorio palestinese occupato dal 1967”, ribadita durante il vertice, avrebbe qualcosa da ridire.

    A margine dell’Assemblea generale dell’Onu, l’Ue, la Lega Araba, l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania si sono impegnate per ridare vigore al processo di pace in Medio Oriente. Borrell ha esortato il premier palestinese Shtayyeh a tenere “elezioni nazionali attese da tempo”

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    Tutto ciò che c’è da sapere sulla proposta franco-tedesca per adeguare l’Unione Europea a un suo futuro allargamento

    Bruxelles – Un lavoro iniziato otto mesi fa sotto gli auspici del presidente francese, Emmanuel Macron, e del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, per coniugare due dei temi più caldi per il futuro dell’Unione Europea: l’allargamento Ue e la riforma dei Trattati fondanti della stessa Unione. “Per ragioni geopolitiche, l’allargamento Ue è in cima all’agenda politica, ma l’Unione non è ancora pronta ad accogliere nuovi membri, né dal punto di vista istituzionale né da quello politico“, è quanto mette nero su bianco il Gruppo dei Dodici nel suo rapporto su cui si fonda la proposta franco-tedesca per il rinnovamento dell’Unione Europea e che oggi (19 settembre) è stato presentato a Bruxelles ai ministri degli Affari europei.
    Un report di 58 pagine particolarmente denso, in cui vengono trattate nel dettaglio le priorità imprescindibili dell’Unione – a partire dallo Stato di diritto – le aree di riforma con le rispettive esigenze di modifica dei Trattati – dal processo decisionale in Consiglio al numero di seggi al Parlamento Ue e di membri del Collegio dei commissari – le implicazioni per il bilancio comunitario, la possibile creazione di un’integrazione europea basata su quattro livelli e i principi-guida per il processo di allargamento Ue. “Riconoscendo la complessità di allineare le diverse visioni degli Stati membri sull’Unione Europea, il rapporto raccomanda un processo di riforma e di allargamento Ue flessibile”, si legge nel testo redatto da 12 esperti indipendenti, che mettono in guardia sul fatto che “le istituzioni e i meccanismi decisionali non sono stati concepiti per un gruppo di 37 Paesi“. Ovvero gli attuali 27 membri più i 10 partner che si sono avviati sulla strada dell’adesione: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina.
    La riforma delle istituzioni
    Il punto di partenza è la protezione dello Stato di diritto. In primis rendendo il meccanismo di condizionalità uno strumento contro le violazioni da poter estendere anche a fondi futuri. E come seconda soluzione perfezionare la procedura secondo l’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea (quella che sospende il diritto di voto in Consiglio), introducendo una maggioranza di quattro quinti del Consiglio per farla scattare (al posto di unanimità meno uno) e includendo limiti di tempo per costringere i capi di Stato e di governo a prendere una decisione.
    Tutte le istituzioni comunitarie sono interessate dalla riforma dell’Unione. Il Parlamento manterrebbe il limite di 751 “o meno” eurodeputati (quindi meno rappresentanti per Stato membro), con l’adozione di un nuovo sistema di assegnazione dei seggi, basato su una formula che bilancia il diritto di ogni membro a essere rappresentato e la necessità di ridurre le distorsioni demografiche. Anche per la Commissione si considerano le dimensioni del Collegio, con due opzioni: o una riduzione del numero di commissari (non più uno per Stato membro) o una differenziazione tra “commissari guida” e “commissari”, in cui solo i primi hanno il diritto di voto. Il Consiglio dell’Ue dovrebbe invece essere riorganizzato da un formato a tre a un quintetto di presidenza che copra metà di un ciclo istituzionale (sei mesi per membro). Il Consiglio è l’istituzione più delicata da riformare, con l’idea fondante di “generalizzare il voto a maggioranza qualificata” a tutte le decisioni “politiche”, con salvaguardie come una “rete di sicurezza per la sovranità”, il calcolo delle quote di voto riequilibrato da 65/55 a 60/60 e opt-out per i settori politici interessati.
    Democrazia, poteri e bilancio
