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    L’Ue accoglie la nomina di 3 giudici della Corte Costituzionale del Montenegro: “Riforme per avanzare sul percorso europeo”

    Bruxelles – Un passo in avanti per scongiurare una crisi istituzionale cronica che porterebbe a un pericoloso stop del Montenegro nella sua strada verso l’adesione all’Unione Europea. Dopo mesi di stallo, l’Assemblea del Montenegro è riuscita oggi (27 febbraio) a eleggere tre dei quattro giudici della Corte Costituzionale vacanti, condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese. Un accordo arrivato al termine di un “dialogo politico duro, lungo ma fruttuoso, che ha prodotto oggi dei risultati”, ha sottolineato con forza la presidente dell’Assemblea nazionale, Danijela Đurović, esultando per la “ripartenza del nostro viaggio nell’Ue, perché il Montenegro vi appartiene”.
    Da sinistra: il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    “Accolgo con grande favore la nomina dei giudici della Corte Costituzionale mancanti da parte dell’Assemblea del Montenegro, è un passo davvero importante verso un sistema giudiziario pienamente funzionante“, è il commento del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel: “Garantire istituzioni adeguate e stabili è fondamentale, così come lo sono riforme credibili dell’Ue, in modo che il Montenegro possa avanzare sul percorso europeo”. Analisi simile quella presentata dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, che ha voluto anche ricordare che “ora ci sono tutte le condizioni per organizzare le elezioni presidenziali e generali“. Proprio a questo proposito è utile ricordare che il prossimo 19 marzo gli elettori montenegrini si recheranno alle urne per scegliere il prossimo presidente della Repubblica, carica ricoperta dal 2018 da Milo Đukanović (e precedentemente dal 1998 al 2022).
    “Questo è il primo passo per risolvere la crisi costituzionale del Paese, invitiamo tutti gli attori politici a lavorare insieme per il futuro europeo del Montenegro”, è l’esortazione del relatore del Parlamento Europeo per il Montenegro, Tonino Picula (S&D), a cui ha fatto eco il presidente della delegazione alla commissione parlamentare di stabilizzazione e associazione Ue-Montenegro, Vladimír Bilčík (Ppe): “La cultura del dialogo e del compromesso al di là delle linee di partito è l’unica strada da percorrere per progredire sulla via dell’Ue”. L’obiettivo ora deve essere “l’elezione rapida del quarto giudice” mancante, ha precisato l’eurodeputato slovacco.
    La crisi istituzionale in Montenegro
    Da sinistra: il primo ministro del Montenegro, Dritan Abazović, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    La nomina dei giudici è di cruciale importanza se si considera lo scenario istituzionale particolarmente critico nel Paese che a Bruxelles è considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Ue tra i 10 che sono coinvolti nel processo di allargamento dell’Unione. La vacanza dei membri della Corte Costituzionale si accompagna da mesi a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo. Considerato il fatto che la Corte Costituzionale è l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge, senza la sua piena funzionalità non è possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei.
    Eppure l’iter di approvazione della legge è proseguito lo stesso a Podgorica. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi. La legge permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato: in caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese Đukanović ha proposto di tornare alle urne, dopo essersi rifiutato di confermare come nuovo primo ministro il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno.
    La crisi politica a Podgorica
    Tutto questo mentre dal 2020 il Paese vive in una costante crisi politica. Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni per la primavera del 2023, esattamente ciò che continuano ad augurarsi le istituzioni comunitarie.
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue. Da allora Abazović è premier ad interim, mentre si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare la maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne. Alle prossime elezioni presidenziali ci sarà da fare attenzione al nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, Europe Now, al primo vero banco di prova nazionale dopo il secondo posto alle amministrative di ottobre 2022 a Podgorica (21,7 per cento dei voti e 13 seggi su 58 in Assemblea cittadina).

    Dopo mesi di stallo e crisi istituzionale, è arrivato il via libera del Parlamento nazionale: ora manca l’intesa per il quarto (e ultimo) posto vacante per rendere “pienamente funzionante” l’organo costituzionale. E il 19 marzo si terranno le cruciali elezioni presidenziali

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    I ministri degli Esteri di Slovenia e Austria sono in Montenegro su mandato Ue per affrontare la crisi istituzionale

