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    Russia e Cina non firmano, il G20 in India si conclude senza dichiarazione congiunta

    Bruxelles – Nessuna dichiarazione congiunta al termine del G20 in scena a Nuova Delhi. Che la Russia si opponesse alla richiesta di “ritiro completo e incondizionato dal territorio dell’Ucraina” era scontato, ma l’attenzione era tutta sulla scelta di Pechino: le parole del ministro degli Esteri Qin Gang, che nel suo intervento aveva dichiarato che la Cina “starà sempre dalla parte della pace, promuoverà attivamente i colloqui di pace ed è disposta a svolgere un ruolo costruttivo”, avevano fatto sperare che il gigante asiatico potesse schierarsi per la condanna alla Russia. Ma alla fine, anche la Cina si è rifiutata di firmare la dichiarazione congiunta.
    Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, e in primo piano il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov (credits: Olivier Douliery / Pool / Afp)
    “Sulla questione che riguardava il conflitto in Ucraina ci sono state divergenze, differenze che non siamo riusciti a conciliare tra le varie parti”, ha confermato il ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, padrone di casa al vertice. L’India, che solo una settimana fa si era astenuta dal voto nella risoluzione Onu di condanna al Cremlino, al G20 si è unita all’appello per il ritiro delle truppe russe. In sostituzione alla mancata dichiarazione congiunta, un meno ambizioso documento in 24 punti redatto da Jaishankar, su cui, salvo i due paragrafi riguardanti l’Ucraina, i Paesi hanno trovato un accordo unanime. “L’Unione Europea ha contribuito fino alla fine per avere un documento condiviso“, ha assicurato con un tweet l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, salutando con favore i 24 punti finali.
    Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa russa Tass, il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, avrebbe accusato l’Occidente di sacrificare le questioni “che dovrebbero essere al centro dell’agenda del G20 per le sue ambizioni in Ucraina”. Lavrov che, a margine del summit, ha avuto per la prima volta dall’inizio della guerra un breve incontro con il segretario di Stato Usa, Antony Blinken. Messa da parte la bagarre sulla guerra in Ucraina, i temi chiave affrontati a Nuova Delhi sono stati sicurezza energetica e alimentare e lotta al cambiamento climatico. I ministri degli Esteri dei 20 Paesi più industrializzati hanno ribadito l’impegno per promuovere “la disponibilità, accessibilità, convenienza, sostenibilità, equità e flusso trasparente di cibo e prodotti agricoli” nel mondo e “l’accesso universale all’energia”, accelerando la transizione verso fonti energetiche rinnovabili e pulite. Nei 24 punti, spazio anche ai rischi per la salute globale, alla lotta al terrorismo e al raggiungimento della parità di genere.

    The Indian presidency of the @g20org rightly recalls that we have one world, one family and one future. To deliver successfully, we need to work together.
    EU has contributed until the end to have a #G20 agreed document. We welcome the Chair’s Summary. https://t.co/9kOhNjy2Sm
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) March 2, 2023

    Mosca e Pechino hanno rifiutato di firmare il documento in cui si chiedeva il “ritiro completo e incondizionato” delle truppe russe dall’Ucraina. Alla fine del summit il ministro degli Esteri del Cremlino, Sergei Lavrov, ha incontrato il segretario di Stato Usa, Anthony Blinken

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    Anche l’Ue è preoccupata per le modalità di svolgimento delle elezioni in Nigeria, la più grande democrazia africana

    Bruxelles – La più grande democrazia, la più forte economia e il Paese più popoloso dell’Africa di fronte alla sfida maggiore per l’intero sistema nazionale: le elezioni presidenziali. Lo scorso 25 febbraio la Nigeria si è recata al voto per eleggere il successore di Muhammadu Buhari e dimostrare alla regione, al continente e al mondo di saper gestire in maniera democratica e ordinata il passaggio di consegne, anche con l’inedita sfida a tre che ha rotto l’ormai tradizionale sistema bipolare in atto dal 1999. “Un’impresa importante, che ha rappresentato un’opportunità fondamentale per il consolidamento della democrazia”, ha sottolineato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, senza nascondere “il contesto difficile e i fallimenti operativi“.
    A sinistra, il nuovo presidente della Nigeria, Bola Tinubu (credits: Kola Sulaimon / Afp)
    Il vincitore delle elezioni presidenziali – svoltesi in parallelo a quelle per il rinnovo del Parlamento – è Bola Tinubu, candidato del partito di centro-sinistra Congresso di Tutti i Progressisti che esprime il presidente ormai dal 2015 (Buhari era stato rieletto per un secondo mandato nel 2019). Ma i due sfidanti, Atiku Abubakar del Partito Democratico del Popolo di centrodestra e Peter Obi del Partito laburista fuoriuscito dal Congresso di Tutti i Progressisti, stanno contestando il risultato delle elezioni per la scarsa trasparenza del nuovo sistema elettronico di voto utilizzato il 25 febbraio. La richiesta dei due candidati è quella di un nuovo voto, per cui dovranno fare ricorso alla Corte Suprema della Nigeria entro tre settimane: il risultato delle elezioni può essere annullato solo se saranno dimostrate irregolarità o errori nel conteggio dei voti. “Ogni contesa dovrà essere risolta solo presso la Corte Suprema“, ha puntualizzato oggi (2 marzo) alla stampa la portavoce della Commissione Ue responsabile per gli Affari esteri, Nabila Massrali.
    Per tenere sotto controllo le operazioni di voto nel Paese africano – e per riaffermare la centralità della Nigeria a livello geopolitico per Bruxelles – anche l’Unione Europea ha partecipato ai lavori della Commissione elettorale nazionale indipendente (Inec), dispiegando una Missione di osservazione elettorale Ue guidata dall’eurodeputato irlandese Barry Andrews (Renew Europe). Da Bruxelles arrivano richieste di “rispettare il processo e rimanere pacifici e calmi“, in attesa anche dei risultati delle elezioni del prossimo 11 marzo per la nomina di 28 governatori sui 36 Stati federali della Nigeria. Solo allora la missione di osservazione elettorale Ue pubblicherà la relazione finale con “raccomandazioni per contribuire al continuo approfondimento della democrazia nigeriana“. Ma la valutazione preliminare contiene già alcuni elementi che suscitano preoccupazione a Bruxelles sullo svolgimento ordinato delle elezioni presidenziali del 25 febbraio nel Paese africano.
    La valutazione preliminare Ue sulle elezioni in Nigeria
    Secondo quanto si legge nella valutazione preliminare della Missione di osservazione elettorale Ue, emerge che “le libertà fondamentali di riunione e di movimento sono state ampiamente rispettate, ma il pieno godimento di queste ultime è stato ostacolato da una pianificazione insufficiente, dall’insicurezza e dall’imperante scarsità di carburante e Naira [la moneta nazionale nigeriana, ndr]”, che ha inciso sulle capacità dei candidati di fare campagna elettorale e dei nigeriani nelle zone rurali di recarsi fisicamente alle urne. Tra le altre questioni preoccupanti anche “l’abuso di disponibilità da parte di vari titolari di cariche politiche”, che ha “distorto il campo di gioco”, ma anche “diffuse accuse di acquisto di voti” e la disinformazione che “ha interferito con il diritto degli elettori di fare una scelta informata il giorno delle elezioni”.
    La missione elettorale in particolare ha evidenziato che “la raccolta delle tessere elettorali permanenti, requisito per votare, è stata influenzata negativamente da una scarsa pianificazione istituzionale”, con 9,5 milioni di elettori in più rispetto alla precedente tornata del 2019 (93,4 milioni in totale): “Senza una verifica indipendente del registro degli elettori, non è stato possibile garantire la qualità e l’inclusività“, è un altro problema rilevato in fase pre-voto. Si temevano violenze nel Sud del Paese alla vigilia del voto, che effettivamente si sono registrate “in almeno 16 Stati, con Lagos, Kano, Rivers e Imo che sarebbero stati i più colpiti, instillando paura negli elettori”, anche se considerata tutta la Nigeria “l’atmosfera durante le votazioni è stata complessivamente pacifica”.
    La questione più grave ha invece riguardato l’introduzione del Bimodal Voter Accreditation System e della piattaforma IReV per le elezioni presidenziali. Anche se “è stata percepita come un passo importante per garantire l’integrità e la credibilità delle elezioni“, non possono passare inosservati i “ritardi nella formazione del personale tecnico, l’inadeguatezza dei test di simulazione e la mancanza di informazioni pubbliche sulle tecnologie elettorali”. A proposito di quanto contestano i due sconfitti, la missione di osservazione elettorale Ue riporta che i moduli dei risultati “hanno iniziato a essere caricati dopo le ore 22 del giorno delle elezioni, destando preoccupazione e raggiungendo solo il 20 per cento a mezzogiorno del 26 febbraio e molti erano illeggibili“. Solo più tardi, nel corso della stessa serata, la Commissione elettorale nazionale indipendente ha spiegato il ritardo con “problemi tecnici“.

    Bola Tinubu, candidato del partito centrista, è stato eletto presidente del Paese più popoloso e con l’economia più forte del continente. Ma la missione di osservazione dell’Unione ha confermato le debolezze del sistema elettorale, su cui i due sfidanti contestano il risultato

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    Appello di Meloni ai leader Ue sulla migrazione. Il dossier sarà in agenda al prossimo Consiglio Europeo

    Bruxelles – Le 66 vittime del naufragio di Cutro, in Calabria, cambiano l’agenda del prossimo vertice dei 27 leader Ue a Bruxelles, previsto per il 23 e 24 marzo. Ai punti “Ucraina, competitività e mercato unico, commercio, energia” sarà aggiunto un’altra volta il dossier migranti. L’input, anche se un possibile ritorno sul tema era già previsto, è partito dalla premier italiana, Giorgia Meloni, che in una lettera inviata ieri (primo marzo) ai presidenti del Consiglio Ue, Charles Michel, della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e della presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue, Ulf Kristersson, ha chiesto un’azione immediata delle istituzioni europee sul tema.
    Il portavoce del Consiglio Ue, Barend Leyts, in risposta ha dichiarato che “l’accordo” raggiunto all’ultimo vertice è stato quello di “monitorare i progressi sul tema migrazione, in particolare sulla base di aggiornamenti da parte della Commissione e della presidenza del semestre di turno. Sarà in agenda al prossimo Consiglio Europeo”. Così, l’ennesima tragedia consumata nel Mar Mediterraneo mette pressione all’Unione, con l’Italia “pronta, a partire dal prossimo Consiglio Europeo, a dare il suo contributo a ogni iniziativa comune” che rientri nella risposta di Meloni alla questione migrazione: “È fondamentale e urgente adottare da subito iniziative concrete, forti e innovative per contrastare e disincentivare le partenze illegali, ricorrendo anche a urgenti stanziamenti finanziari straordinari per i Paesi di origine e transito affinché collaborino attivamente”, ha ribadito la premier ai leader Ue.
    Niente di nuovo rispetto a quanto deciso all’ultimo vertice, lo scorso 9 febbraio, in cui i Ventisette avevano indicato come prioritaria la necessità di ridurre le partenze, attraverso una maggiore azione esterna, un controllo più efficace delle frontiere esterne dell’Ue e una maggiore cooperazione con i Paesi d’origine e di transito. “Al Consiglio Europeo straordinario dello scorso febbraio abbiamo individuato alcune misure che vanno nella giusta direzione, ma il fattore tempo è decisivo“, ha sottolineato la presidente del Consiglio dei ministri, perché “senza concreti interventi dell’Ue, sin dalle prossime settimane e per l’intero anno, la pressione migratoria sarà senza precedenti”. Insomma, non è più possibile rimandare le decisioni operative, come accaduto a febbraio, quando lo stesso numero uno del Consiglio Ue, Charles Michel, aveva dichiarato: “Se ne riparlerà a marzo, perché non volevamo una discussione eccessivamente lunga oggi”.
    I resti dell’imbarcazione schiantata a Cutro, in Calabria (credits: Alessandro Serrano / Afp)
    Meloni, come già successo a novembre scorso, quando lo scontro tra Roma e Parigi sulla nave Ocean Viking aveva fatto sì che l’Europa annunciasse misure immediate, calca la mano sulla tragedia di Crotone per ottenere risultati concreti: “Confido di non essere sola in questa battaglia di civiltà”, scrive la premier, insistendo sul “dovere, morale prima ancora che politico, di fare di tutto per evitare che disgrazie come queste si ripetano”. E allora dito puntato contro la tratta illegale di esseri umani, che va “stroncata”, perché il fenomeno migratorio sia gestito “nel rispetto delle regole e della sicurezza, anzitutto nell’interesse degli stessi migranti, e con numeri tali da consentire l’effettiva integrazione di chi viene in Europa con la legittima aspirazione a una vita migliore”. Nessun riferimento, nella lunga lettera della presidente, alla possibilità di intensificare gli sforzi europei in operazioni congiunte di ricerca e salvataggio, con cui forse si sarebbero potuti salvare i naufraghi dell’imbarcazione avvistata sabato sera scorso da un velivolo di Frontex, quando si trovava ancora a 40 miglia dalle coste calabresi.

    Nella lettera inviata ai presidenti Michel, von der Leyen e Kristersson la richiesta di “adottare da subito iniziative concrete” per contrastare le partenze irregolari. Per la premier italiana sono necessari fondi straordinari per i Paesi d’origine affinché “collaborino attivamente”

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    Il figlio dell’ultimo scià di Persia al Parlamento Europeo: “La mia missione è la transizione democratica” in Iran

    Bruxelles – Reza Ciro Pahlavi, il figlio maggiore dell’ultimo scià di Persia, cerca di accreditarsi agli occhi del mondo democratico come figura cardine delle forze di opposizione in Iran che da mesi stanno manifestando contro il regime degli ayatollah. “È un onore per me parlare per conto dei miei compatrioti, che mi hanno dato il compito di portare la loro voce e il loro messaggio ai rappresentanti eletti dell’Ue”, ha esordito il principe ereditario in visita oggi (primo marzo) al Parlamento Europeo, accompagnato dagli eurodeputati Charlie Weimers (Ecr) e Tomáš Zdechovský (Ppe).
    Pahlavi, in esilio dall’età di 19 anni, intravede ora uno spiraglio per rientrare nel Paese e rovesciare il regime che nel 1979 depose suo padre e instaurò la Repubblica Islamica a Teheran. Fondatore del National Council of Iran nel 2013, gruppo di opposizione in esilio, ha sposato la causa del popolo iraniano e cerca ora di ritagliarsi un ruolo di primo piano nell’Iran che verrà. “La mia missione è di servire la transizione”, ha dichiarato Pahlavi, che vuole essere “costruttore di un processo democratico” nel suo Paese dopo “l’inevitabile caduta del regime criminale” dei mullah. Apparentemente nessun ruolo politico, nessuna bramosia di potere: “Devo essere al di sopra e neutrale, non siamo qui per imporre un’alternativa, ma per proporre un processo”, promette il principe.
    Il percorso sembra essere tracciato. Dopo aver preso coscienza che la Repubblica Islamica “rappresenta una minaccia per il suo popolo e che non può essere riformata”, oggi stiamo assistendo alla “disobbedienza civile e agli scioperi nazionali che porteranno al collasso del sistema”. Una volta caduto il regime, il processo “dovrà continuare con libere elezioni per un’Assemblea costituente e infine arrivare a un referendum nazionale“, dove i cittadini sceglieranno la forma di governo che desiderano “per salvaguardare i propri diritti”. Se fosse una monarchia parlamentare, è lecito pensare che il figlio dell’ultimo scià di Persia non rifiuterebbe l’onere e l’onore di guidarla.
    Da sinistra: Reza Ciro Pahlavi e l’eurodeputato Charlie Weimers (Ecr)
    Ma Pahlavi al Parlamento Europeo è venuto anche per chiedere che l’Ue inasprisca le posizioni contro il regime attuale e che garantisca supporto totale al popolo iraniano. Aiutare gli iraniani a evitare la soppressione di internet da parte del regime, finanziare lunghi scioperi sindacali e designare il corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche come organizzazione terroristica. Perché sanzionare i pasdaran “velocizzerebbe il processo di implosione del regime”, facilitando defezioni tra le fila governative. E potrebbe anche aprire la strada al sequestro di beni da utilizzare per creare un fondo per finanziare i lavoratori iraniani, ha suggerito Weimers.
    Pahlavi è convinto che il supporto alla causa del popolo iraniano rientra anche negli interessi economici dell’Unione, perché “l’Iran rappresenta oggi il più vasto mercato ancora da aprire al mondo“. Con un regime democratico, partner dell’Occidente, le aziende europee avrebbero “immense opportunità economiche”, ma non solo: Teheran potrebbe “soddisfare i bisogni energetici dell’Ue con benefici reciproci“. A chi gli chiede del programma sul nucleare, Pahlavi garantisce che ne ha sempre avuto un giudizio negativo, anche nelle applicazioni civili. “Ci sono molte alternative più pulite e sicure da sviluppare”, ha dichiarato ancora il principe, sottolineando inoltre “l’incompetenza del regime che ha portato a una grave crisi ambientale nel Paese”. Il messaggio di Pahlavi è che un Iran pacifico è la promessa di un “futuro più sicuro e prospero per tutte le nazioni democratiche”. Resta da capire se il giovane popolo iraniano che protesta ha intenzione di consegnare le chiavi della transizione al vecchio figlio di un ancor più vecchio monarca.

    Reza Ciro Pahlavi ha incontrato deputati di diversi gruppi politici, per cercare di legittimarsi come garante della transizione democratica a Teheran in caso di implosione del regime. E chiede agli eurodeputati di prendere ulteriori misure in supporto dei manifestanti

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    Contro l’Unione dei muri e fili spinati, il Movimento europeo chiede all’Eurocamera di opporsi ai leader Ue

    Bruxelles – Basta barriere, basta divisioni e politiche divisorie. Una petizione contro l’Europa che “costruisce duemila chilometri di muri e di fili spinati”, ma soprattutto per un’Europa “che accoglie e include”. L’ha presentata oggi (28 febbraio) la sezione italiana del Movimento Europeo alla commissione per le Petizioni del Parlamento europeo. Partiti, sindacati e associazioni aderenti all’organizzazione puntano il dito contro il recente “mutamento di approccio della Commissione europea rispetto al Migration Pact(il patto per l’immigrazione) del settembre 2020″, che avrebbe sancito il passaggio “dalla priorità del diritto internazionale, dei valori dell’Unione europea e della tutela dei diritti fondamentali ad un’Europa che respinge e che esclude”, e chiedono all’Eurocamera di respingere le conclusioni del Consiglio europeo straordinario del 9 febbraio, “usando tutti gli strumenti istituzionali di cui l’assemblea dispone”.
    Nel mirino del Movimento c’è in particolare un paragrafo di quelle conclusioni, in cui “si chiede alla Commissione di mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere, dei mezzi di sorveglianza — compresa la sorveglianza aerea — e delle attrezzature”.
    La rinnovata enfasi posta dai 27 leader Ue sul rafforzamento dell’azione esterna, sulla cooperazione in materia di rimpatri e sul controllo delle frontiere esterne non farebbe che confermare il principio “secondo cui il controllo dei flussi di migranti è essenzialmente un problema di sicurezza”, negando al contempo qualsiasi “valore aggiunto per le economie europee e per la ricchezza delle nostre culture” derivante dall’accoglienza dei migranti economici.
    Il Movimento europeo contesta il significato conferito dall’Ue al termine pull factor (fattore di attrazione, letteralmente), che “non deriva dalla mancanza di respingimenti e di rimpatri dei migranti irregolari, ma dalla fuga inarrestabile dai conflitti interni, dalle guerre fra Stati, dalla fame, dai disastri ambientali e dall’espropriazione delle terre”.
    Nella petizione viene inoltre sottolineato come all’ultimo vertice europeo “nulla è stato detto sulla necessità di mobilitare risorse umane e finanziarie da mettere a disposizione in particolare dei poteri locali per garantire politiche di inclusione”.
    Risorse che invece i governi di Austria, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta e Slovacchia, vorrebbero indirizzare per l’innalzamento di infrastrutture fisiche ai confini dell’Unione: i cittadini contribuenti del Movimento europeo vogliono vederci chiaro e sapere se dal budget comunitario “saranno esclusi finanziamenti per la costruzione di muri e fili spinati, su quale linea di bilancio saranno prelevati questi fondi, se sarà necessario un bilancio suppletivo su cui l’assemblea avrà l’ultima parola e come si verificherà la pertinenza e la necessità delle spese effettuate”.
    La petizione, presentata insieme ai movimenti europei in Francia, Polonia e Spagna, ha raccolto l’adesione di Emergency, Eumans, l’associazione Medel dei magistrati democratici europei, l’associazione Last Twenty, Humanfirst Italia, Concorde, Open Arms, la Fondazione Migrantes, cento organizzazioni non governative e partiti politici, esponenti del mondo accademico, mille cittadine e cittadini.

    Presentata oggi al Parlamento europeo una petizione per respingere le conclusioni del vertice dello scorso 9 febbraio, in particolare la richiesta di mobilitare fondi comunitari per la costruzione di infrastrutture alle frontiere

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    Il Global Gateway dell’Ue implementato con 4 miliardi di euro mobilitati da Commissione e Banca Europea per Investimenti

    Bruxelles – Un’intesa decisiva per iniziare a sbloccare tutto il potenziale del Global Gateway, la strategia dell’Ue per le infrastrutture sostenibili a livello globale. La Commissione Europea e la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) hanno firmato oggi (28 febbraio) una serie di accordi da 4 miliardi di euro complessivi per sostenere le imprese dei Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico fino al 2027. “L’accordo di oggi è un’altra pietra miliare nel progresso della priorità strategica del Global Gateway”, ha confermato la commissaria per i Partenariati internazionali, Jutta Urpilainen, presentando la mobilitazione di finanziamenti pubblici e privati “in settori chiave come la digitalizzazione, il clima e l’energia, i trasporti e la salute” nei Paesi partner in tutto il mondo.
    “La mobilitazione del settore privato è fondamentale per lo sviluppo sostenibile dei Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico”, ha aggiunto la commissaria parlando degli accordi siglati dall’esecutivo comunitario e dalla Bei. Nello specifico i 4 miliardi si compongono di un accordo di garanzia fino a 3,5 miliardi di euro in prestiti e di un contributo del Fondo fiduciario da 500 milioni di euro. Un esempio delle possibilità di investimento attraverso l’accordo di garanzia è il Green African Agricultural Value Chain Facility, che fornisce finanziamenti agli intermediari dell’Africa subsahariana per la concessione di prestiti alle piccole e medie imprese nelle catene del valore agroalimentari. Il Fondo fiduciario, invece, andrà a sostenere la costruzione di piccole centrali elettriche a energia rinnovabile, per consentire l’approvvigionamento autonomo di elettricità in aree remote non collegate alla rete.

    A che punto siamo con il Global Gateway
    Le intese da 4 miliardi di euro vanno ad aggiungersi all’accordo di garanzia da 26,7 miliardi di euro firmato da Ue e Bei nel maggio del 2022. Primi mattoni posti nell’Ue per dare concretezza alla strategia da 300 miliardi di euro che risale al dicembre 2021, in risposta alla Belt and Road Initiative della Cina e per rispondere alle sfide globali della transizione verde, della connettività digitale e dell’accesso alla salute pubblica. L’obiettivo del Global Gateway è proprio quello di veicolare un aumento degli investimenti in progetti locali, per “promuovere valori democratici, buona governance, trasparenza e partenariati equi”, mettendo in contatto istituzioni finanziarie e di sviluppo degli Stati membri, la Bei e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers).
    Metà degli sforzi d’investimento del Global Gateway hanno come punto focale i progetti di sviluppo che riguardano il continente africano. Circa 150 miliardi di euro che, come confermato al vertice Ue-Unione Africana di un anno fa dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, saranno indirizzati a potenziare le transizioni verde e digitale. Sul piano energetico, nello specifico, la volontà è quella di dare una spinta decisiva al potenziale verde del continente africano tra sole, vento e idroelettrico, attraverso la piena decarbonizzazione e il traguardo del cento per cento rinnovabile. In questo senso va letto anche il progetto della Grande Muraglia Verde contro desertificazione, effetti dei cambiamenti climatici e crisi alimentare in Africa, aspetti imprescindibili del Global Gateway. La stessa presidente von der Leyen ha definito la Grande Muraglia Verde un “baluardo contro l’insicurezza alimentare e il cambiamento climatico”, per cui la Banca Europea per gli Investimenti potrebbe presto svolgere un ruolo decisivo per la sua implementazione con il sostegno a progetti imprenditoriali concreti.

    Gli accordi di investimento consistono di un accordo di garanzia fino a 3,5 miliardi in prestiti e di un contributo del Fondo fiduciario di 500 milioni, a sostegno delle imprese dei Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico fino al 2027: “Il settore privato è fondamentale per lo sviluppo sostenibile”

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    Le aziende del Belgio non lasciano la Russia: ce ne sono ancora 240

    Bruxelles – Solo una dozzina di aziende belghe hanno lasciato la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Nel marzo 2022, c’erano circa 240 aziende belghe con una o più filiali in Russia, e oggi, questo numero non è quasi cambiato.
    Come reazione all’ aggressione russa, molte aziende internazionali hanno deciso di lasciare quel mercato, mentre altre continuano a fare affari come sempre. Le tasse pagate da queste aziende concorrono a permettere al governo russo di finanziare la guerra in Ucraina.
    Quasi un anno fa, il produttore di birra AB InBev ha annunciato che si sarebbe ritirato dalla Russia. Non l’ha ancora fatto. Per quasi un anno, AB InBev ha negoziato con Efes la sua uscita dalla joint venture, ma senza successo. Anche il produttore di vetro AGC Europe e il produttore di porte e finestre Deceuninck affermano di essere in procinto di uscire, ma sono ancora lì, sottolonea l’agenzia di stampa Belga.
    Non tutte le aziende sono convinte della necessità della loro uscita. Il produttore di silicone Soudal rientra nella categoria di quelle che prendono tempo, così come il panettiere La Lorraine e il produttore di fili d’acciaio Bekaert. Il produttore di pannolini Ontex e l’azienda alimentare Puratos non hanno nemmeno intenzione di partire. Continueranno a operare in Russia, motivando la loro decisione con il fatto che forniscono prodotti essenziali.
    Questo tipo di decisioni non sono apprezzate dalla comunità internazionale. Recentemente l’azienda olandese Heineken è stata sommersa da reazioni negative, in quanto è emerso che il produttore di birra ha lanciato non meno di 61 nuovi prodotti sul mercato russo l’anno scorso, mentre aveva appena promesso di smettere di investire lì a causa della guerra in Ucraina.
    Il Belgio fa resistenze anche alle sanzioni sui diamanti russi.  Ad oggi i non sono inseriti nell’elenco dei beni oggetto dei dieci pacchetti di sanzioni europee verso Mosca, soprattutto a causa delle resistenze belghe. Anversa, la capitale delle Fiandre, è il principale punto di arrivo dei diamanti in Europa, inclusi quelli dalla Russia, che nel 2021 ammontavano a circa un quarto del totale.

    Alcune dicono di volerlo fare ma di non esserci riuscite per motivi societari. Altre non hanno intenzione di lasciare il mercato. Anversa riesce a tenere fuori i diamanti anche dal decimo pacchetto di sanzioni contro Mosca

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    Cosa prevede la proposta Ue in 11 punti accettata da Serbia e Kosovo per la normalizzazione dei loro rapporti

    Bruxelles – C’è il via libera delle parti, ora servirà un intenso lavoro per l’implementazione e la firma dell’accordo definitivo. A Bruxelles è scattato ieri sera (27 febbraio) il semaforo verde all’ultimissima versione di quella che fu la proposta franco-tedesca per la normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia e che oggi è a tutti gli effetti una proposta Ue perché, come puntualizzato dall’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, “tutti i 27 Paesi membri l’hanno appoggiata”. Compresi i cinque che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia).
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti (27 febbraio 2023)
    Un totale di 11 punti, due in più rispetto alla versione di partenza dello scorso settembre, che dovranno regolare i rapporti futuri tra i due Paesi balcanici. L’intesa politica tra il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti – esplicita a Bruxelles, ma più o meno tacita in patria per tutte le sue implicazioni nei due Paesi – è sicuramente un passo in avanti rispetto agli altri sei vertici di alto livello svoltisi a Bruxelles dal 2019 a ieri. Tuttavia l’attenzione è già rivolta al prossimo incontro di metà marzo, quando si dovranno prendere decisioni pratiche per mettere a terra gli impegni di principio sanciti negli 11 punti della proposta Ue dal titolo Agreement on the path to normalization between Kosovo and Serbia.
    Il testo della proposta Ue sui rapporti Kosovo-Serbia
    Leggendo il testo della proposta Ue è palese la ripresa della base di partenza franco-tedesca, sviscerata con i risultati di cinque mesi di confronto diplomatico tra Bruxelles, Pristina e Belgrado. L’articolo 1 si imposta sull’incipit originario “le Parti sviluppano tra loro relazioni normali e di buon vicinato sulla base della parità di diritti”, ma aggiunge che i due Paesi dovranno anche “riconoscere reciprocamente i rispettivi documenti e simboli nazionali, compresi passaporti, diplomi, targhe e timbri doganali”. Un evidente richiamo a quanto accaduto rispetto alle tensioni nel nord del Kosovo tra fine luglio e dicembre per l’imposizione delle targhe kosovare alla minoranza serba.
    Sparito dall’articolo 2 il riferimento alle reciproche aspirazioni all’adesione all’Ue, sostituito dagli “obiettivi e principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, in particolare quelli dell’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati, del rispetto della loro indipendenza, autonomia e integrità territoriale, del diritto all’autodeterminazione, della tutela dei diritti umani e della non discriminazione”. Rimane implicito il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia (in vigore unilateralmente dal 17 febbraio 2008), rafforzato dal punto 4: “Le Parti partono dal presupposto che nessuna delle due può rappresentare l’altra nella sfera internazionale o agire per suo conto”. La nuova aggiunta di peso è il paragrafo che precisa senza ambiguità che “la Serbia non si opporrà all’adesione del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale“. Eventuali controversie dovranno essere risolte “esclusivamente con mezzi pacifici” e astenendosi “dalla minaccia o dall’uso della forza”, precisa l’articolo 3.
    Il riferimento al ruolo dell’Ue trova invece spazio nei due punti successivi. L’articolo 5 mette nero su bianco che “nessuna delle due Parti bloccherà, né incoraggerà altri a bloccare” – un richiamo tra le righe ai membri Ue contrari all’adesione del Kosovo, ma anche allo stretto rapporto tra Serbia e Ungheria – “i progressi dell’altra Parte nel rispettivo cammino verso l’Ue sulla base dei propri meriti”. L’articolo 6 aggiunge che Pristina e Belgrado “proseguiranno con nuovo slancio il processo di dialogo guidato dall’Ue che dovrebbe portare a un accordo giuridicamente vincolante sulla normalizzazione globale delle loro relazioni“. Più nello specifico serviranno “accordi aggiuntivi” sulla “futura cooperazione nei settori dell’economia, della scienza e della tecnologia, dei trasporti e della connettività, delle relazioni giudiziarie e delle forze dell’ordine, delle poste e delle telecomunicazioni, della sanità, della cultura, della religione, dello sport, della tutela dell’ambiente, delle persone scomparse, degli sfollati “.
    I comuni interessati dall’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, come previsto dall’accordo del 2013
    L’articolo 7 sviluppa il punto precedente, ma focalizzandosi sui diritti della minoranza serba in Kosovo. Anche in questo caso non è esplicito il riferimento all’Associazione delle municipalità serbe nel Paese prevista dall’accordo del 2013 (mai implementato), ma non è difficile leggere le condizioni che Pristina dovrà accettare. Gli “accordi e garanzie specifiche” per “assicurare un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo e la capacità di fornire servizi in settori specifici” si baseranno su “strumenti pertinenti del Consiglio d’Europa e attingendo alle esperienze europee esistenti”. È prevista anche la possibilità di un “sostegno finanziario da parte della Serbia e un canale di comunicazione diretto per la comunità serba con il governo del Kosovo”, ma anche una formalizzazione dello status della Chiesa serbo-ortodossa in Kosovo e un “forte livello di protezione ai siti del patrimonio religioso e culturale serbo” nel Paese confinante.
    L’articolo 8 riprende integralmente lo stesso punto della proposta franco-tedesca: “Le Parti si scambiano missioni permanenti, che saranno istituite presso la sede del rispettivo governo” e “le questioni pratiche relative all’istituzione delle missioni saranno trattate separatamente”. Prima della precisazione all’articolo 10 che Pristina e Belgrado “confermano l’obbligo di attuare tutti i precedenti accordi di dialogo, che restano validi e vincolanti” sotto l’egida di un “comitato congiunto presieduto dall’Ue per il monitoraggio dell’attuazione del presente accordo” – che riprende e amplia l’ultimo punto della versione di partenza della proposta di mediazione – a Bruxelles è stato deciso di inserire un altro articolo. Quello che ricorda e rafforza “l’impegno dell’Ue e di altri donatori a creare un pacchetto speciale di investimenti e di sostegno finanziario per i progetti comuni delle Parti in materia di sviluppo economico, connettività, transizione ecologica e altri settori chiave”.
    L’ultimo punto è quello su cui ci sarà più da lavorare, perché è la vera chiave di volta di tutta l’intesa: “Le Parti si impegnano a rispettare la tabella di marcia per l’attuazione allegata al presente Accordo“. Il testo dell’allegato non è pubblico, fonti diplomatiche a Bruxelles spiegano a Eunews che al momento dovrebbe rimanere riservato per una serie di motivazioni non meglio specificate (ma intuibili, considerato il delicato equilibrio per raggiungere un accordo definitivo tra Pristina e Belgrado). È certo però che sui dettagli di questo documento di implementazione dell’intesa si concentrerà il lavoro delle prossime settimane, in attesa del nuovo faccia a faccia tra Vučić, Kurti e i negoziatori Ue a metà marzo.

    Rimangono impliciti (ma evidenti nelle implicazioni pratiche) il riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da Belgrado e l’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Sarà decisivo il rispetto della tabella di marcia allegata per l’implementazione dell’accordo