    Per salvaguardare la democrazia europea dovranno essere armonizzate le leggi elettorali, “almeno entro il 2029” (per il rinnovo dell’Eurocamera), ma serve una decisione “prima delle prossime elezioni” del 2024 anche sulla nomina del presidente della Commissione: o come accordo inter-istituzionale o come accordo politico. I cittadini dovranno essere coinvolti più da vicino con strumenti partecipativi legati al processo decisionale e a quello di allargamento Ue, mentre un nuovo Ufficio indipendente per la trasparenza e la probità dovrebbe monitorare le attività di tutti gli attori che lavorano nelle – o per le – istituzioni comunitarie. Va a braccetto la questione della definizione delle competenze, con la necessità di “rafforzare le disposizioni su come affrontare gli sviluppi imprevisti”, includendo meglio il Parlamento e creando una Camera congiunta delle più alte giurisdizioni dell’Ue come dialogo non vincolante tra le giurisdizioni europee e quelle degli Stati membri.
    Ma in questo capitolo l’attenzione è tutta rivolta al bilancio comunitario, di fronte a un potenziale aumento dei membri e delle politiche da finanziare collettivamente. Nel prossimo periodo di bilancio (2028-2034) dovrà essere aumentato il budget “sia in termini nominali sia in relazione al Pil”. Serviranno nuove risorse proprie per limitare l’ottimizzazione fiscale, l’elusione e la concorrenza, mentre le decisioni di bilancio dovranno essere prese per maggioranza qualificata (o in alternativa con una cooperazione più intensa tra gruppi più piccoli di Stati membri per finanziare insieme le politiche). Dovrà poi essere condotta una revisione per ridurre o aumentare le dimensioni di determinate aree di spesa e viene sancito il principio secondo cui l’Ue dovrebbe poter emettere debito comune in futuro. Dal 2034 – quando le due scadenze si allineeranno – il ciclo istituzionale avrà il compito di stabilire un nuovo quadro finanziario pluriennale della durata di 5 anni (e non più 7).
    Integrazione differenziata e processo di allargamento Ue
    L’ultima parte del rapporto del Gruppo dei Dodici è legato all’allargamento Ue vero e proprio, ma anche alle forme di integrazione che l’Unione dovrebbe assumere su diversi livelli. Prima di tutto viene considerato come modificare i Trattati, con sei opzioni sul tavolo: attivazione dell’articolo 48 del Tue (procedura di revisione ordinaria), una procedura di revisione semplificata, l’attivazione dell’articolo 49 del Tue (trattati di adesione di nuovi membri che modificano quelli istitutivi), “trattato quadro di allargamento e riforma” redatto dagli Stati membri, coinvolgimento di una Convenzione e – “in caso di stallo” – trattato di riforma supplementare tra gli Stati membri disposti a farlo.
    Alla riforma dei Trattati si accompagna la definizione dei 5 principi di integrazione differenziata all’interno dell’Ue: rispetto dell’acquis comunitario e dell’integrità delle politiche e delle azioni Ue, uso delle istituzioni comunitarie, apertura a tutti i membri, condivisione dei poteri decisionali, dei costi e dei benefici, e avanzamento da parte dei “volenterosi” che vogliano spingere oltre l’integrazione. Mentre agli Stati non cooperativi o non disposti a collaborare vengono offerti opt-out (opzioni di non partecipazione) nel nuovo Trattato – fatto salvo l’acquis comunitario e i valori fondanti – il futuro dell’integrazione europea viene immaginato su quattro livelli distinti: una cerchia interna di membri Schengen, dell’Eurozona e di altre “coalizioni di volenterosi”, l’Unione Europea con membri vecchi e nuovi, i membri associati al Mercato unico (come Norvegia e Svizzera) e – fuori dal perimetro dello Stato di diritto – la Comunità Politica Europea 2.0 che abbia al centro la convergenza geopolitica e strutturata su accordi bilaterali con l’Ue.
    In tutto questo deve rimanere chiaro l’obiettivo di essere pronti per l’allargamento Ue entro il 2030, così come anticipato dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel – mentre parallelamente i Paesi candidati dovranno lavorare per soddisfare tutti i criteri di adesione entro la stessa data (e già si sono detti disponibili a farlo). Nel rapporto viene stimolata la nuova leadership politica dopo le elezioni del 2024 a impegnarsi per questo obiettivo e concordare sulla preparazione per l’allargamento Ue entro la fine del decennio. Il discorso riguarda però da vicino anche lo stesso processo di allargamento Ue, a partire dalla suddivisione dei cicli di adesione in gruppi più piccoli di Paesi (ciascuno di questi definito ‘regata’). Nove principi dovrebbero guidare poi le future strategie di allargamento Ue: ‘prima le basi’, geopolitico, risoluzione dei conflitti, supporto tecnico e finanziario aggiuntivo, legittimità democratica, eguaglianza, ‘sistematizzazione’, reversibilità e voto a maggioranza qualificata.