    Bruxelles – In missione per conto dei Ventisette. I ministri degli Esteri di Slovenia, Tanja Fajon, e Austria, Alexander Schallenberg, sono oggi (mercoledì 21 dicembre) in Montenegro per una missione voluta dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, per affrontare una situazione sempre più instabile nel Paese balcanico che finora si è potuto fregiare del titolo di ‘più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ tra i 10 che sono coinvolti nel processo di allargamento dell’Unione.
    Il primo ministro ad interim del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    “Il Montenegro è uno dei partner più stretti dell’Unione Europea, a buon punto nei negoziati di adesione e con il più lungo record di pieno allineamento con la politica estera e di sicurezza comune dell’Ue”, è quanto specifica il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), senza nascondere che “la visita giunge in un momento in cui i recenti sviluppi politici hanno provocato una grave crisi istituzionale, minando le istituzioni democratiche e rallentando i progressi del Paese nel suo percorso di adesione”. La questione più urgente per Bruxelles riguarda “il sostegno da parte di tutti gli attori politici alla piena funzionalità delle istituzioni, in particolare della Corte Costituzionale“, che rappresenta una delle condizioni prioritarie per “avanzare verso l’adesione all’Ue, auspicata dalla stragrande maggioranza dei cittadini montenegrini”. Lo dimostrerebbero le bandiere dell’Unione Europea sventolate dai manifestanti che stanno protestando a Podgorica contro la nuova legge sui poteri presidenziali.
    Il messaggio (e la missione stessa) dei due ministri al presidente montenegrino, Milo Đukanović, alla leader dell’Assemblea nazionale, Danijela Đurović, e al primo ministro ad interim, Dritan Abazović, dimostra quanto per i Ventisette e per le istituzioni comunitarie sia diventata preoccupante la situazione nel Paese balcanico. Mentre lunedì scorso (12 dicembre) una maggioranza risicata di forze filo-serbe all’Assemblea nazionale ha approvato una contestata legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, a Podgorica non sono ancora stati nominati tutti i membri della Corte Costituzionale (unico organismo che può valutare la legge stessa). Ecco perché Bruxelles non considera il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. “La nomina dei membri della Corte Costituzionale è necessaria per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini”, ha già messo in chiaro il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi.

    📢At their joint press conference today Foreign Affairs Ministers of 🇦🇹Austria @a_schallenberg & 🇸🇮Slovenia @tfajon sent important messages for 🇲🇪 Montenegro’s 🇪🇺 European future. Watch here 👇 https://t.co/5o3F02STaY
    — Oana Cristina Popa 🇪🇺 (@EUAmbME) December 21, 2022

    La crisi istituzionale in Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni per la primavera del 2023.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora Abazović è premier ad interim, mentre si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare la maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo il primo via libera di inizio novembre alla legge contestata da parte dell’Assemblea nazionale, la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo del 12 dicembre con un solo deputato in più rispetto alla soglia-limite della maggioranza. La legge permetterà ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato: in caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese Đukanović ha proposto di tornare alle urne – a due anni dalle ultime elezioni parlamentari – dopo essersi rifiutato di confermare come nuovo primo ministro il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno.
    Rimane evidente che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese. In questo contesto in Montenegro sta emergendo un nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, Europe Now, che si è fatto conoscere con il secondo posto (21,7 per cento dei voti e 13 seggi su 58 in Assemblea cittadina) alle amministrative di ottobre nella capitale montenegrina.

    Tanja Fajon e Alexander Schallenberg sono stati incaricati dall’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, di ribadire a Podgorica che l’adesione all’Unione passa dalla piena funzionalità della Corte Costituzionale. Proseguono le proteste contro l’adozione della legge sui poteri presidenziali

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    L’Ue rischia di avere un problema con il Montenegro nel processo di allargamento nei Balcani Occidentali

    Bruxelles – L’appellativo di ‘Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ rischia di diventare un lontano ricordo per il Montenegro, considerati gli sviluppi politici dell’ultimo mese. Violente proteste sono scoppiate nella capitale Podgorica lunedì (12 dicembre) davanti alla sede dell’Assemblea nazionale, mentre una maggioranza risicatissima di forze filo-serbe ha dato il via libera a una contestata legge sui poteri presidenziali, che ha diversi tratti di potenziale incostituzionalità.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    La gravità della crisi politico-istituzionale nel Paese balcanico ha raggiunto livelli allarmanti, anche considerato il fatto che manca ancora la nomina di tutti i membri della Corte Costituzionale. Senza la piena operatività dell’unico organismo che può valutare la legge sui poteri di nomina dell’esecutivo, lo stesso voto dell’Assemblea nazionale viene considerato dalle istituzioni internazionali non in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia (organo consultivo del Consiglio d’Europa, che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei). “La nomina dei membri della Corte Costituzionale è necessaria per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini”, ha messo in chiaro il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Per Bruxelles “tutte le parti politiche interessate devono agire con urgenza per garantire la funzionalità operativa” della Corte, ha aggiunto il commissario, ribandendo che “per proseguire il percorso europeo, è necessario anche rispettare la decisione della Commissione di Venezia“.
    A scatenare le dure reazioni dei manifestanti montenegrini e le critiche internazionali è il via libera con una maggioranza risicatissima di 41 deputati (su 81) agli emendamenti alla legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale. Già lo scorso primo novembre, con la stessa maggioranza, era arrivata la prima approvazione al disegno di legge che permetterà agli stessi parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović
    Secondo la Costituzione del Montenegro il presidente deve organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro 30 giorni. Tuttavia, lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese, Milo Đukanović, ha proposto di tornare alle urne – a due anni dalle ultime elezioni parlamentari – dopo essersi rifiutato di confermare il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, come nuovo primo ministro, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno. Il premier dimissionario, Dritan Abazović, ha scaricato le responsabilità della fragilità istituzionale sui presunti abusi dei diritti costituzionali da parte di Đukanović, mentre il Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del leader montenegrino ha definito l’approvazione della legge un “colpo di stato costituzionale”.
    “Tutti gli attori politici in Montenegro devono agire con urgenza per garantire la funzionalità operativa della Corte Costituzionale e revocare gli emendamenti alla legge sui poteri del presidente, è fondamentale che tutti esercitino la massima moderazione e si astengano da ulteriori atti provocatori”, ha attaccato la portavoce della Commissione Ue per la Politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero. Il Montenegro “ha perso un’altra occasione per porre fine alla lunga crisi istituzionale”, dal momento in cui una Corte Costituzionale “pienamente funzionante e composta da membri competenti è fondamentale per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini e progredire nel suo percorso europeo“, ha aggiunto la portavoce, chiedendo a Podgorica di “portare avanti senza indugio un processo di selezione adeguato e inclusivo”.
    L’instabilità del Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici, dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni nella primavera 2023.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo stesso governo Abazović è crollato però il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora a Podgorica si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare l’iniziale maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo gli sviluppi del primo novembre all’Assemblea nazionale la tensione è aumentata esponenzialmente, fino al voto risicatissimo del 12 dicembre. Rimane evidente che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese. In questo scenario va fatta attenzione a Europe Now, nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, che ha fatto registrare un notevole exploit alle amministrative di ottobre nella capitale montenegrina. La priorità rimane però la nomina di tutti i membri della Corte Costituzionale, mentre quello che fino a oggi poteva fregiarsi del titolo di ‘Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ sta rischiando di scivolare verso il caos istituzionale.

