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    L’estrema destra europea ha una visione distorta dei rapporti tra Unione Europea e Serbia (e Russia)

    Bruxelles – Viktor Orbán non è solo. Il più stretto alleato della Serbia di Aleksandar Vučić, il primo ministro che sta creando più problemi per l’unità dei Ventisette – e lo stesso che sta mettendo i bastoni fra le ruote di Bruxelles all’introduzione di misure contro Belgrado per il non rispetto degli impegni assunti per la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo – sta trovando buona compagnia nello schieramento di estrema destra al Parlamento Europeo. Destabilizzazione, ingerenze, tentativi di ricreare “una nuova Maidan”. Sono le accuse lanciate da alcuni esponenti del gruppo Identità e Democrazia (Id) all’indirizzo non della Russia o della Cina, ma contro l’Unione Europea, dopo il risultato quantomeno controverso delle elezioni anticipate del 17 dicembre scorso in Serbia.(credits: Andrej Isakovic / Afp)Le insinuazioni avanzate in particolare da due eurodeputati francesi di Rassemblement National sono state senza dubbio la nota più frizzante del dibattito di questa settimana alla sessione plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo a proposito della situazione in Serbia dopo le elezioni di dicembre (il voto sulla risoluzione è previsto per alla sessione di febbraio). Tutti i gruppi politici, compreso quello dei Conservatori e Riformisti Europei, si sono ritrovati d’accordo sul fatto che si sono registrate “gravi irregolarità e compravendita di voti” – come affermato dal croato Ladislav Ilčić (Ecr), anche se animato da ragioni puramente nazionalistiche – e che “i cittadini serbi meritano riforme europee e risultati concreti” (Vladimír Bilčík, Ppe), con critiche poco velate a Commissione e Consiglio sulla “reazione molto morbida” per la necessità di “pragmatismo a sostegno della stabilocrazia nel Paese, che però non porta ai risultati previsti” (Klemen Grošelj, Renew Europe). Tutti eccetto gli eurodeputati francesi intervenuti nell’emiciclo di Strasburgo a nome del gruppo Id, che hanno espresso il proprio dissenso con parole più controverse del previsto.“L’ideologia motiva questo dibattito, qual è il vostro problema? La vittoria di Vučić e la sconfitta dei vostri alleati politici di opposizione? È per questo che l’Ue cerca di destabilizzare la Serbia?“, ha attaccato il francese Jean-Lin Lacapelle (Id), accusando le istituzioni comunitarie di “ingerenze nella politica serba, perché ogni Paese è sovrano e indipendente, fino a quando le sue scelte democratiche non vi piacciono”. Ancora più esplicito il connazionale Thierry Mariani: “Sono preoccupato perché questa regione ha bisogno di riappacificazione, mentre questo dibattito farà sì che l’opposizione continui a smuovere le acque”. Fino alla chiusura più sibillina: “Vorrei capire qual è la ragione dietro questa discussione, stimolare una seconda Maidan?” Il riferimento è a uno dei fattori che ha scatenato la crisi tra la Russia e l’Ucraina nel 2013, e che per Kiev e Bruxelles è considerato il primo momento di espressione della volontà popolare di seguire la prospettiva europea per il Paese oggi invaso dall’esercito russo.Le parole dei due eurodeputati di estrema destra – e in particolare il riferimento alla “seconda Maidan” con accezione negativa – evidenziano non solo la visione distorta dei rapporti tra Ue e Serbia secondo una parte specifica dello spettro politico europeo, ma anche una strizzata d’occhio alla Russia di Vladimir Putin che non è mai stata rinnegata (ma diventata solo meno esplicita dopo lo scoppio della guerra in Ucraina). Parlare di “destabilizzazione” del sistema di potere del presidente Vučić da parte delle istituzioni comunitarie è fuorviante per due ragioni. In primis perché non fattuale: la Serbia è un Paese candidato dall’adesione all’Unione Europea, i cui impegni sanciti dai Trattati Ue (compreso il rispetto dei principi dello Stato di diritto messo in discussione dallo svolgimento delle ultime elezioni) sono stati sottoscritti volontariamente da Belgrado. In secondo luogo perché – ammesso e non concesso che a Bruxelles ci sia un disegno di pressioni illecite contro la Serbia – i meccanismi democratici dell’Unione consentono al premier Orbán di opporsi in sede di Consiglio all’introduzione delle misure “temporanee e reversibili” in discussione da mesi a Bruxelles (le stesse che invece sono in atto nei confronti del Kosovo) nonostante il via libera di tutti gli altri Paesi membri.Ancora più preoccupante è la visione dei rapporti alla luce del ruolo della Russia nella regione. In particolare va considerato il fatto che la Serbia di Vučić è l’unico partner dell’Unione che rivendica il non-allineamento alla Politica estera e di sicurezza comune, soprattutto sulle sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina (nemmeno a livello di principio) e che fino a oggi non ha mai voluto allontanarsi eccessivamente dal legame con il Cremlino. Al contrario, nonostante riceverà un pacchetto di sostegno energetico da Bruxelles pari a 165 milioni di euro, nel maggio 2022 Vučić ha siglato un’intesa con Putin per tre anni di gas russo a condizioni favorevoli. Per il Cremlino la Serbia è una sorta di testa di ponte nei Balcani Occidentali, tanto che Bruxelles continua a sollevare preoccupazioni sulla possibile destabilizzazione russa della regione dopo l’attacco armato all’Ucraina. A proposito di Ucraina, getta una luce inquietante il parallelismo fatto dai due eurodeputati di Rassemblement National tra il supporto di Bruxelles alle “legittime manifestazioni di piazza” a Belgrado (come le ha definite il commissario per la Giustizia, Didier Reynders) e a quelle del 2013 di Euromaidan. La critica nemmeno troppo velata di sostenere le richieste dei manifestanti – serbi oggi come ucraini allora – di maggiore trasparenza elettorale e contro le violazioni dello Stato di diritto è una potenziale cassa di risonanza della propaganda del Cremlino secondo cui le proteste popolari europeiste sono frutto di manipolazione delle potenze occidentali e richiedono un intervento più o meno diretto della Russia.Le tensioni in Serbia dopo le elezioni anticipateDa sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (credits: Andrej Isakovic / Afp)Nonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza rispondendo all’appello dei partiti e movimenti che avevano tradotto in istanze politiche (europeiste) le proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio. Anche la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) – a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo – ha rilevato “l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”. Dopo quasi un mese dalle elezioni anticipate continuano le proteste contro i brogli del partito al potere, in particolare a Belgrado.Proprio nella capitale la situazione rimane ancora tesa e non è da escludere che si possano ripetere le elezioni amministrative la cui vittoria è stata rivendicata dal Partito Progressista Serbo: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić ha conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović. La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. La stessa denuncia è arrivata dall’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale): “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska e di intimidazione dei votanti”.Le proteste di piazza dell’opposizione serba a Belgrado (credits: Miodrag Sovilj / Afp)A questo si aggiunge il caso che Bruxelles “sta seguendo da vicino” (parole della dalla portavoce della Commissione Ue responsabile per la politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero) sulle violenze subite dal leader del Partito Repubblicano di opposizione, Nikola Sandulović, prelevato dai servizi segreti serbi il 3 gennaio e duramente picchiato durante la detenzione per aver reso omaggio alla tomba di Adem Jashari, uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk). Membri dell’Agenzia serba per le informazioni sulla sicurezza (Bia) avrebbero sequestrato e torturato Sandulović, poi detenuto nella prigione centrale di Belgrado senza accesso a cure mediche indipendenti. Tra le persone responsabili per le violenze ci sarebbe anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić) che tra l’altro ha già ammesso di aver organizzato l’attacco armato nel nord del Kosovo a fine settembre dello scorso anno. L’ex-capo dell’intelligence serba (dimessosi due mesi fa), Aleksandar Vulin, ha riferito di aver personalmente ordinato l’arresto di Sandulović, ma l’avvocato della difesa ha puntato il dito contro il presidente Vučić.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Gli ostacoli alle relazioni commerciali tra Ue e Taiwan su agroalimentare ed eolico off-shore

    Bruxelles – Unione Europea e Taiwan rimangono partner commerciali stretti, ma non si possono nascondere i problemi a lungo termine. “Taiwan deve mostrare disponibilità ad affrontare le nostre preoccupazioni e migliorare i rapporti“, è l’esortazione arrivata oggi (12 dicembre) alla sessione plenaria dell’Eurocamera a Strasburgo da parte del vicepresidente della Commissione Ue responsabile per l’Economia, Valdis Dombrovskis, intervenendo al dibattito sulle relazioni tra l’Unione e Taipei. “Siamo economie di mercato, libere e indipendenti, le barriere agli investimenti e al commercio sono praticamente zero”, ma in alcuni settori “le aziende europee hanno notato che ci sono notevoli ostacoli“.(credits: Jameson Wu / Afp)Sono in particolare due i crucci del vicepresidente dell’esecutivo comunitario: energia e agroalimentare. In primis nel settore dell’eolico off-shore, “dove abbiamo preoccupazioni sui requisiti che impone Taiwan”. È per questa ragione che a Taipei è stato chiesto di invertire la rotta e “porre fine agli ostacoli”, a partire dai dialoghi sulle regole del settore intensificatisi da aprile 2023: “Continueremo la cooperazione”, ha promesso Dombrovskis. L’altro punto di difficoltà è “l’accesso al mercato per i prodotti agricoli, soprattutto la carne”. Il vero problema riguarda il fatto che “le nostre regole sulla regionalizzazione non vengono riconosciute da Taiwan” e parallelamente “vengono imposti in modo non giustificato dei blocchi ai nostri prodotti“. Di fronte a “diverse richieste” alla Commissione da parte dei 27 Paesi membri Ue, “Taiwan ha accettato di affrontare la cosa in modo globale”, ha voluto specificare il responsabile per il Commercio nel gabinetto von der Leyen.Rispondendo alle domande incalzanti degli eurodeputati, Dombrovskis ha annunciato che “a breve faremo il punto dei progressi ottenuti in entrambi i settori” e il Berlaymont si aspetta “maggiori contatti per porre fine a queste barriere”. Ma non tutto è un ostacolo tra Bruxelles e Taipei, come dimostrano i passi in avanti fatti nel settore digitale. “Dal 2021 abbiamo aumentato il dialogo commerciale, comprese le esportazioni a duplice uso, la ricerca e sviluppo e i semiconduttori”, ha ricordato il vicepresidente della Commissione. E proprio il settore dei semiconduttori rivestirà un ruolo cruciale nei rapporti tra l’Unione e l’isola. Dopo l’incontro dello scorso 28 aprile, “abbiamo messo a punto diverse iniziative” con il coinvolgimento di diversi direzioni generali della Commissione, con “un workstream apposito e avvieremo un dialogo sulle misure di agevolazione per lo scambio di semiconduttori“, è la promessa di Dombrovskis.L’Ue tra Cina e TaiwanDa sinistra: il vicepresidente della Commissione Europea responsabile per l’Economia, Valdis Dombrovskis, e il vice-premier della Cina, He Lifeng (credits: Pedro Pardo / Afp)Nel momento in cui i rappresentanti delle istituzioni comunitarie si riferiscono a Taiwan, è inevitabile il riferimento alla Cina. “Dobbiamo preservare lo status quo a Taiwan, che non può essere cambiato con la forza, è fondamentale per il mantenimento della pace e del commercio globale e nella regione”, ha sottolineato con forza il vicepresidente della Commissione Ue Dombrovskis, rispondendo alle domande degli eurodeputati sulla posizione nei confronti delle minacce cinesi nello Stretto di Taiwan. Solo una settimana fa la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e del Consiglio Europeo, Charles Michel, hanno partecipato a Pechino al 24esimo vertice Ue-Cina in cui sono state ribadite le linee per il riorientamento dei rapporti Ue-Cina – considerato lo squilibrio commerciale con il partner/competitor – e le questioni delle tensioni in Ucraina e a Taiwan con il leader cinese, Xi Jinping, proprio come fatto a inizio aprile dalla presidente von der Leyen e il presidente francese, Emmanuel Macron.Proprio il tema del rapporto dei Ventisette con Taiwan – nel caso dell’escalation della tensione con Pechino – era stato al centro di un teso dibattito interno all’Unione in primavera. A scatenare il vespaio erano state le parole del presidente francese Macron di ritorno dal viaggio a Pechino. “La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dovremmo essere dei seguaci su questo tema e adattarci al ritmo americano e a una reazione eccessiva della Cina“, era stato il commento dell’inquilino dell’Eliseo, tratteggiando la necessità di una vera autonomia strategica europea (ma non un’equidistanza tra Washington e Pechino).Nel pieno della bagarre tra i gruppi politici alla sessione plenaria dell’Eurocamera di metà aprile a Strasburgo, la presidente von der Leyen e l’alto rappresentante Borrell avevano messo in chiaro che serve unità contro la “politica di divisione e conquista” cinese e che le istituzioni europee si oppongono “fermamente” a qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo, “in particolare attraverso l’uso della forza”. A confermare questa posizione, in un’intervista a Le Journal du Dimanche lo stesso alto rappresentante Ue aveva esortato le marine europee a “pattugliare lo Stretto di Taiwan, per dimostrare l’impegno dell’Europa a favore della libertà di navigazione in quest’area assolutamente cruciale” per il commercio globale.

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    Il Parlamento europeo chiede un’applicazione più rigorosa delle sanzioni contro la Russia

    Bruxelles – Le sanzioni ci sono, ma non si applicano. Durante la seduta plenaria odierna (9 novembre) del Parlamento europeo, gli eurodeputati hanno chiesto all’Unione e ai suoi Stati membri di rafforzare e centralizzare il controllo sull’attuazione delle sanzioni contro la Russia, nonché di sviluppare un meccanismo per la prevenzione e il monitoraggio dell’elusione.Il regime di sanzioni applicato dall’Ue contro la Russia presenta varie lacune, che mettono in allarme l’Eurocamera. Quello che manca è soprattutto un’adeguata applicazione delle misure restrittive, ma gli eurodeputati hanno espresso la loro preoccupazione anche sui tentativi di compromettere gli sforzi volti a indebolire strategicamente l’economia e la base industriale russa e a ostacolare la capacità del Paese di condurre la guerra.La Russia finora è stata in grado di eludere le misure comunitarie come il tetto massimo sulle sanzioni petrolifere introdotto dagli Stati membri dell’Ue e il cosiddetto Price Cap Coalition. A questo si aggiunge il problema dell’importazione di prodotti petroliferi realizzati con petrolio russo, attraverso Paesi terzi come l’India, da parte dei Ventisette. In questo modo, la sanzione viene aggirata con una scorciatoria e la quantità di questi prodotti che arrivano in territorio europeo passando da altri Paesi è in crescita. Il problema è lo stesso anche nella direzione opposta: è il caso di alcuni componenti occidentali cruciali, che arrivano ancora in Russia attraverso Paesi come Cina, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Kazakistan, Kirghizistan e Serbia.A causa di alcune lacune nelle norme sulle sanzioni, Il Cremlino è riuscito a racimolare fondi per i suoi scopi bellici. L’Unione europea aveva concesso alla Bulgaria un’esenzione unica al divieto sull’acquisto di petrolio russo, grazie alla quale il Paese ha potuto permettere a milioni di barili di raggiungere una raffineria locale di proprietà russa, che ha poi esportato vari combustibili raffinati all’estero, Ue compresa. Secondo Politico, questa scappatoia avrebbe permesso a Putin di raccogliere 1 miliardo di euro. Anche Paesi come l’Azerbaigian starebbero mascherando la provenienza russa del gas per esportarlo nell’Ue. La stessa Unione rimane poi uno dei maggiori clienti di combustibili fossili della Russia, a causa delle continue importazioni di gas da metanodotti e Gnl, nonché di varie eccezioni al divieto di importare petrolio greggio e prodotti petroliferi.Nella risoluzione votata oggi, l’Eurocamera ha poi espresso preoccupazione per il commercio in corso di beni strategici per la guerra tra gli Stati membri dell’Ue e Mosca. Bisognerà fare più attenzione anche a chiudere adeguatamente il mercato comunitario per i combustibili fossili di origine russa, nonché a imporre sanzioni a tutte le principali compagnie petrolifere russe, a Gazprombank, alle loro controllate e ai loro consigli di amministrazione e gestione. Secondo l’Eurocamera, l’Ue ha poi un altro compito: esplorare vie legali che consentano la confisca dei beni russi congelati e il loro utilizzo per la ricostruzione dell’Ucraina.Per portare a termine quanto espresso nella risoluzione, l’Unione europea dovrebbe collaborare con il G7: lo scopo è abbassare sostanzialmente il prezzo massimo del petrolio russo e dei prodotti petroliferi, oltre a imporre un divieto totale sulle importazioni russe di Gnl e Gpl nonché sull’importazione di carburante e altri prodotti petroliferi da paesi Paesi extra-Ue, qualora questi prodotti fossero stati fabbricati utilizzando petrolio russo. Il Parlamento vuole inoltre che l’Unione vieti la spedizione di petrolio russo e le esportazioni di Gnl attraverso i Ventisette e introduca limiti di prezzo e volume sulle importazioni comunitarie di fertilizzanti russi e bielorussi. A questo, gli eurodeputati aggiungono ancora una richiesta, indirizzata soprattutto alla Commissione europea: le sanzioni per includere un divieto totale sulla commercializzazione e sul taglio dei diamanti di origine russa o riesportati dalla Russia nell’Unione europea.
    Le misure restrittive finora applicate alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina sono lacunose e insufficienti. L’Eurocamera propone di usare i beni russi congelati per ricostruire l’Ucraina

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    I porti europei ‘cinesi’ un problema per la sicurezza Ue e Nato

    Bruxelles – Adesso la presenza cinese nei porti europei spaventa davvero. Perché all’aspetto economico si aggiunge anche quello della difesa e della sicurezza nazionale. La presenza cinese nei porti dell’Ue è una questione che si pone da anni, ma contro cui l’Unione europea ha fatto fatica. Da una parte il mercato unico, con le sue regole e il suo approccio aperto, non impedisce a operatori stranieri di fare affari in Europa. Dall’altra parte, per stessa ammissione dell’esecutivo comunitario, si fa fatica a capire il giro di affari delle imprese collegate al governo di Pechino.Un nuovo studio prodotto per conto della commissione trasporti del Parlamento europeo stima che tra il 2004 e il 2021 le compagnie del dragone abbiamo speso oltre 9,1 miliardi di euro per acquisizioni di e negli scali marittimi a dodici stelle.“I rischi derivanti dagli investimenti cinesi sono evidenti oltre determinate soglie di livelli di proprietà”, avverte il documento. In particolare il problema si pone in termini di influenza sulla strategia portuale e in termini di rischi informatici “se le aziende cinesi possono accedere ai sistemi di comunicazione e alle reti locali”. Ciò presenta certamente “un rischio a livello locale”, ma allo stesso tempo “potrebbe anche comportare rischi più ampi per l’Europa, soprattutto per quanto riguarda le forze armate degli Stati membri e la NATO”.Il problema è che la Cina appare aver goduto troppo dei diritti che l’Ue concede ad operatori stranieri. Su tutti China Ocean Shipping Company (COSCO) e China Merchants sono quelli che più massicciamente hanno investito in Europa. Tanto che oggi COSCO controlla il porto di Atene e si mette in risalto come “alcuni dei rischi più significativi emergono non solo dagli investimenti nelle infrastrutture ma anche dalle successive espansioni delle operazioni di COSCO”. Questi includono “rischi di influenza e coercizione localizzata”. In che modo? Viene offerto un chiaro esempio. COSCO potrebbe minacciare di dirottare i suoi trasbordi verso altri porti del Mediterraneo se la Grecia dovesse intraprendere un’azione che dispiacesse a Pechino.Un caso non isolato, visto che In Italia nel 2016 COSCO ha acquistato il 40 per cento del porto di Vado Ligure e in Germania controlla il 24,9 per cento dell’impresa che controllo il porto di Amburgo. All’Ue “manca una valutazione dei colli di bottiglia nella spedizione di merci dalla Cina all’Europa che consideri il trasbordo”, vale a dire il trasferimento di merci. “A seguito di tale valutazione, dovrebbero essere creati piani di emergenza per prepararsi a un conflitto con la Cina”.Ma in tema di sicurezza il caso ellenico è forse quello più emblematico. Nel porto del Pireo “la presenza di COSCO accanto a infrastrutture civili e militari critiche è altamente problematica, in termini di rischi informatici e potenziali fughe di dati sensibili”. Un rischio considerato dagli autori dell’analisi realistico poiché “vi sono indicazioni che in futuro gli scali delle navi militari statunitensi saranno più frequenti”. Alla luce di questo “è ragionevole supporre che i servizi segreti cinesi siano interessati a raccogliere dati sulle tecnologie militari avanzate degli Stati Uniti”. Si rende dunque “un’azione approfondita del rischio dell’investimento di COSCO” attraverso “uno stretto coordinamento con i partner occidentali in termini di assistenza tecnica”. Allo stesso modo, “la creazione di un meccanismo di gestione delle crisi e la mitigazione di vari rischi potenziali sono possibili solo di concerto con i partner dell’UE e della NATO”.Lo studio di nuova pubblicazione evidenzia una situazione in contrapposizione con la nuova strategia dell’Ue per la difesa navale e la sicurezza marittima. Questa include la protezione delle infrastrutture marittime critiche che includono gasdotti, cavi sottomarini e anche porti. Rispetto a questa necessità l’Ue appare già in ritardo. 
    Un nuovo studio del Parlamento europeo per la prima volta evidenzia i rischi non-economici di una troppa presenza asiatica negli scali marittimi a dodici stelle

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    Alla plenaria dell’Eurocamera il premier armeno spinge per un accordo di pace con l’Azerbaigian “entro la fine dell’anno”

    Bruxelles – Il tappeto rosso era stato steso all’ultima sessione plenaria di due settimane fa con una risoluzione del Parlamento Ue durissima sull’invasione azera del Nagorno-Karabakh. Oggi (17 ottobre) il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, ha avuto l’occasione di rivolgersi direttamente agli eurodeputati riuniti a Strasburgo per rivendicare il ruolo di Yerevan nella ricerca di una soluzione diplomatica alla crisi nel Caucaso meridionale – passata in secondo piano dopo lo scoppio del conflitto tra Hamas e Israele – e per ribadire che il suo Paese è pronto a stringere con più forza i legami con l’Unione Europea, dopo la delusione determinata dall’atteggiamento dello storico alleato russo.Il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (17 ottobre 2023)“Conosciamo il Parlamento Europeo come un alleato al nostro fianco, avete fatto sentire la vostra voce per diffondere la verità sul Nagorno-Karabakh e voglio ringraziarvi per aver chiamato con il proprio nome quello che sta succedendo”, ha esordito nel suo intervento il premier armeno, facendo riferimento alla risoluzione adottata a largissima maggioranza lo scorso 5 ottobre che condanna la “pulizia etnica” operata dall’Azerbaigian nell’enclave separatista. Accogliendo il leader dell’Armenia, la presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, ha ricordato che “l’Unione Europea continuerà a sostenere i vostri sforzi nell’accogliere i rifugiati” dal Nagorno-Karabakh – 100 mila profughi in un Paese di 2,8 milioni di abitanti – “gli Stati membri hanno donato attrezzature, forniture mediche e cibo con il Meccanismo di protezione civile Ue”. Dopo la resa delle forze separatiste dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh all’esercito azero lo scorso 20 settembre, Yerevan ha dovuto fare fronte a una situazione critica, ma “li abbiamo accolti tutti senza ricorrere a campi rifugiati o tendopoli”, ha voluto sottolineare con forza Pashinyan, senza dimenticare di ricordare gli aiuti umanitari inviati a stretto giro da Bruxelles: 5 milioni di euro di sostegno d’emergenza per assistere sia gli sfollati in Armenia, sia le persone vulnerabili all’interno del Nagorno-Karabakh.Il premier armeno non ha risparmiato critiche alla comunità internazionale per “non essere stata in grado di impedire la pulizia etnica”, con un riferimento implicito a Mosca, i cui soldati avrebbero dovuto vigilare sul rispetto degli accordi nelle aree più instabili: “Non solo non ci hanno aiutati, ma hanno anche chiesto di cambiare il nostro regime democratico”. Eppure l’Azerbaigian “aveva già dimostrato di voler rendere impossibile la vita degli armeni del Nagorno-Karabakh” dalla fine dello scorso anno con il blocco del corridoio di Lachin (la strada che collega l’Armenia con la regione separatista): “Sono stati presi di mira i civili e abbiamo alzato l’allarme sul piano azero che voleva ridurre gli armeni alla fame”, prima che iniziasse la vera e propria operazione armata da parte dell’esercito di Baku il 19 settembre. Tutto questo considerato, il premier Pashinyan ha portato agli eurodeputati un messaggio: “Il Caucaso ha bisogno di pace e stabilità, con confini aperti, legami economici, politici e culturali e la possibilità di risolvere le difficoltà attraverso il dialogo e la diplomazia“. In altre parole, “la nostra visione di stabilità non è in contrapposizione con gli interessi della regione, se il Caucaso è in pace, noi siamo in pace”.Il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola (17 ottobre 2023)È qui che si inserisce la questione degli sforzi per la normalizzazione delle relazioni con il Paese confinante. “Entro quest’anno si potrebbe arrivare a un accordo di pace, ma Baku si rifiuta, come dimostrato a Granada“, ha attaccato il leader armeno, ricordando l’assenza pesante del presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, al terzo vertice della Comunità Politica Europea lo scorso 5 ottobre in Spagna, quando si sarebbe dovuto ripresentare il quintetto con il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, e il presidente francese, Emmanuel Macron, per tentare di portare avanti una soluzione diplomatica in linea con i colloqui di luglio. “Se i principi illustrati saranno riconfermati in una riunione questo mese a Bruxelles, allora un accordo tra Armenia e Azerbaigian entro la fine dell’anno sarebbe realistico”, ha ribadito Pashinyan. Il riferimento è ai principi sanciti lo scorso anno all’inaugurazione della Comunità Politica Europea a Praga: sovranità territoriale, inviolabilità del confini, ritiro delle truppe dalle rispettive enclave. Ma anche ripresa dei collegamenti regionali, come il progetto presentato dal premier armeno a Strasburgo: “Una crocevia della pace per il movimento di merci, persone, condutture elettriche e gasdotti”. La garanzia è rappresentata proprio dall’Unione Europea e dal suo Parlamento – “Yerevan è un partner vitale nel vicinato dell’Ue“, ha sottolineato Metsola – con il leader armeno che per la prima volta si è sbilanciato sulla partnership con i Ventisette: “Siamo pronti ad avvicinarci all’Ue, nella maniera in cui Bruxelles lo ritenga necessario“.Il conflitto tra Armenia e AzerbaigianTra Armenia e Azerbaigian è dal 1992 che va avanti una guerra congelata, con scoppi di violenze armate ricorrenti incentrate nella regione separatista del Nagorno-Karabakh. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh. Dopo un anno e mezzo la situazione è tornata a scaldarsi a causa di alcune sparatorie alla frontiera a fine maggio 2022, proseguite parallelamente ai colloqui di alto livello stimolati dal presidente del Consiglio Ue, fino alla ripresa delle ostilità tra Armenia e Azerbaigian a settembre, con reciproche accuse di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue, con 40 esperti dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin, mettendo in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile. Il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, ma la tensione è tornata a crescere il 23 aprile dopo la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco. Da Bruxelles è arrivata la condanna dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima della ripresa delle discussioni a maggio e un nuovo round di negoziati di alto livello il 15 luglio tra Michel, il primo ministro armenoPashinyan e il presidente azero Aliyev.Esplosioni in Nagorno-KarabakhL’alternarsi di sforzi diplomatici e tensioni sul campo ha messo in pericolo anche gli osservatori Ue presenti dallo scorso 20 febbraio in Armenia per contribuire alla stabilità nelle zone di confine. Il 15 agosto una pattuglia della missione Euma è rimasta coinvolta in una sparatoria dai contorni non meglio definiti (entrambe le parti, armena e azera, si sono accusate a vicenda), senza nessun ferito. Solo un mese più tardi è sembrato che la situazione potesse pian piano stabilizzarsi, con il passaggio del primo convoglio con aiuti internazionali il 12 settembre attraverso la rotta Ağdam-Askeran e poi lo sblocco del corridoio di Lachin il 18 settembre dopo quasi nove mesi di crisi umanitaria. Neanche 24 ore dopo sono però iniziati i bombardamenti azeri contro l’enclave separatista che, per la sproporzione di forze in campo, ha determinato il cessate il fuoco e la resa fulminea dei militari di Stepanakert.
    Nel suo intervento davanti agli eurodeputati a Strasburgo, Nikol Pashinyan ha rivendicato l’impegno diplomatico di Yerevan anche di fronte alla pulizia etnica in Nagorno-Karabakh: “Siamo pronti ad avvicinarci all’Ue, nella maniera in cui Bruxelles lo ritenga necessario”

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    In Nagorno-Karabakh “pulizia etnica”, Parlamento Ue per la linea dura contro Azerbaijan

    Bruxelles – Con l’Azerbaijan, ma non con questo Azerbaijan. Il Parlamento europeo censura l’operato di Baku nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, lo accusa di “pulizia etnica” e invia un forte segnale politico di rottura. Nella risoluzione che l’Aula approva a larghissima maggioranza (491 voti favorevoli, 9 contrari e 36 astensioni) si chiede a Commissione e Stati membri di rivedere completamente le relazioni bilaterali con il Paese del Caucaso. Stop alla concessione agevolata dei visti, sanzioni ai funzionati azeri, stop agli acquisti di gas. Una risposta ‘stile Russia’, dura, come quella adottata dall’Ue per rispondere alle manovre militare del Cremlino in Ucraina.Il voto di Strasburgo si inserisce sia nel conflitto russo-ucraino, sia ancora di più con la riunione della Comunità politica europea in corso a Granada, in Spagna, a cui né la Turchia né l’Azerbaijan hanno deciso di partecipare. La questione del conflitto del Nagorno-Karabakh doveva essere uno dei temi oggetto di confronto politico e diplomatico, ma l’Azerbaijan e il suo alleato storico turco hanno deciso di lasciare l’Armenia da sola a un tavolo privo di partecipanti.La censura per l’Azerbaijan e il suo presidente Ilham Aliyev è però di quelle difficili da digerire, visto che la risoluzione dell’Aula del Parlamento europeo, di fronte a “oltre 100 mila armeni che sono stati costretti a fuggire dall’enclave in seguito all’ultima offensiva”, decreta che “l’attuale situazione equivale a una pulizia etnica“.Per questa ragione il Parlamento invita l’Ue ad adottare “sanzioni mirate” contro i funzionari governativi di Baku, poiché “responsabili di molteplici violazioni del cessate il fuoco oltre a violazioni dei diritti umani nel Nagorno-Karabakh“. Ma soprattutto si invita ad una “una revisione globale delle relazioni” con il Paese del Caucaso. Perché, denunciano gli europarlamentari, sviluppare un partenariato strategico con l’Azerbaigian, “che viola gravemente” il diritto internazionale, gli impegni internazionali e “che ha una situazione allarmante in materia di diritti umani, è incompatibile con gli obiettivi della politica estera dell’Ue“. Per cui l’invito è quello di “sospendere qualsiasi negoziato sul rinnovo del partenariato con Baku e, se la situazione non dovesse migliorare, prendere in considerazione la possibilità di sospendere l’applicazione dell’accordo di facilitazione per l’ottenimento dei visti europei con l’Azerbaigian”.L’Eurocamera prende una posizione molto netta e dura. Non si mette in discussione la territorialità dell’area contesa, visto che nessuno Stato membro dell’Ue l’ha mai riconosciuto come extraclave armena. Si condannano l’attacco e l’uso sproporzionato della forza, anche dopo le operazioni militari vere e proprie. Per questo il Parlamento invita l’Ue anche a “ridurre la sua dipendenza dalle importazioni di gas azero” e considerare l’ipotesi di sganciarsi completamente dal fornitore azero. “In caso di aggressione militare o di attacchi ibridi significativi contro l’Armenia”, i deputati si dichiarano “a favore di una sospensione completa delle importazioni da parte dell’Ue di petrolio e gas azeri“.C’è una parte di Unione europea che dunque mostra i muscoli, ma non è chiaro quanto la risoluzione, non legislativa e dunque non vincolante, troverà seguito. Perché da una parte sconfessa l’operato della Commissione per sottrarre il club dei Ventisette dalla morsa di Gazprom e raddoppiare l’import di gas azero al 2027. In secondo luogo rischia di esporre l’Ue a nuovi shock energetici. Senza più gas russo e, eventualmente, in prospettiva, senza gas azero, risulta difficile capire come potrebbe l’Unione europea a soddisfare il proprio fabbisogno.E’ qui che lo strappo tra Ue e Azerbaijan si collega alla guerra in Ucraina. Baku era vista come elemento centrale o quantomeno portante di una strategia volta a indebolire la Russia. Lo scontro diplomatico non gioca a favore degli europei. Anche perché Ilham Aliyev fin qui non ha mai smesso di sostenere Vladimir Putin. L’Azerbaijan vende il suo gas agli europei e poi, con i soldi degli europei, acquista gas russo per rispondere ai fabbisogni interni e sopperire all’aumento delle vendite.fonte foto: https://agsc.az/Il voto di oggi serve come incentivo a chiudere ogni residuo legame con la Russia. Perché a dire il vero, il gas azero arricchisce comunque la Russia. Shah Deniz, il più grande giacimento di gas naturale dell’Azerbaijan, è gestito da Azerbaijan Gas Supply Company Limited (AGSC), consorzio di cui fa parte Lukoil.Il voto del Parlamento apre però un altro fronte, quello dei mai semplici rapporti con Ankara. Si vorrebbe operare sulla Turchia un convincimento a non incoraggiare ulteriormente l’Azerbaijan. Ma come sempre in questi casi i turchi potrebbero chiedere una contropartita. Il Parlamento dell’Ue, con un voto sia pur comprensibile, si espone a rischio geo-politici non indifferenti.
    L’Aula approva una risoluzione che va allo scontro con Baku. Si chiedono stop a visti agevolati e acquisti di gas, e sanzioni ai funzionati azeri. Una prova di forza che apre un nuova sfida geopolitica

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    Tutto ciò che c’è da sapere sulla proposta franco-tedesca per adeguare l’Unione Europea a un suo futuro allargamento

    Bruxelles – Un lavoro iniziato otto mesi fa sotto gli auspici del presidente francese, Emmanuel Macron, e del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, per coniugare due dei temi più caldi per il futuro dell’Unione Europea: l’allargamento Ue e la riforma dei Trattati fondanti della stessa Unione. “Per ragioni geopolitiche, l’allargamento Ue è in cima all’agenda politica, ma l’Unione non è ancora pronta ad accogliere nuovi membri, né dal punto di vista istituzionale né da quello politico“, è quanto mette nero su bianco il Gruppo dei Dodici nel suo rapporto su cui si fonda la proposta franco-tedesca per il rinnovamento dell’Unione Europea e che oggi (19 settembre) è stato presentato a Bruxelles ai ministri degli Affari europei.
    Un report di 58 pagine particolarmente denso, in cui vengono trattate nel dettaglio le priorità imprescindibili dell’Unione – a partire dallo Stato di diritto – le aree di riforma con le rispettive esigenze di modifica dei Trattati – dal processo decisionale in Consiglio al numero di seggi al Parlamento Ue e di membri del Collegio dei commissari – le implicazioni per il bilancio comunitario, la possibile creazione di un’integrazione europea basata su quattro livelli e i principi-guida per il processo di allargamento Ue. “Riconoscendo la complessità di allineare le diverse visioni degli Stati membri sull’Unione Europea, il rapporto raccomanda un processo di riforma e di allargamento Ue flessibile”, si legge nel testo redatto da 12 esperti indipendenti, che mettono in guardia sul fatto che “le istituzioni e i meccanismi decisionali non sono stati concepiti per un gruppo di 37 Paesi“. Ovvero gli attuali 27 membri più i 10 partner che si sono avviati sulla strada dell’adesione: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina.
    La riforma delle istituzioni
    Il punto di partenza è la protezione dello Stato di diritto. In primis rendendo il meccanismo di condizionalità uno strumento contro le violazioni da poter estendere anche a fondi futuri. E come seconda soluzione perfezionare la procedura secondo l’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea (quella che sospende il diritto di voto in Consiglio), introducendo una maggioranza di quattro quinti del Consiglio per farla scattare (al posto di unanimità meno uno) e includendo limiti di tempo per costringere i capi di Stato e di governo a prendere una decisione.
    Tutte le istituzioni comunitarie sono interessate dalla riforma dell’Unione. Il Parlamento manterrebbe il limite di 751 “o meno” eurodeputati (quindi meno rappresentanti per Stato membro), con l’adozione di un nuovo sistema di assegnazione dei seggi, basato su una formula che bilancia il diritto di ogni membro a essere rappresentato e la necessità di ridurre le distorsioni demografiche. Anche per la Commissione si considerano le dimensioni del Collegio, con due opzioni: o una riduzione del numero di commissari (non più uno per Stato membro) o una differenziazione tra “commissari guida” e “commissari”, in cui solo i primi hanno il diritto di voto. Il Consiglio dell’Ue dovrebbe invece essere riorganizzato da un formato a tre a un quintetto di presidenza che copra metà di un ciclo istituzionale (sei mesi per membro). Il Consiglio è l’istituzione più delicata da riformare, con l’idea fondante di “generalizzare il voto a maggioranza qualificata” a tutte le decisioni “politiche”, con salvaguardie come una “rete di sicurezza per la sovranità”, il calcolo delle quote di voto riequilibrato da 65/55 a 60/60 e opt-out per i settori politici interessati.
    Democrazia, poteri e bilancio
    Per salvaguardare la democrazia europea dovranno essere armonizzate le leggi elettorali, “almeno entro il 2029” (per il rinnovo dell’Eurocamera), ma serve una decisione “prima delle prossime elezioni” del 2024 anche sulla nomina del presidente della Commissione: o come accordo inter-istituzionale o come accordo politico. I cittadini dovranno essere coinvolti più da vicino con strumenti partecipativi legati al processo decisionale e a quello di allargamento Ue, mentre un nuovo Ufficio indipendente per la trasparenza e la probità dovrebbe monitorare le attività di tutti gli attori che lavorano nelle – o per le – istituzioni comunitarie. Va a braccetto la questione della definizione delle competenze, con la necessità di “rafforzare le disposizioni su come affrontare gli sviluppi imprevisti”, includendo meglio il Parlamento e creando una Camera congiunta delle più alte giurisdizioni dell’Ue come dialogo non vincolante tra le giurisdizioni europee e quelle degli Stati membri.
    Ma in questo capitolo l’attenzione è tutta rivolta al bilancio comunitario, di fronte a un potenziale aumento dei membri e delle politiche da finanziare collettivamente. Nel prossimo periodo di bilancio (2028-2034) dovrà essere aumentato il budget “sia in termini nominali sia in relazione al Pil”. Serviranno nuove risorse proprie per limitare l’ottimizzazione fiscale, l’elusione e la concorrenza, mentre le decisioni di bilancio dovranno essere prese per maggioranza qualificata (o in alternativa con una cooperazione più intensa tra gruppi più piccoli di Stati membri per finanziare insieme le politiche). Dovrà poi essere condotta una revisione per ridurre o aumentare le dimensioni di determinate aree di spesa e viene sancito il principio secondo cui l’Ue dovrebbe poter emettere debito comune in futuro. Dal 2034 – quando le due scadenze si allineeranno – il ciclo istituzionale avrà il compito di stabilire un nuovo quadro finanziario pluriennale della durata di 5 anni (e non più 7).
    Integrazione differenziata e processo di allargamento Ue
    L’ultima parte del rapporto del Gruppo dei Dodici è legato all’allargamento Ue vero e proprio, ma anche alle forme di integrazione che l’Unione dovrebbe assumere su diversi livelli. Prima di tutto viene considerato come modificare i Trattati, con sei opzioni sul tavolo: attivazione dell’articolo 48 del Tue (procedura di revisione ordinaria), una procedura di revisione semplificata, l’attivazione dell’articolo 49 del Tue (trattati di adesione di nuovi membri che modificano quelli istitutivi), “trattato quadro di allargamento e riforma” redatto dagli Stati membri, coinvolgimento di una Convenzione e – “in caso di stallo” – trattato di riforma supplementare tra gli Stati membri disposti a farlo.
    Alla riforma dei Trattati si accompagna la definizione dei 5 principi di integrazione differenziata all’interno dell’Ue: rispetto dell’acquis comunitario e dell’integrità delle politiche e delle azioni Ue, uso delle istituzioni comunitarie, apertura a tutti i membri, condivisione dei poteri decisionali, dei costi e dei benefici, e avanzamento da parte dei “volenterosi” che vogliano spingere oltre l’integrazione. Mentre agli Stati non cooperativi o non disposti a collaborare vengono offerti opt-out (opzioni di non partecipazione) nel nuovo Trattato – fatto salvo l’acquis comunitario e i valori fondanti – il futuro dell’integrazione europea viene immaginato su quattro livelli distinti: una cerchia interna di membri Schengen, dell’Eurozona e di altre “coalizioni di volenterosi”, l’Unione Europea con membri vecchi e nuovi, i membri associati al Mercato unico (come Norvegia e Svizzera) e – fuori dal perimetro dello Stato di diritto – la Comunità Politica Europea 2.0 che abbia al centro la convergenza geopolitica e strutturata su accordi bilaterali con l’Ue.
    In tutto questo deve rimanere chiaro l’obiettivo di essere pronti per l’allargamento Ue entro il 2030, così come anticipato dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel – mentre parallelamente i Paesi candidati dovranno lavorare per soddisfare tutti i criteri di adesione entro la stessa data (e già si sono detti disponibili a farlo). Nel rapporto viene stimolata la nuova leadership politica dopo le elezioni del 2024 a impegnarsi per questo obiettivo e concordare sulla preparazione per l’allargamento Ue entro la fine del decennio. Il discorso riguarda però da vicino anche lo stesso processo di allargamento Ue, a partire dalla suddivisione dei cicli di adesione in gruppi più piccoli di Paesi (ciascuno di questi definito ‘regata’). Nove principi dovrebbero guidare poi le future strategie di allargamento Ue: ‘prima le basi’, geopolitico, risoluzione dei conflitti, supporto tecnico e finanziario aggiuntivo, legittimità democratica, eguaglianza, ‘sistematizzazione’, reversibilità e voto a maggioranza qualificata.

    Riforma delle istituzioni, risorse comuni, integrazione differenziata e nuovo processo di adesione dei candidati. I governi hanno iniziato a discutere sulle proposte del Gruppo dei Dodici per mettere l’Unione nelle condizioni di non farsi trovare impreparata all’appuntamento del 2030

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    La controffensiva ucraina “avanza lentamente, ma avanza” con il supporto Nato. Stoltenberg: “Mai detto fosse facile”

    Bruxelles – Non c’è bisogno di allarmarsi, era uno scenario preventivato. Il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), Jens Stoltenberg, ha presentato così lo stato della controffensiva ucraina per riconquistare i territori ancora in mano dell’esercito russo dopo l’invasione del 24 febbraio 2022. L’Alleanza Atlantica è stata ed è tuttora decisiva per le operazioni militari di Kiev e per questo motivo gli eurodeputati della commissione per gli Affari esteri (Afet) hanno richiesto un’audizione al segretario Stoltenberg per ricevere un aggiornamento sullo stato delle operazioni sul campo di battaglia e sul sostegno portato avanti dalla maggior parte dei Paesi membri Ue.
    Il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), Jens Stoltenberg, in audizione al Parlamento Europeo (7 settembre 2023)
    “Gli ucraini stanno gradualmente guadagnando terreno“, ha messo in chiaro Stoltenberg questa mattina (7 settembre), precisando che la controffensiva dell’esercito di Kiev “avanza lentamente, ma avanza”. Si tratta di “un combattimento pesante ed estremamente difficile, ma ha permesso di rompere le linee difensive delle forze russe“. Perché se “nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile, sapevamo che erano state predisposte linee di difesa dall’esercito russo”, in pochi si aspettavano di trovare “un dispiegamento di mine come in Ucraina, poche altre volte nella storia l’abbiamo mai visto”. È questo che ha reso l’avanzata “meno rapida di come vorremmo”, ma rimane il fatto che “quando avanzano gli ucraini, i russi perdono terreno, centinaia di metri al giorno“. E poi c’è un fattore psicologico da tenere in considerazione: “All’inizio l’esercito russo si riteneva il secondo più forte al mondo [dopo gli Stati Uniti, ndr], ora è chiaro che è secondo, ma a quello ucraino”. Perché Kiev – invece di “cadere in qualche settimana, come dicevano gli esperti” – è riuscita a “respingere prima l’invasore dalla capitale, poi a nord-est e conquistando territori a sud, e ora ne sta liberando altri”, ha voluto ricordare il segretario generale della Nato.
    Da sinistra: il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), Jens Stoltenberg, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky
    Tutto questo “dimostra l’importanza del nostro sostegno e della nostra volontà di continuare a fornire supporto militare” a Kiev, a prescindere dalla situazione contingente del momento: “Non si sa come sarà il destino di una guerra dopo una settimana o un anno, bisogna accettare che anche l’Ucraina possa avere momenti difficili”. Finora il supporto militare dell’Alleanza Atlantica è stato “senza precedenti”, con la fornitura di artiglieria, munizioni, missili a lunga gittata, sistemi avanzati di difesa aerea e addestramento di soldati ucraini: “Vorrei anche rendere omaggio a Paesi Bassi, Danimarca e Norvegia per aver annunciato di essere pronti a consegnare F-16 a Kiev“, è stato il ringraziamento di Stoltenberg. Ora però “la priorità numero uno è fare in modo che i sistemi consegnati funzionino davvero e vengano assicurate munizioni“, ha precisato il segretario generale della Nato, avvertendo che “il dibattito pubblico è troppo focalizzato sulla consegna di nuovi sistemi, invece che sulla manutenzione necessaria”.
    La possibile adesione dell’Ucraina alla Nato
    Nel corso del dibattito con gli eurodeputati Stoltenberg ha anche fatto il punto sulla possibile adesione dell’Ucraina alla Nato, dopo quanto accaduto al vertice di Vilnius di metà luglio con l’impegno concreto attraverso una dichiarazione del G7: “Non è mai stata così vicina e questo riflette la realtà politica secondo cui le nazioni sono sovrane”. Come sempre sostenuto dagli alleati, Kiev “ha il diritto di decidere la propria strada” e spetta a solo queste due parti “decidere se e quando diventerà membro dell’Alleanza”. Al contrario, “la Russia non può porre il veto all’adesione di nessuno Stato sovrano e indipendente“.
    A questo proposito Stoltenberg ha ricordato quanto accaduto nei mesi precedenti all’invasione dell’Ucraina. “Nell’autunno del 2021 Vladimir Putin voleva la promessa per cui la Nato non si sarebbe mai più ampliata, ci ha inviato una proposta di trattato che abbiamo deciso di non firmare”, dal momento in cui “quello costituiva il suo presupposto per non invadere l’Ucraina”. Il segretario generale dell’Alleanza ha spiegato così quello che considera un ricatto dell’autocrate russo: “Voleva che firmassimo anche una promessa per rimuovere le infrastrutture militari in tutti i Paesi Nato che hanno aderito dopo il 1997, cioè la metà dei membri attuali”. L’Alleanza – di cui la Russia non fa parte e in cui non ha diritto di interferenza – avrebbe dovuto introdurre “una sorta classificazione con membri di seconda categoria“. Dopo il rifiuto, Putin ha mosso guerra contro Kiev “e ha ottenuto l’esatto opposto” rispetto a quanto chiedeva: “Ha avuto maggiore presenza della Nato sul fronte orientale, la Finlandia ha aderito e la Svezia lo farà a breve“.
    La speranza rimane comunque il ritorno della pace sul continente, perché “la storia dell’Europa ci dimostra che i nemici possono diventare amici, è possibile farlo anche con la Russia“. Tuttavia al momento Putin persevera nel suo errore di “tornare a controllare i Paesi vicini e se qualcuno vuole entrare nella Nato la considera una provocazione”, ha sottolineato ancora Stoltenberg. Ma “non lo è, è un diritto democratico di ciascun Paese”. Contro l’altro errore dell’autocrate russo – “di sottovalutare la forza e il coraggio degli ucraini e anche la nostra volontà e impegno nel supportarli” – secondo il segretario generale della Nato per il momento è necessario “sostenere le spese per la nostra difesa e per l’Ucraina, per assicurare la pace futura”.

    Nel corso di un’audizione al Parlamento Ue, il segretario generale dell’Alleanza Atlantica ha fatto il punto sull’avanzamento delle truppe di Kiev a sud: “Mai visto un dispiegamento simile di mine. Ma le linee difensive russe sono state rotte e ora stanno gradualmente recuperando terreno”