    Riforma delle istituzioni, risorse comuni, integrazione differenziata e nuovo processo di adesione dei candidati. I governi hanno iniziato a discutere sulle proposte del Gruppo dei Dodici per mettere l’Unione nelle condizioni di non farsi trovare impreparata all’appuntamento del 2030

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    Gas, diritto internazionale e alleanze regionali: ecco perché l’Ue può e farà poco in Nagorno-Karabakh

    Bruxelles – L’Unione europea condanna e si inquieta ma di fronte alla nuova offensiva azera nel territorio contestato del Nagorno-Karabakh fa quel che può, poco, molto poco. Per ragioni giuridiche, geo-politiche, e per una politica estera alle volte inesistente e ancora tutta da costruire e le contraddizioni di un progetto solo in parte federale ma ancora troppo confederato. La questione armeno-azera, frutto dei rimasugli dell’era sovietica che non si è saputo risolvere ripropone solo una volta di più una questione di lungo corso: un’Europa che si muove in modo confuso e sparso, e che a tratti appare estremamente debole.
    Il diritto internazionale stabilisce e riconosce la regione del Caucaso come parte dell’Azerbaijan, che l’Armenia occupa illegalmente dal 1991. L’Assemblea generale dell’Onu, con tanto di risoluzione, già il 14 marzo 2008 ha stabilito l’integrità territoriale dell’Azerbaijan chiedendo il ritiro di tutte le forze armene. Una risoluzione approvata con 39 voti a favore, 100 astensioni e appena 7 contrari (con 46 Stati assenti al momento del voto). Gli Stati dell’Ue non hanno di fatto mai preso una posizione chiara. La Francia ha votato contro, schierandosi dunque con Yerevan. Gli altri Stati dell’Ue alle Nazioni Unite si sono astenuti.
    Di fronte a questo schieramento per l’Ue diventa difficile fare più di quanto fatto finora, vale a dire tentare di mediare ed invitare al dialogo. Ma in un periodo in cui, sopratutto a Bruxelles, è continuo insistere su “valori”, “diritti” e loro rispetto, trovarsi nella scomoda situazione di dover dire qualcosa senza poter essere davvero incisivi mette a nudo tutta l’affidabilità di un’Unione con cui comunque si interagisce.
    L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, in questi momenti concitati, ha capito perfettamente quello che sta per succedere. “Questa escalation militare non deve essere usata come pretesto per forzare l’esodo della popolazione locale”, e dunque un cacciata degli armeni da parte degli azeri. Non ha capito come può evitarlo, e probabilmente non potrà. Interventi, del resto non sono possibili. Ci sono troppi attori, e tutti scomodi, in gioco. La Russia, tradizionalmente amica dell’Armenia, anche se dell’Armenia internazionalmente riconosciuta, e che potrebbe ‘far pagare’ l’accresciuta cooperazione militare con Stati Uniti e Nato nonostante l’Armenia sia attualmente membro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), guidata dalla Russia.
    La Turchia, dichiaratamente dalla parte di Baku, con tanto di accordo bilaterale turco-azero di mutuo sostegno in caso di aggressione militare. Ecco il dilemma. Se le forze armene dovessero aprire il fuoco contro quelle azere, in un territorio considerato azero, potrebbe innescarsi un nuovo conflitto alle porte dell’Europa. E poi gli Stati Uniti, tra i sette contrari alla risoluzione Onu del 2008. Ancora l’Iran, che condivide le proprie frontiere con entrambi i contendenti.
    L’Ue non si immolerà per la causa armena in Nagorno-Karabakh. Anche per ragioni squisitamente economiche. Alla vigilia dell’ultimo incontro del Consiglio di cooperazione Ue-Azerbaigian del 19 luglio 2022, in pieno conflitto russo-ucraino e crisi energetica, le due parti hanno firmato un memorandum d’intesa (MoU) su un partenariato energetico strategico, volto ad aumentare le forniture di gas azerbaigiano all’Ue attraverso il Corridoio Sud del Gas ad almeno 20 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2027 (da 8,1 miliardi nel 2021).

