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    Il nodo dei ‘rifugiati climatici’ in aumento, un problema politico per l’Ue

    Bruxelles – Un fenomeno in aumento e che crescerà ancora. Un problema reale, naturale, sociale, economico e ancor più politico. Perché nel diritto comunitario manca ancora una definizione di ‘rifugiato climatico’, e riconoscerlo vorrebbe dire dover aprire confini e frontiere a masse di migranti crescenti. Ma i numeri parlano chiaro, e il centro studi e ricerche del Parlamento europeo li raccoglie e li aggiorna. Dal 2008 oltre 376 milioni di persone in tutto il mondo sono state costrette a lasciare la propria abitazione a causa di inondazioni, tempeste di vento, terremoti o siccità, con un record di 32,6 milioni solo nel 2022. Non è la prima volta che il centro studi e ricerche del Parlamento europeo si sofferma sulla questione dei rifugiati climatici. L’ultimo rapporto realizzato nel 2021 censiva 318 milioni di sfollati causa eventi meteorologici estremi dal 2008. In due anni soltanto, dunque, si contano 58 milioni di sfollati ulteriori in tutto il mondo. Ma a dirla tutta “dal 2020 si è registrato un aumento annuo del numero totale di sfollati a causa di catastrofi rispetto al decennio precedente in media del 41 per cento”. Si tratta, guardando i numeri, di una “tendenza al rialzo chiara in modo allarmante”. Tanto che nello scenario peggiore si stima che “1,2 miliardi di persone potrebbero essere sfollate entro il 2050 a causa di disastri naturali e altre minacce ecologiche”. Un invito ad agire. Con la transizione sostenibile e la sua traduzione in pratica, certo. Ma pure con politiche di prevenzione e mitigazione dei rischi. Perché, avvertono gli analisti di Bruxelles, “con il cambiamento climatico come catalizzatore trainante, il numero di rifugiati climatici continuerà ad aumentare”, come dimostra l’ultimo anno, quello in corso. Mettendo insieme i principali eventi di cronaca, emerge come “solo nel 2023 centinaia di migliaia di persone sono state colpite da pericoli naturali e gravi catastrofi meteorologiche in tutto il mondo”. Qualche esempio: a settembre la tempesta Daniel ha causato la morte di oltre 12mila persone in Libia e 40mila persone sono state costrette a lasciare le proprie case; nel corso dell’estate le temperature nella regione del Mediterraneo e negli Stati Uniti hanno raggiunto livelli record e le inondazioni in Emilia-Romagna hanno ucciso 14 persone e provocato 50mila sfollati.“Il cambiamento climatico continuerà ad avere un effetto enorme su molte popolazioni, soprattutto quelle delle zone costiere e pianeggianti”, avverte il documento di lavoro. Uomini, donne e bambini si metteranno in marcia, ancora di più di adesso, perché il crescente impatto del cambiamento climatico sta rendendo alcune aree sempre più inabitabili, rendendo difficile il ritorno. Ma qui c’è il nodo politico della questione. Perché già adesso gli Stati membri dell’Ue litigano sulla gestione dei flussi, insistono sulla necessità di fermare le partenze per ridurre gli sbarchi. Un approccio che sembra in contrapposizione a tendenze peggiorative, dal punto di vista climatico e le sue ricadute. Oggi il diritto prevede che la protezione internazionale possa e debba essere riconosciuta da chi scappa da guerre e persecuzioni. Il clima non è contemplato, neppure dalle convenzioni Onu. L’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, spinge per un cambio di rotta e magari anche un nuovo trattato.Il Green Deal europeo riconosce che i cambiamenti climatici sono una delle cause che alimentano i fenomeni migratori, ma si limita a spostare l’accento sull’investimento in sostenibilità nei Paesi terzi. L’Europa ha già preso coscienza del fenomeno, ma non ha il coraggio, ancora, di introdurre una definizione giuridica di ‘rifugiato climatico’. Farlo vorrebbe dire aprire porti e porte dell’Ue.
    Un’analisi del centro studi e ricerca del Parlamento europeo torna su un tema noto e sempre più una sfida per i Ventisette. Nello scenario 1,2 miliardi di persone sfollate entro il 2050 a causa di minacce ecologiche

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    A Granada i leader Ue hanno iniziato a discutere dell’agenda strategica per l’allargamento e le riforme interne

