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    Un anno dal 7 ottobre, l’attentato atroce di Hamas che ha innescato la mattanza israeliana a Gaza. Borrell: “L’Ue è rimasta assente”

    Bruxelles – Un anno fa, il 7 ottobre 2023, Hamas lanciava un attacco senza precedenti a Israele, uccidendo 1.400 persone tra civili e militari, e trascinandone a Gaza altre 240. Da quel giorno, l’esercito israeliano ha messo sotto assedio totale la Striscia di Gaza. A distanza di un anno, l’enclave palestinese è ridotta a cumuli di macerie, oltre 41 mila palestinesi sono rimasti uccisi nei bombardamenti israeliani, quasi 100 mila feriti. Oggi, il Parlamento europeo ha reso omaggio con un minuto di silenzio a “tutte le vittime innocenti”.La presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha aperto la sessione plenaria di Strasburgo ricordando “l’orrore di quella giornata che durerà in eterno”. E ribadendo che “nulla potrà mai giustificare l’omicidio di massa, lo stupro, il rapimento e la tortura”. In aula era presente una delegazione delle famiglie degli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza, ai quali gli eurodeputati hanno rivolto un lunghissimo applauso. Metsola ha poi lasciato la parola all’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, che ha passato l’ultimo anno a rincorrere i Paesi membri e richiamarli all’unità su un conflitto che invece ha fatto luce sulle divisioni e sulla conseguente insignificanza dell’Unione europea in Medio oriente.“La tragedia è che l’Europa è profondamente assente da questo conflitto, probabilmente per il fatto che gli Stati membri, che sono quelli che dettano la politica estera, sono profondamente divisi”, ha ammesso il capo della diplomazia europea. Spettatrice di uno scenario che “non fa che peggiorare”. Dopo un anno, “l’intero Medio Oriente è sull’orlo di una completa conflagrazione che la comunità internazionale sembra incapace di controllare“, ha proseguito Borrell. Allarmato dai bombardamenti israeliani “in aree densamente popolate del Libano”, dal lancio di missili dall’Iran contro Israele, dai “nuovi sviluppi particolarmente preoccupanti in Cisgiordania”.Minuto di silenzio al Parlamento europeo per le vittime innocenti in Israele e a GazaAlla base di tutto, per Borrell c’è però una questione innegabile. E cioè che “la soluzione dei due Stati, l’unica che conosciamo per cercare di costruire la pace, non ha l’appoggio di una delle parti più importanti del problema”. L’attuale governo di Israele. Un governo che, nella cieca risposta ad Hamas, ha rifiutato qualsiasi indicazione delle istituzioni internazionali, arrivando persino a dichiarare il segretario generale dell’Onu “persona non gradita” sul proprio territorio nazionale.E allora, per Borrell, “è importante prendere posizione”. Come ha fatto “il presidente della Repubblica francese”, ha aggiunto, facendo riferimento all’appello di Emmanuel Macron di non fornire armi a Israele. L’Alto rappresentante ha sottolineato che “nessuna soluzione militare porterà un futuro ai popoli di Israele e Palestina”, che “un cessate il fuoco immediato su tutti i fronti sia l’unico modo per giungere alla liberazione degli ostaggi e per smorzare questa situazione estremamente pericolosa per la regione”.Questa mattina, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha rilasciato una nota per l’anniversario dell’attacco di Hamas. Un attentato che “ha portato immense sofferenze non solo al popolo di Israele, ma anche a palestinesi innocenti”. La leader Ue ha richiamato per l’ennesima volta “tutte le parti” ad agire “responsabilmente e con moderazione”. Mentre il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha dichiarato ancora che “un cessate il fuoco a Gaza e il rilascio di tutti gli ostaggi sono di estrema urgenza”.Nel giorno dell’anniversario del 7 ottobre, il Movimento Europeo ha lanciato un appello a Bruxelles, chiedendo di estendere la direttiva sulla protezione temporanea, applicata per la prima volta per i cittadini ucraini e in vigore fino a marzo 2025, alle persone in fuga dai territori in guerra in Medio Oriente “con particolare riferimento alle donne e ai bambini”. Perché “la guerra in Libano, l’escalation militare nella Striscia di Gaza e l’orrore dimenticato nello Yemen stanno provocando milioni di sfollati con una delle peggiori crisi umanitarie nel mondo”. Occorre prendere posizione, come diceva Borrell.

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    “Riportate a casa gli ostaggi”: lo sciopero generale in Israele contro Netanyahu

    Bruxelles – Era da prima del 7 ottobre dell’anno scorso, e prima della conseguente guerra nella Striscia di Gaza, che non si vedeva in Israele una protesta così partecipata. Nel weekend, decine di migliaia di persone hanno inondato le strade di Tel Aviv e Gerusalemme, mentre oggi (2 settembre) è in corso il primo sciopero nazionale da un anno e mezzo, che potrebbe essere prolungato. I manifestanti chiedono al primo ministro Benjamin Netanyahu di accettare un accordo con la leadership di Hamas e permettere il rientro degli ostaggi ancora vivi, dopo il rinvenimento di sei cadaveri israeliani nella Striscia. “Domani l’intera nazione si fermerà e si unirà in un grido comune per riportare indietro gli ostaggi”, si legge nel comunicato diffuso domenica (1 settembre) da Histadrut, il sindacato più grande del Paese che rappresenta circa 800mila lavoratori. L’annuncio della mobilitazione, giunto per voce del segretario dell’associazione Arnon Bar-David, è arrivato durante la manifestazione di ieri sera, organizzata nella capitale israeliana dal forum delle famiglie degli ostaggi rapiti durante l’attacco del 7 ottobre. Bar-David si è riservato di valutare un’eventuale estensione dello sciopero oltre la giornata di lunedì.Le proteste di domenica sono state fortemente partecipate anche a causa della notizia, giunta la mattina stessa, del ritrovamento dei cadaveri di sei ostaggi nei tunnel sotto la città palestinese di Rafah, nel sud della Striscia. A Tel Aviv si sono radunate decine di migliaia di persone per chiedere al governo di intensificare gli sforzi negoziali e riportare a casa le decine di ostaggi ancora in vita – il cui numero non si conosce con esattezza, ma che secondo le stime dovrebbero essere circa una settantina. I manifestanti hanno esibito delle bare per sottolineare le responsabilità del governo nella morte degli ostaggi, dato lo stallo nelle trattative con i dirigenti di Hamas che appare motivato più da calcoli politici interni all’esecutivo di Bibi che non da considerazioni pragmatiche. Anche a Gerusalemme, fuori dell’ufficio del premier, si sono raggruppate folle di contestatori. In alcuni casi, soprattutto nella capitale Tel Aviv, si sono registrati scontri con la polizia. Così, dalle 6 locali di questa mattina (le 5 italiane) centinaia di migliaia di lavoratori hanno incrociato le braccia, nello sciopero più ampio realizzato dal marzo 2023, prima dell’inizio delle operazioni militari dell’Idf nella Striscia. L’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv è rimasto bloccato per un paio d’ore in mattinata, mentre i trasporti e i servizi pubblici (incluse le scuole) sarebbero stati fortemente ridotti. Del resto, lo stesso sindaco della capitale, Ron Huldai, ha pubblicamente invitato i dipendenti dell’amministrazione a partecipare allo sciopero. Mentre i negoziati sono sostanzialmente bloccati a causa delle richieste inconciliabili delle due parti, sono partite le vaccinazioni nella Striscia per prevenire l’esplosione di un’epidemia di poliomielite tra i bambini palestinesi. La pausa nei combattimenti, limitata soltanto ad alcune zone e ad una specifica fascia oraria giornaliera, dovrebbe durare tre giorni e permettere la vaccinazione di tutti i bambini sotto i dieci anni di età, che sono oltre 640mila. Un’impresa il cui esito positivo è tutt’altro che scontato.Nel frattempo, continuano le violenze nella Cisgiordania occupata, dove è in corso una grande operazione militare israeliana che ha interessato diverse città e che ha già fatto almeno una quindicina di morti palestinesi. Il tutto dopo che, lo scorso luglio, il governo israeliano aveva spinto ulteriormente sull’acceleratore dell’occupazione illegale nei Territori palestinesi in una mossa che è valsa nuove sanzioni da parte dei Ventisette. L’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell ha proposto formalmente giovedì scorso (29 agosto) di sanzionare i ministri della Sicurezza (Itamar Ben-Gvir) e delle Finanze (Bezalel Smotrich) in risposta alle posizioni espresse recentemente dai due (entrambi appartenenti a partiti di estrema destra, su cui si regge il governo di Netanyahu) riguardo alla necessità di bloccare la distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia e alla possibilità, giustificabile in termini “morali”, di affamare la popolazione palestinese. 

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    Tajani: “Convergenza nel governo su Fitto”. E all’Ucraina dice: “Le armi italiane non siano usate in territorio russo”

    Bruxelles – “La figura di Raffaele Fitto è la migliore possibile”: non ci sono dubbi per il vicepremier azzurro, Antonio Tajani, sul profilo del candidato italiano per la prossima Commissione europea, il quale assicura che la maggioranza di governo è compatta nel sostenerlo. E ha risposto in maniera scettica alle critiche mosse a inizio mattinata dall’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, contro l’inerzia dimostrata fin qui dai Ventisette su due dossier cruciali: Ucraina e Medio Oriente. Il leader di Forza Italia, a Bruxelles per il Consiglio Affari esteri informale di giovedì (29 agosto), ha blindato il nome dell’attuale ministro agli Affari europei Raffaele Fitto prima di unirsi ai suoi omologhi nel palazzo Europa. “Domani ne parleremo al vertice di maggioranza, poi ci sarà il Consiglio dei ministri”, ha continuato Tajani, sottolineando come l’ex presidente della regione Puglia “sia la persona più giusta” e su come sul suo nome “ci sia una convergenza da parte di tutti” i partiti della coalizione. La sua esperienza, che il vicepremier ha assicurato essere gradita anche a Bruxelles, è il punto che mette tutti d’accordo: è importante che Roma invii al Berlaymont qualcuno “che non faccia l’apprendista commissario ma il commissario”. E tuttavia il governo italiano attenderà, appunto, fino a domani per formalizzare la nomina, dopo essere rimasto l’ultimo grande Paese del blocco a non aver ancora indicato ufficialmente alcun candidato.Quanto alle accuse, tutt’altro che velate, mosse dal capo della diplomazia Ue all’indirizzo degli Stati membri prima dell’avvio delle discussioni in Consiglio, il titolare degli Esteri si è dimostrato piuttosto indifferente. Anzitutto, sull’Ucraina: “Ogni Paese è libero di decidere” se mantenere o rimuovere le restrizioni sull’utilizzo delle armi inviate a Kiev oltre i confini della Russia, ha ribadito, sottolineando che “per l’Italia rimane la posizione di utilizzare le nostre armi all’interno del territorio ucraino“. A quanto riportato dal ministro, Roma è in procinto di inviare all’Ucraina una nuova batteria per il sistema antiaereo Samp/T.  E sulla proposta, caldeggiata nuovamente da Borrell in mattinata, di sanzionare dei membri del governo israeliano, il vicepremier forzista ha parlato di “periodo ipotetico dell’irrealtà“. L’obiettivo è “convincere Israele a fare delle scelte che portino al cessate il fuoco a Gaza perché questa è la priorità vera”, ha dichiarato Tajani, sostenendo che “non è col riconoscimento teorico della Palestina o con le sanzioni ai ministri israeliani che si risolvono i problemi” nel complesso quadro della crisi mediorientale. “Serve più diplomazia“, ha aggiunto, ricordando che gli obiettivi prioritari sono la sospensione immediata delle ostilità nella Striscia, la distribuzione degli aiuti umanitari alla popolazione palestinese e la liberazione degli ostaggi israeliani ancora in mano ai gruppi islamisti.

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    La Palestina e l’Azerbaijan vogliono entrare nei Brics

    Bruxelles – La famiglia dei Brics, il gruppo delle cosiddette economie emergenti che si dipingono collettivamente come contrappeso all’egemonia occidentale a livello globale, potrebbe presto allargarsi ancora dopo aver più che raddoppiato la propria membership a inizio anno. Tra i nuovi ingressi, che saranno probabilmente annunciati in autunno, ci potrebbero essere la Palestina e l’Azerbaijan. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa turca Anadolu, l’ambasciatore palestinese a Mosca, Abdel Hafiz Nofal, ha dichiarato che Ramallah ufficializzerà la propria richiesta di entrare nel blocco dei Brics dopo aver partecipato al prossimo summit, in calendario per ottobre a Kazan, circa 870 chilometri a est della capitale russa. I Brics sono un gruppo di Paesi, considerati emergenti nell’economia globale (anche se il concetto di “economia emergente” è ad oggi controverso), nato nel 2009 con quattro membri: Brasile, Russia, India e Cina. Nel 2011 si è aggiunto il Sudafrica (da qui l’acronimo Brics, dall’unione delle iniziali dei Paesi – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e a gennaio 2024 sono entrati anche Egitto, Emirati arabi uniti, Etiopia ed Iran – il che ha portato il blocco a rappresentare ora oltre il 37 per cento del Pil mondiale (l’Ue, per avere una prospettiva, vale circa il 14,5 per cento). La Palestina ha fatto richiesta per partecipare all’organizzazione nell’agosto 2023, insieme ad altri 21 Paesi (inclusi i quattro che sono poi effettivamente entrati). Dal primo gennaio di quest’anno, la presidenza di turno del gruppo (che dura un anno) è stata assunta dalla Federazione russa. “Il presidente russo Vladimir Putin ha promesso che ci sarà una sessione interamente dedicata alla Palestina”, ha precisato l’ambasciatore Nofal, sottolineando che l’invito rivolto al presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas lunedì (26 agosto) “significa che nonostante tutti i crimini, le uccisioni e la distruzione nella Striscia di Gaza, il nostro messaggio è che la Palestina vuole vivere e svilupparsi“. Mosca si è ripetutamente mostrata vicina, almeno a parole, alla causa palestinese fin dall’avvio dell’offensiva israeliana nella Striscia, e rappresenta pertanto uno dei “protettori” internazionali più naturali per Ramallah. Lo Stato di Palestina è stato formalmente dichiarato dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) nel 1988, ma è stato ammesso all’Assemblea generale delle Nazioni unite in qualità di osservatore solo nel 2012. Ad oggi, sono 145 su 193 gli Stati membri dell’Onu che lo riconoscono ufficialmente, di cui solo dodici Paesi Ue (Bulgaria, Cechia, Cipro, Irlanda, Malta, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria). Mancano all’appello la quasi totalità delle nazioni occidentali.  Oltre alla Palestina, anche l’Azerbaijan ha espresso l’intenzione di unirsi al blocco delle economie emergenti lo scorso 20 agosto, in occasione di una visita del presidente russo nel Paese. I legami tra Baku e Mosca si sono intensificati negli ultimi anni: ad esempio, una “dichiarazione sull’interazione alleata” per una maggiore cooperazione bilaterale è stata siglata appena due giorni prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, nel febbraio 2022. L’avvicinamento tra la Federazione russa e la repubblica del Caucaso meridionale è stata anche speculare al progressivo allontanamento dell’Armenia da Mosca, soprattutto in seguito alla mancata risposta del Cremlino all’acuirsi della crisi tra Yerevan e Baku nell’exclave armena del Nagorno-Karabakh, riconquistata dagli azeri nel settembre dello scorso anno. L’Armenia fa ancora formalmente parte di un trattato di sicurezza collettivo stipulato da diverse ex repubbliche sovietiche (Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan), ma nel corso del 2024 si è progressivamente distanziata da Mosca e ha annunciato l’intenzione di abbandonare l’alleanza militare. Nonostante i crescenti legami con la Russia di Putin, l’Azerbaijan è diventato recentemente uno dei principali partner energetici dell’Unione europea, cui fornisce gas naturale e petrolio proprio per sopperire alla mancanza di idrocarburi a seguito della guerra in Ucraina. E, nonostante il Paese sia guidato dal presidente Ilham Aliyev in maniera autoritaria e abbia fatto la propria ricchezza proprio sulla vendita di combustibili fossili, Baku ospiterà la prossima conferenza Onu sul clima, la Cop 29, a novembre. 

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    La Slovenia è il dodicesimo Paese dell’Ue a riconoscere lo Stato di Palestina

    Bruxelles – “Un messaggio di speranza” al popolo palestinese in Cisgiordania e a Gaza. Con queste parole, scritte sul suo account X, il primo ministro sloveno, Robert Golob, ha commentato il via libera da parte del parlamento di Lubiana alla proposta del governo di riconoscere la Palestina. La Slovenia diventa così il dodicesimo Paese dell’Ue a riconoscere lo Stato palestinese.Nella serata di ieri (4 giugno), l’Assemblea nazionale riunita in sessione straordinaria ha approvato con 50 voti favorevoli e nessun contrario – i restanti 40 deputati hanno abbandonato l’aula – la proposta del governo progressista guidato da Golob. La presidente del Parlamento di Lubiana, Natasa Pirc Musar, ha dichiarato che la Slovenia da ora in poi potrà “aiutare in modo ancora più credibile il popolo palestinese nel suo difficile cammino verso la vera indipendenza e l’uguaglianza nella comunità internazionale”.La Slovenia si aggiunge a Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Ungheria, Malta, Romania, Polonia, Slovacchia, Svezia, Spagna e Irlanda, gli Stati membri che riconoscono formalmente la Palestina. Di questi, solo Svezia, Spagna e Irlanda avevano attuato il riconoscimento mentre erano Paesi Ue. La guerra tra Israele e Hamas e la tragedia umanitaria di Gaza hanno ridato slancio alla questione palestinese e alla necessità di compiere passi concreti verso la soluzione dei Due Stati, e dopo Madrid e Dublino, Lubiana è il terzo Paese Ue in poche settimane ad annunciare il riconoscimento dello Stato di Palestina.Ma la quantità di Stati membri a riconoscere Ramallah è ancora decisamente bassa, se comparata con quella dei Paesi membri dell’Onu: 145 su 193, oltre i tre quarti. Tra i 27, sono meno della metà.

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    L’Ue mette una pezza al blocco israeliano delle risorse dell’Autorità palestinese: 25 milioni per garantire stipendi e pensioni

    Bruxelles – La Commissione europea ha annunciato l’esborso di 25 milioni di euro di assistenza all’Autorità Nazionale Palestinese, la seconda tranche del pacchetto da 118,4 milioni adottato da Bruxelles a dicembre 2023. Allo stesso tempo, via libera anche a 16 milioni di euro per l’Agenzia Onu per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), completamente riabilitata dall’Ue dopo le accuse israeliane – finora mai dimostrate – di complicità con Hamas.Mentre la Striscia di Gaza è ormai ridotta completamente in macerie, il territorio governato dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) è una bomba a orologeria, stretto tra l’inasprimento degli attacchi dei coloni israeliani e dalla mancanza di fondi per mandare avanti una parvenza di macchina statale. Tel Aviv sta bloccando le entrate fiscali che raccoglie per l’Anp, senza le quali non è possibile pagare stipendi, pensioni, assegni sociali per le famiglie vulnerabili, prestazioni mediche. In questo senso, i 25 milioni mobilitati dall’Ue sono una manna dal cielo a sostegno della capacità amministrativa e tecnica delle istituzioni dell’Autorità palestinese. La prima tranche da altrettanti 25 milioni era stata versata a marzo.Per quanto riguarda l’Unrwa, la fiducia ristabilita tra Bruxelles e l’Agenzia per i rifugiati palestinesi segna un’ulteriore frattura con Israele, il cui Parlamento ha approvato pochi giorni fa in via preliminare un disegno di legge che designa l’Unrwa come organizzazione terroristica. “Alla luce dei progressi compiuti dall’Agenzia rispetto alle condizioni e alle misure concordate” con Bruxelles per garantirne l’imparzialità, la Commissione ha dato il via libera alla seconda tranche da 16 milioni, dopo un primo finanziamento di 50 milioni sbloccato già il primo marzo.L’Agenzia delle Nazioni Unite ha presentato un piano d’azione per attuare le raccomandazioni formulate a metà aprile dal gruppo di revisione indipendente guidato dall’ex ministra francese Catherine Colonna, che ha convinto tutti gli Stati membri a sbloccare anche i loro finanziamenti nazionali, fondamentali per mantenerla in vita e garantire assistenza agli oltre 6 milioni di rifugiati palestinesi a Gaza, nei territori occupati della Cisgiordania, in Libano, Giordania e Siria.La Commissione europea ha dichiarato in una nota che la terza e ultima tranche annuale da 16 milioni di euro “sarà subordinata all’attuazione dell’accordo con l’Unrwa e al rispetto da parte dell’Agenzia delle condizioni e delle misure concordate”.

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    Spagna, Irlanda e Norvegia formalizzano il riconoscimento della Palestina. E annunciano: “Risponderemo alle provocazioni di Israele”

    Bruxelles – Da oggi (28 maggio) i Paesi membri delle Nazioni Unite che riconoscono ufficialmente lo Stato palestinese diventano 145. Più di tre quarti, su un totale di 193. Spagna, Irlanda e Norvegia hanno formalizzato la decisione annunciata lo scorso 22 maggio. E da Madrid, la promessa che arriverà una risposta coordinata con Dublino e Oslo alle “provocazioni e falsità spregevoli” diffuse dal ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, per screditare i tre governi.Ha aperto le danze Pedro Sanchez, che dal palazzo della Moncloa ha annunciato in mattinata “la decisione storica”, presa con “un unico obiettivo: aiutare israeliani e palestinesi a raggiungere la pace”. Per il premier socialista spagnolo il riconoscimento dello Stato di Palestina “non è solo una questione di giustizia storica rispetto alle legittime aspirazioni del popolo palestinese”, ma “l’unico modo per andare verso l’unica soluzione possibile per realizzare un futuro di pace: quello di uno Stato palestinese che conviva accanto allo Stato di Israele in pace e sicurezza”. Uno Stato, quello palestinese, con Gerusalemme Est come capitale, l’Autorità Palestinese come autorità nazionale e i confini del 1967, ha precisato ancora Sanchez.Poche ore dopo, gli annunci da Oslo e Dublino. “La Norvegia è stata uno dei più ferventi difensori di uno Stato palestinese per più di 30 anni”, ha dichiarato il ministro degli Esteri, Espen Barth Eide, in un comunicato, denunciando la mancanza di “impegno costruttivo” da parte di Israele per la soluzione a due Stati. “Il giorno in cui la Norvegia riconosce ufficialmente la Palestina come Stato è un giorno speciale per le relazioni Norvegia-Palestina”, ha proseguito. Contemporaneamente, il gabinetto del primo ministro irlandese, Simon Harris, ha formalizzato il riconoscimento della Palestina come Stato sovrano e indipendente, annunciando che nominerà un ambasciatore a Ramallah.L’obiettivo di questa decisione è “mantenere viva la speranza – ha dichiarato Harris -, credere che una soluzione a due Stati sia l’unico modo per Israele e Palestina di vivere fianco a fianco in pace e sicurezza”. Il capo del governo centrista irlandese ha invitato poi il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu ad “ascoltare il mondo e porre fine alla catastrofe umanitaria” in corso a Gaza. In un comunicato, il vicepremier Micheal Martin ha promesso: “Il riconoscimento della Palestina non è la fine di un processo; è l’inizio”.Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, mostra le foto degli ostaggi nelle mani di Hamas al Consiglio Ue Affari Esteri, 22/01/24 (Photo by JOHN THYS / AFP)Tutto questo mentre, dal suo account X, il ministro degli esteri di Tel Aviv, Israel Katz, continuava a sparare a zero sui tre Paesi che secondo Israele “hanno deciso di premiare Hamas”. Il bersaglio principale è Madrid e la vicepremier spagnola, Yolanda Diaz, che pochi giorni fa aveva recitato lo slogan filo-palestinese “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Per Katz la leader di Sumar è come la guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, e il leader di Hamas, Yahya Sinwar, perché chiede “l’eliminazione di Israele e la creazione di uno stato terrorista islamico palestinese dal fiume al mare”. E prosegue: “Primo Ministro Sanchez ,se non licenzi il tuo vice e annunci il riconoscimento di uno Stato palestinese, sei complice nell’istigazione al genocidio ebraico e dei crimini di guerra“.Alle accuse israeliane, che l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, ha definito “aggressioni verbali assolutamente ingiustificate ed estreme“, ha dato una prima risposta il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel Albares. “Ho parlato con i miei colleghi irlandese e norvegese, i quali stanno ricevendo attacchi e fake news infami” da parte di Katz – ha dichiarato il suo omologo spagnolo -, “abbiamo deciso di dare una risposta coordinata”. Una risposta che sia però “serena e ferma” e che arriverà “nel momento adeguato, quando decideremo noi”. Albares ha infine accusato Katz di utilizzare queste “provocazioni” per sviare l’attenzione da quel che sta succedendo a Gaza.I membri dell’Onu a riconoscere lo Stato palestinese potrebbero presto diventare 146: il governo sloveno valuterà già giovedì prossimo la possibilità di inoltrare la questione del riconoscimento al Parlamento, che in tal caso potrebbe procedere al voto entro il 13 giugno. “Nel frattempo, continueremo a coordinarci con un gruppo di Paesi che la pensano allo stesso modo per creare la massima pressione per un cessate il fuoco immediato e il rilascio degli ostaggi” a Gaza, ha dichiarato il capo del governo, Robert Golob. La Slovenia non sarebbe solo il 146esimo Paese membro dell’Onu a riconoscere la Palestina: Lubiana fa parte – fino alla fine del 2025 – dei membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

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    Tre quarti dei membri Onu riconosce la Palestina come Stato

    Bruxelles – Divisi tra loro e divisivi per l’opinione pubblica. Israeliani e palestinesi, storia praticamente infinita di una questione, quella arabo-israeliana, sempre più un rompicapo. Due popoli, due Stati: quella che dovrebbe essere la soluzione per molti continua ad essere più retorica che pratica, nonostante la comunità internazionale riconosca la Palestina come Stato. Dei 193 Stati membri dell’Organizzazione delle nazioni Unite (Onu), ben 143 oggi riconoscono il diritto dei palestinesi di esistere come entità geografica e politica. Praticamente tre quarti della comunità internazionale vede la Palestina come Stato. Tra i 50 mancanti figurano all’appello  Stati Uniti, Canada, Australia e buona parte dei membri Ue.Novembre 1988, momento chiave per la Palestina e lo status di StatoLe rivendicazioni palestinesi conoscono un momento di svolta il 15 novembre 1988, quando l’allora presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Yasser Arafat, proclamò la Palestina Stato indipendente e sovrano, con Gerusalemme capitale. Un annuncio che non restò isolato: subito dopo la proclamazione, l’Algeria riconobbe la nuova entità, aprendo la strada al riconoscimento internazionale. Altri 82 Paesi seguirono, e tra novembre e dicembre 1988 ben 83 Paesi del mondo riconobbero la Palestina come Stato.La lista dei Paesi che riconoscono lo Stato palestinese nel 1988:Algeria, Bahrein, Indonesia, Iraq, Kuwait, Libia, Malesia, Mauritania, Marocco, Somalia, Tunisia, Turchia, Yemen, Afghanistan, Bangladesh, Cuba, Giordania, Madagascar, Malta, Nicaragua, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti , Serbia, Zambia, Albania, Brunei, Gibuti, Mauritius, Sudan, Cipro, Repubblica Ceca, Slovacchia, Egitto, Gambia, India, Nigeria, Seychelles, Sri Lanka, Namibia, Russia, Bielorussia, Ucraina, Vietnam, Cina, Burkina Faso , Comore, Guinea, Guinea-Bissau, Cambogia, Mali, Mongolia, Senegal, Ungheria, Capo Verde, Corea del Nord, Niger, Romania, Tanzania, Bulgaria, Maldive, Ghana, Togo, Zimbabwe, Ciad, Laos, Sierra Leone, Uganda, Repubblica del Congo, Angola, Mozambico, Sao Tomé e Principe, Gabon, Oman, Polonia, Repubblica Democratica del Congo, Botswana, Nepal, Burundi, Repubblica Centrafricana, Bhutan, Sahara Occidentale.Il post-1988: altri 20 riconoscimenti nel XX secoloL’accreditamento internazionale della Palestina non si arresta. Al primo blocco di Paesi, alla spicciolata, se ne aggiungono altri 20 negli anni successivi, e per la fine del secolo si contano ben 103 Stati del mondo a riconoscere uno Stato palestinese, con tutti diritti del caso. Africa, Asia centrale e pure Europa: il sostegno alla causa di Arafat arriva dai diversi quadranti del mondo.Paesi che riconoscono lo Stato Palestinese tra il 1988 e il 2000:Ruanda, Etiopia, Iran, Benin, Kenya, Guinea Equatoriale, Vanuatu, Filippine (1989), Swaziland (1991), Kazakistan, Azerbaigian, Turkmenistan, Georgia, Bosnia ed Erzegovina (1992), Tagikistan, Uzbekistan, Papua Nuova Guinea (1994), Sudafrica, Kirghizistan (1995), Malawi (1998)Il nuovo millennio e il sostegno dell’America latinaIl nuovo millennio si apre con nuove iniziative politico- diplomatiche a sostegno della causa palestinese e un riconoscimento dello Stato di Palestina, che arriva con uno slancio tutto nuovo dal centro e sud America.  Tra il 2004 e il 2012 altri 30 Paesi vanno ad ingrossare la lista di quanti ritengono che sia tempo di riconoscere la Palestina, che gode adesso di 133 Nazioni mondiali esplicitamente al proprio fianco.Paesi che riconoscono la Palestina tra il 2000 e il 2012: Timor Est (2004), Paraguay (2005), Montenegro (2006), Costa Rica, Libano, Costa d’Avorio (2008), Venezuela, Repubblica Dominicana (2009), Brasile, Argentina, Bolivia, Ecuador (2010), Cile, Guyana, Perù, Suriname, Uruguay, Lesotho, Sud Sudan, Siria, Liberia, El Salvador, Honduras, Saint Vincent e Grenadine, Belize, Dominica, Antigua e Barbuda, Grenada, Islanda (2011), Thailandia (2012).2013, il riconoscimento del Vaticano e nuove nazioni pro-stato PalestineseIl 2013 segna un momento storico per la causa palestinese. Il Vaticano, che non fa parte dell’Onu, prende ufficialmente posizione della questione arabo-israeliana, e riconosce la Palestina quale Stato. Una mossa non solo politica e diplomatica, ma anche dai toni confessionali forti: lo Stato della Chiesa sposa la parta arabo-islamica delle controversie in Medio Oriente. E’ solo uno dei momenti chiave della seconda decade degli anni Duemila in poi. La Svezia rompe gli indugi di un’Ue divisa e dubbiosa, e diventa il primo Paese dell’Europa occidentale a riconoscere lo stato palestinese.Riconoscimento dello Stato palestinese dal 2013 ai giorni nostriGuatemala, Haiti, Vaticano (2013), Svezia (2014), Santas Lucia (2015), Colombia (2018), Saint Kitts and Nevis (2019), Messico (2023), Bahamas, Trinidad e Tobago, Giamaica e Barbados (2024).