    Una mancata azione in politica estera e ragioni squisitamente economiche legate alle forniture di gas dall’Azerbaigian

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    Nemmeno un giorno di tregua. L’Unione Europea condanna i bombardamenti dell’Azerbaigian sul Nagorno-Karabakh

    Bruxelles – La speranza per una distensione è durata poco meno di 24 ore, o più probabilmente è stata solo un’illusione dopo settimane di escalation. Dal Nagorno-Karabakh arrivano oggi (19 settembre) “notizie devastati”, come le ha definite il presidente del Consiglio Europeo e primo sponsor del dialogo tra Azerbaigian e Armenia, Charles Michel. L’esercito azero ha iniziato un’offensiva militare contro l’enclave separatista, che il ministero della Difesa di Baku considera “un’attività antiterroristica locale”  per “reprimere le provocazioni su larga scala”. Diversi filmati mostrano i bombardamenti sul territorio mentre a Stepanakert, capitale de facto dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, risuonano da questa mattina le sirene dell’antiaerea.
    “Le azioni militari dell’Azerbaigian devono essere immediatamente interrotte per consentire un dialogo autentico tra Baku e gli armeni del Nagorno-Karabakh”, è la secca esortazione di Michel, a cui fanno eco le parole dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “L’Unione Europea condanna l’escalation militare lungo la linea di contatto e in altre località del Nagorno-Karabakh, chiediamo l’immediata cessazione delle ostilità e che l’Azerbaigian interrompa le attività militari in corso”. L’offensiva militare arriva con un messaggio che fa temere il peggio di una guerra totale e la pulizia etnica: nella “zona pericolosa” sarà messa in atto una “evacuazione” della popolazione civile a maggioranza armena. Il governo azero sostiene che l’offensiva è legata esclusivamente a mettere fuori gioco “mezzi di combattimento e strutture militari armene” dopo la morte di quattro soldati e due civili a causa dello scoppio di mine anti-uomo, ribadendo di essere impegnato nella “protezione della popolazione locale”. Ma non è passato inosservato nel corso delle ultime settimane l’ammassamento di convogli azeri – tutti contrassegnati con una A rovesciata (che in modo inquietante ricorda la Z dell’esercito russo in Ucraina) – sul confine con l’Armenia e lungo la linea di contatto nel Nagorno-Karabakh. In un’intervista a Politico il premier armeno, Nikol Pashinyan, aveva avvertito che “non è possibile escludere uno scenario di escalation“.
    “È urgente tornare al dialogo tra Baku e gli armeni del Nagorno-Karabakh, questa escalation militare non deve essere usata come pretesto per forzare l’esodo della popolazione locale“, è l’appello dell’alto rappresentante Borrell, che continua a chiedere “un ambiente favorevole ai colloqui di pace e di normalizzazione” attraverso un “impegno genuino di tutte le parti per lavorare verso risultati negoziali facilitati dall’Ue”. L’escalation arriva dopo mesi di negoziati infruttuosi condotti da Bruxelles e dalla contrapposizione sempre più netta tra il premier armeno e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. Il primo cerca ancora l’appoggio militare della Russia – lamentando però che Mosca non è più in grado di agire come garante della sicurezza di Yerevan dopo l’invasione dell’Ucraina – mentre Baku riceve il sostegno della Turchia per un possibile intervento che metta fine a un conflitto congelato da decenni.