    Bruxelles – È un punto di partenza, almeno per i leader dei 27 Paesi membri Ue. Tra i corposi contorni della crisi energetica, della politica di migrazione e asilo e della competitività economica, il piatto forte del Consiglio Europeo informale andato in scena oggi (6 ottobre) a Granada è stato il confronto sul futuro allargamento Ue e sulle riforme interne all’Unione per preparsi ad accogliere nuovi membri (fino a 10, quanti sono i Paesi che almeno hanno fatto richiesta di aderire). “Quello di oggi è il punto di inizio di un’agenda strategica basata su tre punti“, ha rivendicato con orgoglio il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel: “Le nostre priorità future, come decideremo insieme e come pagheremo per le iniziative”.I capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri Ue e i leader delle istituzioni comunitarie al Consiglio Europeo informale di Granada (6 ottobre 2023)In altre parole, dopo aver salutato i partner arrivati a Granada ieri (5 ottobre) per il terzo vertice della Comunità Politica Europea, i Ventisette si sono ritrovati da soli a discutere in modo coerente “per la prima volta a così alto livello” di cosa sarà l’Unione Europea del futuro: prospettive dell’allargamento Ue, graduale abbandono dell’unanimità in Consiglio e distribuzione dei fondi del budget comunitario nello scenario di un’Unione a 32 (con i candidati che hanno già avviato i negoziati di adesione), a 35 (con anche quelli che hanno ricevuto lo status di Paese candidato) o 37 (con tutti dentro, compresi Kosovo e Georgia). “Allargamento significa che i candidati hanno riforme da fare e dal nostro lato che dobbiamo prepararci”, ha puntualizzato Michel. Come si legge nella dichiarazione di Granada, l’allargamento Ue “è un motore per migliorare le condizioni economiche e sociali dei cittadini europei, ridurre le disparità tra i Paesi e promuovere i valori su cui si fonda l’Unione” e, in vista di una nuova fase, “gli aspiranti membri devono intensificare i loro sforzi di riforma, in particolare nel settore dello Stato di diritto”, e “parallelamente l’Unione deve porre le basi e le riforme interne necessarie“.Rieccheggia nella Dichiarazione di Granada l’eco della recente proposta franco-tedesca per adeguare l’Unione Europea a un suo futuro allargamento, che costituisce al momento la base di partenza più dettagliata e approfondita per le discussioni tra i leader. Il viaggio è cominciato oggi in Spagna e come tappa decisiva per un aggiornamento si può già segnare in calendario l’estate 2024, quando “sotto presidenza belga” del Consiglio dell’Ue (prima del primo luglio, dunque) saranno presentati “degli orientamenti” per “identificare e convergere” su obiettivi e progressi di breve e medio termine, ha precisato ancora Michel. A proposito di date, nonostante lo scetticismo della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, il numero uno del Consiglio ha rivendicato l’utilità di fornire una scadenza per “essere pronti” all’allargamento Ue: “Il 2030 è condiviso da molti Stati membri perché è un incoraggiamento, abbiamo visto troppe procrastinazioni negli ultimi 20 anni”.A proposito di ciò che la Commissione Europea sta facendo a riguardo, la presidente von der Leyen ha messo in chiaro a Granada che “lavoreremo a diverse revisioni delle politiche in diversi campi all’interno dei Trattati“, sia per quanto riguarda “i compiti che devono fare i Paesi candidati, sia quelli che dobbiamo fare noi come Unione “Europea”. È centrale il fatto che “l’esperienza dell’allargamento Ue è stata sempre estremamente vantaggiosa per entrambe le parti”, fermo restando che “coloro che vogliono aderire devono essere pronti per entrare nel Mercato unico”. Anche dalla presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, è arrivato un appello a “non lasciare indietro nessuno”, ovvero che “una volta soddisfatte tutte le condizioni con report positivi, dovremmo essere in grado di avviare i negoziati di adesione“. In attesa del Pacchetto Allargamento Ue 2023 – che sarà pubblicato l’8 novembre dalla Commissione – anche l’Unione stessa deve “avviare un dialogo per chiederci cosa dobbiamo fare per riformarci”, ha esortato Metsola: “Ciò che funziona attualmente per i Ventisette, non funzionerà per i 32, 33 o 35” futuri Paesi membri. Sulla stessa linea il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, che ha puntato il dito soprattutto contro il processo decisionale interno: “Abbiamo cercato di chiarire che in politica estera o in politica fiscale non può sempre esserci unanimità, dobbiamo anche essere in grado di prendere decisioni a maggioranza qualificata”.Il vertice di Granada oltre l’allargamento UeIn un vertice in cui Polonia e Ungheria hanno posto il veto sull’inserire nel testo congiunto il capitolo sulla migrazione – pubblicato separatamente come una striminzita ‘dichiarazione del presidente del Consiglio Europeo’, esattamente come successo al vertice di giugno – i 27 leader hanno dato il via libera a un documento molto generico, a partire dalla questione Ucraina: “Abbiamo confermato che il futuro dei nostri aspiranti membri e dei loro cittadini è all’interno dell’Unione Europea“, anche se il premier ungherese, Viktor Orbán, ha sollevato alcuni dubbi (“non è mai successo un allargamento con un Paese in guerra, non sappiamo quali sono i confini veri”). Allo stesso modo i Ventisette promettono che “rafforzeremo la nostra preparazione alla difesa e investiremo nelle capacità sviluppando la nostra base tecnologica e industriale” a partire da “mobilità militare, resilienza nello spazio e contrasto alle minacce cibernetiche e ibride e alla manipolazione delle informazioni straniere”.Da sinistra: il primo ministro spagnolo e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Pedro Sánchez, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (6 ottobre 2023)Non più incisivo il capitolo sulla competitività. “Lavoreremo sulla nostra resilienza e sulla nostra competitività globale a lungo termine, assicurandoci che l’Ue abbia tutti gli strumenti necessari per garantire una crescita sostenibile e inclusiva e una leadership globale in questo decennio cruciale“, si legge nel testo, che parla di “affrontare le vulnerabilità e rafforzare la nostra preparazione alle crisi” in particolare “nel contesto dei crescenti rischi climatici e ambientali e delle tensioni geopolitiche”. Con l’obiettivo di “garantire la sostenibilità del nostro modello economico, senza lasciare indietro nessuno“, il lavoro si concentrerà su “efficienza energetica e delle risorse, circolarità, decarbonizzazione, resilienza alle catastrofi naturali e adattamento ai cambiamenti climatici”. La questione riguarda anche il tema dell’energia: “Garantiremo l’accesso a prezzi accessibili, aumenteremo la nostra sovranità e ridurremo le dipendenze esterne in altri settori chiave” in cui l’Unione “deve costruire un livello sufficiente di capacità per garantire il suo benessere economico e sociale”. Si tratta di “tecnologie digitali e a zero emissioni, farmaci, materie prime essenziali e agricoltura sostenibile“, specifica la dichiarazione, che ribadisce la necessità di “rafforzare la nostra posizione di potenza industriale, tecnologica e commerciale”.
    Al vertice informale i capi di Stato e di governo si sono confrontati su “priorità future, come decideremo insieme e come pagheremo”, ha spiegato il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel. In arrivo nell’estate 2024 “orientamenti” su obiettivi e progressi di breve/medio termine