    Diventano sempre più violente le proteste a Podgorica contro l’adozione della legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale, che violerebbe la Costituzione. L’Ue denuncia anche la mancata nomina dei membri della Corte Costituzionale, perché abbia pieni poteri

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    I Ventisette hanno autorizzato la Commissione ad avviare i negoziati per dispiegare Frontex nei Balcani Occidentali

    Bruxelles – Il dispiegamento degli agenti Frontex su tutte le frontiere dei Balcani Occidentali si avvicina sempre di più. Dopo la raccomandazione della Commissione Europea dello scorso 26 ottobre, il Consiglio dell’Ue ha deciso oggi (venerdì 18 novembre) di autorizzare i negoziati con Albania, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Serbia per ampliare gli accordi sulla cooperazione dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera.
    Gli accordi negoziati nell’ambito del nuovo mandato di Frontex consentiranno all’agenzia di assistere i quattro Paesi balcanici nella gestione delle persone migranti in arrivo, nel contrastare l’immigrazione irregolare e nell’affrontare la criminalità trans-frontaliera. I nuovi accordi consentiranno al personale Frontex di esercitare poteri esecutivi, come i controlli di frontiera e la registrazione delle persone.
    In altre parole, se il nuovo quadro giuridico sarà negoziato secondo i termini di Bruxelles, i corpi permanenti dell’Agenzia Ue potranno essere dispiegati in tutta regione: non più solo alle frontiere esterne dell’Ue ma anche alle frontiere interne tra Paesi terzi. In questo scenario, Frontex potrà operare con pieni poteri esecutivi anche alle frontiere tra Macedonia del Nord-Albania, Macedonia del Nord-Serbia, Albania-Montenegro, Montenegro-Serbia, Montenegro-Bosnia ed Erzegovina e Serbia-Bosnia ed Erzegovina. Rimane anche sul fronte della gestione congiunta delle frontiere il buco nero del Kosovo, dal momento in cui non c’è ancora l’unanimità tra i Ventisette sul riconoscimento della sua sovranità (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia si oppongono).
    A oggi, il dispiegamento degli agenti può avvenire solo alle frontiere degli Stati membri dell’Unione (e senza poteri esecutivi). “Le sfide migratorie nella rotta dei Balcani Occidentali non iniziano alle frontiere dell’Unione”, ha commentato il ministro dell’Interno della Repubblica Ceca e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Vít Rakušan: “La cooperazione con i nostri partner, anche attraverso l’invio di personale Frontex, è essenziale per individuare e bloccare tempestivamente i movimenti migratori irregolari“. Secondo il ministro ceco, questo accordo “migliorerà la protezione delle frontiere esterne dell’Unione”, contribuendo allo stesso tempo “agli sforzi dei Paesi dei Balcani Occidentali per impedire ai contrabbandieri di utilizzare i loro territori come tappe di transito“.
    Lo stato dell’arte degli accordi Frontex con i Balcani Occidentali
    Gli accordi sullo status di Frontex nell’ambito del precedente mandato dell’Agenzia europea sono stati conclusi con l’Albania nell’ottobre 2018, con il Montenegro nell’ottobre 2019 e con la Serbia un mese più tardi, mentre dal 2017 è in stallo quello con la Bosnia ed Erzegovina, mai firmato dal momento dell’entrata in vigore del regolamento rivisto. È per questo motivo che per la Commissione era considerato cruciale il via libera alle raccomandazioni dal Consiglio dell’Ue, per autorizzare lo stesso esecutivo ad avviare i negoziati con Tirana, Podgorica, Belgrado e Sarajevo.
    Nel corso del tappa a Skopje dello scorso 26 ottobre (nel contesto del suo viaggio nei Balcani Occidentali), la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha messo il cappello sulla firma del secondo accordo con la Macedonia del Nord, che permetterà a Frontex di dispiegare squadre di gestione delle frontiere, sia alle frontiere con l’Unione (Grecia e Bulgaria) sia con gli altri Paesi balcanici extra-Ue (Serbia, Kosovo e Albania). Si tratta del primo documento ufficiale firmato dal momento dell’avvio dei negoziati di adesione all’Ue della Macedonia del Nord, in cui ha rivestito un ruolo significativo la traduzione anche in lingua macedone, “senza note, senza asterischi, su un piano di parità con tutte le 24 lingue dell’Unione Europea”, ha sottolineato von der Leyen.
    A questo si aggiunge un nuovo pacchetto di assistenza da 39,2 milioni di euro nell’ambito dello strumento di assistenza pre-adesione (IPA III) per rafforzare la gestione delle frontiere nei Balcani Occidentali. I finanziamenti di Bruxelles – arrivati a 171,7 milioni di euro – serviranno principalmente per l’acquisto di attrezzature specializzate, come sistemi di sorveglianza mobile, droni, dispositivi biometrici, formazione e sostegno ai Centri nazionali di coordinamento e creazione di strutture per “accoglienza e detenzione”, specifica l’esecutivo Ue.