    I bombardamenti azeri sul Nagorno-Karabakh sono al contempo una doccia fredda diplomatica e un possibile stop alla politica energetica dell’Unione. In primis perché è da un anno e mezzo che il presidente Michel tenta di spingere per una risoluzione delle tensioni tra i due leader caucasici attraverso il dialogo. Il passaggio del primo convoglio con aiuti internazionali martedì scorso (12 settembre) attraverso la rotta Ağdam-Askeran e poi lo sblocco del corridoio di Lachin proprio ieri (18 settembre) dopo quasi nove mesi di crisi umanitaria sembravano aver indirizzato la situazione nella regione verso uno sviluppo positivo, ma non erano stati considerati i risvolti militari in atto da parte delle forze di Baku. Allo stesso tempo non va dimenticato che nel luglio dello scorso anno la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, si era recata in visita ufficiale in Azerbaigian per siglare un accordo sulla fornitura di gas naturale e – nonostante le perplessità degli analisti sul rischio di sostituire Putin con un altro autocrate – aveva definito Aliyev “un partner affidabile e degno di fiducia“.
    Il corridoio meridionale del gas
    La guerra congelata in Nagorno-Karabakh
    Tra Armenia e Azerbaigian è dal 1992 che va avanti una guerra congelata, con scoppi di violenze armate ricorrenti incentrate nella regione separatista del Nagorno-Karabakh. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh. Dopo un anno e mezzo la situazione è tornata a scaldarsi a causa di alcune sparatorie alla frontiera a fine maggio 2022, quando è diventato sempre più evidente che la tensione sarebbe tornata a salire. La priorità dei colloqui di alto livello stimolati dal presidente del Consiglio Europeo è stata posta sulla delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, da settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, con reciproche accuse di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
    Da sinistra: il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan
    La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin e da allora sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile. Gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa.
    A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici. Ma la tensione è tornata a crescere lo scorso 23 aprile, con la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco, con la giustificazione di voler impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”. Da Bruxelles è arrivata la condanna dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima della ripresa delle discussioni a maggio e un nuovo round di negoziati di alto livello tra Michel, Aliyev e Pashinyan il 15 luglio.
    Soldati dell’Azerbaigian al posto di blocco sul corridoio di Lachin (credits: Tofik Babayev / Afp)
    L’alternarsi di sforzi diplomatici e tensioni crescenti sul campo ha portato a uno degli episodi più allarmanti almeno fino a oggi, che ha messo in pericolo gli osservatori Ue presenti dallo scorso 20 febbraio in Armenia per contribuire alla stabilità nelle zone di confine. Il 15 agosto una pattuglia della missione Euma è rimasta coinvolta in una sparatoria dai contorni non meglio definiti (entrambe le parti, armena e azera, si sono accusate a vicenda), senza nessun ferito. L’evento aveva provocato qualche imbarazzo a Bruxelles, dopo che Yerevan aveva dato la notizia secondo cui l’esercito azero aveva “scaricato il fuoco contro gli osservatori dell’Ue”. Sulla stessa pagina X della missione civile Ue in Armenia era apparso un post (poi cancellato) con un perentorio “falso”, ma poche ore più tardi è stato pubblicato l’aggiornamento di rettifica che ha dato ragione ai portavoce armeni, almeno nella parte in cui è stata confermata la presenza della pattuglia europea durante gli spari, senza nessun riferimento alla responsabilità azera.

    Dopo lo sblocco del rifornimenti umanitari attraverso il corridoio di Lachin, il governo di Baku ha lanciato un’offensiva nell’enclave separatista giustificandola come “attività antiterroristica locale”. Le istituzioni Ue chiedono “l’immediata cessazione delle ostilità” e il “ritorno al dialogo”

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    Ucraina, la Commissione Ue vuole estendere la protezione temporanea fino al 2025

    Bruxelles – Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, oltre 4 milioni di persone hanno lasciato il Paese dilaniato dalla guerra trovando rifugio sul territorio dell’Unione europea. Un numero enorme – se pensiamo che nel 2022 i richiedenti asilo dal resto del mondo in tutti i Paesi Ue sono stati poco meno di 1 milione – che i 27 Stati membri sono riusciti a gestire attivando immediatamente lo status di protezione temporanea. Oggi (19 settembre) la Commissione europea ha proposto di estendere ulteriormente la protezione temporanea per le persone in fuga dalla guerra in Ucraina dal 4 marzo 2024 al 3 marzo 2025.
    L’Ue ha attivato la Direttiva sulla Protezione Temporanea il 4 marzo 2022 con decisione unanime degli Stati Membri ed è stata automaticamente prorogata di un anno. Ma le ragioni che hanno portato all’attivazione dello status dopo solo una settimana dalla brutale invasione russa “persistono”: la guerra infuria, la controffensiva di Kiev procede con lentezza, pertanto la situazione “non è ancora favorevole al ritorno sicuro e duraturo di coloro che beneficiano della protezione nei Paesi Ue”.
    Degli oltre 4 milioni di cittadini ucraini entrati in Ue – quasi 3 milioni e mezzo nei primi sei mesi di guerra -, un terzo è stato accolto in Polonia (1,6 milioni di persone). Cifre superiori al mezzo milione di titolari di protezione temporanea anche in Germania e Repubblica Ceca, in Italia sono circa 175 mila. A tutti loro è garantita protezione immediata e accesso ai diritti nell’Ue, compresi i diritti di soggiorno, l’accesso al mercato del lavoro, all’alloggio, all’assistenza sociale, all’assistenza medica e di altro tipo. “La protezione temporanea è stata uno strumento cruciale che ha plasmato la vita di molti. Più di 4 milioni di persone hanno trovato la speranza, la possibilità di vivere, lavorare e andare a scuola all’interno dell’Ue, ciò ha contribuito a dare un senso di normalità nonostante i tempi della guerra”, ha commentato la commissaria Ue per gli Affari interni, Ylva Johansson.
    L’estensione della direttiva dovrà essere approvata dal Consiglio dell’Ue. “Oggi, mentre la guerra infuria, chiediamo agli Stati membri di riunirsi ancora una volta e di prolungare la protezione temporanea per un ulteriore anno”, è l’appello lanciato dal vicepresidente della Commissione europea, Margaritis Schinas.

    Il meccanismo d’emergenza, attivato il 4 marzo 2022, ha permesso l’ingresso regolare a oltre 4 milioni di sfollati a causa dell’invasione russa. La proposta dovrà essere adottata dai 27 Paesi membri

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    Brexit, il leader laburista Starmer vuole allargare l’accordo con l’Ue

    Bruxelles – Se Downing Street dovesse tornare in mano ai labour, potrebbe aprirsi un nuovo capitolo della saga post Brexit. In un’intervista concessa al Financial Times, il leader laburista Keir Starmer ha definito l’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra l’Ue e il Regno Unito, siglato faticosamente il 30 dicembre 2020 dall’allora primo ministro Boris Johnson, “un accordo troppo snello” e da rinegoziare.
    Un impegno preso in vista delle elezioni di fine 2024, visto che i sondaggi lo danno super-favorito, con circa 20 punti di vantaggio rispetto all’attuale premier Rishi Sunak e al suo partito conservatore. Il leader moderato ha assicurato che all’orizzonte non c’è alcun ritorno nel blocco Ue, né nel mercato unico europeo. Ma “possiamo trovare un accordo commerciale migliore perché l’intesa firmata da Boris Johnson è deleteria e limitante”, ha dichiarato, promettendo che “sarà una delle priorità una volta al governo“. L’ostacolo maggiore per Starmer potrebbe essere proprio Bruxelles, a cui si vuole riavvicinare: l’accordo dovrebbe essere aggiornato nel 2025 ed è difficile immaginare che l’Ue accetterà facilmente di rimettersi al tavolo dei negoziati con Londra.

    In un’intervista al Financial Times ha dichiarato che, se venisse eletto premier, sarebbe “una delle priorità” trovare un accordo commerciale migliore con Bruxelles

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    Borrell: per molti Stati Ue la decisione di firmare il memorandum con la Tunisia è “incomprensibile”

    Bruxelles – Alcuni  Stati membri dell’Ue hanno espresso “incomprensione” per la scelta della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di stringere un patto sulle migrazioni con la Tunisia.
    Queste osservazioni sono state espresse all’Alto rappresentate per la Politica Estera Josep Borrell sia a voce sia per iscritto, spiega lui stesso in una lettera datata 7 settembre e visionata dal Guardian.
    “Come sai… a luglio, diversi Stati membri hanno espresso la loro incomprensione riguardo all’azione unilaterale della Commissione per la conclusione di questo [memorandum] e le loro preoccupazioni riguardo ad alcuni dei suoi contenuti“, ha scritto Borrell in una lettera a Olivér Várhelyi, il commissario europeo per le Politiche di Vicinato. “Dopo la riunione del Consiglio Affari Esteri del 20 luglio – insiste Borrell – alcuni Stati membri ti hanno comunicato queste preoccupazioni con procedura scritta”.
    Il patto, firmato a luglio con la Tunisia dalla Von der Leyen, dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e dal primo ministro olandese, Mark Rutte, mira ad arginare la migrazione verso l’Europa dalla Tunisia, una delle rotte più battute per i trafficanti di esseri umani, dopo che la Libia era diventata troppo pericolosa anche per le bande criminali organizzate, ricorda il quotidiano britannico.
    Borrell ricorda al collega che i ministri degli Affari Esteri hanno “osservato che la Commissione non ha seguito le fasi corrette della procedura di adozione”, non ha cioè portato il testo all’approvazione preventiva dei governi di tutti i Ventisette, e che quindi il memorandum d’intesa non può essere “considerato un modello valido per accordi futuri”.
    In quella che il Guardian definisce “una bordata contro Meloni e Rutte”, Borrell ha scritto che “la partecipazione ai negoziati e alla cerimonia di firma di un numero limitato di capi di governo dell’Ue non compensa l’equilibrio istituzionale tra il Consiglio e la Commissione”.

    L’alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione lo sottolinea in una lettera (inviata dieci giorni prima della visita di von der Leyen ieri a Lampedusa) al collega responsabile per le Politiche di vicinato Olivér Várhelyi

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    Le forniture di aiuti umanitari nel Nagorno-Karabakh sono finalmente riprese. L’Ue esorta a “regolarizzare il passaggio”

    Bruxelles – Dopo mesi di stallo e di completa chiusura dei rifornimenti umanitari, gli oltre 120 mila abitanti del Nagorno-Karabakh possono tornare a sperare in un flusso costante di cibo e farmaci, gas e acqua potabile. “Accogliamo con favore il passaggio simultaneo di carichi umanitari attraverso Lachin e Ağdam“, è il commento soddisfatto del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, alla notizia di oggi pomeriggio (18 settembre) dell’ingresso di camion del Comitato internazionale della Croce Rossa carichi di aiuti umanitari nella regione separatista a maggioranza armena sul territorio dell’Azerbaigian: “Questo passaggio deve essere regolarizzato“.
    Il primo convoglio umanitario a fare ingresso nell’enclave a maggioranza cristiana nel sud-ovest dell’Azerbaigian (a maggioranza musulmana) era arrivato martedì scorso (12 settembre) ma dal territorio azero attraverso la rotta Ağdam-Askeran. Altri convogli francesi e armeni erano rimasti invece finora bloccati, nonostante l’accordo del 9 settembre tra il governo azero e quello armeno per riaprire il corridoio di Lachin. Per questo motivo il leader del Consiglio Ue aveva chiesto “a tutte le parti interessate di dare prova di responsabilità e flessibilità” nel “facilitare la riapertura dell’unica via di accesso all’Armenia e al mondo esterno per decine di migliaia di abitanti dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. Dopo la svolta di oggi – che mette forse fine a una crisi che va avanti da nove mesi – per Bruxelles “è essenziale avviare colloqui tra Baku e gli armeni del Nagorno-Karabakh sui loro diritti e la loro sicurezza“, ha messo in chiaro Michel, anticipando che “l’Ue è pronta a sostenere”.
    L’Unione Europea è diventata da un anno e mezzo il principale mediatore tra il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, e si spiega così l’entusiasmo di Bruxelles nel vedere i primi segnali di distensione tra due Paesi caucasici. “Accogliamo la consegna di aiuti umanitari della Croce Rossa attraverso Lachin e Ağdam agli armeni del Nagorno-Karabakh”, ha ribadito il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano. Quello che le istituzioni comunitarie ora si aspettano è “garantire forniture regolari alla popolazione”, spingere per un “dialogo significativo” tra Baku e i separatisti e soprattutto “diminuire le tensioni sulla linea di contatto e sul confine internazionale“. La crisi dura da mesi e il dispiegamento di truppe azere lungo il confine armeno ha aumentato i timori per lo scoppio di un nuovo conflitto tra Baku e Yerevan per il controllo del Nagorno-Karabakh.
    La tensione in Nagorno-Karabakh
    Da sinistra: il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan
    Tra i due Paesi caucasici la guerra congelata va avanti dal 1992, con scoppi di violenze armate ricorrenti. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh. Dopo un anno e mezzo la situazione è tornata a scaldarsi a causa di alcune sparatorie alla frontiera a fine maggio 2022, quando è diventato sempre più evidente che la tensione sarebbe tornata a salire. La priorità dei colloqui di alto livello stimolati dal presidente del Consiglio Europeo è stata posta sulla delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, da settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, con reciproche accuse di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
    La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin e da allora sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile. Gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa.
    Soldati dell’Azerbaigian al posto di blocco sul corridoio di Lachin (credits: Tofik Babayev / Afp)
    A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici. Ma la tensione è tornata a crescere lo scorso 23 aprile, con la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco, con la giustificazione di voler impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”. Da Bruxelles è arrivata la condanna dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima della ripresa delle discussioni a maggio e un nuovo round di negoziati di alto livello tra Michel, Aliyev e Pashinyan il 15 luglio.
    L’alternarsi di sforzi diplomatici e tensioni crescenti sul campo ha portato a uno degli episodi più allarmanti per gli osservatori Ue presenti dallo scorso 20 febbraio in Armenia per contribuire alla stabilità nelle zone di confine. Il 15 agosto una pattuglia della missione Euma è rimasta coinvolta in una sparatoria dai contorni non meglio definiti (entrambe le parti, armena e azera, si sono accusate a vicenda), senza nessun ferito. L’evento aveva provocato qualche imbarazzo a Bruxelles, dopo che Yerevan aveva dato la notizia secondo cui l’esercito azero aveva “scaricato il fuoco contro gli osservatori dell’Ue”. Sulla stessa pagina X della missione civile Ue in Armenia era apparso un post (poi cancellato) con un perentorio “falso”, ma poche ore più tardi è stato pubblicato l’aggiornamento di rettifica che ha dato ragione ai portavoce armeni, almeno nella parte in cui è stata confermata la presenza della pattuglia europea durante gli spari, senza nessun riferimento alla responsabilità azera.

    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha accolto la notizia del passaggio di convogli attraverso il corridoio di Lachin, che collega l’Armenia alla regione separatista passando dal territorio dell’Azerbaigian: “Oa è essenziale avviare colloqui sui loro diritti e la loro sicurezza”