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    Oltre il gas, Bruxelles guarda all’Algeria per l’idrogeno verde e le emissioni di metano

    Bruxelles – Non solo gas, ma per Bruxelles la partnership con l’Algeria passa anche per il metano e per l’idrogeno rinnovabile. Si è chiuso nel pomeriggio di oggi (5 ottobre) a Bruxelles il quinto Dialogo energetico tra Unione europea e Algeria, l’occasione per la Commissione europea di guardare oltre la cooperazione con il Paese africano.Rispetto allo scorso anno nel pieno della crisi energetica con la Russia, la riunione ad alto livello ha preso le mosse questa volta in un contesto molto diverso, dando l’occasione ai due partner per riflettere su come approfondire la partnership anche oltre il gas. Dopo la decisione di ridurre gradualmente le importazioni di gas dalla Russia con l’inizio della guerra in Ucraina, l’Algeria è diventata il secondo fornitore di gas all’Ue (prima della guerra era il terzo, dopo la Norvegia). “L’Algeria è stata e continua ad essere un importante e affidabile fornitore di energia per l’Ue. L’anno scorso è stato un partner fondamentale per la sicurezza delle nostre forniture di gas ed è il secondo più grande fornitore di gas per l’Unione europea”, ha ricordato Simson, precisando che oggi durante la riunione di alto livello si è “discusso dell’evoluzione della situazione del mercato del gas e dello scenario a breve e medio termine della domanda di gas in Europa”.In conferenza stampa al fianco del ministro algerino dell’Energia e delle Miniere, Mohamed Arkab, la commissaria estone ha poi puntualizzato che il focus delle discussioni non è stato solo il gas. Prende forma l’idea di dare vita a una partnership sull’idrogeno rinnovabile. “Abbiamo concordato oggi di lavorare a una partnership tra Ue e Algeria dedicata all’idrogeno per sviluppare produzione, consumo e commercio di idrogeno rinnovabile che sarà centrale per decarbonizzare i nostri sistemi energetici”, ha confermato Simson. E per raggiungere gli obiettivi il prossimo anno sarà decisivo per attuare queste ambizioni. “Per prima cosa, riuniremo insieme i portatori di interesse algerini e europei per mettere a punto una valutazione per questa partnership. Parallelamente, studieremo la fattibilità di un primo progetto su larga scala per la produzione di idrogeno rinnovabile e la possibile esportazione in Europa”, ha anticipato ancora Simson.Nella dichiarazione congiunta pubblicata al termine della riunione si legge che Simson e l’omologo algerino Arkab “hanno convenuto che esiste un eccellente potenziale per un partenariato fruttuoso e reciprocamente vantaggioso sull’idrogeno rinnovabile e si sono impegnati a intensificare la cooperazione in questo campo”. L’altra area di cooperazione a cui lavora la Commissione europea è quella della riduzione delle emissioni di metano in particolare nell’industria del petrolio e del gas e hanno concordato di lavorare insieme per promuovere il recupero e la commercializzazione del metano che altrimenti verrebbe disperso nell’atmosfera. “Ciò comporterà vantaggi reciproci in termini di mitigazione del cambiamento climatico, migliore redditività dell’industria del gas algerina e maggiore potenziale di fornitura aggiuntiva all’Unione europea”, si legge nella nota in comune.
    Si è chiuso a Bruxelles il quinto Dialogo energetico tra Unione europea e Algeria, l’occasione per la Commissione europea di guardare oltre la cooperazione sul gas con il Paese africano. Prossimo anno sarà decisivo per la partnership sull’idrogeno pulito

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    In Nagorno-Karabakh “pulizia etnica”, Parlamento Ue per la linea dura contro Azerbaijan

    Bruxelles – Con l’Azerbaijan, ma non con questo Azerbaijan. Il Parlamento europeo censura l’operato di Baku nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, lo accusa di “pulizia etnica” e invia un forte segnale politico di rottura. Nella risoluzione che l’Aula approva a larghissima maggioranza (491 voti favorevoli, 9 contrari e 36 astensioni) si chiede a Commissione e Stati membri di rivedere completamente le relazioni bilaterali con il Paese del Caucaso. Stop alla concessione agevolata dei visti, sanzioni ai funzionati azeri, stop agli acquisti di gas. Una risposta ‘stile Russia’, dura, come quella adottata dall’Ue per rispondere alle manovre militare del Cremlino in Ucraina.Il voto di Strasburgo si inserisce sia nel conflitto russo-ucraino, sia ancora di più con la riunione della Comunità politica europea in corso a Granada, in Spagna, a cui né la Turchia né l’Azerbaijan hanno deciso di partecipare. La questione del conflitto del Nagorno-Karabakh doveva essere uno dei temi oggetto di confronto politico e diplomatico, ma l’Azerbaijan e il suo alleato storico turco hanno deciso di lasciare l’Armenia da sola a un tavolo privo di partecipanti.La censura per l’Azerbaijan e il suo presidente Ilham Aliyev è però di quelle difficili da digerire, visto che la risoluzione dell’Aula del Parlamento europeo, di fronte a “oltre 100 mila armeni che sono stati costretti a fuggire dall’enclave in seguito all’ultima offensiva”, decreta che “l’attuale situazione equivale a una pulizia etnica“.Per questa ragione il Parlamento invita l’Ue ad adottare “sanzioni mirate” contro i funzionari governativi di Baku, poiché “responsabili di molteplici violazioni del cessate il fuoco oltre a violazioni dei diritti umani nel Nagorno-Karabakh“. Ma soprattutto si invita ad una “una revisione globale delle relazioni” con il Paese del Caucaso. Perché, denunciano gli europarlamentari, sviluppare un partenariato strategico con l’Azerbaigian, “che viola gravemente” il diritto internazionale, gli impegni internazionali e “che ha una situazione allarmante in materia di diritti umani, è incompatibile con gli obiettivi della politica estera dell’Ue“. Per cui l’invito è quello di “sospendere qualsiasi negoziato sul rinnovo del partenariato con Baku e, se la situazione non dovesse migliorare, prendere in considerazione la possibilità di sospendere l’applicazione dell’accordo di facilitazione per l’ottenimento dei visti europei con l’Azerbaigian”.L’Eurocamera prende una posizione molto netta e dura. Non si mette in discussione la territorialità dell’area contesa, visto che nessuno Stato membro dell’Ue l’ha mai riconosciuto come extraclave armena. Si condannano l’attacco e l’uso sproporzionato della forza, anche dopo le operazioni militari vere e proprie. Per questo il Parlamento invita l’Ue anche a “ridurre la sua dipendenza dalle importazioni di gas azero” e considerare l’ipotesi di sganciarsi completamente dal fornitore azero. “In caso di aggressione militare o di attacchi ibridi significativi contro l’Armenia”, i deputati si dichiarano “a favore di una sospensione completa delle importazioni da parte dell’Ue di petrolio e gas azeri“.C’è una parte di Unione europea che dunque mostra i muscoli, ma non è chiaro quanto la risoluzione, non legislativa e dunque non vincolante, troverà seguito. Perché da una parte sconfessa l’operato della Commissione per sottrarre il club dei Ventisette dalla morsa di Gazprom e raddoppiare l’import di gas azero al 2027. In secondo luogo rischia di esporre l’Ue a nuovi shock energetici. Senza più gas russo e, eventualmente, in prospettiva, senza gas azero, risulta difficile capire come potrebbe l’Unione europea a soddisfare il proprio fabbisogno.E’ qui che lo strappo tra Ue e Azerbaijan si collega alla guerra in Ucraina. Baku era vista come elemento centrale o quantomeno portante di una strategia volta a indebolire la Russia. Lo scontro diplomatico non gioca a favore degli europei. Anche perché Ilham Aliyev fin qui non ha mai smesso di sostenere Vladimir Putin. L’Azerbaijan vende il suo gas agli europei e poi, con i soldi degli europei, acquista gas russo per rispondere ai fabbisogni interni e sopperire all’aumento delle vendite.fonte foto: https://agsc.az/Il voto di oggi serve come incentivo a chiudere ogni residuo legame con la Russia. Perché a dire il vero, il gas azero arricchisce comunque la Russia. Shah Deniz, il più grande giacimento di gas naturale dell’Azerbaijan, è gestito da Azerbaijan Gas Supply Company Limited (AGSC), consorzio di cui fa parte Lukoil.Il voto del Parlamento apre però un altro fronte, quello dei mai semplici rapporti con Ankara. Si vorrebbe operare sulla Turchia un convincimento a non incoraggiare ulteriormente l’Azerbaijan. Ma come sempre in questi casi i turchi potrebbero chiedere una contropartita. Il Parlamento dell’Ue, con un voto sia pur comprensibile, si espone a rischio geo-politici non indifferenti.
    L’Aula approva una risoluzione che va allo scontro con Baku. Si chiedono stop a visti agevolati e acquisti di gas, e sanzioni ai funzionati azeri. Una prova di forza che apre un nuova sfida geopolitica

