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    Israele, giovedì 11 a l’Aia la prima udienza sul possibile genocidio in corso a Gaza

    Bruxelles – La questione è complessa, potrebbe richiedere parecchio tempo. A partire da domani (11 gennaio), quando prenderà il via il procedimento immediato invocato dal Sudafrica presso la Corte di Giustizia Internazionale de l’Aia (ICJ), per stabilire se Israele si sta macchiando del crimine di genocidio con la sua azione militare nella Striscia di Gaza.L’accusa di Johannesburg, giunta a l’Aia lo scorso 29 dicembre, sostiene che Israele avrebbe violato la Convenzione sul genocidio, trattato internazionale approvato dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1948 e ratificato da Tel Aviv nel 1950. La convenzione, che conferisce all’ICJ – il massimo organo giuridico delle Nazioni Unite – la giurisdizione per pronunciarsi sulle controversie sul trattato, definisce il genocidio come gli “atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.Nella documentazione di 84 pagine depositata alla Corte si legge che “gli atti e le omissioni di Israele denunciati dal Sudafrica sono di tipo genocida perché volti a provocare la distruzione di una parte sostanziale del gruppo nazionale, razziale ed etnico palestinese“. Un’accusa pesante, formulata alla luce delle ormai 23 mila vittime dei bombardamenti su Gaza, di cui il 70 per cento donne e bambini. E su diverse ricostruzioni che hanno rivelato che negli ultimi mesi l’esercito israeliano ha sganciato oltre 200 bombe particolarmente distruttive in zone della Striscia che in precedenza aveva indicato come sicure, e dove aveva quindi suggerito ai civili di rifugiarsi.Per arrivare a una sentenza potrebbe volerci molto tempo, a causa dell’impossibilità di accedere alla Striscia di Gaza e portare avanti indagini indipendenti. Israele ha immediatamente “rifiutato con disgusto” le accuse “senza fondamenti fattuali e legali” del Sudafrica, forte del sostegno americano, secondo cui il procedimento è “controproducente e completamente privo di fondamento“. Ma i 57 membri dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica e alcuni altri governi nel mondo – la Bolivia, la Namibia – hanno sposato l’accusa a Israele.A loro potrebbe presto aggiungersi il Belgio: ieri la vicepremier Petra De Sutter ha dichiarato in un tweet che “il Belgio non può restare a guardare l’immensa sofferenza umana a Gaza” e che è necessario “agire contro la minaccia di genocidio”. De Sutter ha assicurato che proporrà al governo belga di “agire presso la Corte internazionale di giustizia, seguendo l’esempio del Sudafrica“. Una goccia nel mare di indifferenza dei 27 Paesi dell’Ue, che per ora hanno preferito non prendere posizioni nette. Mentre da Bruxelles, il portavoce della Commissione europea Peter Stano ha commentato che “l’Ue supporta l’operato dell’ICJ” ma “non fa parte di questa causa, non spetta a noi commentarla, è ancora un caso in corso“.Raggiunto da Eunews, Stano ha spiegato che “l’Ue non è e non può essere parte o intervenire in un cosiddetto ‘caso controverso’ davanti alla Corte internazionale di giustizia”, cioè un caso che rappresenta una disputa legale tra Stati. Sono gli Stati membri dell’Ue, in quanto Stati parte della Convenzione sul genocidio, ad avere la possibilità di intervenire. “Al momento non ci risulta che nessuno Paese membro abbia espresso l’intenzione di farlo”, ha concluso il portavoce dell’esecutivo Ue.

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    I missili balistici nordcoreani utilizzati dalla Russia in Ucraina preoccupano Bruxelles e Washington

    Bruxelles – Tra il 29 dicembre e il 2 gennaio, la Russia ha lanciato più di 500 droni e missili contro obiettivi ucraini. Come ricostruito dalle forze di intelligence americane, in quei cinque giorni Mosca avrebbe utilizzato diversi missili acquistati dalla Corea del Nord. Un patto, quello sulle armi tra Vladimir Putin e Kim Jong-un, che “preoccupa profondamente” l’Occidente.La condanna è arrivata in una dichiarazione congiunta, firmata dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, in nome dei 27 Paesi membri e dal segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, insieme ad Albania, Andorra, Argentina, Australia, Canada, Georgia, Guatemala, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Moldavia, Monaco, Nuova Zelanda, Macedonia del Nord, Norvegia, Palau, Repubblica di Corea, San Marino, Ucraina e Regno Unito.Zona residenziale nel centro di Kharkiv colpita da un missile lanciato dalla Russia il 2 gennaio 2024 (Photo by SERGEY BOBOK / AFP)“Il trasferimento di queste armi aumenta la sofferenza del popolo ucraino, sostiene la guerra di aggressione della Russia e mina il regime globale di non proliferazione“, denunciano i ministri degli Esteri dei 49 Paesi uniti in una “risoluta opposizione” alla compravendita tra Mosca e Pyongyang. È una “palese violazione” di molteplici risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – la risoluzione 1718 nel 2006, la risoluzione 1874 nel 2009 e la risoluzione 2270 nel 2016 – che imponevano alla Repubblica Popolare Democratica di Corea (Rpdc) un percorso di demilitarizzazione. Risoluzioni “che la stessa Russia ha sostenuto”, sottolineano nella dichiarazione congiunta.Perché a preoccupare l’Occidente non è solo l’effetto che il supporto militare di Pyongyang può avere sulla guerra di aggressione russa in Ucraina, ma anche le possibili azioni unilaterali di un leader inaffidabile come Kim Jong-un. “Stiamo monitorando da vicino ciò che la Russia fornisce alla Corea del Nord in cambio di queste esportazioni di armi”, assicurano Borrell e Blinken. Il patto stretto tra Mosca e Pyongyang in occasione della visita di Kim Jong-Un in Russia lo scorso settembre prevederebbe infatti uno scambio reciproco di armamenti. A Putin i missili balistici, al leader supremo della Corea del Nord aerei, veicoli blindati, attrezzature per la produzione degli stessi missili e altre tecnologie avanzate.Inoltre “l’uso da parte della Russia di missili balistici della Rpdc in Ucraina fornisce anche preziose informazioni tecniche e militari” alla Corea del Nord. Nel momento più basso delle relazioni con i vicini della Corea del Sud degli ultimi decenni, con Kim Jong-Un che proprio oggi ha dichiarato che “se la Corea del Sud userà le sue forze armate contro la Corea del Nord o ne minaccerà la sovranità e sicurezza, non esiteremo ad annientarla”, la comunità internazionale teme il rischio che questo rafforzamento dell’arsenale militare possa deflagrare in un conflitto vero e proprio.“Siamo profondamente preoccupati per le implicazioni sulla sicurezza che questa cooperazione ha in Europa, nella penisola coreana, nella regione dell’Indo-Pacifico e in tutto il mondo“, avvertono i leader occidentali. Che concludono la dichiarazione congiunta esortando “tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, compresi tutti i membri del Consiglio di sicurezza, a unirsi a noi nel condannare le flagranti violazioni delle risoluzioni Onu da parte della Russia e della Rpdc”.

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    L’Ue “segue da vicino” il caso delle violenze subite da uno dei leader di opposizione in Serbia

    Bruxelles – Lo scandalo che rischia di travolgere il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, arriva a Bruxelles. “Stiamo seguendo da vicino questo caso e siamo in contatto con le autorità competenti e le parti interessate, è importante fare piena chiarezza sui fatti”, è il commento rilasciato a Eunews dalla portavoce della Commissione Ue responsabile per la politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero, a proposito delle violenze subite dal leader del Partito Repubblicano di opposizione, Nikola Sandulović, prelevato dai servizi segreti serbi mercoledì scorso (3 gennaio) e duramente picchiato durante la detenzione. Torture che potrebbero lasciarlo parzialmente paralizzato.Il leader del Partito Repubblicano di Serbia, Nikola Sandulović“Ci aspettiamo che vengano rispettati i diritti di tutti i cittadini“, ha messo in chiaro la portavoce della Commissione, sottolineando che da un Paese candidato all’adesione Ue Bruxelles si aspetta che “qualsiasi detenzione dovrebbe essere basata su un ragionevole sospetto di aver commesso un reato e qualsiasi accusa credibile di violenza dovrebbe essere seguita efficacemente dalle autorità competenti”. Il riferimento non è solo a quanto accaduto il 3 gennaio, ma anche alle cause di una violenza di questo genere. Due giorni prima il leader del Partito Repubblicano aveva reso noto sui social media di aver reso omaggio alla tomba di Adem Jashari, uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk) ucciso dal regime di Slobodan Milošević nel 1998 insieme a 57 membri della sua famiglia, tra cui donne e bambini. Sandulović ha chiesto perdono alla famiglia, ha deposto una corona di fiori e si è scusato a nome del Paese per i crimini di guerra commessi nel recente passato dello Stato serbo.Il giorno seguente la famiglia ha riferito che membri dell’Agenzia serba per le informazioni sulla sicurezza (Bia) hanno sequestrato Sandulović e l’hanno sottoposto a gravi attacchi fisici, prima di portarlo all’ospedale militare di Belgrado. Il 4 gennaio è stato sequestrato nuovamente e detenuto presso la prigione centrale di Belgrado senza accesso a cure mediche indipendenti: il giorno precedente i medici avevano riscontrato la frattura di una costola e l’uomo sarebbe paralizzato su un lato del corpo. Tra le persone responsabili per le torture subite da Sandulović ci sarebbe anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić) che ha ammesso di aver organizzato l’attacco armato nel nord del Kosovo a fine settembre dello scorso anno. Sabato scorso (6 gennaio) il leader del Partito Repubblicano è stato condannato a una detenzione di 30 giorni per aver deposto fiori sulla tomba di quello che Belgrado ritiene un criminale di guerra, ma i suoi legali denunciano l’incriminazione in violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksander Vučić, e il vice-capo di Lista Srpska, Milan Radoičić, a Belgrado (6 luglio 2022)Mentre né il presidente serbo Vučić né altre istituzioni serbe hanno commentato pubblicamente l’arresto e l’aggressione, l’ex-capo dell’intelligence serba (dimessosi due mesi fa), Aleksandar Vulin, ha riferito di aver personalmente ordinato l’arresto di Sandulović, “perché sospettato di minare l’ordine costituzionale e di lavorare attivamente per sostenere la secessione del cosiddetto Kosovo”, ha dichiarato al tabloid serbo Novosti. Secondo Vulin il mandato di arresto per Sandulović su suo ordine sarebbe rimasto valido nonostante le dimissioni, ma non ha commentato il pestaggio. L’avvocato del politico dell’opposizione serba, Čedomir Stojković, ha contestato le parole dell’ex-capo dell’intelligence e ha puntato il dito contro il presidente della Repubblica: “È una dichiarazione concordata, perché la carriera politica di Vulin in Serbia è finita in accordo con Vučić e ora può falsamente assumersi la responsabilità di tutto ciò che causa danni internazionali al regime“.Le tensioni in Serbia dopo le elezioni anticipateNonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza rispondendo all’appello dei partiti e movimenti che avevano tradotto in istanze politiche (europeiste) le proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio. Anche la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) – a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo – ha rilevato “l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”. Dopo quasi un mese dalle elezioni anticipate continuano le proteste contro i brogli del partito al potere, in particolare a Belgrado.Le proteste di piazza dell’opposizione serba a Belgrado (credits: Miodrag Sovilj / Afp)Proprio nella capitale la situazione rimane ancora tesa e non è da escludere che si possano ripetere le elezioni amministrative la cui vittoria è stata rivendicata dal Partito Progressista Serbo: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić ha conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović. La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. La stessa denuncia è arrivata dall’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale): “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska e di intimidazione dei votanti”.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    La società civile dei Paesi candidati all’adesione Ue potrà partecipare presto ai lavori del Cese

    Bruxelles – Inizia un nuovo anno cruciale per l’allargamento Ue che, dopo le decisioni dell’ultimo Consiglio Europeo di dicembre 2023, si appresta ad assumere contorni un po’ più definiti grazie alla prima istituzione comunitaria che aprirà concretamente le sue porte ai nuovi candidati all’adesione all’Unione. Il Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese) ha lanciato l’invito alla società civile dei nove Paesi che si trovano su questo cammino a candidarsi per diventare ‘Membri candidati all’allargamento’ e contribuire al lavoro consultivo del Comitato nel 2024.Il presidente del Comitato Economico e Sociale Europeo, Oliver Röpke, e la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola (31 agosto 2023)“La geopolitica è riemersa come tema esistenziale nell’agenda politica, l’Ue deve essere all’altezza del compito che l’attende: è giunto il momento del suo risveglio geopolitico”, è l’esortazione del presidente del Cese, Oliver Röpke, tratteggiando gli sviluppi di quella che lo scorso anno era stata anticipata come ‘Iniziativa dei Membri onorari dell’allargamento’. L’idea è quella di includere nuovi membri onorari della società civile per ciascun Paese candidato nel processo di stesura dei pareri del Cese: dall’energia ai diritti sociali e del lavoro, dalla transizione digitale e verde alla politica industriale, fino allo sviluppo sostenibile e il Mercato unico. Saranno coinvolti i nove Paesi candidati all’adesione Ue – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina –  mentre per ora non sarebbe incluso il Kosovo (che ha fatto richiesta di adesione nel dicembre 2022). Parlando con Eunews, il presidente Röpke non ha escluso una “collaborazione più stretta” con Pristina, nonostante per l’iniziativa “abbiamo deciso di attenerci alle decisioni del Consiglio sullo status di candidato”.Le organizzazioni della società civile dei nove Paesi candidati possono presentare la propria candidatura fino al 25 gennaio (qui il link). Nel processo di selezione sarà considerato il livello di partecipazione al dialogo civile e sociale nazionale e a reti internazionali, l’adesione ai valori dell’Ue sanciti dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea (dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle minoranze), parità di genere, rappresentatività dei giovani e conoscenza di almeno una delle lingue ufficiali dell’Unione. Dopo la selezione del pool di 21 membri per Ucraina e Turchia e di 15 per gli altri Paesi, la partecipazione sarà estesa a tutto il ciclo dei pareri (gruppi di studio, riunioni di sezione e sessioni plenarie), con una plenaria annuale specifica sulle questioni relative all’allargamento. “Questa iniziativa innovativa fa del Cese il primo organo dell’Ue a integrare progressivamente nelle sue attività i rappresentanti dei Paesi dell’allargamento”, ha rivendicato il presidente Röpke, spiegando l’obiettivo del progetto-pilota per tutta la durata di quest’anno (da rivalutare a dicembre).A che punto è l’allargamento UeSui sei Paesi dei Balcani Occidentali che si trovano sul percorso dell’allargamento Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre 2022 anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione e l’ultimo Consiglio Europeo di dicembre ha deciso che potranno essere avviati i negoziati di adesione “una volta raggiunto il necessario grado di conformità ai criteri di adesione”. Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue – Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia – continuano a non riconoscerlo come Stato sovrano.Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Di nuovo seguendo la raccomandazione contenuta nel Pacchetto Allargamento Ue, il vertice dei leader Ue del 14-15 dicembre 2023 ha deciso di avviare i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova e di concedere alla Georgia lo status di Paese candidato.I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è stato affrontato in una relazione strategica apposita a Bruxelles.

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    La missione di Borrell in Libano per capire come allentare le tensioni in Medio Oriente

    Bruxelles – Inizia oggi (5 gennaio) la missione di tre giorni di Josep Borrell in Libano, dove incontrerà il presidente del Parlamento Nabih Berri, il primo ministro Najib Mikati, il ministro degli Affari esteri, Abdallah Bou Habib, e il comandante delle Forze armate libanesi, il generale Joseph Aoun.La visita – che durerà fino a domenica – vedrà inoltre l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza impegnato a colloquio con il capo della missione e il comandante della forza delle Nazioni Unite in Libano (Unifil), il generale Aroldo Lazaro.Secondo una nota del Servizio europeo per l’azione esterna, la missione sarà un’occasione per “discutere tutti gli aspetti della situazione a Gaza e dintorni, compreso il suo impatto sulla regione, in particolare la situazione al confine israelo-libanese, nonché l’importanza di evitare un’escalation regionale e di sostenere il flusso di assistenza umanitaria ai civili, che l’Unione Europea ha quadruplicato portandola a 100 milioni di euro”. Borrell – si legge ancora – sottolineerà nuovamente la necessità di portare avanti gli sforzi diplomatici con i leader regionali al fine di creare le condizioni per raggiungere “una pace giusta e duratura tra Israele, Palestina e nella regione”.Allentare le tensioni. La missione del capo della diplomazia europea arriva in un momento particolarmente delicato delle tensioni in Medio Oriente tra Israele e Hamas, dopo che nel pomeriggio di martedì in una grossa esplosione a Beirut, la capitale del Libano, attribuita a un bombardamento israeliano mirato contro un ufficio del gruppo armato palestinese Hamas, è rimasto ucciso Saleh al-Arouri, vice capo di Hamas. L’uccisione di Arouri ha acuito le tensioni tra Hezbollah, stretto alleato di Hamas in Libano, e Israele. La guerra tra Israele e Hamas e l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza vanno avanti dallo scorso 7 ottobre, dopo un attacco di Hamas considerato da molti senza precedenti in territorio israeliano in cui hanno perso la vita oltre mille civili e oltre 200 sono stati rapiti, in risposta al quale Israele ha lanciato bombardamenti e assedio via terra della Striscia di Gaza, in cui si contano oltre 20 mila persone uccise.

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    Gli aiuti allo sviluppo dell’Ue sono un problema per l’Africa

    Bruxelles – Gli aiuti dell’UE all’Africa non aiutano il continente e i suoi Stati. Al contrario, per come sono concepiti, accrescono i problemi, soprattutto economici, dei Paesi in cui l’azione concepita per portare contributi utili allo sviluppo. La strategie dell’Unione europea per i Paesi più poveri, soprattutto africani, dovrebbero essere dunque riviste. Il Parlamento europeo accende i riflettori su partenariati che, così, come sono, finiscono per produrre effetti contrari a quelli desiderati.La nota di accompagnamento alla relazione per la cooperazione allo sviluppo dell’Ue a sostegno dell’accesso all’energia nei paesi in via di sviluppo, che l’Aula del Parlamento europeo, da calendario, discuterà il 17 gennaio in occasione della prima sessione plenaria del nuovo anno, evidenzia le carenze dell’azione a dodici stelle.Tra il 2014 e il 2020, recita il passaggio allegato al testo legislativo, l’insieme dei Ventisette ha fornito 13,8 miliardi di euro complessivi di assistenza all’Africa per lo sviluppo sostenibile. Innanzitutto l’importo “non è ancora sufficiente e occorre compiere maggiori sforzi” se si vuole permettere una crescita sostenibile da un punto di vista climatico-ambientale. Ma, soprattutto, “il 53 per cento degli esborsi è avvenuto sotto forma di prestiti”, il che si traduce in “debito aggiuntivo che riduce la capacità di questi paesi di investire negli obiettivi di sviluppo sostenibile”.Aumenta in sostanza il debito dei Paesi africani, che si trovano in una situazione di difficoltà. Tanto che, viene messo in risalto, risulta che  “21 paesi africani a basso reddito si trovano o sono a rischio di sofferenza debitoria nel 2023“.C’è un’ulteriore considerazione da fare, e che viene fatta. La cooperazione allo sviluppo dell’UE, per com’è concepita, non è a misura di Green Deal europeo. “La maggior parte dei progetti finanziati dall’UE mirano a promuovere grandi infrastrutture di generazione elettrica e l’interconnessione delle reti di trasmissione per creare mercati elettrici integrati, che hanno un impatto minimo sulla promozione dell’accesso all’elettricità per coloro che non ce l’hanno”. C’è da ripensare l’intera architettura della politica per lo sviluppo. La relazione che sta per approdare in Aula chiede perciò agli Stati membri dell’UE di aumentare l’importo dell’aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore energetico in Africa, “dando priorità alle sovvenzioni rispetto ai prestiti nei paesi a rischio di indebitamento“. C’è di più. Perché si suggerisce di cambiare il modello di business condotto fin qui. “Per superare la povertà energetica in Africa, i finanziamenti dell’UE dovrebbero essere ri-orientati verso i paesi con tassi di accesso all’elettricità più bassi”.Un altro, poi, riguarda l‘idrogeno verde, quello prodotto attraverso le energie rinnovabili. L’Africa non appare una regione ottimale per spingere per questo particolare tipo di investimenti. “Sebbene possa potenzialmente svolgere un ruolo significativo” nel raggiungimento degli obiettivi internazionali di sostenibilità incardinati negli accordi di Parigi , allo stesso tempo “potrebbe innescare conflitti sull’uso del territorio e aggravare la povertà“. Questo perché produrre idrogeno verde implica estrazione mineraria e uso di materie prime e terre rare, che richiedono grandi quantità di acqua dolce e generano inquinamento idrico. Per il sud del mondo, povero di acqua e sistemi di raccolta, l’idrogeno verde “può avere impatti sociali e ambientali negativi”. L’UE, insomma, sta sbagliando calcoli e strategie, e dovrebbe correggere il tiro.

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    Borrell condanna il presunto piano di Israele per il trasferimento forzato dei Palestinesi da Gaza

    Bruxelles – La comunità internazionale contro i presunti colloqui che lo Stato di Israele starebbe conducendo con il Congo e altri Paesi per sondare la possibilità di trasferirvi migliaia di palestinesi, legittimi abitanti della Striscia di Gaza.Sono in particolare le solite “dichiarazioni provocatorie e irresponsabili” dei ministri israeliani di estrema destra Ben Gvir e Smotrich, come le ha definite l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, a destare preoccupazione. Perché Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, ha ribadito nella giornata di ieri (3 gennaio) che “incoraggiare l’emigrazione di massa da Gaza consentirà agli israeliani che vivono al confine di tornare a casa in sicurezza”. A cui ha fatto eco il ministro della Finanze, Bezalel Smotrich: il leader del partito Sionismo religioso ha dichiarato che “più del 70 per cento dell’opinione pubblica israeliana” sostiene la necessità di incoraggiare il trasferimento dei palestinesi dall’enclave di Gaza.I ministri di estrema destra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich (Photo by AMIR COHEN / POOL / AFP)Immediate le critiche: “Gli spostamenti forzati sono severamente vietati in quanto grave violazione del diritto internazionale umanitario“, ha commentato Borrell, aggiungendo un laconico “e le parole contano”. Anche il dipartimento di Stato americano ha bollato le dichiarazioni dei due ministri di Tel Aviv come “retorica infiammatoria e irresponsabile“. Ma Smotrich, rigettando le critiche dell’alleato a stelle e strisce, avrebbe insistito che una politica di reinsediamento è necessaria, perché “a quattro minuti dalle nostre comunità c’è un focolaio di odio e terrorismo, dove due milioni di persone si svegliano ogni mattina con l’aspirazione alla distruzione di dello Stato di Israele e con il desiderio di massacrare, violentare e uccidere gli ebrei ovunque si trovino”.D’altronde – come riportato dal Times of Israel – lo stesso Benjamin Netanyahu, durante una riunione del Likud, il suo partito, avrebbe ammesso di essere al lavoro per facilitare la migrazione volontaria dei palestinesi. “Il nostro problema è solo trovare chi sia disposto ad assorbirli”, avrebbe confidato al suo partito. Ma questa mattina un altro autorevole quotidiano israeliano, Haaretz, ha smentito le voci di contatti segreti tra Netanyahu e il governo del Congo, oltre ad altre nazioni, per l’accoglienza di migliaia di immigrati da Gaza. Una fonte di Tel Aviv avrebbe definito “illusioni infondate” gli appelli dei ministri di estrema destra, perché “non sappiamo come trasportare persone da qua al Congo e nessun Paese accetterebbe di accogliere abitanti di Gaza, non un milione e nemmeno 5.000″.Una zona residenziale di Gaza devastata dai bombardamenti israeliani(credits: Yahya Hassouna / Afp)Al di là del camuffamento dei piani della destra più estremista israeliana sotto il nome di “reinsediamenti volontari”, è chiaro che quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza lascia numerosi dubbi sul futuro che Israele immagina per quella terra. Secondo gli ultimi bollettini diffusi da Ocha-Opt, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati, le forze di difesa israeliane hanno distrutto – almeno parzialmente – più del 60 per cento delle unità abitative della Striscia. E reso l’85 per cento dei suoi abitanti, quasi 2 milioni di persone, sfollati interni.

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    Il nuovo capitolo dei rapporti tra Ue e Kosovo può iniziare con la liberalizzazione del regime dei visti

    Bruxelles – Inizia un nuovo viaggio per i cittadini del Kosovo, finalmente senza restrizioni. Dal primo gennaio, con l’entrata in vigore del regime di visti liberi, anche l’ultimo Paese europeo (fatta eccezione per Russia e Bielorussia post-invasione dell’Ucraina) ha visto aprirsi le frontiere Schengen con il solo utilizzo del passaporto nazionale. Ciò che per i cittadini dell’Unione Europea ormai è un modo di viaggiare dato pressoché per scontato, ora è una realtà anche per quelli del Kosovo resa possibile dal successo politico delle istituzioni europee dello scorso anno.La presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (14 giugno 2023)“I nostri cittadini hanno ora la possibilità di visitare la famiglia o di perseguire opportunità educative, culturali e commerciali a un breve volo di distanza: un passo fuori dall’isolamento, un passo più vicino all’Unione Europea“, ha esultato su X il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, che proprio il primo gennaio ha salutato i suoi concittadini in partenza sul primo volo Pristina-Vienna ‘visa free’. Parole confermate dalla presidente del Kosovo, Vjosa Osmani: “Questa tappa storica non è un risultato solo per il Kosovo, ma un importante passo avanti verso il nostro obiettivo comune: un’Europa più vicina, più forte e più unita“. I leader kosovari hanno anche voluto ricordare quali sono “le condizioni che il regime di esenzione dal visto impone”, vale a dire la possibilità di viaggiare e soggiornare liberamente nei Paesi Ue e Schengen ma non oltre 90 giorni in un periodo complessivo di 180 in assenza di un permesso di lavoro o di studio. “Otteniamo maggiori diritti esercitando responsabilmente quelli che ci siamo guadagnati”, ha sottolineato il premier Kurti.Si respira grande soddisfazione anche a Bruxelles, in particolare da parte del relatore del dossier per il Parlamento Europeo nei negoziati con i co-legislatori del Consiglio dell’Ue, Thijs Reuten: “Finalmente! Dopo anni di ritardi assolutamente inutili, l’esenzione dal visto per tutti i cittadini del Kosovo è effettiva”, ha commentato in occasione dell’entrata in vigore della liberalizzazione dei visti concordata nel 2023. Lo stesso eurodeputato olandese – che in occasione del via libera dalla sessione plenaria aveva rilasciato un’intervista a Eunews – ha messo in chiaro che il prossimo passo dovrà essere “l’elaborazione della domanda di status di candidato, il Kosovo è Europa”. Il riferimento è alla richiesta di Pristina di aderire all’Unione Europea, presentata ufficialmente il 15 dicembre 2022. Il dossier è però fermo in Consiglio, dove 5 membri ancora non riconoscono la sovranità del Kosovo (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e stanno bloccando i lavori dei Ventisette. A proposito di stalli, la Spagna è l’unico Paese Ue che ha deciso di non riconoscere nemmeno i passaporti nazionali del Kosovo, di fatto non rispettando la decisione delle istituzioni comunitarie di consentire viaggi liberi su tutto il continente per i cittadini kosovari dal primo gennaio.Oltre il Kosovo, gli altri regimi di visti liberiLe decisioni sulla liberalizzazione dei visti per il Kosovo hanno aggiornato i due elenchi annessi al Regolamento del 2018: quello dei ‘Paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto all’atto dell’attraversamento delle frontiere esterne’ e quello dei ‘Paesi terzi i cui cittadini sono esenti da tale obbligo’. Del primo elenco fanno parte tutti gli Stati del mondo con cui non sono in vigore accordi per la liberalizzazione dei visti, sia quelli per cui il visto è sempre necessario per entrare o transitare in qualsiasi Paese Schengen (Afghanistan, Bangladesh, Eritrea, Etiopia, Ghana, Iran, Iraq, Nigeria, Pakistan, Repubblica Democratica del Congo e Somalia), sia quelli per cui non è richiesto in tutti i Paesi Schengen. I cittadini di Stati appartenenti a questo elenco devono rispettare le regole nazionali sui visti richieste da ciascun membro Ue o Schengen.Il secondo elenco contiene 64 membri, comprese anche due regioni amministrative speciali della Cina (Hong Kong e Macao) e Taiwan (autorità territoriale non riconosciuta come Stato da tutti i membri Ue). Gli accordi con Bielorussia, Russia e Vanuatu sono stati invece sospesi. Per tutti questi Paesi extra-Ue ed extra-Schengen – come il Kosovo – è prevista l’esenzione dal dover fare richiesta per ottenere il visto d’ingresso per accedere allo spazio Schengen, ovvero l’area che ha abolito le frontiere interne. I cittadini di questi Stati possono utilizzare semplicemente il proprio passaporto nazionale – senza ulteriori requisiti richiesti – per viaggiare e soggiornare fino a 90 giorni (in un periodo complessivo di 180 giorni) nei Paesi Ue e Schengen.Tutti i cittadini dei Paesi membri Ue possono attraversare liberamente le frontiere interne con la propria carta d’identità – anche quelli che non fanno parte dello spazio Schengen, cioè Cipro, Bulgaria, Irlanda e Romania – così come i cittadini dei territori esterni appartenenti ai 27 Paesi Schengen (Groenlandia, Isole Svalbard, Guyana Francese, Nuova Caledonia e altri territori d’oltremare). All’area che ha abolito le frontiere interne aderiscono anche quattro Stati extra-Ue: Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. I cittadini di un qualsiasi altro Paese nel mondo solitamente devono fare richiesta di un visto (di lavoro, turistico, di studio), che è l’atto con il quale uno Stato concede a un individuo straniero il permesso di accedere nel proprio territorio. Tuttavia l’Ue ha istituito una politica di visti comune per soggiorni di breve durata, transito nel territorio o negli aeroporti internazionali degli Stati Schengen.Sulla base di una valutazione caso per caso la Commissione può proporre ai co-legislatori del Parlamento e del Consiglio dell’Ue una decisione per la liberalizzazione dei visti. La valutazione si basa su una serie di criteri pre-stabiliti: migrazione irregolare, ordine pubblico e sicurezza, vantaggi economici (turismo e commercio estero), diritti umani, libertà fondamentali, implicazioni di coerenza regionale e reciprocità. Le nuove decisioni sull’esenzione devono essere adottate da entrambi i co-legislatori, dopo i negoziati bilaterali con il Paese interessato.