    Con il via libera del Consiglio dell’Ue, l’esecutivo comunitario potrà negoziare con Albania, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Serbia l’operatività dei corpi permanenti non più solo alle frontiere esterne dell’Unione ma anche alle frontiere interne tra Paesi terzi, garantendo poteri esecutivi

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    L’Ue è sempre più preoccupata per l’aggravamento della crisi in Montenegro

    Bruxelles – Poco meno di due settimane fa aveva fatto rumore il mancato arrivo a Podgorica della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, l’ultima delle sei tappe del viaggio nei Balcani Occidentali rinviata “per maltempo”. Ma più del ritardo nell’annuncio dell’importo per il sostegno diretto di Bruxelles al bilancio nazionale contro la crisi energetica, il rinvio della visita in Montenegro ha privato la numero uno della Commissione della possibilità di rendersi conto di persona del livello di gravità della crisi politico-istituzionale nel Paese balcanico.
    Da giorni si stanno svolgendo regolarmente nella capitale del Montenegro manifestazioni contro l’adozione di una nuova legge sui poteri presidenziali e per la presunta violazione della Costituzionale da parte dell’Assemblea nazionale. Con una maggioranza risicatissima di 41 deputati (su 81), lo scorso primo novembre il Parlamento montenegrino ha dato il via libera a una legge che permette agli stessi parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente ha l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato.
    Il presidente del Montenegro, Milo Đukanović, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (29 settembre 2021)
    Secondo la Costituzione del Montenegro il presidente deve organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro 30 giorni. Tuttavia, lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese, Milo Đukanović, ha proposto di tornare alle urne dopo due anni dalle ultime elezioni parlamentari, dopo essersi rifiutato di confermare il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, come nuovo primo ministro, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno. “Il presidente sta spingendo il Montenegro verso la destabilizzazione istituzionale e quindi verso il vuoto“, ha attaccato il premier dimissionario, Dritan Abazović, scaricando la responsabilità della fragilità istituzionale sui presunti abusi dei diritti costituzionali da parte di Đukanović.
    “L’Ue è profondamente preoccupata per il voto del primo novembre nel Parlamento del Montenegro”, si legge in una nota del portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano: “Tutti gli atti legislativi dovrebbero essere in linea con la Costituzione, tutte le parti politiche interessate dovrebbero astenersi da qualsiasi azione che potrebbe aggravare ulteriormente la crisi istituzionale e minare le istituzioni democratiche del Paese”. Anche il relatore del Parlamento Ue per il Montenegro, Tonino Picula, si è detto “seriamente preoccupato” per gli ultimi eventi nel Paese balcanico, dal momento in cui “la crisi politica in corso influisce negativamente sull’agenda europea” di Podgorica.
    Da parte di Bruxelles una soluzione praticabile per “porre fine all’attuale situazione di stallo” risiede nel “dare priorità alla costruzione del consenso e alla nomina urgente dei membri della Corte Costituzionale” – in occasione del voto parlamentare del 22 novembre – perché “la piena funzionalità della Corte è fondamentale per garantire la legittimità delle elezioni democratiche“. Tutto questo si inserisce nel quadro dell’adesione del Montenegro all’Unione Europea, definita da Stano una “scelta strategica della stragrande maggioranza dei cittadini” e “l’obiettivo pubblicamente dichiarato dalla maggior parte degli attori politici”, che deve inevitabilmente passare dalla “funzionalità delle istituzioni democratiche” e dal “rafforzamento dello Stato di diritto”.

    I am seriously concerned about the latest events in #Montenegro and the ongoing political crisis that negatively affects the country’s EU agenda.
    The constitution is the foundation of the rule of law, and all legislative decisions must align with it.
    — Tonino Picula (@TPicula) November 3, 2022

    L’instabilità del Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici, dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni nella primavera 2023.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović
    Lo stesso governo Abazović è crollato però il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora a Podgorica si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare l’iniziale maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo il voto del primo novembre la tensione ha raggiunto il culmine, con reciproche accuse dai banchi dell’Assemblea nazionale di “violare la sovranità del Montenegro” stabilita con il referendum del 2006 e di voler “impedire il corso parlamentare naturale”. Sta di fatto che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese (anche considerato l’exploit alle amministrative di ottobre a Podgorica di Europe Now, nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento). Da giorni le strade della capitale sono piene di migliaia di cittadini, che manifestano contro possibili violazioni della Costituzione sventolando bandiere del Montenegro e dell’Unione Europea. Già questa è una prima indicazione di quale sia considerata la destinazione naturale del Paese per una parte consistente della popolazione, stanca dell’instabilità politico-istituzionale ormai cronica.

    New protests in Montenegro. https://t.co/OOjoI9wirP
    — Ivana Stradner 🇺🇸🇺🇦 (@ivanastradner) November 8, 2022

    Da una settimana sono in corso nella capitale Podgorica proteste contro l’adozione di una nuova legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale che violerebbe la Costituzione. Da Bruxelles arrivano esortazioni sulla “nomina urgente dei membri della Corte Costituzionale”

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    La sanzioni UE hanno costretto il ministro russo Sergei Lavrov ad annullare la visita in Serbia

    Bruxelles – Se fosse stato necessario un episodio simbolico per confermare l’efficacia delle sanzioni UE contro la Russia, oggi è arrivato. Il viaggio in Serbia del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, è stato annullato a causa della decisione di Bulgaria, Macedonia del Nord e Montenegro di applicare le misure restrittive volute dai Ventisette e condivise da tutti i partner balcanici (fatta eccezione per Serbia e Bosnia ed Erzegovina), chiudendo i rispettivi spazi aerei al velivolo che lo avrebbe dovuto portare a Belgrado.
    È dal 25 febbraio (il giorno successivo all’inizio dell’invasione in Ucraina) che il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo braccio destro Lavrov sono stati inseriti nella lista delle sanzioni dell’UE. Nei confronti dei soggetti colpiti dalle misure restrittive – dopo sei pacchetti di sanzioni, 1158 individui e 98 entità – è previsto il congelamento dei beni e il divieto di mettere fondi a loro disposizione, ma anche il divieto di viaggio che impedisce l’ingresso o il transito attraverso il territorio dei Paesi membri e dei partner allineati. È su questa base che nella giornata di ieri (domenica 5 giugno) i governi bulgaro (uno dei Ventisette), macedone e montenegrino hanno preso la decisione di applicare la misura nel caso la rotta del velivolo su cui avrebbe dovuto viaggiare Lavrov fosse passata per il proprio spazio aereo tra oggi e domani.

    La visita programmata in Serbia avrebbe dovuto portare Lavrov a colloquio con il presidente serbo, Aleksandar Vučić, e in un secondo momento con il ministro degli Interni, Aleksandar Vulin. Al centro delle discussioni ci sarebbe dovuta essere l’intesa per il rinnovo di altri tre anni del contratto sulla fornitura di gas naturale russo verso il Paese balcanico a condizioni favorevoli, con la definizione dei dettagli dell’accordo informale preso telefonicamente tra i due presidenti la settimana scorsa. Il viaggio di Lavrov era programmato da giorni e, se si fosse concretizzato, sarebbe stato il primo in un Paese europeo dall’inizio della guerra in Ucraina. A questo punto è probabile che sarà il ministro degli Esteri serbo, Nikola Selaković, a volare prossimamente a Mosca, considerato il fatto che la compagnia di bandiera Air Serbia è l’unico vettore che ancora opera da e verso la Russia.
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e l’omologo russo, Vladimir Putin
    “Sono profondamente dispiaciuto per l’ostruzione alla visita di un grande e comprovato amico della Serbia“, ha commentato il ministro Vulin in un comunicato: “Chi ha impedito l’arrivo di Lavrov non vuole la pace, sogna di sconfiggere la Russia, e la Serbia è orgogliosa di non far parte dell’isteria anti-russa“. Una nuova porta chiusa in faccia a Bruxelles sulla necessità di allinearsi alle sanzioni internazionali contro Mosca, per riflettere anche nella pratica la condanna dell’aggressione militare ai danni dell’Ucraina e per abbandonare la presunta politica di neutralità. Da parte del presidente serbo è stata invece espressa “insoddisfazione” per gli impedimenti alla visita di Lavrov ed è stata ribadita la volontà di mantenere “l’indipendenza e l’autonomia nel processo decisionale politico”, anche al netto del percorso di avvicinamento all’UE. Lo si legge in un comunicato pubblicato solo in lingua serba (come quello del ministro Vulin, non tradotto nella sezione del sito in inglese), al termine dell’incontro con l’ambasciatore russo in Serbia, Alexander Bocan Kharchenko. Durante l’incontro si è parlato anche di un possibile incontro tra i ministri degli Esteri dei due Paesi.
    Intanto però la questione sta creando tensione nella regione balcanica, in particolare con la Croazia, Paese membro UE. “Non siamo in tempi in cui si può stare seduti su due sedie”, ha commentato nel corso di una conferenza stampa il premier croato, Andrej Plenković, a proposito del viaggio annullato da Lavrov. “La Serbia deve decidere da che parte stare, se ha veramente l’ambizione di continuare sulla strada dell’integrazione nell’Unione Europea“, ha incalzato il leader dell’esecutivo di Zagabria. Immediata e rabbiosa la reazione di Belgrado, per voce del ministro Vulin: “Plenković non capisce che la Serbia è seduta su un unica sedia, quella serba, e che non è un territorio, ma uno Stato [un riferimento tra le righe al contrasto con il Kosovo sulla questione dell’autoproclamata indipendenza, ndr] e sono gli Stati a decidere chi sono i loro amici”. Con un riferimento che porta indietro le lancette della storia di 30 anni, ai tempi delle guerre nell’ex-Jugoslavia: “Se c’è un popolo che ha inequivocabilmente scelto la parte sbagliata della storia, è quello croato, e se c’è un popolo che ha portato i croati dalla parte giusta della storia, è quello serbo”, è stato l’accusa sibillina del ministro degli Interni di Belgrado.

    Bulgaria, Macedonia del Nord e Montenegro hanno chiuso il proprio spazio aereo al volo del braccio destro di Vladimir Putin, applicando le misure restrittive condivise tra i partner internazionali. Il viaggio era previsto per definire i dettagli dell’accordo sul gas Mosca-Belrado

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    Il sostegno UE alle riforme sullo Stato di diritto nei Balcani Occidentali è stato “largamente insufficiente”

    Bruxelles – La rotta è giusta, ma quanto fatto finora non è abbastanza. Si può riassumere così la valutazione della Corte dei Conti Europea sul sostegno UE alle riforme per lo Stato di diritto nei Balcani Occidentali. Secondo la relazione speciale pubblicato oggi (lunedì 10 gennaio) gli interventi dell’Unione Europea hanno avuto un impatto “largamente insufficiente” su questo aspetto fondamentale del cammino dei sei Paesi balcanici (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia) verso l’adesione all’UE.
    La verifica della Corte dei Conti Europea era iniziata nel gennaio dello scorso anno, con l’obiettivo di analizzare se il supporto europeo fosse stato progettato in modo appropriato, se fosse stato utilizzato “coerentemente per affrontare le questioni-chiave” e se avesse portato a miglioramenti “concreti e sostenibili”.
    Nonostante sia stato riconosciuto lo sforzo di Bruxelles nell’accelerare le riforme fondamentali per il rafforzamento dello Stato di diritto nei Balcani (separazione dei poteri, procedure legislative trasparenti e democratiche, certezza giuridica, controllo giurisdizionale efficace, indipendenza e imparzialità dei giudici, uguaglianza davanti alla legge), hanno pesato in questo contesto “l’insufficiente volontà politica e lo scarso impegno” delle istituzioni nazionali nell’affrontare “problemi persistenti” come la concentrazione del potere, le ingerenze politiche e la corruzione.
    Il contributo dell’UE ai Paesi balcanici è prima di tutto finanziario, rappresentando il principale donatore a livello globale per lo sviluppo economico della regione. Oltre al Piano economico e di investimenti da 29 miliardi di euro presentato dalla Commissione UE nell’ottobre del 2020, l’assistenza finanziaria dell’UE viene garantita grazie allo strumento di assistenza pre-adesione (IPA). Nel periodo 2014-2020 sono stati stanziati circa 12,8 miliardi di euro attraverso IPA II – di cui 700 milioni per sostenere lo Stato di diritto e i diritti fondamentali nei Balcani Occidentali – mentre a partire dallo scorso anno (fino al 2027) è attivo IPA III con una dotazione di 14,2 miliardi. Tuttavia, tra sovvenzioni, sostegno al bilancio, assistenza tecnica e scambio di informazioni, questo sostegno non è stato considerato sufficiente dalla Corte dei Conti UE e soprattutto “il suo impatto non è stato rigorosamente monitorato“.
    Dotazione finanziaria bilaterale IPA II per lo Stato di diritto e i diritti fondamentali (2014-2020)
    La cartina tornasole è l’aggravamento delle forme di autoritarismo nei sei Paesi balcanici negli ultimi dieci anni, proprio in corrispondenza dell’erogazione dei fondi attraverso gli strumenti IPA e nonostante i “progressi formali compiuti verso l’adesione all’UE” (i negoziati sono stati aperti solo con Serbia e Montenegro, mentre Macedonia del Nord e Albania sono bloccate dal veto della Bulgaria in seno al Consiglio dell’UE). Citando il rapporto 2021 dell’ONG Freedom House, la Corte dei Conti Europea ha sottolineato che “i governi dei Balcani Occidentali sono riusciti a combinare un impegno formale per la democrazia e l’integrazione europea con pratiche autoritarie informali” e che, fatta eccezione per la Macedonia del Nord, sul rispetto dello Stato di diritto “tutti questi Paesi presentano una tendenza stabile o addirittura in regresso”.
    Preoccupano le forme di corruzione che impediscono ai sistemi giudiziari di indagare, perseguire e sanzionare in modo efficace, che creano monopoli in settori strategici e che mettono a repentaglio la libertà di espressione: non a caso quest’ultimo è l’ambito in cui sono stati registrati meno progressi in tutti e sei i Paesi balcanici. Oltre alla mancanza di volontà politica interna, un altro fattore del giudizio della Corte con sede in Lussemburgo è legato al fatto che “l’UE si è avvalsa troppo di rado della possibilità di sospendere l’assistenza nel caso in cui un beneficiario non osservi i princìpi fondamentali della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”. La Corte dei Conti Europea ha avvertito che “se l’azione dell’Unione sembra aver contribuito alle riforme, è perché le comunicazioni a riguardo tendono a concentrarsi sui dati quantitativi relativi alle realizzazioni e non abbastanza su quello che le riforme hanno effettivamente conseguito“.
    “I modesti progressi compiuti negli ultimi 20 anni mettono a rischio la sostenibilità complessiva del sostegno fornito dall’UE nell’ambito del processo di adesione”, ha commentato Juhan Parts, membro della Corte dei Conti Europea e responsabile della relazione speciale. “Le riforme costanti perdono di credibilità se non conducono a risultati tangibili“, ha aggiunto. Per questo motivo è stato raccomandato alla Commissione UE e al Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) di rafforzare il meccanismo per promuovere le riforme fondamentali, di intensificare il sostegno alle organizzazioni della società civile e ai media indipendenti nei singoli Paesi dei Balcani Occidentali e, nell’ambito dello strumento IPA III, di rafforzare sia il ricorso alla condizionalità sullo Stato di diritto sia la rendicontazione e il monitoraggio dei progetti finanziati da Bruxelles.

    Lo evidenzia una relazione della Corte dei Conti UE, che sottolinea sia la mancanza di volontà politica dei governi nazionali, sia il fatto che l’UE non abbia quasi mai sospeso l’assistenza finanziaria in caso di palesi violazioni

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    L’ennesimo anno perso dall’UE sulla strada dell’allargamento ai Balcani Occidentali: (quasi) tutto rimandato al 2022

    Bruxelles – No, i negoziati per l’adesione all’Unione Europea di Albania e Macedonia del Nord non sono ancora iniziati. La grande promessa della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è caduta nel vuoto. Questa parola data e non rispettata dall’UE ai Balcani Occidentali è uno dei molti segnali di difficoltà che stanno caratterizzando non solo il processo di allargamento dell’Unione nella regione, ma anche gli stessi rapporti tra Bruxelles e le capitali balcaniche.
    Sul 2021 c’erano grandi aspettative di rilancio del ruolo dell’UE nei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia), considerati i diversi dossier lasciati in sospeso alla fine dello scorso anno. La maggior parte sono rimasti pressoché inalterati – se non addirittura peggiorati – mentre solo pochi hanno trovato una nuova spinta. La realtà dei fatti è che al momento sono solo due i Paesi che hanno aperto i quadri negoziali con Bruxelles (Serbia e Montenegro).
    Il contorno è una crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina, un dialogo Kosovo-Serbia che si sta incrinando sempre di più e un clima di disillusione a Skopje e Tirana che non fa presagire nulla di buono. Nel 2022 l’Unione Europea dovrà dimostrare di saper mantenere le promesse fatte ai partner balcanici, o rischierà di compromettere definitivamente il processo di allargamento.
    L’allargamento dell’UE nei Balcani
    Si tratta del tema più caldo sul tavolo europeo e anche il rimpianto più grande di questo 2021. Dopo il veto della Bulgaria all’apertura dei quadri negoziali con la Macedonia del Nord (che ha trascinato nello stallo anche l’Albania) del dicembre dello scorso anno, ci si aspettava che le pressioni diplomatiche sul governo di Sofia avrebbero portato allo sblocco della situazione e l’inizio del cammino di adesione UE per i due Paesi dei Balcani Occidentali vincolati dallo stesso dossier.
    Da sinistra: il premier sloveno e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Janez Janša, il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, e la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen (Kranj, 6 ottobre 2021)
    Ad alzare le aspettative era stata la stessa presidente von der Leyen, che nel suo tour a settembre nelle capitali balcaniche aveva promesso a Skopje e Tirana che “le prime conferenze intergovernative si dovranno organizzare entro la fine dell’anno“. Già allora sembrava un azzardo (ma rimane pur sempre la posizione ufficiale della Commissione) e forse è stato anche per questo motivo che, come riportato da Eunews direttamente da Kranj (Slovenia), il mancato accordo al vertice UE-Balcani Occidentali di inizio ottobre non ha rappresentato una grossa sorpresa.
    Il ritorno in presenza (dopo tre anni) dell’appuntamento più importante tra i leader dell’Unione Europea e della regione balcanica è coinciso con un nulla di fatto, al contrario delle aspettative della presidenza slovena del Consiglio dell’UE, che aveva spinto per inserire – invano – la data del 2030 come termine ultimo per il processo di allargamento dell’UE nei Balcani.
    A proposito di adesione all’Unione Europea, va segnalato un parziale successo di Bruxelles nello spingere con decisione i due Paesi che hanno già aperto i negoziati, dando più credibilità e affidabilità a questo processo. Lo scorso 22 giugno sono state avviate le prime conferenze intergovernative con Serbia e Montenegro, attraverso una metodologia rivista basata sull’accorpamento di 33 capitoli negoziali in 6 gruppi tematici: secondo le intenzioni di Bruxelles, in questo modo si riuscirà a dare maggiore dinamismo e risultati tangibili sul fronte delle riforme strutturali a Belgrado e Podgorica.
    Il dialogo Pristina-Belgrado
    Qui invece ci troviamo di fronte al solito nodo irrisolto delle relazioni diplomatiche tra Kosovo e Serbia, con il tentativo di Bruxelles di trovare un punto di mediazione. Il dialogo, che quest’anno ha compiuto esattamente 10 anni, era ripreso nel luglio dello scorso anno dopo anni di silenzio. Ma proprio nel momento in cui si iniziava a sperare in un compromesso tra le parti, il 2021 ha riservato l’ennesima ondata di tensioni.
    Il primo scossone è stata l’elezione del nuovo primo ministro kosovaro, il leader nazionalista di sinistra Albin Kurti. Se da una parte è stato l’artefice di una maggiore stabilizzazione del Paese, allo stesso tempo Kurti ha fatto capire a Belgrado che non farà nessuno sconto nel corso dei negoziati. Ad aumentare questa posizione dura a Pristina – che sta indispettendo la controparte serba – è stata la nomina della nuova presidente della Repubblica, Vjosa Osmani, che da aprile chiede più vaccini anti-COVID per il suo Paese: “Il dialogo con Belgrado prima dei vaccini non è una priorità”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante UE, Josep Borrell, e il premier del Kosovo, Albin Kurti (15 giugno 2021)
    Per l’UE si tratta di una delle questioni più spinose nei Balcani Occidentali. Dopo il fallimento della ripresa del dialogo nel doppio incontro di alto livello di quest’estate, a inizio autunno si è toccato il punto più basso. Lo scorso 20 settembre è scoppiata la cosiddetta ‘battaglia delle targhe’ tra i due Paesi, dopo la decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Dopo 10 giorni di incontri e negoziati promossi da Bruxelles, l’UE è riuscita a far siglare un’intesa a Serbia e Kosovo, che ha risolto una situazione potenzialmente esplosiva.
    Ma è stata una vittoria di Pirro, che non ha fatto avanzare di un millimetro il processo di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado e che ha avuto come strascico un indebolimento ulteriore della fiducia reciproca. Lo ha dimostrato il fatto che a Bruxelles non si è tenuto più nemmeno un vertice con il premier kosovaro e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. “È inutile incontrarci, se in partenza non c’è l’intenzione di trovare un compromesso”, ha commentato recentemente quasi sconsolato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri, Josep Borrell. Alla vigilia del 2022 la prospettiva di compromessi non sembra essere nemmeno teorica, né sul riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da parte di Belgrado, né sulla creazione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo.
    I buoni propositi per il 2022
    Da cosa ripartire dal primo gennaio del prossimo anno per raddrizzare il cammino dei Balcani Occidentali verso l’UE? Prima di tutto da quello che è indiscutibilmente il vero successo dell’Unione, che le sta consentendo di non perdere troppa credibilità agli occhi dei partner della regione: il Piano economico e di investimenti presentato dal commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi, il 6 ottobre del 2020 e la cui importanza è stata ribadita nel Pacchetto Allargamento 2021.
    Con una mobilitazione di finanziamenti fino a 29 miliardi di euro – e con il sostegno dello strumento di assistenza pre-adesione IPA III per favorire le riforme strutturali – l’UE punta a far sentire la propria presenza economica nella regione, sfidando le insidie russe e soprattutto cinesi nella regione. Una risposta anche allo scandalo del debito da 809 milioni di euro del Montenegro a Pechino, che ha preoccupato l’opinione pubblica fino a fine luglio.
    Il commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi
    Il secondo punto su cui si dovrà insistere sarà la fornitura di vaccini anti-COVID alla regione. Dopo mesi di grandi difficoltà da parte dell’UE, a partire da maggio la situazione dell’invio diretto di dosi e attraverso il meccanismo COVAX ai Balcani Occidentali si è sbloccata, lasciando la sensazione che Bruxelles abbia tutto l’interesse di mettere in sicurezza a livello sanitario i sei Paesi partner. La questione ha una valenza anche geopolitica, dal momento in cui la lotta al COVID-19 sta diventando uno strumento per tenere in piedi il processo di allargamento dell’Unione e si scontra con la penetrazione di Mosca (con il suo vaccino Sputnik V) e di Pechino (con Sinopharm).
    E infine sarà necessario dare una dimostrazione di forza per la stabilizzazione della regione. Evitando errori di comunicazione come quello sul non paper di Lubiana per “completare la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia” – che ha infiammato l’opinione pubblica dei Balcani e dei Paesi membri UE prima dell’inizio del semestre sloveno di presidenza del Consiglio dell’UE – Bruxelles è chiamata a dare una risposta concreta alla crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina. Che si tratti di sanzioni economiche, pressioni politiche o coordinamento con i partner statunitensi sul campo, le istituzioni europee dovranno decidere come non trasformare il 2022 nell’anno in cui le violenze etniche riprenderanno piede nel Paese. Tutto questo a causa delle minacce sempre più reali del membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita, Milorad Dodik, che a ottobre aveva minacciato di portare la Republika Srpska (l’entità serba) fuori dal controllo delle autorità centrali.
    Per l’UE il tempo del temporeggiamento nei Balcani Occidentali sta scadendo. La politica estera nei confronti dei partner più vicini e sensibili alla prospettiva di adesione all’Unione non potrà più basarsi su promesse non mantenute e soli impegni economici. Il 2022 non dovrà essere un ennesimo anno perso sulla strada dell’allargamento, o il rischio di perdere tutta la credibilità accumulata in anni di avvicinamento si potrebbe manifestare in forme più o meno violente. In una regione che ha già dimostrato solo 30 anni fa all’Europa il dramma delle guerre etniche.

    Pesano soprattutto il mancato avvio dei negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord, il dialogo Kosovo-Serbia sempre più stagnante e le difficoltà nel rispondere alla crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegonia