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    La Commissione Ue: “Estendere protezione temporanea ad ucraini fino a 4 marzo 2026”

    Bruxelles – “Attualmente non esistono condizioni sicure e durature per il ritorno delle persone in Ucraina”, e per questo motivo la Commissione europea ha proposto di estendere la protezione temporanea per le persone in fuga dall’aggressione della Russia per un altro anno, dal 5 marzo 2025 al 4 marzo 2026. L’Ue ha attivato la Direttiva sulla Protezione Temporanea il 4 marzo 2022 con decisione unanime degli Stati Membri ed è stata automaticamente prorogata di un anno. L’ultimo rinnovo a settembre 2023. Adesso si rende necessaria una nuova, ulteriore riflessione.“La protezione temporanea ha già dato speranza a quasi 4,2 milioni di persone nell’Ue, e continueremo a fornire al popolo ucraino protezione temporanea per tutto il tempo necessario“, scandisce la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, che si dice “fiduciosa” sul fatto che “il Consiglio prenderà rapidamente la decisione di prolungare la protezione temporanea per un ulteriore anno”.La proposta della Commissione sarà sottoposta agli Stati membri in occasione della riunione del consiglio Affari interni del 13 giugno. Spetterà quindi ai ministri competenti valutare la proposta dell’esecutivo comunitario e procedere alla decisione del caso.A Bruxelles si guarda con preoccupazione al proseguimento della guerra e dell’offensiva russa. I continui attacchi dell’esercito di Mosca alle infrastrutture civili e critiche in tutta l’Ucraina costituiscono un motivo di serio rischio per la sicurezza dei civili. Da qui la necessità di continuare a garantire la protezione internazionale.

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    La Slovenia è il dodicesimo Paese dell’Ue a riconoscere lo Stato di Palestina

    Bruxelles – “Un messaggio di speranza” al popolo palestinese in Cisgiordania e a Gaza. Con queste parole, scritte sul suo account X, il primo ministro sloveno, Robert Golob, ha commentato il via libera da parte del parlamento di Lubiana alla proposta del governo di riconoscere la Palestina. La Slovenia diventa così il dodicesimo Paese dell’Ue a riconoscere lo Stato palestinese.Nella serata di ieri (4 giugno), l’Assemblea nazionale riunita in sessione straordinaria ha approvato con 50 voti favorevoli e nessun contrario – i restanti 40 deputati hanno abbandonato l’aula – la proposta del governo progressista guidato da Golob. La presidente del Parlamento di Lubiana, Natasa Pirc Musar, ha dichiarato che la Slovenia da ora in poi potrà “aiutare in modo ancora più credibile il popolo palestinese nel suo difficile cammino verso la vera indipendenza e l’uguaglianza nella comunità internazionale”.La Slovenia si aggiunge a Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Ungheria, Malta, Romania, Polonia, Slovacchia, Svezia, Spagna e Irlanda, gli Stati membri che riconoscono formalmente la Palestina. Di questi, solo Svezia, Spagna e Irlanda avevano attuato il riconoscimento mentre erano Paesi Ue. La guerra tra Israele e Hamas e la tragedia umanitaria di Gaza hanno ridato slancio alla questione palestinese e alla necessità di compiere passi concreti verso la soluzione dei Due Stati, e dopo Madrid e Dublino, Lubiana è il terzo Paese Ue in poche settimane ad annunciare il riconoscimento dello Stato di Palestina.Ma la quantità di Stati membri a riconoscere Ramallah è ancora decisamente bassa, se comparata con quella dei Paesi membri dell’Onu: 145 su 193, oltre i tre quarti. Tra i 27, sono meno della metà.

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    La metà dei Paesi Ue spinge per adottare i quadri negoziali con Ucraina e Moldova entro giugno