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    Il terzo vertice della Comunità Politica Europea all’ombra delle tensioni Armenia-Azerbaigian. E di due assenze pesanti

    Bruxelles – Quello che doveva essere un forum di confronto e dialogo tra i leader dei Paesi Ue ed extra-Ue per evitare escalation di tensione non desiderate tra i suoi membri, si sta arenando già dopo un anno dalla sua inaugurazione. Il terzo vertice della Comunità Politica Europea è andato in scena a Granada (Spagna) con le solite enfatiche promesse di grandezza, ma a risaltare davvero sono state le assenze e le discussioni su uno dei temi che la diplomazia europea non sta riuscendo in nessun modo a risolvere: il conflitto congelato tra Armenia e Azerbaigian. Le assenze sono state quelle del presidente azero, Ilham Aliyev, e del suo alleato più stretto, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che con la loro diserzione hanno inviato un messaggio chiaro agli altri 45 partecipanti del vertice di Granada: la Comunità Politica Europea non è un luogo gradito dove discutere di controversie tra gli Stati partecipanti, a maggior ragione dopo interventi armati.Da sinistra: il cancelliere della Germania, Olaf Scholz, il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il presidente della Francia, Emmanuel Macron, al vertice della Comunità Politica Europea a Granada il 5 ottobre 2023 (credits: Ludovic Marin / Afp)“Non potremo discutere di una tragedia come la fuga di oltre centomila persone e di un attacco militare che condanniamo, perché né l’Azerbaigian né la Turchia sono qui”, è stata l’accusa lanciata dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, facendo ingresso al vertice di Granada: “Spero che a Bruxelles ci possano essere riunioni di mediazione tra Armenia e Azerbaigian, soprattutto per evitare che il conflitto peggiori”. Solo nelle ultime due settimane oltre 100 mila profughi hanno lasciato l’enclave armena in Azerbaigian per il timore di una pulizia etnica dopo la conquista della regione separatista da parte dell’esercito azero. “Siamo scioccati dalla decisione dell’Azerbaigian di utilizzare la forza militare” in Nagorno-Karabakh, ha rincarato la dose il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, a margine della riunione di Granada, facendo sapere di aver avuto una conversazione telefonica con il presidente Aliyev martedì (3 ottobre) in cui gli ha comunicato che Bruxelles aiuterà l’Armenia “ad affrontare le conseguenze di questa operazione militare”. Visibilmente indispettito per l’assenza del leader azero a Granada dopo il lavoro negli ultimi giorni “per preparare un incontro” con il premier armeno, Nikol Pashinyan, con “idee su stabilità e serenità nell’affrontare le conseguenze umanitarie”, Michel ha rifiutato di commentare pubblicamente la decisione: “Ho avuto occasione di dirgli direttamente quali sono i miei sentimenti a riguardo”.Proprio il presidente del Consiglio Europeo ha sottolineato l’importanza – anche se per il momento fallimentare – della diplomazia europea nel Caucaso meridionale. “Prima degli sforzi di mediazione l’Ue non era molto presente nella regione, ma poi abbiamo fatto progressi con risultati tangibili, come sulla liberazione dei prigionieri, sulla definizione dei confini e sulla connettività”. L’Unione è una “mediatrice naturale, perché non abbiamo un’agenda nascosta, è chiarissima: prosperità, sicurezza, pace” e per questo motivo Bruxelles spinge con forza per “ulteriori sforzi diplomatici”. A partire da quello a Granada con il premier armeno, l’unico delle parti coinvolte nel conflitto congelato a essere presente al vertice della Comunità Politica Europea, che si è intrattenuto in un quartetto al termine della sessione plenaria con Michel, il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, e il presidente francese, Emmanuel Macron. All’appello mancava solo il presidente azero Aliyev, che non ha voluto replicare il quintetto di Praga dello scorso anno.Il supporto Ue all’ArmeniaIn questo momento per l’Unione è prioritario supportare l’Armenia di fronte a un afflusso di profughi di dimensioni enormi rispetto alla popolazione (oltre 100 mila persone in fuga dal Nagorno-Karabakh su un totale di due milioni di cittadini armeni). Ecco perché anche la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha voluto un bilaterale con il premier Pashinyan per illustrargli le ulteriori misure di sostegno di emergenza e a lungo termine con cui “l’Ue sosterrà fortemente l’Armenia” parallelamente al “dialogo con l’Azerbaigian”. L’assistenza umanitaria che ha toccato i 5,2 milioni di euro “sarà raddoppiata” a 10,4 milioni e sarà il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, a valutare domani (6 ottobre) in Armenia la situazione, per discutere di “un ulteriore sostegno mirato” attraverso il Meccanismo di protezione civile Ue. A questo si aggiungono 15 milioni di euro come finanziamenti nell’ambito dei programmi annuali per l’Armenia, “che potranno essere utilizzati come sostegno al bilancio dello Stato per far fronte alle esigenze socio-economiche e all’acquisto di cibo e carburante”.Il programma EU4Peace sarà integrato con altri 800 mila euro per sostenere l’assistenza d’emergenza, ma anche le misure di rafforzamento dei media “noti per la loro informazione equilibrata”. Come assistenza tecnica la Commissione Ue discuterà con le autorità armene sulla mobilitazione di fondi dai programmi Taiex e Twinning, “per affrontare questioni come la sicurezza aerea e la sicurezza nucleare”. E infine a Bruxelles si sta lavorando sia sul Piano economico e di investimento da 2,6 miliardi di euro di investimenti per le infrastrutture (che al momento ha visto l’erogazione di 413 milioni), sia sulla partecipazione di Yerevan a progetti regionali come il cavo elettrico del Mar Nero con Azerbaigian, Georgia, Ungheria e Romania.Il conflitto in Nagorno-KarabakhTra Armenia e Azerbaigian è dal 1992 che va avanti una guerra congelata, con scoppi di violenze armate ricorrenti incentrate nella regione separatista del Nagorno-Karabakh. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh. Dopo un anno e mezzo la situazione è tornata a scaldarsi a causa di alcune sparatorie alla frontiera a fine maggio 2022, proseguite parallelamente ai colloqui di alto livello stimolati dal presidente del Consiglio Ue, fino alla ripresa delle ostilità tra Armenia e Azerbaigian a settembre, con reciproche accuse di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue, con 40 esperti dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin, mettendo in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile. Il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, ma la tensione è tornata a crescere il 23 aprile dopo la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco. Da Bruxelles è arrivata la condanna dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima della ripresa delle discussioni a maggio e un nuovo round di negoziati di alto livello il 15 luglio tra Michel, il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev.L’alternarsi di sforzi diplomatici e tensioni sul campo ha messo in pericolo anche gli osservatori Ue presenti dallo scorso 20 febbraio in Armenia per contribuire alla stabilità nelle zone di confine. Il 15 agosto una pattuglia della missione Euma è rimasta coinvolta in una sparatoria dai contorni non meglio definiti (entrambe le parti, armena e azera, si sono accusate a vicenda), senza nessun ferito. Solo un mese più tardi è sembrato che la situazione potesse pian piano stabilizzarsi, con il passaggio del primo convoglio con aiuti internazionali il 12 settembre attraverso la rotta Ağdam-Askeran e poi lo sblocco del corridoio di Lachin il 18 settembre dopo quasi nove mesi di crisi umanitaria. Neanche 24 ore dopo sono però iniziati i bombardamenti azeri contro l’enclave separatista che, per la sproporzione di forze in campo, ha determinato il cessate il fuoco e la resa fulminea dei militari di Stepanakert
    Il presidente azero, Ilham Aliyev, e il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, hanno disertato la riunione di Granada in cui è stata centrale la questione dell’intervento armato in Nagorno-Karabakh. L’Ue annuncia il raddoppio del budget per l’assistenza umanitaria a Yerevan

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    Ucraina, i dubbi della Corte dei conti Ue sull’assistenza da 50 miliardi per la ricostruzione

    Bruxelles – C’era e c’è la necessità di sostenere l‘Ucraina, perché il Paese “ha continuato a subire enormi danni a causa della guerra di aggressione della Russia”, ma in questa corsa alla solidarietà e al sostegno probabilmente si è agito troppo in fretta col rischio di aver promesso qualcosa che difficilmente si potrà mantenere. Questo il giudizio della Corte dei conti europea nella valutazione dell’istituzione del Fondo per l’Ucraina da 50 miliardi di euro. I conti, in sostanza, non tornano.I revisori Ue di Lussemburgo ricordano che la valutazione rapida dei danni e dei bisogni dell’Ucraina condotta dalla Banca mondiale stima che il fabbisogno totale di ricostruzione sarà equivalente a 384 miliardi di euro nei prossimi 10 anni (2023-2033), di cui 142 miliardi di euro per il periodo 2023-2027. Inoltre, il 30 marzo 2023 il Fondo monetario internazionale “ha stimato che il deficit di finanziamento dello Stato fino al 2027 avrebbe raggiunto i 75,1 miliardi di euro e ha concordato con l’Ucraina un programma quadriennale di 14,4 miliardi di euro per sostenere la stabilità e la ripresa economica”. Ciò si traduce in un gap finanziario residuo di circa 60,7 miliardi di euro. E’ qui che si pongono i problemi. Non è chiaro se e come questo ‘buco’ di bilancio potrò essere colmato. Secondo la Commissione, il “fabbisogno di ripresa rapida” dell’Ucraina, pari a circa 50 miliardi di euro, porta il deficit di finanziamento totale a 110 miliardi di euro entro il 2027. Per la Corte dei conti dell’Ue, “a causa della situazione in rapida evoluzione in Ucraina, queste stime rappresentano una valutazione delle esigenze in un momento specifico , e sono soggetti a rivalutazione“.Con i 50 miliardi di euro previsti per lo strumento per l’Ucraina, l’Ue da sola coprirebbe il 45 per cento di questo deficit di finanziamento da 110 miliardi di euro entro il 2027. Ma mancano studi e documentazioni che l’esecutivo comunitario non ha prodotto. Ha assunto impegni e basta. Come spiega il rapporto della Corte dei conti dell’Ue, “in assenza di una valutazione d’impatto e di un documento analitico che presenti le prove alla base della proposta e le stime dei costi, non è stato possibile valutare se il contributo previsto di 50 miliardi di euro da parte dello strumento per l’Ucraina sia adeguato rispetto al Un deficit di finanziamento di 110 miliardi di euro, ovvero rispetto al fabbisogno complessivo di ricostruzione di 142 miliardi di euro per il periodo 2023-2027″. Ma non finisce qui. Perché fin qui il grosso degli aiuti sono militari. Nella proposta per un Fondo per l’Ucraina “non risulta inoltre chiaro se e in che modo altri strumenti dell’UE (aiuti umanitari, assistenza agli sfollati ucraini e assistenza militare) e/o altri donatori consentirebbero di coprire le restanti esigenze”. Inoltre, in questo suo esercizio, la Commissione ha affermato che il contributo dello strumento per l’Ucraina tiene conto della capacità di assorbimento del paese. Tuttavia, “la Commissione non ha fornito un calcolo della capacità di assorbimento del paese, né un’analisi di come tale capacità è stata valutata“.Nei confronti dell’Ucraina, dunque, si stanno riconoscendo troppe concessioni. La situazione in atto sembra aver lasciato campo aperto a canali troppo preferenziali. Da qui l’invito a considerare l’ipotesi di “limitare i finanziamenti eccezionali per un periodo determinato (ove concesso), al fine di rivalutare se la situazione in Ucraina lo giustifichi ancora”. C’è il sospetto che l’Ue si stia esponendo troppo. Tanto è vero che nel sostegno all’Ucraina, per ciò che riguarda i prestiti che Kiev dovrà rimborsare, si chiede anche di “integrare la garanzia del ‘margine di manovra’ con garanzie aggiuntive, quali accantonamenti, per coprire un default improvviso e inaspettato da parte dell’Ucraina”. In questo si esorta la Commissione a “rendere pubblica un’analisi del ‘margine di manovra’ nella prossima relazione annuale sulle passività potenziali
    L’Europa da sola potrebbe soddisfare solo il 45 per cento dei bisogni di Kiev, e la Commissione non ha prodotto valutazioni e documentazioni utili. L’invito alle correzioni del caso

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    Sul Memorandum Ue-Tunisia si consuma un altro scontro tra Ursula von der Leyen e Charles Michel

    Bruxelles – L’intesa siglata a luglio tra la Commissione europea e il governo tunisino di Kais Saied continua a creare dissapori tra le istituzioni comunitarie. Dopo gli attacchi dell’Eurocamera e del capo della diplomazia europea, Josep Borrell, si è sbottonato anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel.
    L’ultimo capitolo della saga si è consumato dopo che il presidente tunisino ha definito la prima tranche da 60 milioni di euro versata da Bruxelles come “un’elemosina”, annunciando di volerla rifiutare. Decisione che fa seguito in realtà a diversi segnali allarmanti già lanciati da Saied, che ha rimandato un incontro di alto livello con la Commissione europea sull’attuazione del Memorandum e ha impedito l’ingresso sul territorio nazionale ad una delegazione dell’Eurocamera. Ecco allora che Michel, in un’intervista alla televisione spagnola Rtve, ha rilanciato la polemica: “È importante seguire le procedure e assicurarsi che gli Stati membri diano il loro mandato alla Commissione e poi gli Stati membri, durante questo processo, dicano sì o no, a ciò che la Commissione ha negoziato: questa è una lezione chiara, il coinvolgimento degli Stati membri è fondamentale per il suo successo”, ha dichiarato il leader Ue.
    Da sx: Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorgia Meloni alla firma del Memorandum d’Intesa Ue-Tunisia, 16 luglio 2023
    Già messa sotto accusa per non aver coinvolto i 27 nelle trattative dall’Alto rappresentante Borrell, la Commissione ha negato in modo seccato l’uscita di Michel. “Abbiamo visto queste dichiarazioni del presidente del Consiglio europeo, dal nostro punto di vista sono parzialmente imprecise e non rafforzano in nessun modo l’abilità dell’Ue di agire in modo efficace nell’affrontare la difficile questione della migrazione”, ha dichiarato oggi (4 ottobre) la portavoce dell’esecutivo von der Leyen, Arianna Podestà.
    Secondo la ricostruzione della portavoce, prima del 16 luglio (data della firma del memorandum) la Commissione avrebbe “riferito ripetutamente agli ambasciatori degli Stati membri e al Consiglio sulle principali caratteristiche dell’accordo e sui progressi fatti nei negoziati”.
    Podestà ha rivendicato inoltre la libertà della Commissione “di negoziare accordi che non sono vincolanti in base al diritto internazionale, come quello con la Tunisia”. Un accordo i cui negoziati “sono politicamente basati su conclusioni esplicite del Consiglio europeo“. La portavoce è infine passata al contrattacco, dichiarando che “dopo la conclusione dell’accordo diversi capi di governo hanno esplicitamente apprezzato il risultato e incoraggiato la Commissione a concludere altri accordi seguendo queste linee”.
    Dalla sua trincea la Commissione europea procede a testa bassa e – nonostante il rifiuto dei contributi finanziari annunciato da Saied – ha confermato di aver finalizzato “il pagamento di 60 milioni di euro di sussidi alla Tunisia dopo la richiesta del governo tunisino arrivata il 31 agosto”. Un’assistenza che, come ribadito dalla portavoce Ana Pisonero, non ha nulla a che vedere con il Memorandum, ma che rientra in un pacchetto concordato precedentemente nell’ambito della ripresa post-pandemica. Fonti europee rivelano tuttavia che Saied “ritiene che il volume delle risorse mobilitate non sia adeguato e non il linea con quanto concordato”.
    In difesa dell’accordo siglato da von der Leyen sono intervenuti oggi dall’emiciclo di Strasburgo il vicepresidente della Commissione europea, Margaritis Schinas, e il leader del Partito Popolare europeo – gruppo in cui siede la stessa von der Leyen – Manfred Weber. Per quest’ultimo il memorandum con la Tunisia, “anche se difficile da applicare”, è “un modello per altre intese con i Paesi dell’Africa settentrionale”, mentre Schinas ha assicurato che la sua attuazione “è stata accelerata, anche per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani”.
    Il memorandum con la Tunisia continua a non piacere neppure in Parlamento, dove una buona parte dell’Aula lo ha criticato anche oggi nel corso del dibattito. Ma, domanda l’esponente del Ppe Jeroen Lenaers, “qual è l’alternativa?”. Un intervento che dà il senso della situazione.

    Dopo il rifiuto di Saied alla tranche da 60 milioni di assistenza per la ripresa post-Covid, il presidente del Consiglio europeo ha attaccato la Commissione Ue per non aver coinvolto i 27 nei negoziati. Piccata la risposta dell’Esecutivo: “Dichiarazioni imprecise che non aiutano”

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    Da Strasburgo il presidente ceco incalza i governi sull’allargamento: “Il successo dei Paesi candidati sarà anche nostro”

    Bruxelles – “L’anno prossimo segnerà il ventesimo anniversario dell’adesione all’Ue di dieci Stati membri, tra cui la Repubblica ceca. In un certo senso, abbiamo recentemente raggiunto la maggiore età come membri della famiglia europea. Non siamo né nuovi né inesperti”, ha ricordato il presidente della Repubblica Ceca Petr Pavel, durante la seduta plenaria del Parlamento europeo di oggi (4ottobre) a Strasburgo.
    Potrebbe essere di questi giorni, secondo Politico, la decisione della Commissione di iniziare i colloqui di adesione dell’Ucraina all’Unione europea a fine anno, a conferma del fatto che il tema dell’allargamento è molto discusso in questo periodo. Proprio il progetto dell’Unione europea di allargarsi ad altri Paesi europei è stato uno dei temi chiave del discorso di Pavel all’Eurocamera: “L’allargamento dovrebbe essere visto come un’opportunità per ricalibrare l’idea europea. Dovrebbe essere vista come un’opportunità per realizzare un’Unione più unificata ed efficiente. Un’Unione che resta ambiziosa e competitiva. Un’Unione più flessibile e proattiva. Un’Unione in grado di reagire rapidamente quando necessario. Un’Unione di cui siamo tutti orgogliosi”.
    Ed è proprio l’Ucraina a fornire al presidente ceco l’esempio per dimostrare l’importanza dell’allargamento, ricordando come aprire le porte dell’Ue alle zone a est può significare anche più sicurezza per i cittadini comunitari, come sta dimostrando l’invasione russa: “Ora è più evidente che mai che la garanzia della pace non può limitarsi solo ai nostri confini. Sono infatti convinto che tutti i paesi dei Balcani occidentali e del Trio associato debbano perseguire una piena prospettiva europea. Non è solo un nostro dovere morale. Nel lungo termine, si tratta di un investimento nella sicurezza e nella resilienza dell’Europa e dei suoi cittadini. Abbiamo già perso troppo tempo. È nel nostro interesse che i paesi candidati abbiano successo. Il loro successo sarà il nostro stesso successo“, ha aggiunto. L’allargamento è il processo che consente agli Stati di aderire all’Unione europea, dopo che questi hanno soddisfatto una serie di condizioni politiche ed economiche. Qualsiasi Stato europeo che rispetti i valori democratici dell’Unione e si impegni a promuoverli può presentare domanda di adesione all’Ue. Nel 2004 si è compiuta la più grande fase di allargamento della storia dell’Unione europea, che ha visto l’adesione di dieci Paesi: Polonia, Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Cipro e Malta.

    A vent’anni dall’ingresso della Repubbblica Ceca nell’Unione europea, Petr Pavel ha ricordato di fronte all’Eurocamera che allargare i confini ad altri Stati è “un’opportunità”