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    Orbán stende il tappeto rosso per “l’amico di lunga data” Xi Jinping. Cina e Ungheria firmano 16 accordi di cooperazione

    Bruxelles – Si conclude tra le sventolanti bandiere cinesi di Budapest il tour europeo di Xi Jinping. Dopo il trilaterale con Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen a Parigi e la visita in Serbia, il presidente della Cina è ospite oggi (9 maggio) dell’amico “di lunga data” ungherese. Per l’occasione del 75esimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Pechino e Budapest (e della festa dell’Europa, per uno strano scherzo del destino) il primo ministro Viktor Orbán e Xi firmeranno 16 accordi di cooperazione, che inaugurano una nuova fase dei rapporti tra il gigante asiatico e il suo più stretto alleato nell’Unione europea.Il premier cinese e la moglie, Peng Liyuan, sono stati ricevuti in mattinata dal presidente ungherese Tamas Sulyok nel palazzo presidenziale, per poi dirigersi – accompagnati lungo il percorso da centinaia di persone che sventolavano bandiere cinesi e ungheresi – alla volta del castello di Buda, dove hanno sfilato su un tappeto rosso mentre risuonavano gli inni nazionali. Alla cerimonia hanno partecipato numerosi funzionari dei due Paesi, tra cui il primo ministro Orbán.Bandiere cinesi e ungheresi davanti al Castello di Buda a Budapest (Photo by Attila KISBENEDEK / AFP)Gli accordi – annunciati nei giorni scorsi dal governo ungherese – riguardano un ampio ventaglio di settori: dalle infrastrutture ferroviarie e stradali, all’energia nucleare e all’automobile. Budapest attira da anni numerose aziende cinesi e grandi progetti di produzione di veicoli elettrici e batterie. Investimenti per decine di miliardi di euro, di cui l’opposizione ungherese ha denunciato l’opacità dei contratti, l’impatto ambientale delle fabbriche e la corruzione. Investimenti che arricchirebbero lo stretto “circolo di Orbán”.Secondo i dati dell’Observatory of Economic Complexity (Oec), nel 2022 il surplus commerciale della Cina con l’Ungheria è stato di quasi 8 miliardi di dollari: Budapest ha importato beni dalla Repubblica Popolare per un valore di 10,5 miliardi (il 6,88 per cento del totale delle importazioni, seconda solo alla Germania), mentre l’export verso la Cina si è fermato a 2,89 miliardi di dollari. Una forbice in costante aumento negli ultimi anni che – sommata alla serie di contratti miliardari che Orbán ha firmato con Pechino – è stata definita dall’Ispi “una trappola del debito” con la Cina.Ma il legame sempre più stretto con la Cina fa parte della politica perseguita da Orbán fin dal 2010, che guarda a Est e fa l’occhiolino a Mosca oltre che a Pechino. Sul conflitto in Ucraina, la posizione di Orbán è molto più vicina a quella della Cina rispetto a quella dell’Unione europea, come dimostrano i recenti scontri tra gli altri 26 e l’Ungheria sulle sanzioni al Cremlino e sul fondo per l’Ucraina. In un editoriale pubblicato sul quotidiano ungherese filogovernativo Magyar Nemzet prima del suo arrivo, Xi Ha elogiato i 75 anni di relazioni diplomatiche in cui “Cina e Ungheria sono rimaste buone amiche e hanno imparato l’una dall’altra”, proponendo “una maggiore fiducia politica reciproca” e la guida congiunta della “cooperazione regionale e il mantenimento della giusta direzione delle relazioni Cina-Europa” al fine di “unire le forze per affrontare le sfide globali”.Dichiarazioni zuccherine che ricalcano quelle di pochi giorni fa a Belgrado tra il presidente cinese e l’omologo serbo, Aleksandar Vučić. Anche in quell’occasione, i due leader hanno siglato un totale di 28 accordi e protocolli d’intesa dalle infrastrutture alla cultura, dallo sport alla tecnologia. Accordi che non possono non impensierire Bruxelles, non proprio in linea con la richiesta di una maggiore cooperazione per “evitare incomprensioni” che von der Leyen e Macron hanno rivolto a Xi nella prima tappa del suo tour europeo.

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    In Macedonia del Nord i nazionalisti si prendono tutto. E il percorso di adesione Ue è ancora più scivoloso

    Bruxelles – È una vittoria schiacciante, senza appello e su due fronti. I nazionalisti in Macedonia del Nord hanno trionfato sia alle elezioni presidenziali sia alle elezioni legislative per il rinnovo dell’Assemblea parlamentare e ora sono pronti a tornare a governare dopo otto anni all’opposizione. Un risultato che potrebbe però avere contraccolpi pesanti non solo per la polarizzazione politica all’interno del Paese balcanico, ma anche per i rapporti già fragili con alcuni vicini nella regione e per i progressi di Skopje nel percorso verso l’adesione all’Unione Europea.La neo-presidente della Macedonia del Nord, Gordana Siljanovska-Davkova (credits: Robert Atanasovski / Afp)Il ballottaggio delle presidenziali andato in scena ieri (8 maggio) ha visto una prima volta nella storia poco più che trentennale della Macedonia (oggi del Nord): la candidata dei nazionalisti di Vmro-Dpmne, Gordana Siljanovska-Davkova, si è imposta sul capo di Stato uscente e candidato dell’ormai ex-partito al governo Unione Socialdemocratica di Macedonia (Sdsm), Stevo Pendarovski,con il 65,14 per cento delle preferenze e diventerà la prima presidente donna del Paese dal 12 maggio. La carica è perlopiù cerimoniale, ma per la prossima capa dello Stato la sua elezione rappresenta “un passo avanti per i diritti delle donne, sarò al loro fianco”. Tuttavia la vittoria dilagante sembra piuttosto legata a un segnale di risposta degli elettori alla frustrazione per i casi di corruzione nel Paese e per il continuo stallo della Macedonia del Nord nel percorso di adesione all’Unione Europea, anche dopo l’avvio del negoziati inter-istituzionali nel luglio 2022.A dimostrarlo è il risultato delle elezioni legislative svoltesi in parallelo al ballottaggio delle presidenziali. Quando ormai è stata scrutinata la quasi totalità delle schede elettorali, la coalizione guidata dai nazionalisti di Vmro-Dpmne ha conquistato il 43,23 per cento dei voti e potrà contare su 58 seggi all’Assemblea nazionale, tre in meno rispetto alla soglia minima per la maggioranza parlamentare. Tracollo dei socialdemocratici, scesi al 15,36 per cento delle preferenze dopo otto anni di governo e superati in termini di seggi parlamentari anche dalla coalizione guidata dal principale partito della minoranza albanese Unione Democratica per l’Integrazione (19 a 18). Il leader dell’Sdsm ed ex-premier, Dimitar Kovačevski, ha non solo definito il risultato “un duro colpo” per il partito, ma ha anche annunciato l’intenzione di dimettersi dalla presidenza una volta trovato un sostituto. A questo punto i nazionalisti dovranno impegnarsi in colloqui con i partiti più piccoli entrati all’Assemblea per andare alla ricerca di una coalizione che sostenga il nuovo esecutivo.Il leader di Vmro-Dpmne, Hristijan Mickoski (Armend Nimani / Afp)L’incognita più grande per il futuro della Macedonia del Nord riguarda però l’atteggiamento che i futuri ministri (e presumibilmente il capo dell’esecutivo) di Vmro-Dpmne terranno nei confronti di Grecia e Bulgaria nell’ambito del percorso di adesione all’Unione Europea, considerato il fatto che dalla nascita della Repubblica i motivi di tensione con i vicini regionali sono stati tutti causati da questioni nazionaliste. La Macedonia del Nord è un Paese candidato all’adesione Ue dal 2005, ma il suo percorso è stato ostacolato fino al 2018 dalla Grecia, per la contesa identitaria e sul cambio del nome del Paese balcanico: solo con gli Accordi di Prespa firmati il 12 giugno 2018, la Repubblica di Macedonia è diventata Repubblica della Macedonia del Nord e ha potuto accedere alla Nato (in attesa dell’ingresso Ue). Ma il leader di Vmro-Dpmne e indiziato principale per diventare il nuovo premier, Hristijan Mickoski, si è sempre rifiutato di riconoscere il nuovo nome. Al momento dalla Grecia non ci sono reazioni, ma non è da escludere che possano riemergere vecchie tensioni tra Atene e Skopje sull’uso del nome della patria di Alessandro Magno.La questione più grave per le tempistiche dell’adesione Ue per la Macedonia del Nord può invece coinvolgere un altro Paese membro Ue, la Bulgaria. Era il 9 dicembre 2020 quando si registrava in Consiglio Affari Generali lo stop della Bulgaria all’avvio dei negoziati di adesione Ue con Skopje, tenuti in stallo per oltre un anno e mezzo fino alla svolta dell’estate 2022. Grazie all’iniziativa del presidente francese, Emmanuel Macron, prima il Parlamento bulgaro ha revocato il veto e poi anche quello macedone ha dato l’approvazione all’intesa: con la firma del protocollo bilaterale tra Sofia e Skopje si è sbloccata definitivamente la situazione e si è potuti arrivare alle prime conferenze intergovernative per Macedonia del Nord (e Albania, legata dallo stesso dossier) il 19 luglio 2022, dopo un’attesa lunga quasi tre anni. Ma per aprire il primo Cluster dei negoziati di adesione Ue sono necessarie non solo tutta una serie di riforme – dal settore giudiziario alla gestione appalti pubblici, dalla lotta alla corruzione alla riforma della pubblica amministrazione – ma soprattutto emendamenti alla Costituzione a proposito delle minoranze nel Paese, in primis quella bulgara.È proprio qui che potrebbe cascare il palco con un governo nazionalista in Bulgaria. Mickoski ha promesso di mantenere una linea dura sulle questioni linguistiche e storiche, quelle puramente identitarie su cui si è bloccato tutto a Bruxelles da dicembre 2020 a luglio 2022: “Non voteremo modifiche costituzionali sotto dettatura bulgara né ora né in futuro“, è la minaccia del leader di Vmro-Dpmne. Nell’ultimo anno e mezzo il governo guidato dai socialdemocratici ha tentato di emendare la Costituzione per riconoscere la minoranza bulgara, ma non ha mai trovato i numeri necessari per far approvare la mozione all’Assemblea nazionale (per cui sono necessari almeno i due terzi dei deputati). Nemmeno dopo questa tornata elettorale emergerà una maggioranza sufficiente e l’unica speranza per i macedoni è che l’aspra retorica nazionalista di Vmro-Dpmne si affievolisca nei prossimi mesi, favorendo accordi di compromesso dietro le quinte come successo nel 2018 per far passare a livello costituzionale gli Accordi di Prespa. Anche su questo scenario aleggia un’incognita minacciosa, ovvero quella della campagna elettorale in Bulgaria, che il 9 giugno andrà a elezioni anticipate per la sesta volta in tre anni. Il rischio è che il risultato di ieri alle urne in Macedonia del Nord inasprisca la retorica nazionalista anche a Sofia, rendendo di nuovo il rapporto tra i due Paesi un tema di scontro politico in grado di frenare il percorso di Skopje verso l’Unione Europea.

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    Il presidente serbo Vučić mantiene ambiguità verso la linea Ue anche sui rapporti con la Cina

    Bruxelles – Un rapporto “d’acciaio” che “nessuno potrà spezzare”. Non quello tra la Serbia e l’Unione Europea, ma tra la Serbia e la Cina. Sono queste le parole scelte dal presidente serbo, Aleksandar Vučić, per accogliere l’omologo cinese, Xi Jinping, oggi (8 maggio) a Belgrado, nel suo tour europeo che lo ha portato anche a Parigi e infine a Budapest. Una tappa carica di simbolismo per le relazioni tra Serbia e Cina – ricorre il 25esimo anniversario dal bombardamento Nato di Belgrado che colpì anche l’ambasciata cinese – i cui toni hanno evidenziato ancora una volta la distanza di Vučić dalla linea che l’Unione a cui vorrebbe aderire sta cercando (a fatica) di tenere nei confronti di Pechino.Da sinistra: il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Belgrado il 7 maggio 2024 (credits: Elvis Barukcic / Afp)“La Cina non ha mai voltato le spalle alla Serbia, sono stati al nostro fianco anche 25 anni fa, siete sempre i benvenuti nella vostra seconda casa”, è stata l’accoglienza con tutti gli onori al presidente cinese da parte del leader serbo, facendo riferimento ai bombardamenti Nato nella primavera del 1999 condannati da Pechino. Un atteggiamento che non cela completamente una buona dose di provocazione nei confronti dell’Unione Europea, dalla politica estera alla politica economica. “Come piccolo Paese dobbiamo affrontare pressioni che provengono da diverse parti a causa della politica autonoma che portiamo avanti, ti chiediamo sostegno”, è la richiesta di Vučić a uno dei Paesi che più creano preoccupazioni a Bruxelles, con implicito riferimento al non-allineamento sulle sanzioni Ue contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina. Negli ultimi due anni il presidente serbo ha dovuto fare l’equilibrista per non diventare il paria in Europa – con un’opposizione totale alla linea dura dell’Ue contro il Cremlino – ma allo stesso tempo per non trovarsi costretto a recidere il legame con Mosca adottando le sanzioni internazionali. Ed è proprio grazie alla sponda cinese (e alla stessa ambiguità di Pechino verso la Russia) che Vučić riesce a ritagliarsi uno spazio di manovra altrimenti insostenibile, dimostrando al contrario l’immobilità dell’Ue nel prendere contromisure.Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, a Mosca (4 dicembre 2019)Un altro tema su cui la Serbia trova il sostegno della Cina è senza dubbio quello della sovranità territoriale e del non-riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo (dichiarata unilateralmente nel 2008), nonostante Bruxelles sia impegnata da oltre 10 anni nella mediazione di un difficilissimo dialogo per la normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina. “I due Paesi sostengono fermamente i reciproci interessi, sulla base di solidi rapporti politici”, ha confermato Xi Jinping: “La Cina appoggia la Serbia nella difesa della sua indipendenza e nel suo corso di sviluppo“. Anche su questo fronte per il leader serbo risulta più sostenibile continuare a ostacolare quanto negoziato a livello diplomatico con Bruxelles, mentre l’Unione sembra incapace di reagire con la stessa rigidità assunta nei confronti di Pristina. Per Pechino la carta di scambio è il riconoscimento di Taiwan come parte integrante della Cina, questione non particolarmente spinosa a Belgrado: “Siamo amici fedeli”, ha confermato Vučić a proposito di un altro tema di distanza dalla cautela che invece sta cercando l’Unione Europea (sempre ricordando che la Serbia è un Paese candidato all’adesione).E poi c’è la politica economica e commerciale, proprio uno dei due temi di “interesse vitale” per l’Unione Europea al centro del vertice trilaterale di lunedì (6 maggio) a Parigi tra il presidente cinese, l’omologo francese, Emmanuel Macron, e la numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. “La Serbia e la Cina stanno passando da avere relazioni strategiche al futuro comune dei nostri due Paesi, è la più alta forma di cooperazione e sono orgoglioso di aver potuto firmarla oggi”, ha esultato Vučić, parlando della Dichiarazione congiunta siglata oggi per il rafforzamento del partenariato strategico globale tra Pechino e Belgrado: “Traccia la direzione per lo sviluppo delle relazioni nostre bilaterali”. I due leader hanno siglato un totale di 28 accordi e protocolli d’intesa dalle infrastrutture alla cultura, dallo sport alla tecnologia – compreso uno sull’acquisto di nove treni elettrici per le ferrovie del Paese balcanico, mentre l’alta velocità Belgrado-Budapest sarà completata entro il 2026 con il sostegno cinese – e la cui traiettoria non può non impensierire Bruxelles: “La Serbia diventa il primo Paese europeo con il quale costruiremo una comunità per un futuro comune“, ha aggiunto il presidente cinese.Per concludere la carrellata di dichiarazioni sibilline, se non di vere e proprie provocazioni nei confronti dell’Unione Europea, il presidente Vučić ha voluto anche sottolineare che la Cina “è il nostro principale investitore e il secondo partner commerciale”, con le esportazioni da Belgrado verso Pechino che sono “aumentate di 140 volte negli ultimi dieci anni, e con l’Accordo di libero scambio [dell’ottobre 2023, ndr] potremo esportare quasi il 95 per cento dei prodotti che produciamo senza dazi”. Il leader serbo si è però dimenticato di ricordare il valore commerciale di questo rapporto e della differenza abissale con quanto in ballo con i Ventisette: se nel 2022 la Cina muoveva 5,8 miliardi (in euro) tra esportazioni (4,7) e importazioni (1,1), nello stesso anno la Serbia importava 21,39 miliardi ed esportava 17,69 miliardi nell’Ue, per un totale di 39,08 miliardi di euro (più di sei volte rispetto a Pechino).Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    C’è l’accordo Ue sui profitti dei beni congelati russi. Il 90 per cento sarà destinato all’assistenza militare per l’Ucraina

    Bruxelles – L’Ue ha trovato l’accordo che permetterà di strappare circa 3 miliardi di euro all’anno al Cremlino e recapitarli sotto forma di assistenza militare all’Ucraina. Gli ambasciatori dei 27 hanno dato il via libera alla proposta messa sul tavolo lo scorso 20 marzo dall’Alto rappresentante Ue Josep Borrell di utilizzare interamente i proventi dei beni congelati alla Russia per sostenere la resistenza di Kiev. Il 90 per cento attraverso la fornitura di attrezzature militari, il 10 per cento per la futura ricostruzione dell’Ucraina.Da febbraio 2022, nei Paesi Ue sono immobilizzati asset e riserve della Banca centrale russa per un valore di circa 210 miliardi di euro. Che, a seconda dei tassi di interesse, frutteranno i circa 3 miliardi di profitti all’anno che l’Ue ha individuato per dare vigore al proprio sostegno militare a Kiev. La proposta prevede che i proventi – escludendo uno 0,3 per cento che sarà usato per pagare la gestione dell’operazione da parte delle società di clearing che detengono gli asset russi congelati – siano destinati per il 90 per cento circa all’assistenza militare all’Ucraina attraverso il Fondo europeo per la Pace, mentre il restante 10 per cento andrà a rimpinguare la fetta di budget Ue dedicato alla ricostruzione del Paese. E per sostenere e incrementare le capacità dell’industria della difesa di Kiev.Questa ripartizione varrebbe per il 2024, mentre negli anni successivi – nel momento in cui cambiassero le priorità – il regolamento garantirà una certa flessibilità e potrà essere rivisto e modificato dal Consiglio dell’Ue. La prima revisione sarebbe già prevista il 1 gennaio 2025. “Non potrebbe esserci simbolo più forte e utilizzo migliore per quei soldi che rendere l’Ucraina e tutta l’Europa un posto più sicuro in cui vivere”, ha esultato con un post su X la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.Per poter assicurare una solida base legale alla proposta, l’Ue ha precisato più volte che i profitti in questione non sono di proprietà della Russia, ma dei depositari dei titoli, le società di clearing che detengono riserve e attività della Banca centrale russa. Primo fra tutti il gruppo belga Euroclear, che detiene circa 190 miliardi degli asset russi immobilizzati dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. La società di clearing con sede a Bruxelles si era inizialmente opposta all’utilizzo dei proventi, ma a quanto si apprende “le entrate fiscali generate in Belgio da questi profitti inattesi continueranno ovviamente a essere destinate al 100 per cento all’Ucraina”. Fonti diplomatiche rassicurano che “non c’è nessuna inversione di rotta”.L’accordo c’è, ora – per garantire risorse aggiuntive all’Ucraina già “prima dell’estate” – manca solo l’approvazione formale del Consiglio dell’Ue in una delle prossime riunioni ministeriali.

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    La firma dell’Accordo di Associazione Ue con San Marino e Andorra è attesa “entro l’autunno”

    Bruxelles – L’accordo c’è, l’intesa è finalizzata, ma per l’entrata in vigore dell’Accordo di Associazione dell’Unione Europea con San Marino e Andorra sono necessari ancora alcuni passaggi formali, che il gabinetto von der Leyen si augura possano chiudersi “al massimo entro la fine dell’anno”. A fornire una tempistica di massima all’indomani della finalizzazione delle “300 pagine di testo” è stato il vicepresidente esecutivo della Commissione Ue responsabile per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič, che nel corso di una conferenza stampa tenutasi ieri pomeriggio (7 maggio) ha messo il punto ai lavori di limatura dei testi giuridici, aprendo la strada all’approvazione finale delle istituzioni Ue e dei due microstati europei.Il vicepresidente della Commissione Europea per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič (7 maggio 2024)“Stiamo avviando la procedura al Consiglio con la traduzione e la discussione, ci aspettiamo che il Consiglio ci autorizzi a firmare l’Accordo di Associazione nel tardo autunno“, ha spiegato Šefčovič sul podio del Berlaymont al fianco del primo ministro di Andorra, Xavier Espot, e del ministro degli Affari Esteri di San Marino, Luca Beccari. Rimane però un velo di incertezza sulla data entro cui il percorso negoziale iniziato nel marzo 2015 si concluderà definitivamente, considerato il fatto che la composizione delle istituzioni incaricate di chiudere l’iter sarà quasi interamente diversa da quella che ha raggiunto l’intesa storica nel dicembre dello scorso anno. A giugno andranno a elezioni sia l’Unione Europea sia San Marino, e questo significa che due attori su tre (Andorra le ha tenute lo scorso anno) avranno nuovi Parlamenti – incaricati di ratificare l’accordo – e nuovi esecutivi, oltre a una nuova presidenza semestrale del Consiglio dell’Ue (dal primo luglio): “Anche la prossima presidenza ungherese è interessata a rapidi progressi“, ha voluto rassicurare Šefčovič.A proposito di quanto è in ballo, il 12 dicembre 2023 le tre parti avevano comunicato i risultati di oltre otto anni di negoziati, con tutti i dettagli di un accordo paragonabile a quello che regola i rapporti tra Bruxelles e Norvegia, Islanda e Liechtenstein. “Probabilmente siamo andati oltre, questo è l’accordo complessivo più completo che ha l’Unione Europea, una sorta di Spazio Economico Europeo +”, aveva esultato il vicepresidente della Commissione Ue. L’accordo prevede la partecipazione di San Marino e Andorra al Mercato interno dell’Ue in condizioni di parità di concorrenza. Inclusi i servizi finanziari, ma in modo progressivo e a seconda dall’esito della verifica della solidità dei quadri normativi e di vigilanza (la condizione preliminare è la conformità alle misure anti-riciclaggio). Parallelamente sarà stabilito un quadro di sviluppo del dialogo e della cooperazione in settori di interesse comune – ricerca e sviluppo, istruzione, politica sociale, ambiente, protezione dei consumatori, cultura o cooperazione regionale – e uno istituzionale per l’interpretazione e l’applicazione dell’accordo in linea con la giurisprudenza europea (di cui la Corte di Giustizia Ue è arbitro ultimo per le controversie).I negoziati per l’Accordo di Associazione erano iniziati nel marzo del 2015, ma le conseguenze della guerra russa in Ucraina hanno portato a un’accelerazione: il 30 giugno 2022 era stata presentata una roadmap per arrivare alla firma entro il 2024 degli Accordi di Associazione con Andorra, Monaco e San Marino. Tuttavia a fine agosto 2023 i presidenti dell’Autorità bancaria europea (Eba), dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) e dell’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (Eiopa) avevano avvertito la Commissione che finalizzare questi accordi potrebbe aprire le porte del Mercato Unico a una destabilizzazione dei servizi finanziari. Nel giro di due settimane la consigliera del ministero degli Affari esteri e della cooperazione del Principato di Monaco, Isabelle Berro-Amadei, aveva concordato con il braccio destro di Ursula von der Leyen che “le condizioni non erano mature per concludere un accordo”. Il lavoro è così continuato solo con San Marino e Andorra.San Marino, Andorra e gli altri microstati europeiA oggi i due microstati europei in questione hanno status diversi. Né San Marino né Andorra sono parte dello spazio Schengen (che prevede la libera circolazione delle persone tra Stati membri Ue e l’abolizione delle frontiere comuni), tuttavia esiste un’unione doganale con l’Unione dal 1991: solo San Marino lo è anche per i prodotti agricoli dal 2002. Andorra mantiene parte dei suoi controlli al confine, solamente in alcuni valichi di frontiera con la Spagna. Per quanto riguarda il Principato di Monaco – che ha fatto un passo indietro dall’Accordo di Associazione a settembre 2023 – attualmente è in una situazione ibrida, e applica alcune politiche dell’Ue attraverso la relazione speciale che ha con la Francia: è membro di fatto di Schengen, mentre è a pieno titolo parte del territorio doganale dell’Unione.Per quanto riguarda gli altri microstati europei, il Liechtenstein è l’unico a far parte dello Spazio economico europeo e del Mercato Unico (dal primo maggio del 1995), mentre dal 19 dicembre del 2011 ha firmato gli accordi Schengen. La Città del Vaticano è il più piccolo Stato riconosciuto al mondo e ha solamente il confine aperto con l’Italia. Tutti i microstati europei (fatta eccezione per il Liechtenstein, che usa il franco svizzero) usano come moneta ufficiale l’euro e hanno il diritto di coniarne un numero limitato, perché viene riconosciuto loro l’aver utilizzato o essere stati legati a valute non più in circolazione di alcuni Paesi membri (lira per San Marino e Città del Vaticano, franco francese per Monaco, peseta spagnola e franco francese per Andorra). Da parte di Bruxelles non c’è l’interesse di integrare nessuno dei microstati europei come Paese membro, dal momento in cui sarebbe eccessivamente complesso gestire questioni interne all’Unione (come le presidenze di turno del Consiglio dell’Ue, o il diritto di veto degli Stati membri) per entità territoriali troppo limitate a livello di superficie e popolazione.

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    I primi pagamenti Ue dal Piano di crescita per i Balcani Occidentali potrebbero arrivare entro l’estate

    Bruxelles – Il percorso legislativo è terminato, ora inizia la fase di messa a terra. Con il via libera definitivo del Consiglio dell’Ue allo Strumento di riforma e crescita per i Balcani Occidentali da 6 miliardi di euro, il nuovo Piano dell’Unione a sostegno delle economie dei sei Paesi partner è pronto per mostrare subito i primi risultati concreti. Già nei prossimi mesi. “Se tutto andrà bene, speriamo di poter effettuare un primo pagamento entro l’estate“, ha anticipato alla stampa oggi (7 maggio) la portavoce della Commissione Ue responsabile per la Politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero, commentando la notizia dell’approvazione finale del Consiglio all’accordo raggiunto con i co-legislatori del Parlamento Ue un mese fa.A questo punto sono attesi solo i passaggi formali a Bruxelles: firma del Regolamento che istituisce il nuovo Strumento, pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’Ue ed entrata in vigore (il giorno successivo). “I nostri partner dei Balcani Occidentali stanno preparando le Agende di riforma per poter accedere ai finanziamenti dallo Strumento“, ha spiegato la portavoce, precisando che la Commissione si aspetta che “le presentino una volta che il Regolamento sarà entrato in vigore”. Le Agende di riforma di ciascuno dei sei partner balcanici – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – definiranno le riforme socio-economiche e fondamentali da intraprendere tra il 2024 e il 2027 per accedere ai fondi (2 miliardi di euro in sovvenzioni e 4 in prestiti agevolati). “I programmi dovranno essere valutati approvati dalla Commissione dopo le consultazioni con i Paesi membri”, dopodiché potranno essere messe sul piatto “assegnazioni indicative basate sul Pil e sulla popolazione“, ha concluso Pisonero.Il sostegno attraverso il Piano di crescita sarà fornito per metà dal Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) sotto forma di sovvenzioni e prestiti per gli investimenti a sostegno delle Agende di riforma, e per metà da prestiti erogati direttamente ai bilanci nazionali dei partner sulla base delle principali riforme socio-economiche. I pagamenti saranno effettuati due volte l’anno, “a condizione che i partner rispettino le fasi qualitative e quantitative” delle Agende (in caso contrario l’Ue può decidere di tagliare i fondi). Anche considerate alcune perplessità evidenziate dalla Corte dei Conti Europea, il Piano di crescita per i Balcani Occidentali prevede un approccio ‘prima i fondamentali’, vale a dire il collegamento tra Stato di diritto, lotta alla corruzione e diritti fondamentali con le altre due aree cruciali del processo di adesione Ue: la governance economica e il rafforzamento delle istituzioni democratiche e della riforma della pubblica amministrazione.Per rafforzare la trasparenza è previsto anche che i dati aggiornati sui destinatari finali che ricevono finanziamenti superiori a 50 mila euro cumulativamente per un periodo di quattro anni siano resi disponibili su una pagina web apposita.Cos’è il Piano di crescita per i Balcani OccidentaliIl Piano di crescita per i Balcani Occidentali è stato largamente anticipato dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e illustrato ai diretti interessati nel corso del suo ultimo tour autunnale nella regione, prima della presentazione ufficiale lo scorso 8 novembre in parallelo con la pubblicazione del Pacchetto Allargamento Ue 2023. “È qualcosa di eccezionale, sappiamo che il miracolo della prosperità arriva con l’accesso al Mercato unico e stiamo già iniziando questo processo, non stiamo aspettando la decisione finale sull’adesione politica“, aveva rivendicato la numero uno dell’esecutivo comunitario, illustrando i 4 pilastri di un Piano che dovrebbe sia “chiudere il gap economico e sociale” tra Ue e regione balcanica sia permettere “l’integrazione sul campo anche prima che entrino formalmente come Paesi membri”.Il primo pilastro è proprio l’integrazione economica nel Mercato unico in sette settori fondamentali, a condizione di un allineamento alle regole Ue e dell’apertura dei settori pertinenti ai Paesi vicini: libera circolazione delle merci, libera circolazione dei servizi e dei lavoratori, accesso all’Area unica dei pagamenti in euro (Sepa), facilitazione del trasporto su strada, integrazione e de-carbonizzazione dei mercati energetici, mercato unico digitale e integrazione nelle catene di approvvigionamento industriale. Il secondo pilastro è quello dell’integrazione economica interna attraverso il Mercato regionale comune (basato su regole e standard Ue): Bruxelles stima che solo questo fattore potrebbe potenzialmente aggiungere un 10 per cento alle economie dei Sei balcanici. Il terzo pilastro riguarda le riforme fondamentali, che nel Piano di Bruxelles andranno da una parte a sostenere il percorso dei Balcani Occidentali verso l’adesione Ue e dall’altro sosterranno gli investimenti esteri e il rafforzamento della stabilità regionale.A proposito di investimenti, è qui che si inserisce il quarto pilastro dell’assistenza finanziaria Ue alle riforme per tutti i sei partner. Si tratta nello specifico di un nuovo strumento di riforma e crescita per i Balcani Occidentali da 6 miliardi di euro per il periodo 2024-2027, i cui pagamenti saranno vincolati all’attuazione delle riforme socio-economiche concordate (esattamente come Next Generation Eu per i Ventisette). Con la revisione intermedia del Quadro finanziario pluriennale Ue 2021-2027 è stato dato il via libera allo strumento composto di 2 miliardi di euro in sovvenzioni (finite nel bilancio Ue senza modifiche alla proposta della Commissione) e 4 miliardi in prestiti agevolati, per la cui messa a terra servirà prima che ciascuno dei sei Paesi presenti un’agenda di riforme basata sulle raccomandazioni del Pacchetto Allargamento e dei Programmi di riforma economica (Erp).La presidente della Commissione Europea, Ursula von der LeyenVa infine segnalato che per Serbia e Kosovo c’è una clausola supplementare, che “si impegnino in modo costruttivo con progressi misurabili e risultati tangibili nella normalizzazione delle loro relazioni”. In altre parole, senza progressi nel dialogo Pristina-Belgrado, rimarranno in stallo – o andranno perduti – i finanziamenti previsti dal Piano. Lo stesso discorso vale per la Bosnia ed Erzegovina in caso di mancata implementazione delle riforme fondamentali: “Le risorse saranno ridistribuite ad altri Paesi che sono in grado di farlo, questo è un forte incentivo ad andare avanti in modo attivo”, ha avvertito la numero uno della Commissione nella sua tappa del primo novembre a Sarajevo.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Israele rompe gli indugi e muove l’esercito su Rafah. Borrell: “Ci saranno molte vittime civili, non esistono zone sicure a Gaza”

    Bruxelles – Nella notte tra il 6 e il 7 maggio, Israele ha mosso le prime pedine della temuta – e osteggiata dalla comunità internazionale – operazione militare a Rafah, città nel sud della Striscia di Gaza dove si sono rifugiati più di un milione di sfollati palestinesi. Proprio mentre Hamas aveva accettato l’accordo per il cessate il fuoco e la liberazione di una parte degli ostaggi, ritenuto però da Tel Aviv “ben lontano da soddisfare le richieste di Israele”.A seguito dell’uccisione di quattro soldati israeliani in un attacco di gruppi armati palestinesi, le forze di difesa israeliane avrebbero chiuso in modo congiunto i due varchi al confine con l’Egitto, Rafah e Kerem Shalom, e – secondo quanto denunciato dall’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) – starebbero momentaneamente bloccando l’ingresso degli aiuti alla popolazione civile. Mentre l’Associated Press ha riportato che almeno 23 palestinesi, tra cui almeno sei donne e cinque bambini, sarebbero morti nella raffica di attacchi e bombardamenti a Rafah effettuata dall’esercito israeliano durante la notte.L’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, a Bruxelles il 7/5/24“L’ultima triste notizia è che non esiste un accordo per un cessate il fuoco. Hamas ha accettato, Israele ha rifiutato e l’offensiva terrestre contro Rafah è ricominciata, nonostante tutte le richieste della comunità internazionale”, ha commentato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, in un punto stampa a Bruxelles. Nonostante Israele abbia ordinato l’evacuazione della parte orientale di Rafah verso una cosiddetta “area umanitaria allargata” ad Al Mawassi, cittadina sulla costa meridionale della Striscia, Borrell teme che “ciò causerà nuovamente molte vittime, vittime civili, qualunque cosa si dica”. Perché – come già sottolineato dalle Nazioni Unite – “non esistono zone sicure a Gaza“.Oltretutto, Ocha spiega che l’area da evacuare comprende nove siti che ospitano sfollati, tre cliniche e sei magazzini per la distribuzione di aiuti umanitari. “Con gli ordini di evacuazione odierni, 277 chilometri quadrati o circa il 76 per cento della Striscia di Gaza sono stati posti sotto ordine di evacuazione”, sottolinea l’ufficio dell’Onu. A Rafah, dal 7 ottobre a oggi, si sono man mano rifugiati circa 1,4 milioni di sfollati. Ultimo grande centro abitato non ancora raso al suolo dai bombardamenti israeliani, da settimane è al centro di un braccio di ferro tra Tel Aviv e la comunità internazionale, con le Nazioni Unite e l’Unione europea in testa a chiedere con fermezza a Netanyahu di rinunciare all’invasione.Un giovane palestinese tra le rovine di un palazzo distrutto dai bombardamenti israeliani su Rafah, 7/5/24 (Photo by AFP)Ma secondo Israele la vittoria su Hamas è impossibile senza prendere anche la roccaforte dove si nasconderebbero migliaia di combattenti e dove sarebbero custoditi gli oltre cento ostaggi ancora in mano al gruppo terroristico palestinese. L’invasione di Rafah sarebbe “intollerabile” per le sue “devastanti conseguenze umanitarie e l’impatto destabilizzante nella regione“, ha dichiarato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, a cui ha fatto eco anche il commissario Ue per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič: “Un’offensiva di terra su Rafah è totalmente inaccettabile. Aggiungerebbe una catastrofe alla catastrofe”.La scorsa settimana, nel corso di un dibattito a Maastricht, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, aveva definito “totalmente inaccettabile” un eventuale attacco a Rafah, affermando che la Commissione avrebbe preso misure concrete nel caso di un’invasione israeliana. Ora che Netanyahu sembra aver definitivamente forzato la mano, “rifletteremo con i Paesi membri sulla risposta più appropriata“, ha dichiarato il portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae), Peter Stano. Alla prossima riunione dei ministri degli Esteri dei 27, il prossimo 27 maggio.

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    Il Belgio prova a convincere l’Ue a bandire il ‘made in Israel’ proveniente dai territori palestinesi occupati

    Bruxelles – Bandire i prodotti israeliani provenienti dai territori palestinesi occupati. La presidenza belga del Consiglio dell’Ue prova a guidare quella che sarebbe una risposta senza precedenti al livello di Unione europea contro il partner della regione mediorientale. E’ il primo ministro del Belgio, Alexander De Croo, parlando ai media belgo-fiamminghi, a rivelare come si stia adoperando per convincere gli Stati membri dell’Ue a cancellare l’import ‘made in Israel’, con datteri, vino e olio d’oliva nel mirino.De Croo punta il dito contro la risposta dello Stato ebraico agli attacchi del 7 ottobre scorso. Dopo 35mila morti tra la popolazione palestinese e una violenza sta aumentando non solo nella Striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania, “è difficile per i paesi europei dire che continueremo ad agire come se nulla stesse accadendo“, sostiene il primo ministro belga. Il Belgio, che ha sostenuto il procedimento del Sudafrica contro Israele avviato alla Corte di giustizia internazionale dell’Aia con l’accusa di genocidio, vorrebbe una risposta ferma e decisa, sa che un’azione unilaterale avrebbe “effetto zero”, e quindi cerca di compattare il blocco dei Ventisette.Immaginarsi di avere un consenso unanime su una decisione di sanzioni contro Israele è arduo, e l’obiettivo della presidenza belga è quello di avere “almeno un grande gruppo di paesi che sono disposti a fare questo passo”. De Croo si mostra fiducioso. “Ci sono un certo numero di paesi che sono aperti al nostro ragionamento“, sostiene. Partendo da questo gruppi di Paesi, che non nomina, si cerca di spingersi oltre. “Stiamo cercando di andare oltre quel gruppo di Paesi che la pensano allo stesso modo, penso che sia logico cercare di convincere altri Paesi”.La presa di posizione di De Croo si spiega anche con ragioni di governo. All’interno della coalizione i partiti Ecolo, Groen (verdi francofoni e fiamminghi), Vooruit (socialisti fiamminghi) e Cd&V (cristiano-democratici fiamminghi) avevano già chiesto lo stop all’acquisto di prodotti israeliani provenienti dai territori palestinesi occupati, ma sono stati i liberali francofoni (Mr) a frenare su questa richiesta. Richiesta che non è caduta nel vuoto, e ora il premier belga ci prova.