    Bruxelles – Mentre partiti e politici europei sono assorbiti dalla campagna elettorale per le elezioni che si svolgeranno da domani a domenica (6-9 giugno), dietro le quinte a Bruxelles sono giorni caldissimi per il futuro dell’Unione. Perché il mese di giugno determinerà i tempi e le tappe per l’adesione Ue di due nuovi Paesi, che attualmente sono candidati e che hanno ricevuto l’endorsement del Consiglio Europeo per l’avvio dei negoziati. Ucraina e Moldova attendono l’esito del confronto tra gli ambasciatori dei Ventisette per sperare in un via libera il prossimo 25 giugno al Consiglio Affari Generali all’adozione dei rispettivi quadri negoziali. E se da una parte c’è un’Ungheria reticente (ma non inamovibile), dall’altra ci sono 12 governi che hanno deciso di appoggiare apertamente l’accelerazione dei negoziati con una lettera inviata alla presidenza di turno belga del Consiglio dell’Ue.La ministra degli Affari esteri del Belgio e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Hadja Lahbib“L’apertura dei negoziati di adesione darebbe ulteriore motivazione” sia a Kiev sia a Chișinău, si legge nel testo visionato da Eunews, che ricorda la situazione “disastrosa” in Ucraina e le “imminenti” elezioni presidenziali e il referendum sull’Ue in Moldova: “Ciò rafforzerebbe il morale e promuoverebbe il lavoro sulle riforme in questi Paesi”, sono convinti i ministri di Estonia, Finlandia, Germania, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Svezia. La richiesta alla ministra degli Affari esteri belga e presidente di turno del Consiglio, Hadja Lahbib – di cui è “molto apprezzato” il lavoro per far avanzare il processo di allargamento, sotto la sua guida dal primo gennaio –  è quella di adottare i quadri negoziali al Consiglio Affari Generali “al più tardi nel mese di giugno”, con l’obiettivo di convocare le prime conferenze intergovernative “entro la fine di giugno 2024”.La data segnata in calendario è quella del 25 giugno, quando si riuniranno i 27 ministri responsabili per la decisione (all’unanimità) sul via libera alle conferenze intergovernative con i candidati all’ingresso nell’Unione. “Alla luce dei risultati ottenuti e degli sforzi di riforma in corso” – si legge ancora nella lettera – “riteniamo che sia giunto il momento di andare avanti“, spingendo inoltre su una “integrazione graduale in singole politiche e programmi dell’Ue prima della piena adesione” all’Unione. La base di partenza sono le conclusioni del Consiglio Europeo di marzo, quando i capi di Stato e di governo hanno invitato i 27 ministri degli Affari europei ad “adottare rapidamente” i progetti di quadri di negoziazione e “a portare avanti i lavori senza indugio”. Lo stesso presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, aveva confessato allora che la speranza era quella di “arrivare alla prima conferenza intergovernativa sotto presidenza belga“, prima del passaggio di consegne all’Ungheria per la guida semestrale dell’istituzione Ue (che definisce calendari e temi in agenda delle riunioni dei ministri nelle diverse composizioni del Consiglio).Da sinistra: il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (7 febbraio 2023)È proprio questo il nodo dei 20 giorni che mancano all’appuntamento in Consiglio Affari Generali. Dopo la prima fumata nera al Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) di mercoledì scorso (29 maggio) a causa delle obiezioni ungheresi sull’Ucraina, il tema tornerà sul tavolo degli ambasciatori dei Ventisette venerdì (7 giugno). “Se i quadri negoziali saranno concordati entro quella data, la presidenza ha intenzione di organizzare le conferenze intergovernative per l’Ucraina e la Moldova dopo il Consiglio Affari Generali”, confermano fonti Ue in occasione della riunione di oggi (5 giugno) in cui è stata definita l’agenda parziale della riunione dei ministri del 25 giugno. Al momento sono state sciolte le riserve di tutti i Paesi membri, fatta eccezione per quelle di Budapest su diritti delle minoranze in Ucraina, commercio, lotta alla corruzione, agricoltura, funzionamento del Mercato unico e relazioni di buon vicinato.La speranza è che il governo di Viktor Orbán sia interessato a chiudere la questione dei colloqui di adesione dell’Ucraina prima di assumere la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue dal primo luglio, per evitare che il proprio semestre sia costellato da pressioni e polemiche a riguardo (e considerato il fatto che non si tratta dell’ultima occasione per l’Ungheria di utilizzare il potere di veto per bloccare l’adesione Ue di Kiev). Dopo la concessione dello status di Paese candidato nel giugno 2022 e nonostante i progressi costanti registrati dalla Commissione Europea nel corso del successivo anno e mezzo, il premier ungherese ha scelto la via dell’ostruzionismo per provare a impedire il via libera ai negoziati di adesione con Kiev. Solo attraverso una costante pressione delle istituzioni Ue – e lo sblocco da parte della Commissione di circa 10 miliardi di euro congelati a Budapest – Orbán ha compiuto un gesto abbastanza inconsueto ed eclatante al Consiglio Europeo del 14 dicembre 2023: ha lasciato la sala al momento del voto, così che gli altri 26 leader Ue potessero approvare la più attesa tra le conclusioni del vertice.Come funziona il processo di adesione UeIl processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.A che punto è l’allargamento UeLo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Nel Pacchetto Allargamento Ue 2023 la Commissione ha raccomandato al Consiglio di avviare i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova e di concedere alla Georgia lo status di Paese candidato. Tutte le richieste sono state poi accolte dal vertice dei leader Ue di dicembre e ora si attende solo l’avvio formale dei negoziati e l’adozione dei quadri negoziali per le prime due.Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Albania e Macedonia del Nord i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Montenegro e Serbia si trovano a questo stadio rispettivamente da 12 e 10 anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre 2022 anche la Bosnia ed Erzegovina è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione e al Consiglio Europeo del 21 marzo ha ricevuto l’endorsement all’avvio formale dei negoziati di adesione. Il Kosovo è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata a fine 2022: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue – Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia – continuano a non riconoscerlo come Stato sovrano.I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è stato affrontato in una relazione strategica apposita a Bruxelles.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Per la diplomazia l’Ue si fida dell’Italia, seconda per numero di ambasciatori

    Bruxelles – Un totale di 145 rappresentanze diplomatiche, sei dipartimenti (Africa, Americhe, Asia e Pacifico, Europa, Europa orientale e Asia centrale, Medio Oriente e Nord America), più di 5mila tra diplomatici, funzionari, addetti e impiegati di vario grado. Sono i numeri del servizio per l’azione esterna dell’Ue (Seae), l’organismo della diplomazia dell’Ue gestito e presieduto dall’Alto rappresentante. Una macchina complessa, per una rete attiva in tutto il mondo e che si affida tanto sull’Italia. Perché tra i capi-delegazione il Paese offre tanto all’azione a dodici stelle.I numeri dicono che l’Italia è seconda per numero di figure di spicco nelle rappresentanze diplomatiche dell’Ue. Un totale di 16 capi-delegazione, cioè ambasciatori dell’Unione, (dei quali 3 con contratto temporaneo). Lo stesso numero che può vantare la Spagna (16 dei quali 4 temporanei). Solo la Francia vanta un peso maggiore nella diplomazia Ue (22, dei quali 6 funzionari temporanei). Da notare la prestazione del Belgio, non tra i Paesi più grandi dell’Unione, che però può vantare ben 10 ambasciatori.A offrire un quadro dettagliato è Josep Borrell, l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza in carica, rispondendo a un’interrogazione parlamentare molto spiccia e diretta in cui si invita a “inviare la ripartizione per nazionalità” degli ambasciatori e dei capi-delegazione nelle rappresentanze dell’Ue.La risposta di Borrell è telegrafica, ma nel caso specifico le informazioni vanno ricercate nell’allegato alla sua risposta. Qui si offre il riassunto dell’organizzazione delle rappresentanze aggiornata ad aprile 2024.C’è dunque un’Europa che si fida degli italiani e della loro capacità in ambito diplomatico. Una riprova di ciò è dato anche dal numero di inviati speciali che fanno capo al Servizio per l’azione esterna. Delle 10 figure appositamente create, due sono italiane. Si tratta di Luigi Di Maio (per il Golfo persico) e di Emanuela Del Re (per il Sahel, mandato in scadenza ad agosto, in carica dal 2021).Da notare il peso della Germania, molto più contenuto di quanto ci potesse attendere e che sembra confermare un’attenzione tedesca più agli aspetti interni che a quelli internazionali. Ma soprattutto lo ‘zero’ alla voce ‘britannici’. Molto probabilmente si tratta di una diretta conseguenza della Brexit. L’uscita del Regno Unito dall’Ue non ha significato la partenza di funzionari entrati ben prima del referendum. All’1 gennaio 2024 in Commissione risultano ancora 428 cittadini britannici.

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    Anche la Grecia potrebbe aprire un caso di immunità parlamentare complicato dopo le elezioni europee

    Bruxelles – I casi sono diversi, così come sono diversi i luoghi di detenzione e le motivazioni che hanno spinto le scelte di candidatura. Ma queste elezioni europee 2024 passeranno alla storia anche per le decisioni di due partiti in Italia e in Grecia di includere nelle rispettive liste elettorali ciascuno una persona detenuta in un Paese terzo, aprendo un potenziale scenario inedito a Bruxelles sull’immunità parlamentare.Il sindaco eletto di Himarë (Albania), Fredi Beleri, candidato alle elezioni europee con Nuova Democrazia del primo ministro greco, Kyriakos MitsotakisOltre a Ilaria Salis, cittadina italiana detenuta in Ungheria per più di un anno in condizioni inaccettabili per un Paese membro Ue (solo dal 15 maggio le sono stati concessi gli arresti domiciliari) e candidata capolista nella circoscrizione Nord-ovest con Alleanza Verdi-Sinistra, il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, potrebbe aprire un caso diplomatico post-elezioni tra Bruxelles e Tirana per la decisione di candidare nelle liste del partito al potere Nuova Democrazia una delle figure politiche più controverse per i rapporti tra i due Paesi confinanti: il sindaco di etnia greca del comune albanese di Himarë, Fredi Beleri, condannato a marzo in primo grado a due anni di carcere per compravendita di voti alle elezioni comunali del maggio 2023.Il caso Beleri era già emerso come un punto di attrito anche ai tavoli europei nel corso della cena informale tra i vertici delle istituzioni Ue e i leader dei Balcani Occidentali, Ucraina e Moldova andata in scena ad Atene a fine agosto dello scorso anno. A quell’appuntamento mancava solo il premier albanese, Edi Rama, non invitato proprio a causa delle tensioni tra Grecia e Albania per la detenzione del sindaco eletto di Himarë, che non ha mai potuto giurare in quanto detenuto in carcere da due giorni prima delle elezioni del 14 maggio con l’accusa di compravendita di voti (anche lo sfidante e primo cittadino in carica, Jorgo Goro, è finito in carcere per corruzione). Da quel momento è iniziato un braccio di ferro diplomatico tra il governo Mitsotakis e il governo Rama, il primo accusato da Tirana di voler influenzare un’indagine indipendente su una figura associata all’insurrezione armata della minoranza greca in Albania nel 1994, il secondo sospettato da Atene di “violazione dei diritti umani” e di processo “politicamente motivato”.Da sinistra: il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der LeyenFinora il governo greco non è riuscito a fare pressioni diplomatiche sufficienti per la scarcerazione di Beleri e nemmeno le minacce di conseguenze negative sul percorso di adesione dell’Albania all’Unione Europea (con i negoziati iniziati nel luglio 2022) hanno sortito gli effetti sperati. La Grecia sostiene che il caso Beleri dovrebbe essere considerato un problema europeo e non solo una questione bilaterale – in quanto riguarderebbe il rispetto dello Stato di diritto e dei diritti delle minoranze in un Paese che aspira a fare ingresso nell’Unione – ma la forzatura ha infastidito alcuni tra i Ventisette più favorevoli all’accelerazione del processo di allargamento, come la Germania. È così che il premier greco ha deciso di percorrere una strada più ‘originale’ e il 15 aprile è arrivata l’ufficialità della nomina di Beleri come 25esimo candidato (su 42) nelle liste elettorali di Nuova Democrazia: “La sua candidatura ha un simbolismo molto forte, tutti coloro che sono realmente interessati ai diritti della minoranza etnica greca in Albania lo capiscono”, aveva affermato Mitsotakis due giorni più tardi a margine del Consiglio Europeo a Bruxelles.Al centro, da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro della Grecia, Kyriakos MitsotakisIn Grecia il sistema di voto prevede le preferenze e, con la nomina di Beleri, Nuova Democrazia sposta il baricentro del discorso politico sul piano patriottico, facendo leva su quello che è diventato un campo di battaglia retorica per il nazionalismo greco e albanese. Tecnicamente Tirana e Atene sono ancora in stato di guerra – dal 1940 quando l’Albania era un protettorato italiano durante la Seconda Guerra Mondiale – e nonostante sia in vigore dal 1996 il Trattato di amicizia, cooperazione, buon vicinato e sicurezza, i due membri della Nato stanno conoscendo un’escalation di tensione sul piano diplomatico, che coinvolgono da vicino anche le istituzioni Ue e il processo di allargamento. I sondaggi danno Nuova Democrazia al 33 per cento e non sembra improbabile che, grazie al sistema delle preferenze, Beleri possa essere tra gli otto eurodeputati eletti, facendo scattare a Bruxelles l’iter per l’immunità parlamentare.

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    Il partito al potere in Serbia ha vinto la ripetizione del voto a Belgrado. Tra violenze e ultranazionalismo

    Bruxelles – Questa volta è un trionfo per il partito al potere in Serbia, il Partito Progressista Serbo (Sns) controllato da vicino dal presidente della Repubblica, Aleksandar Vučić. Dopo l’ondata di proteste e le obiezioni della comunità internazionale su diverse criticità emerse nello svolgimento delle elezioni legislative e amministrative del 17 dicembre 2023, nella capitale Belgrado si è tornati ieri (2 giugno) al voto per la nuova composizione del Consiglio comunale. Nella vittoria schiacciante del partito al potere da 12 anni a livello nazionale (e 11 nella capitale) sono emerse però ancora nuove possibili irregolarità e violenze, e una retorica nazionalista ormai esasperata.Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (credits: Elvis Barukcic / Afp)“Deploriamo le minacce e gli attacchi subiti dai giornalisti durante i servizi sulle elezioni del 2 giugno“, è la denuncia dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) su quanto accaduto ieri a Belgrado: “I giornalisti hanno un ruolo cruciale nel coprire le elezioni, per informare il pubblico sui candidati, le loro piattaforme e gli sviluppi in corso”. L’Osce, che già aveva denunciato tutta una serie di punti deboli nello svolgimento dell’ultima tornata di voto a livello nazionale e locale, continua a esortare “leader politici, funzionari pubblici e autorità a condannare inequivocabilmente e a indagare prontamente su tutti i casi di violenza e minacce contro i giornalisti”.È in questo contesto che il Partito Progressista Serbo ha conquistato 64 seggi su 110 al Consiglio comunale di Belgrado, secondo quanto emerge dai risultati finali dello scrutinio dei voti, e ora l’ex-giocatore di pallanuoto Aleksandar Šapić è pronto a diventare sindaco. A differenza delle elezioni di dicembre l’opposizione ha corso divisa, con alcuni movimenti che hanno deciso di boicottare il voto – l’affluenza al voto si è fermata al 46 per cento – mentre gli altri si sono schierati o con il candidato Savo Manojlović (per la coalizione ‘Anche io sono Belgrado’) o con Dobrica Veselinović (per ‘Scegliamo Belgrado’). A spingere alle urne il partito di Vučić è stata anche la ventata di retorica ultranazionalista sprigionata nel Paese dopo il voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sull’istituzione della Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica, su cui ha fatto leva proprio il presidente serbo per compattare la base degli elettori del partito al potere.Le tensioni tra Ue e Serbia dopo le elezioni di dicembreI sei mesi trascorsi tra le elezioni legislative anticipate del 17 dicembre 2023 e la ripetizione delle amministrative nella capitale Belgrado di ieri sono stati tutt’altro che sereni tra Bruxelles e Belgrado, considerato quanto accaduto proprio alle urne alla fine dello scorso anno. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone erano scese in piazza per settimane, rispondendo all’appello dei partiti e movimenti riuniti nella coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, appena sconfitta dal Partito Progressista Serbo. Anche la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce ha rilevato “l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti“, mettendo con le spalle al muro il governo per ripetere quantomeno il voto nella capitale.Le proteste di piazza dell’opposizione serba a Belgrado (credits: Miodrag Sovilj / Afp)Proprio la questione del rispetto degli standard democratici ha esacerbato i rapporti tra la Serbia di Vučić e le istituzioni Ue. In occasione delle elezioni del 17 dicembre, l’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Osce Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale) aveva confermato di aver “assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska [l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina, ndr]” a Belgrado senza essere formalmente registrati come residenti. Da qui il Parlamento Europeo ha richiesto alla Commissione Ue azioni pesanti nel caso in cui venisse accertato il coinvolgimento delle autorità nei brogli elettorali, tra cui la “sospensione dei finanziamenti dell’Ue sulla base di gravi violazioni dello Stato di diritto” e, implicitamente, un possibile stop ai negoziati di adesione. La premier uscente Brnabić ha poi chiuso la porta a un’indagine internazionale, “perché richiederebbe l’annullamento della sovranità nazionale”, ma a Bruxelles rimangono ancora grosse preoccupazioni sulle irregolarità alle urne e la mancanza di completa trasparenza nel processo elettorale.Il neo-primo ministro della Serbia, Miloš Vučević, 2 maggio 2024 (credits: Oliver Bunic / Afp)Mentre nel Consiglio dell’Ue regna l’immobilismo (dettato soprattutto dal potere di veto del premier ungherese, Viktor Orbán, su qualsiasi tipo di azione contro l’alleato Vučić), a Belgrado il 2 maggio si è insediato il nuovo governo guidato da Miloš Vučević, stretto alleato del presidente della Repubblica nonché leader del Partito Progressista Serbo dopo le dimissioni dello stesso Vučić lo scorso anno. Il nuovo esecutivo si è posto in perfetta linea di continuità con il precedente (l’ex-premier Brnabić oggi è speaker dell’Assemblea nazionale) in politica estera – sia per la strada verso l’adesione all’Ue sia per il mantenimento dei rapporti con Russia e Cina – ma anche nelle questioni considerate di politica interna (cioè il rapporto con il Kosovo, di cui non è mai stata riconosciuta l’indipendenza dal 2008). Tra i membri del gabinetto Vučević compaiono due figure particolarmente controverse, tanto da essere incluse nella lista delle persone sanzionate dagli Stati Uniti nell’ultimo anno: l’ex-capo dell’intelligence serba, Aleksandar Vulin, e il politico di lungo corso e proprietario di aziende con sede in Russia Nenad Popović.Infine non va dimenticato il caso delle violenze subite dal leader del Partito Repubblicano di opposizione, Nikola Sandulović, prelevato dai servizi segreti serbi il 3 gennaio e duramente picchiato durante la detenzione per aver reso omaggio alla tomba di Adem Jashari, uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk). Membri dell’Agenzia serba per le informazioni sulla sicurezza (Bia) avrebbero sequestrato e torturato Sandulović, poi detenuto nella prigione centrale di Belgrado senza accesso a cure mediche indipendenti. Tra le persone responsabili per le violenze ci sarebbe anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić) che tra l’altro ha già ammesso di aver organizzato l’attacco armato nel nord del Kosovo a fine settembre dello scorso anno. L’ex-capo dell’intelligence serba – ora membro del nuovo governo – Vulin aveva riferito di aver personalmente ordinato l’arresto di Sandulović, ma l’avvocato della difesa ha puntato il dito contro il presidente Vučić.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Russia, un europeo su due non crede nell’efficacia delle sanzioni Ue

    Bruxelles – Di fronte alla guerra russa in Ucraina l’Unione europea ha fatto bene. No, invece. Ha fatto poco e male. Gli europei sono divisi. Riconoscono che l’Ue è in grado di gestire a crisi maggiori quali inondazioni o situazioni sanitarie quali il Covid-19, ma la guerra, quella, vede uomini e donne d’Europa in disaccordo. Tanto che un europeo su due non crede nell’efficacia delle sanzioni. Quello che emerge dal nuovo sondaggio Eurobarometro fresco di pubblicazione è un’opinione pubblica che fa fatica a capire. Complice una guerra che si trascina ancora, dopo oltre due anni e dodici pacchetti di sanzioni, il 9 per cento appena dei rispondenti nell’Ue sostiene che la risposta a dodici stelle sia stata ‘molto efficace’, e un altro 39 per cento la considera ‘piuttosto efficace’.Ecco dunque gli europei poco convinti e molto divisi. C’è complessivamente un cittadino su due (48 per cento) che dà credito all’Ue e alla sua azione, e un altro cittadino (46 per cento) che invece non ritiene sufficiente quanto fatto finora per risolvere il conflitto e fermare la guerra alle porte dell’Ue. C’è poi la minoranza che proprio dichiara di non sapere fino a che punto la risposta europea sia stata più o meno efficace (il ‘non so’ registra il 6 per cento). “I rispondenti sono divisi”, riconoscono gli autori dell’indagine, nel presentarne i risultati. E gli italiani? Non fanno eccezione.Anche in Italia c’è una sostanziale equivalenza nelle risposte a sostegno della risposta dell’Ue e le sue sanzioni anti-Russia (49 per cento) e uno generale scetticismo circa l’efficacia dell’azione condotta sinora 47 per cento). La sanzioni funzionano, questo ha detto dapprima la statistica, con i dati commerciali, e poi la politica. Ma non c’è nella società civile una maggioranza chiara a sostenerlo, e questo dà forza alla ragioni degli scettici. Per un europeo su due le sanzioni sono un fallimento.

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    Israele e Hamas di fronte al piano di pace Usa a Gaza. L’estrema destra sionista pronta a far crollare il governo Netanyahu

    Bruxelles – A 48 ore dall’inaspettato annuncio del piano di pace in tre fasi a Gaza, la proposta della Casa Bianca ha incassato il sostegno dei maggiori partner internazionali: l’Onu, l’Unione europea, il Regno Unito, i principali attori della regione mediorientale. Tutto dipende dalle due parti in conflitto: mentre l’Egitto ha dichiarato che Hamas “ha accolto positivamente la proposta”, il piano di pace di Biden ha messo a nudo la fragilità della coalizione di governo di Benjamin Netanyahu, ostaggio dell’estrema destra sionista.Il piano si architetta in tre fasi: sei settimane di cessate il fuoco completo, in cui Hamas rilascerebbe “un certo numero di ostaggi” in cambio del ritiro delle truppe israeliane dalle zone popolate della Striscia di Gaza. In questa prima fase è previsto un aumento sostanziale dell’ingresso di aiuti umanitari e la possibilità per la popolazione civile palestinese di tornare alle proprie case (secondo le stime delle Nazioni Unite, più del 60 per cento delle abitazioni dell’enclave sono però inagibili a causa dei bombardamenti israeliani).La seconda fase – sempre di sei settimane – prevede una cessazione permanente delle ostilità, il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani ancora in vita in cambio della liberazione di centinaia di prigionieri politici palestinesi dalle carceri di Israele e il ritiro completo dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza. Nella terza fase, si darebbe il via al piano per la ricostruzione di Gaza.Nel dare l’annuncio in diretta, Biden ha affermato che la proposta gli era stata presentata proprio da Israele. Ma i membri di estrema destra della coalizione di governo di Netanyahu – il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, e il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir – hanno descritto immediatamente la proposta come una “resa totale” e hanno minacciato di far crollare l’esecutivo se Israele dovesse approvare il piano. Come riferiscono i media israeliani, il premier avrebbe già tenuto un incontro con Ben Gvir, allo scopo di illustrargli nei dettagli la proposta di tregua e convincerlo che non si tratterebbe di una sconfitta per Israele.I ministri di estrema destra Itamar Ben-Gvir (L) e Bezalel Smotrich (Photo by AMIR COHEN / POOL / AFP)Nel frattempo Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra di Netanyahu e fortemente critico nei confronti del primo ministro per la gestione del conflitto, ha chiarito in una telefonata con il segretario di Stato americano, Antony Blinken, che la restituzione degli ostaggi israeliani è una “priorità nella timeline della guerra”. Soffocato tra la pressione dell’alleato americano da un lato e dal radicale rifiuto di qualsiasi accordo che non preveda “l’israelizzazione” di Gaza dei suoi ministri, Netanyahu potrebbe trovarsi di fronte alla scelta tra l’accettazione della tregua e la sopravvivenza del suo governo.Ue e Onu rilanciano il piano di pace per GazaNon solo gli Stati Uniti, il piano di pace è stato rilanciato anche dai leader dell’Unione europea – che di recente ha cominciato a mettere in discussione l’Accordo di associazione con Israele – e dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Per la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, l’approccio in tre fasi proposto da Biden è “equilibrato e realistico”, mentre il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, si dice “grato per gli sforzi degli Stati Uniti, in collaborazione con partner chiave, in particolare Qatar ed Egitto”. Per l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, “la guerra deve finire adesso”.Il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha “incoraggiato tutte le parti a cogliere questa opportunità per un cessate il fuoco, il rilascio di tutti gli ostaggi, la garanzia di un accesso umanitario senza ostacoli e, in definitiva, una pace duratura in Medio Oriente”.Nel bel mezzo di questo slancio diplomatico, Israele sta continuando le proprie operazioni militari nell’enclave palestinese: secondo i dati pubblicati dall’Ufficio Onu per gli Affari Umanitari (Ocha-Opt), tra il 29 e il 31 maggio sono stati uccisi 113 palestinesi e 637 sono stati feriti. L’esercito israeliano ha reso noto di aver colpito circa 50 obiettivi militari nelle ultime 24 ore, mentre Al Jazeera riporta nuove 22 vittime dei raid israeliani su abitazioni e campi profughi. Dal 7 ottobre, a Gaza sono morte almeno 36.284 persone e 82.057 sono rimaste ferite.