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    La Commissione Ue vuole chiarezza dall’Ungheria sul nuovo sistema di visti rapidi per russi e bielorussi

    Bruxelles – È passato appena un mese di presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea per l’Ungheria, e già Budapest ha creato non pochi problemi all’unità dell’Unione nei confronti della Russia. Perché dopo la “missione di pace” del premier ungherese, Viktor Orbán, a Mosca dall’autocrate russo, Vladimir Putin, ora Budapest preoccupa Bruxelles per il potenziale buco che può creare nell’area Schengen, da cui potrebbero penetrare spie russe e bielorusse.La commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson“Condivido le preoccupazioni espresse negli ultimi giorni in merito all’estensione del programma ‘Carta Nazionale’ ai cittadini di Russia e Bielorussia, entrato in vigore nei primissimi giorni della vostra presidenza”, è quanto messo nero su bianco dalla commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, in una lettera inviata ieri (primo agosto) al ministro degli Interni ungherese, Sándor Pintér, in cui ha voluto sottolineare come “l’estensione dell’elaborazione agevolata delle domande di permesso di soggiorno e di lavoro dei cittadini di Russia e Bielorussia potrebbe portare a un’elusione di fatto delle restrizioni imposte dall’Unione Europea”. Al centro della nuova contesa tra l’Ungheria di Orbán e la Commissione Ue c’è l’estensione ai cittadini di otto Paesi – prima era disponibile solo per quelli di Serbia e Ucraina – del programma ‘Carta Nazionale’, un sistema di visti rapidi per l’ingresso nel Paese e che consente di lavorare sul territorio nazionale ungherese per un massimo di due anni. Si tratta di un sistema più semplice rispetto al permesso di lavoro o al visto, e consente il ricongiungimento familiare.“Ci sono sempre più segnalazioni di sabotaggi e attacchi alle nostre infrastrutture critiche e altri atti ostili“, ricorda la commissaria Johansson a proposito della messa in campo di “ogni strumento disponibile per garantire la sicurezza dell’area Schengen”, tra cui la sospensione dell’accordo di facilitazione dei visti con la Russia nel settembre di due anni fa e “standard di controllo e vigilanza più elevati” per i cittadini russi in arrivo alle frontiere esterne dell’Unione. È pur sempre vero che gli Stati membri hanno la competenza per il rilascio di visti di lungo soggiorno e permessi di soggiorno, ma l’esecutivo Ue ricorda che i programmi nazionali “devono essere attentamente bilanciati per non mettere a rischio l’integrità del nostro spazio comune senza controlli alle frontiere interne e per considerare debitamente le potenziali implicazioni per la sicurezza“, senza dimenticare l’obbligo di “leale cooperazione” e di non pregiudicare “l’effetto utile delle disposizioni del diritto dell’Unione”, Schengen compreso. In questo quadro l’Ungheria (e tutti i Paesi membri Ue) devono garantire che “i cittadini russi che potrebbero rappresentare spionaggio o altre minacce alla sicurezza siano sottoposti al massimo livello di controllo“.Da sinistra: la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, e il ministro degli Interni ungherese, Sándor PintérÈ per queste ragioni che la commissaria Johansson chiede al ministro ungherese di rispondere alle domande allegate alla lettera “entro e non oltre il 19 agosto”, per fare chiarezza sul programma ‘Carta Nazionale’ e permettere all’esecutivo Ue di verificare se sia compatibile con il diritto dell’Unione o se metta a rischio il funzionamento complessivo dello spazio Schengen. “L’obbligo di valutare se gli individui che attraversano la frontiera esterna rappresentano una minaccia per l’ordine pubblico, la sicurezza interna, la salute pubblica o le relazioni internazionali è un impegno fondamentale di tutti i membri Schengen” – conclude la titolare per gli Affari interni nel gabinetto von der Leyen – e per Russia e Bielorussia include anche “la piena e leale applicazione delle misure restrittive Ue sul divieto di ingresso o transito nei territori degli Stati membri da parte di alcuni dei suoi cittadini”. Come misura estrema la Commissione Ue potrebbe sospendere lo status Schengen di un Paese (membro Ue), ma si tratterebbe di un caso senza precedenti.

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    In Medio Oriente l’Ue mette pezze dove può: via libera a un pacchetto da 500 milioni per il Libano

    Bruxelles – Prosegue lo sforzo dell’Ue per assicurare un cuscinetto di stabilità attorno alla polveriera in Medio oriente. In linea con quanto annunciato da Ursula von der Leyen durante la sua visita a Beirut lo scorso maggio, la Commissione europea ha adottato oggi (1 agosto) un pacchetto di assistenza finanziaria da 500 milioni di euro per il Libano.Si tratta di una prima sostanziosa tranche del più ampio supporto da un miliardo fino al 2027 stipulato tra Bruxelles e Beirut e auspicato dai capi di Stato e di governo dell’Ue nelle conclusioni del Consiglio europeo del 17-18 aprile, in cui l’Unione europea ha ribadito il suo forte sostegno al Libano e ha riconosciuto le “difficili circostanze che il Paese sta attraversando a livello nazionale e a causa delle tensioni regionali”. Tensioni che nel frattempo sono aumentate in modo esponenziale, per culminare nei raid a Beirut e a Teheran con cui Israele ha ucciso Fuad Shukr, uno dei comandanti di Hezbollah, e il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh.Con i 500 milioni per il biennio 2024-25, la Commissione europea spera di innescare un percorso di riforme nel Paese dei Cedri, una più fiorente attività economica e di sostenere le misure sociali per la fetta di popolazione più vulnerabile. Come annunciato da von der Leyen a maggio, in occasione dell’incontro con il primo ministro libanese Najib Mikati, il pacchetto di assistenza ha almeno altri due obiettivi prioritari: la sicurezza e la gestione dei flussi migratori e dei rifugiati nel Paese. “Sosterremo le forze armate libanesi e le forze di sicurezza generali e interne”, aveva dichiarato la leader Ue, fornendo “attrezzature, formazione e le infrastrutture necessarie per la gestione delle frontiere”. In cambio, Bruxelles “conta sulla vostra (del Libano, ndr) buona cooperazione per prevenire la migrazione illegale e combattere il traffico di migranti”.Oltre ai rifugiati provenienti dalla Siria – quasi un milione di persone, secondo i dati dell’Unhcr -, il Libano in profonda crisi economica e sociale deve affrontare l’impatto del conflitto tra Israele e Hamas a Gaza. E gli scambi di cortesie sempre più gravi tra lo Stato ebraico ed Hezbollah, l’organizzazione politica e militare filo-iraniana che controlla ampi territori del sud del Libano. In cui per altro sono presenti contingenti militari  importanti da Francia, Italia e Spagna, nell’ambito della missione di pace dell’Onu Unifil.  “Siamo profondamente preoccupati per l’instabilità della situazione nel Libano meridionale, la posta in gioco è la sicurezza del Libano e di Israele”, aveva sottolineato von der Leyen a Mikati, aggiugendo: “Anche in questo caso, le forze armate libanesi sono fondamentali e l’Unione Europea è pronta a lavorare su come rafforzarne le capacità”.

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    Con l’uccisione del leader di Hamas e il raid a Beirut, Israele innesca l’escalation in Medio Oriente. L’Ue: “No a esecuzioni extragiudiziali”

    Bruxelles – Le pareti del buco nero in cui si è infilato il Medio oriente a partire dallo scorso 7 ottobre diventano ogni giorno più umide e scivolose. In fondo, c’è lo scenario di una guerra regionale sempre più verosimile. Soprattutto dopo il doppio raid israeliano a Beirut e a Teheran, dove sono rimasti uccisi Fuad Shukr, uno dei comandanti della milizia libanese filo-iraniana Hezbollah, e il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, che si trovava nella capitale della repubblica islamica per celebrare l’insediamento del nuovo presidente iraniano.Da un lato, la risposta annunciata di Netanyahu all’attacco di Hezbollah alla cittadina drusa di Majdal Shams, nel territorio occupato israeliano delle Alture del Golan, che ha causato la morte di 12 giovani su un campetto da calcio. Dall’altra, il materializzarsi della possibilità di eliminare uno dei peggiori nemici dello Stato ebraico, che aveva reso nota la sua visita a Teheran. Le ultime decisioni militari di Israele non solo rischiano di far naufragare i già fragilissimi negoziati per il cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani – era proprio Haniyeh a condurli per conto di Hamas -, ma aprono la porta a una possibile escalation del conflitto che divampi in tutta la regione.Il campo da calcio colpito dai razzi di Hezbollah a Majdal Shams, nel territorio delle Alture del Golan annesso da Israele (Photo by Menahem Kahana / AFP)Secondo un copione già visto in questi mesi, le dichiarazioni successive ai raid israeliani non vanno assolutamente nella direzione della distensione: l’attacco “non resterà senza risposta”, ha avvertito il gruppo terrorista palestinese, mentre il primo ministro libanese, Najib Miqati, ha dichiarato che “prenderà misure” per “scoraggiare l’ostilità israeliana”. Gli occhi sono puntati soprattutto sull’Iran, che foraggia la lotta anti-israeliana di Hamas e di Hezbollah: “Il regime sionista dovrà senza dubbio affrontare una risposta dura e dolorosa da parte del potente e vasto fronte della resistenza, in particolare dell’Iran“, hanno dichiarato le Guardie rivoluzionarie in un comunicato, prima di annunciare tre giorni di lutto. Lasciando così pochissimo margine al neo-presidente riformista Masoud Pezeshkian.Gli ultimi sviluppi stanno creando scompiglio anche al quartier generale della Nato, con gli Stati Uniti che hanno confermato il loro appoggio a Israele nel caso di un conflitto regionale e la Turchia che ha reiterato la minaccia di intervenire a sostegno della causa palestinese. A Bruxelles la preoccupazione è ai massimi livelli: mentre i leader e i corpi diplomatici dei Paesi membri hanno contattato a più riprese le controparti in Libano, Israele e Iran per cercare di placare gli animi e porre fine alla spirale di violenza, il portavoce del Servizio europeo di Azione Esterna (Eeas), Peter Stano, ha chiesto “a tutte le parti di esercitare la massima moderazione e di evitare qualsiasi ulteriore escalation“.Il leader politico di Hamas, Ismael Haniyeh, a Teheran il 30/07/24 (Photo by AFP)Sull’assassinio di Haniyeh in territorio iraniano, Stano ha sottolineato che “l’Ue ha una posizione di principio che rifiuta le esecuzioni extragiudiziali e sostiene lo stato di diritto, anche nella giustizia penale internazionale“, nonostante il fatto che Hamas sia inserita “nell’elenco delle organizzazioni terroristiche e che il procuratore della Corte penale internazionale ha chiesto un mandato di arresto contro Ismail Haniyeh con varie accuse di crimini di guerra”.

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    Via al sostegno di emergenza Ue per l’Autorità palestinese, erogati i primi 150 milioni

    Bruxelles – 150 milioni di euro oggi, altri 250 tra agosto e settembre. In linea con quanto annunciato il 19 luglio nella lettera d’intenti tra Bruxelles e Ramallah, l’Unione europea ha erogato la prima tranche di sostegno finanziario d’emergenza a breve termine all’Autorità nazionale palestinese (Anp). Un’assistenza vitale per affrontare le esigenze finanziarie più urgenti dell’Anp e fondamentale per sostenere il programma di riforme concordato con Bruxelles.La priorità è far fronte al blocco delle entrate fiscali dell’Anp imposto da Israele, che sta paralizzando la macchina pubblica in Cisgiordania e nei territori palestinesi occupati. Questa prima rata include 58 milioni di euro in sovvenzioni per pagare gli stipendi e le pensioni dei dipendenti pubblici e sostenere le famiglie più vulnerabili. I restanti 92 milioni di euro sono forniti dalla Banca europea per gli investimenti (Bei) all’Autorità monetaria palestinese attraverso una linea di credito dedicata.I successivi pagamenti di questo sostegno finanziario a breve termine dovrebbero seguire nei mesi di agosto e settembre, a seconda dei progressi nell’attuazione dell’agenda di riforme da parte dell’Anp. “La nostra assistenza d’emergenza di 400 milioni di euro sostiene un programma di riforme sostanziali e apre la strada alla ripresa e alla ricostruzione di Gaza”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, secondo cui “un’Autorità palestinese forte e riformata è fondamentale per il nostro obiettivo comune di una soluzione a due Stati“.Il primo ministro dell’Autorità palestinese, Mohammed Mustafa, a Nablus, in Cisgiordania (Photo by Jaafar ASHTIYEH / AFP)Secondo l’intesa siglata il 19 luglio, entro fine agosto il governo di Mohammed Mustafa dovrà riuscire a razionalizzare la spesa pubblica, riducendo le spese ricorrenti di almeno il 5 per cento rispetto all’anno precedente, istituire l’età pensionabile per tutti i lavoratori della Cisgiordania, pubblicare una nuova legge sulla protezione sociale e preparare un piano di riforma dell’istruzione. Tra le azioni preliminari concordate, figura anche l’approvazione di una legge sui pagamenti elettronici e il miglioramento dell’accesso alla giustizia e ai meccanismi di reclamo per i cittadini nei confronti degli enti governativi.A quel punto, all’inizio di settembre, la Commissione presenterà una proposta legislativa per un programma globale per la ripresa e la resilienza della Palestina, che sarà concepito per aiutare l’Autorità Palestinese a raggiungere l’equilibrio di bilancio entro il 2026 e garantire la sostenibilità finanziaria a lungo termine. Sempre con il vincolo dell’attuazione delle tappe di riforma concordate, per fare in modo che l’embrione statale palestinese diventi una vera e propria macchina pubblica e un interlocutore stabile e credibile nello sforzo diplomatico verso la creazione di uno Stato di Palestina.

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    Maduro riconfermato presidente del Venezuela tra i dubbi della comunità internazionale

    Bruxelles – Nicolas Maduro sarà ancora presidente della Repubblica del Venezuela. In carica dal 2013, è uscito vincitore dall’appuntamento elettorale di ieri (28 luglio), conquistando il 51,4 per cento dei voti contro il 44,2 di Edmundo Gonzalez Urrutia, candidato per l’opposizione. Un esito contro tutte le previsioni, su cui aleggiano già le perplessità di una buona fetta della comunità internazionale. Compresa l’Ue, con l’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, che chiede di garantire “il conteggio dettagliato dei voti e l’accesso ai registri delle votazioni presso i seggi elettorali”.I sondaggi davano Gonzalez Urrutia, politologo e diplomatico scelto dalla Piattaforma Unitaria per mettersi alle spalle più di vent’anni di chavismo, avanti di 20-30 punti percentuali. La leader dell’opposizione, Maria Corina Machado, ha denunciato irregolarità nello scrutinio e ha rivendicato la vittoria del proprio candidato “con il 70 per cento” dei voti. Maduro si difende all’attacco, accusando “un massiccio attacco hacker” al centro del Consiglio elettorale, escogitato da chi “voleva impedire che il popolo del Venezuela avesse il suo risultato ufficiale”. Per il presidente, i pesanti ritardi nello scrutinio sono stati architettati “per poter gridare alla frode“. La coalizione a sostegno di Gonzalez – che aveva schierato migliaia di osservatori ai seggi di tutto il Paese – ha denunciato invece che in molti seggi gli osservatori sono stati “costretti a andarsene”, ed è stato quindi impossibile verificare che non ci fossero brogli.Maria Corina Machado e Edmundo Gonzalez Urrutia denunciano irregolarità nello scrutinio elettorale (Photo by Federico PARRA / AFP)D’altra parte, a partire dal segretario di Stato americano, Anthony Blinken, sono in molti a ritenere “poco credibili” le cifre annunciate dal Partito Socialista Unito del Venezuela. Anche la Colombia di Gustavo Petro e il Cile di Gabriel Boric. Dall’Unione europea, che a maggio si è vista rifiutare da Caracas l’ingresso di una delegazione di osservazione elettorale, si sono levate diverse voci. Al capo della diplomazia Ue, Josep Borrell, hanno fatto eco i ministri degli Esteri di Spagna, Germania e Italia. Per José Manuel Albares “la volontà democratica del popolo venezuelano deve essere rispettata con la presentazione dei verbali di tutti i seggi elettorali per garantire risultati pienamente verificabili”, mentre una nota di Berlino dichiara che “i risultati elettorali annunciati non bastano a dissipare i dubbi sul conteggio dei voti“. Ancora più diretto il vicepremier italiano Antonio Tajani, che su X si è chiesto se “il risultato che annuncia la vittoria di Maduro rispecchia veramente la volontà del popolo?”.Nicolas Maduro festeggia a Caracas (Photo by Yuri CORTEZ / AFP)Con la stessa fermezza con cui Elvis Amoroso, capo del Consiglio nazionale elettorale del Venezuela, aveva dichiarato che “i rappresentanti dell’Ue non sono i benvenuti nel nostro Paese mentre vengono mantenute le sanzioni genocide contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela, e in particolare il suo governo”, Maduro si è scagliato contro le ingerenze dell’Occidente. “Non ci sono riusciti con le sanzioni, con l’aggressione, con la minaccia. Non ce l’hanno fatta ora e non ce la faranno mai con la dignità del popolo del Venezuela. Il fascismo in Venezuela, la terra di Bolivar e Chavez, non passerà”, sono state le sue prime parole pronunciate davanti al Palazzo Miraflores.Visto il clima incandescente che attraversa il Venezuela – con l’economia in recessione, tassi d’inflazione annua a tre cifre, gli abusi della polizia e le pratiche sempre più antidemocratiche del governo di Maduro – da Bruxelles è arrivato anche l’auspicio che si mantenga per lo meno “la calma e la civiltà” con cui è trascorso il giorno delle elezioni. Giorno in cui Hugo Chavez, sulla cui eredità si fonda il decennale potere di Maduro, avrebbe compiuto 70 anni. “Chavez vive. Chavez questo trionfo è tuo”, ha gridato il presidente alla folla di sostenitori.

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    Il Consiglio nomina quattro nuovi rappresentanti speciali Ue. Per la Bosnia c’è Luigi Soreca

    Bruxelles – Nella nuova mandata di rappresentanti speciali Ue appena approvata dal Consiglio dell’Unione Europea ci sono anche due diplomatici italiani, uno con un nuovo ruolo e una confermata nel suo incarico a servizio degli interessi dei Ventisette in Paesi e regioni chiave del mondo. Luigi Soreca è stato nominato rappresentante speciale Ue per la Bosnia ed Erzegovina, mentre Emanuela Claudia Del Re si è vista confermare fino al 30 novembre per la regione del Sahel. La quota di italiani sui 11 rappresentanti speciali Ue complessivi sale così a tre, considerato anche l’incarico assunto nel maggio dello scorso anno  da Luigi Di Maio per la regione del Golfo.I nuovi rappresentanti speciali Ue, da sinistra: Johan Borgstam (per i Grandi Laghi), Magdalena Grono (per la Georgia), Aivo Orav (per il Kosovo) e Luigi Soreca (per la Bosnia ed Erzegovina)Sono quattro i nuovi nomi e tre le proroghe che hanno ricevuto oggi (26 luglio) il semaforo verde del Consiglio dell’Ue. Oltre a Soreca per la Bosnia ed Erzegovina (con un mandato di due anni) e Del Re per la regione del Sahel (confermata per altri quattro mesi), dal primo settembre lo svedese Johan Borgstam sarà destinato alla regione dei Grandi Laghi africani (per un anno), la ceca Magdalena Grono si occuperà di Caucaso meridionale e crisi in Georgia (per un anno) e l’estone Aivo Orav del Kosovo (per due anni), mentre rimarrà lo slovacco Miroslav Lajčák fino al 31 gennaio 2025 per il dialogo Belgrado-Pristina e altre questioni regionali dei Balcani Occidentali, e la tedesca Annette Weber fino al 31 agosto 2026 per il Corno d’Africa.“Sono orgoglioso di essere stato nominato dal Consiglio dell’Unione Europea come rappresentante speciale per la Bosnia ed Erzegovina”, è il commento di Soreca in un post su X, ricordando il “momento cruciale del percorso di integrazione Ue” per il Paese balcanico dopo la decisione del Consiglio Europeo dello scorso 21 marzo di avviare i negoziati di adesione (anche se la strada rimane costellata di numerosi ostacoli istituzionali). Il diplomatico e avvocato italiano, alla Commissione Europea dal 1998, nel 2016 è stato nominato inviato speciale Ue in Italia per l’avvio del processo di ricollocazione di persone rifugiate e migranti, tra il 2018 al 2022 è stato capo della delegazione Ue in Albania e negli ultimi due anni ha ricoperto l’incarico di inviato speciale Ue per la dimensione esterna della migrazione, presso il Servizio europeo per l’azione esterna a Bruxelles. Dal primo settembre succederà all’austriaco Johann Sattler nel mandato di “garantire continui progressi nel processo di stabilizzazione e associazione” di una Bosnia ed Erzegovina “stabile, vitale, pacifica, multietnica e unita, che cooperi pacificamente con i suoi vicini e che si avvii verso l’adesione all’Ue”, si legge nella nota del Consiglio.Cosa fanno i rappresentanti speciali UeI rappresentanti speciali Ue promuovono le politiche e gli interessi dell’Unione “in regioni e Paesi specifici” e svolgono un ruolo “attivo” negli sforzi per consolidare la pace, la stabilità e lo Stato di diritto, è quanto si legge nella pagina del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (Seae) dedicato alle figure che sostengono il lavoro dell’alto rappresentante Ue nelle regioni interessate. Si tratta di rappresentanti che forniscono all’Unione una “presenza politica attiva” in Paesi e regioni considerati chiave per i Ventisette, agendo come “voce e volto” delle politiche comunitarie.A oggi esistono 10 rappresentanti speciali che sviluppano la politica estera e di sicurezza dell’Ue, ma saliranno fra poco più di un mese a 11 con la riapertura della posizione nella regione dei Grandi Laghi africani: in Bosnia ed Erzegovina (Johann Sattler, dal primo settembre Luigi Soreca), per l’Asia centrale (Terhi Hakala), per il Corno d’Africa (Annette Weber), per i diritti umani (Eamon Gilmore), per il Kosovo (Tomáš Szuyog, dal primo settembre Aivo Orav), per il processo di pace in Medio Oriente (Sven Koopmans), per il Sahel (Emanuela Claudia Del Re), per il Caucaso meridionale e la crisi in Georgia (Toivo Klaar, dal primo settembre Magdalena Grono), per i Grandi Laghi (dal primo settembre Johan Borgstam), per il dialogo Belgrado-Pristina e altre questioni regionali dei Balcani Occidentali (Miroslav Lajčák) e per il Golfo (Luigi Di Maio).

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    L’Ue ha sbloccato 1,5 miliardi dai profitti degli asset russi immobilizzati per armare l’Ucraina

    Bruxelles – Via libera al sostegno militare all’Ucraina con i soldi di Mosca. L’Ue ha versato oggi (26 luglio) un primo pagamento di 1,5 miliardi di euro generati dai proventi degli asset russi congelati sul territorio comunitario. “Non c’è simbolo migliore che usare il denaro del Cremlino per rendere l’Ucraina un posto più sicuro”, ha esultato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.Dopo l’accordo tra i Paesi membri lo scorso maggio, si aspettava solo che Euroclear, società di clearing belga che detiene la maggior parte dei titoli della Banca centrale russa, rendesse disponibile una prima fetta dei proventi. Secondo i calcoli della Commissione europea, a seconda dei tassi di interesse, Bruxelles sarà in grado di garantire circa 3 miliardi all’anno a Kiev attraverso i profitti degli asset russi immobilizzati. Asset e riserve che ammontano a circa 210 miliardi di euro.Questa prima tranche da 1,5 miliardi – e le prossime – sarà ora convogliata attraverso il Fondo europeo per la pace e il Fondo per l’Ucraina per sostenere le capacità militari dell’Ucraina e la ricostruzione del Paese. I 27 Ue hanno stabilito che il 90 per cento delle risorse saranno destinate all’assistenza militare, il restante dieci per la ricostruzione dell’Ucraina. Ma si sono dati la facoltà di rivedere la ripartizione già a gennaio 2025.“La prima tranche dei profitti imprevisti fornirà un sostegno concreto sul campo”, ha confermato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell. In particolare, l’Ue finanzierà “l’acquisto di equipaggiamenti militari prioritari”: difesa aerea e munizioni per l’artiglieria. Ed appalti per spingere lo sviluppo dell’industria ucraina della difesa.

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    In Bosnia non c’è l’accordo sull’Agenda di riforme. A rischio i fondi Ue del Piano di crescita

    Bruxelles – Non basta il via libera del Consiglio Europeo all’avvio dei negoziati di adesione. La Bosnia ed Erzegovina rimane nel caos istituzionale, che ora mette a rischio – come da tempo temuto – i fondi Ue stanziati dal nuovo Piano per i Balcani Occidentali che lega la crescita economica con le riforme interne. “La Bosnia ed Erzegovina non ha ancora presentato alla Commissione Europea un’agenda di riforma definitiva, è quindi molto probabile che non riceva già dopo l’estate la prima rata non condizionata di prefinanziamento del 7 cento”, è quanto reso noto dalla delegazione Ue a Sarajevo in una nota pubblicata su X: “Si tratta di un’occasione persa per un finanziamento anticipato e sostanziale“.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, a Sarajevo (primo novembre 2023)Che Sarajevo corresse questo pericolo era già emerso lo scorso autunno, quando la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, nella sua tappa bosniaca del consueto viaggio annuale nei Balcani Occidentali aveva messo in chiaro che la mancata implementazione delle riforme fondamentali comporterà che “le risorse saranno ridistribuite ad altri Paesi che sono in grado di farlo“. Con il Piano di crescita approvato in tempi record dai co-legislatori Ue all’inizio di quest’anno, l’esecutivo Ue aveva confermato due mesi fa che in caso di non rispetto degli standard sulle riforme l’Ue potrà decidere di tagliare i fondi. “La prima rata del Piano di crescita potrà essere erogata solo dopo che l’Agenda di riforma sarà stata presentata e formalmente approvata dalla Commissione Europea e dalla Bosnia ed Erzegovina”, ha precisato ieri (25 luglio) la delegazione Ue a Sarajevo, incoraggiando il lavoro “senza ulteriori ritardi, per non perdere del tutto questa opportunità”. La quota di finanziamenti per la Bosnia ed Erzegovina dal Piano di crescita è stimata complessivamente a un miliardo di euro: al momento salta una prima rata di prefinanziamento senza condizioni dal valore di circa 70 milioni di euro.A provocare lo stallo istituzionale sull’approvazione dell’Agenda di riforma è stato il caos istituzionale emerso di fronte alla bozza presentata dal Gruppo di lavoro ad hoc, nonostante la proroga alla scadenza concessa dalla Commissione Ue per raggiungere in extremis in accordo. In quello che a tutti gli effetti è uno degli assetti istituzionali più complicati al mondo – come emerso dagli Accordi di Dayton del 1995 che hanno chiuso tre anni e mezzo di guerra civile ed etnica nel Paese – prima il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, si è rifiutato di accettare due punti (dei 112 dell’Agenda) sulla nomina dei giudici della Corte costituzionale centrale e sul riconoscimento delle decisioni della Corte stessa, poi i rappresentanti di quattro cantoni della Federazione di Bosnia ed Erzegovina (Bosnia Centrale, Tuzla, Zenica-Doboj e Una-Sana) non hanno dato il consenso al documento, accusandolo di privilegiare le istituzioni delle due entità rispetto a quelle statali e di dare priorità ai progetti nella Republika Srpska e nei cantoni a maggioranza croato-bosniaca rispetto a quelli a maggioranza bosgnacca.Il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik (credits: Elvis Barukcic / Afp)“Nonostante tutti gli sforzi e il sostegno delle istituzioni europee, non tutti hanno mostrato un livello minimo di responsabilità politica per indirizzare le nostre attività verso un percorso europeo comune“, ha attaccato la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, annunciando mercoledì (24 luglio) il fallimento delle trattative sull’Agenda di riforme. Oltre alla delegazione Ue, che ribadisce la disponibilità a continuare a supportare le autorità bosniache “se necessario”, è intervenuta in modo duro anche l’ambasciata statunitense a Sarajevo a difesa del Piano di crescita per i Balcani Occidentali, definito in una nota pubblicata ieri “un’offerta senza precedenti dell’Ue ai cittadini della Bosnia ed Erzegovina”. L’attacco diretto di Washington è non solo al presidente serbo-bosniaco Dodik – “un uomo che mette costantemente i suoi interessi davanti a quelli di coloro che dice di rappresentare” e che rappresenta “la più grande minaccia al futuro europeo” del Paese balcanico – ma anche al principale partito bosniaco-musulmano, il Partito d’Azione Democratica (Sda): “La decisione di sfruttare l’occasione per un’esibizione politica, invece di lavorare con gli altri partiti per ottenere l’approvazione degli ultimi due punti in sospeso, è stata inutile e irresponsabile”.Cos’è il Piano di crescita per i Balcani OccidentaliIl Piano di crescita per i Balcani Occidentali è stato presentato dalla presidente von der Leyen lo scorso 8 novembre in parallelo con la pubblicazione del Pacchetto Allargamento Ue 2023. “È qualcosa di eccezionale, sappiamo che il miracolo della prosperità arriva con l’accesso al Mercato unico e stiamo già iniziando questo processo, non stiamo aspettando la decisione finale sull’adesione politica“, aveva rivendicato la numero uno della Commissione Ue, illustrando i 4 pilastri di un Piano che dovrebbe sia “chiudere il gap economico e sociale” tra Ue e regione balcanica sia permettere “l’integrazione sul campo anche prima che entrino formalmente come Paesi membri”.Il primo pilastro è proprio l’integrazione economica nel Mercato unico in sette settori fondamentali, a condizione di un allineamento alle regole Ue e dell’apertura dei settori pertinenti ai Paesi vicini: libera circolazione delle merci, libera circolazione dei servizi e dei lavoratori, accesso all’Area unica dei pagamenti in euro (Sepa), facilitazione del trasporto su strada, integrazione e de-carbonizzazione dei mercati energetici, mercato unico digitale e integrazione nelle catene di approvvigionamento industriale. Il secondo pilastro è quello dell’integrazione economica interna attraverso il Mercato regionale comune (basato su regole e standard Ue): Bruxelles stima che solo questo fattore potrebbe potenzialmente aggiungere un 10 per cento alle economie dei Sei balcanici. Il terzo pilastro riguarda le riforme socio-economiche e fondamentali da intraprendere tra il 2024 e il 2027, che nel Piano di Bruxelles andranno da una parte a sostenere il percorso dei Balcani Occidentali verso l’adesione Ue e dall’altro sosterranno gli investimenti esteri e il rafforzamento della stabilità regionale.A proposito di investimenti, è qui che si inserisce il quarto pilastro dell’assistenza finanziaria Ue alle riforme per tutti i sei partner. Si tratta nello specifico di un nuovo Strumento di riforma e crescita per i Balcani Occidentali da 6 miliardi di euro per il periodo 2024-2027, i cui pagamenti saranno vincolati all’attuazione delle riforme concordate nelle rispettive Agende (esattamente come Next Generation Eu per i Ventisette). Con la revisione intermedia del Quadro finanziario pluriennale Ue 2021-2027 è stato dato il via libera allo strumento composto di 2 miliardi di euro in sovvenzioni (finite nel bilancio Ue senza modifiche alla proposta della Commissione) e 4 miliardi in prestiti agevolati, con le assegnazioni per ciascun Paese stabilite sulla base del Pil e della popolazione. Il sostegno del Piano di crescita – effettuato due volte l’anno e condizionato dal rispetto delle fasi qualitative e quantitative delle Agende – sarà fornito per metà dal Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) e per metà da prestiti erogati direttamente ai bilanci nazionali dei partner.La ‘grana’ Republika Srpska per la BosniaÈ proprio Dodik uno degli ostacoli maggiori per il percorso di avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina all’Unione Europea – e oggi dell’accesso ai fondi Ue del Piano di crescita – da quando si è fatto promotore di un progetto secessionista dall’ottobre del 2021. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche e, dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme elettorali e costituzionali nel Paese balcanico.Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)Ma le preoccupazioni si sono fatte sempre più concrete da fine marzo 2023, quando il governo dell’entità serbo-bosniaca ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero. La cosiddetta legge sugli ‘agenti stranieri’ è simile a quella adottata da Mosca nel dicembre 2022 ed è stata approvata a fine settembre dall’Assemblea nazionale di Banja Luka, tra le apre critiche di Bruxelles. Parallelamente è avanzato anche l’iter per l’adozione degli emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per diffamazione. Dopo la proposta – anch’essa a fine marzo – l’entrata in vigore è datata 18 agosto e ora sono previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”. Il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) e la delegazione Ue a Sarajevo hanno attaccato Banja Luka, mettendo in luce che le due leggi “hanno avuto un effetto spaventoso sulla libertà di parola nella Republika Srpska“.Alle provocazioni secessioniste si è affiancata la questione del rapporto con la Russia post-invasione ucraina. Già il 20 settembre 2022 Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale delle regioni ucraine occupate dalla Russia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio 2023 con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco. Come se bastasse, Dodik ha compiuto un secondo viaggio a Mosca il successivo 23 maggio, mentre a Bruxelles sono emerse perplessità sulla mancata reazione da parte dell’Unione con sanzioni. Fonti Ue hanno rivelato a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma l’Ungheria di Viktor Orbán non permette il via libera. Per qualsiasi azione del genere di politica estera serve l’unanimità in seno al Consiglio.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews