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    Ue al lavoro per stabilizzare il Libano. Varhelyi: “Situazione difficile”

    Bruxelles – La Siria ancora nella morsa di una guerra che prosegue da 13 anni, Israele in guerra contro il terrorismo di Hamas e in tensioni crescenti con l’Iran. In un Medio Oriente più instabile che mai l’Ue si mobilita per fare in modo che non salti anche il Libano, su cui il blocco a dodici stelle fa affidamento per gestire quel poco di ‘normalità’ rimasta nella regione. Ma il Libano inizia a destare preoccupazione circa la capacità di tenuta. Oliver Várhelyi, commissario per l’Allargamento, ammette “la difficile situazione che il Libano sta vivendo a livello nazionale, ulteriormente aggravata dalle tensioni regionale”.La Commissione, sulla spinta dei capi di Stato e di governo dell’Ue, ha deciso di provare a puntellare il governo di Beirut con un pacchetto di aiuti dal valore di un miliardo di euro per il quadriennio 2024-2027. L’obiettivo è assicurare “la stabilità del Libano e il suo forte sostegno al Libano e al popolo libanese nel contesto delle attuali crisi”, continua Várhelyi. Una priorità geopolitica in un momento di tensioni geopolitiche che continuano a preoccupare l’Europa per l’immediato futuro da un punto di vista economico, e non più solo quello.Cipro denuncia l’aumento del flusso dei richiedenti asilo siriani in arrivo sull’isola, via Libano. Il Paese dei cedri non riesce più a trattenere al proprio interno profughi e sfollati siriani che continuano ad arrivare, e li lascia partire. Tra arrivi regolari e ingressi irregolari si registra “un numero di migranti a Cipro cinque volte superiore a quello di qualsiasi altro Stato membro in prima linea”, denuncia l’europarlamentare Costas Mavrides (S&D) nell‘interrogazione in materia presentata al collegio.Ylva Johansson, commissaria per gli Affari interni, riconosce che la situazione si sta facendo delicata e ricorda che “Frontex sostiene il Libano attraverso il programma EU4BorderSecurity finanziato dalla Commissione, promuovendo la cooperazione bilaterale e regionale e la condivisione delle migliori pratiche nella gestione integrata delle frontiere”. Frontex, l‘Agenzia di guardia costiera e di frontiera dell’Ue ha il mandato di “negoziare un accordo di lavoro che potrebbe contribuire a migliorare le capacità di gestione delle frontiere“, nel caso specifico con il Libano. Si lavora con il Libano anche per la questione migratoria, altro elemento di pressione politica per un’Europa desiderosa di stabilità in un Medio Oriente comunque strategico. Per quanto riguarda i flussi migratori verso Cipro, l’esecutivo comunitario fa quel che può. “La Commissione – aggiunge Johansson – è in contatto regolare con le autorità cipriote e continua, insieme alle agenzie dell’Ue, a fornire a Cipro il necessario sostegno politico, finanziario e operativo per affrontare le attuali sfide nella regione”.

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    In Medio Oriente l’Ue mette pezze dove può: via libera a un pacchetto da 500 milioni per il Libano

    Bruxelles – Prosegue lo sforzo dell’Ue per assicurare un cuscinetto di stabilità attorno alla polveriera in Medio oriente. In linea con quanto annunciato da Ursula von der Leyen durante la sua visita a Beirut lo scorso maggio, la Commissione europea ha adottato oggi (1 agosto) un pacchetto di assistenza finanziaria da 500 milioni di euro per il Libano.Si tratta di una prima sostanziosa tranche del più ampio supporto da un miliardo fino al 2027 stipulato tra Bruxelles e Beirut e auspicato dai capi di Stato e di governo dell’Ue nelle conclusioni del Consiglio europeo del 17-18 aprile, in cui l’Unione europea ha ribadito il suo forte sostegno al Libano e ha riconosciuto le “difficili circostanze che il Paese sta attraversando a livello nazionale e a causa delle tensioni regionali”. Tensioni che nel frattempo sono aumentate in modo esponenziale, per culminare nei raid a Beirut e a Teheran con cui Israele ha ucciso Fuad Shukr, uno dei comandanti di Hezbollah, e il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh.Con i 500 milioni per il biennio 2024-25, la Commissione europea spera di innescare un percorso di riforme nel Paese dei Cedri, una più fiorente attività economica e di sostenere le misure sociali per la fetta di popolazione più vulnerabile. Come annunciato da von der Leyen a maggio, in occasione dell’incontro con il primo ministro libanese Najib Mikati, il pacchetto di assistenza ha almeno altri due obiettivi prioritari: la sicurezza e la gestione dei flussi migratori e dei rifugiati nel Paese. “Sosterremo le forze armate libanesi e le forze di sicurezza generali e interne”, aveva dichiarato la leader Ue, fornendo “attrezzature, formazione e le infrastrutture necessarie per la gestione delle frontiere”. In cambio, Bruxelles “conta sulla vostra (del Libano, ndr) buona cooperazione per prevenire la migrazione illegale e combattere il traffico di migranti”.Oltre ai rifugiati provenienti dalla Siria – quasi un milione di persone, secondo i dati dell’Unhcr -, il Libano in profonda crisi economica e sociale deve affrontare l’impatto del conflitto tra Israele e Hamas a Gaza. E gli scambi di cortesie sempre più gravi tra lo Stato ebraico ed Hezbollah, l’organizzazione politica e militare filo-iraniana che controlla ampi territori del sud del Libano. In cui per altro sono presenti contingenti militari  importanti da Francia, Italia e Spagna, nell’ambito della missione di pace dell’Onu Unifil.  “Siamo profondamente preoccupati per l’instabilità della situazione nel Libano meridionale, la posta in gioco è la sicurezza del Libano e di Israele”, aveva sottolineato von der Leyen a Mikati, aggiugendo: “Anche in questo caso, le forze armate libanesi sono fondamentali e l’Unione Europea è pronta a lavorare su come rafforzarne le capacità”.

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    Con l’uccisione del leader di Hamas e il raid a Beirut, Israele innesca l’escalation in Medio Oriente. L’Ue: “No a esecuzioni extragiudiziali”

    Bruxelles – Le pareti del buco nero in cui si è infilato il Medio oriente a partire dallo scorso 7 ottobre diventano ogni giorno più umide e scivolose. In fondo, c’è lo scenario di una guerra regionale sempre più verosimile. Soprattutto dopo il doppio raid israeliano a Beirut e a Teheran, dove sono rimasti uccisi Fuad Shukr, uno dei comandanti della milizia libanese filo-iraniana Hezbollah, e il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, che si trovava nella capitale della repubblica islamica per celebrare l’insediamento del nuovo presidente iraniano.Da un lato, la risposta annunciata di Netanyahu all’attacco di Hezbollah alla cittadina drusa di Majdal Shams, nel territorio occupato israeliano delle Alture del Golan, che ha causato la morte di 12 giovani su un campetto da calcio. Dall’altra, il materializzarsi della possibilità di eliminare uno dei peggiori nemici dello Stato ebraico, che aveva reso nota la sua visita a Teheran. Le ultime decisioni militari di Israele non solo rischiano di far naufragare i già fragilissimi negoziati per il cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani – era proprio Haniyeh a condurli per conto di Hamas -, ma aprono la porta a una possibile escalation del conflitto che divampi in tutta la regione.Il campo da calcio colpito dai razzi di Hezbollah a Majdal Shams, nel territorio delle Alture del Golan annesso da Israele (Photo by Menahem Kahana / AFP)Secondo un copione già visto in questi mesi, le dichiarazioni successive ai raid israeliani non vanno assolutamente nella direzione della distensione: l’attacco “non resterà senza risposta”, ha avvertito il gruppo terrorista palestinese, mentre il primo ministro libanese, Najib Miqati, ha dichiarato che “prenderà misure” per “scoraggiare l’ostilità israeliana”. Gli occhi sono puntati soprattutto sull’Iran, che foraggia la lotta anti-israeliana di Hamas e di Hezbollah: “Il regime sionista dovrà senza dubbio affrontare una risposta dura e dolorosa da parte del potente e vasto fronte della resistenza, in particolare dell’Iran“, hanno dichiarato le Guardie rivoluzionarie in un comunicato, prima di annunciare tre giorni di lutto. Lasciando così pochissimo margine al neo-presidente riformista Masoud Pezeshkian.Gli ultimi sviluppi stanno creando scompiglio anche al quartier generale della Nato, con gli Stati Uniti che hanno confermato il loro appoggio a Israele nel caso di un conflitto regionale e la Turchia che ha reiterato la minaccia di intervenire a sostegno della causa palestinese. A Bruxelles la preoccupazione è ai massimi livelli: mentre i leader e i corpi diplomatici dei Paesi membri hanno contattato a più riprese le controparti in Libano, Israele e Iran per cercare di placare gli animi e porre fine alla spirale di violenza, il portavoce del Servizio europeo di Azione Esterna (Eeas), Peter Stano, ha chiesto “a tutte le parti di esercitare la massima moderazione e di evitare qualsiasi ulteriore escalation“.Il leader politico di Hamas, Ismael Haniyeh, a Teheran il 30/07/24 (Photo by AFP)Sull’assassinio di Haniyeh in territorio iraniano, Stano ha sottolineato che “l’Ue ha una posizione di principio che rifiuta le esecuzioni extragiudiziali e sostiene lo stato di diritto, anche nella giustizia penale internazionale“, nonostante il fatto che Hamas sia inserita “nell’elenco delle organizzazioni terroristiche e che il procuratore della Corte penale internazionale ha chiesto un mandato di arresto contro Ismail Haniyeh con varie accuse di crimini di guerra”.

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    Ue-Palestina, qualcosa si muove. Pronti 400 milioni all’ANP e una strategia a lungo termine in cambio di un piano di riforme entro l’estate

    Bruxelles – La tragedia in corso da oltre nove mesi a Gaza ha riacceso i riflettori sul mai risolto conflitto israelo-palestinese. E sulla soluzione dei due Stati, unica opzione individuata dalla comunità internazionale per raggiungere una pace duratura. Se da un lato c’è Israele che non ne vuole sapere, dall’altro c’è un’Autorità Nazionale Palestinese che deve essere supportata nell’obiettivo di mettere in piedi un vero apparato statale. Oggi (19 luglio) un segnale importante: la Commissione europea e l’ANP hanno firmato una lettera d’intenti che definisce una serie di tappe – e di finanziamenti – per affrontare le “vulnerabilità strutturali esacerbate dalle conseguenze della guerra a Gaza”.Un messaggio importante, quello lanciato dalla neo-presidente della Commissione europea per la seconda volta, Ursula von der Leyen, a 24 ore dalla sua conferma a capo dell’istituzione Ue. Verso l’esterno – in risposta alle accuse piovute in questi mesi sull’intransigente posizione filo-israeliana assunta dalla leader dopo il 7 ottobre -, e verso l’interno, in ascolto dei gruppi politici progressisti (liberali, socialdemocratici e verdi) che l’hanno sostenuta ieri in Parlamento e che chiedono a gran voce un cambio di passo sul ruolo dell’Ue nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese.“Stiamo lavorando a un pacchetto pluriennale molto più ampio per sostenere un’Autorità palestinese efficiente”, aveva annunciato ieri von der Leyen presentando all’Eurocamera le priorità politiche del nuovo mandato. “Con questa strategia congiunta, sosteniamo gli sforzi di riforma dell’Autorità Palestinese. Insieme, stiamo gettando le basi per la stabilità economica e politica in Cisgiordania“, ha aggiunto oggi, presentando l’intesa firmata dal commissario Ue per il Vicinato e l’Allargamento, Olivér Várhelyi, e dal ministro per la Pianificazione e la Cooperazione internazionale dell’ANP, Wael Zakout.Cosa prevede la strategia Ue per l’Autorità Nazionale PalestineseCome primo passo, l’Ue fornirà un sostegno finanziario d’emergenza a breve termine all’Autorità Palestinese per far fronte alle sue esigenze finanziarie più urgenti e sostenere un programma di riforme “sostanziali e credibili”. Un sostegno di 400 milioni di euro, in sovvenzioni e prestiti, che sarà erogato in tre rate tra luglio e settembre 2024, a condizione che vengano compiuti progressi nell’attuazione del programma di riforme dell’Autorità palestinese. Entro fine agosto, il governo di Mohammed Mustafa dovrà riuscire a razionalizzare la spesa pubblica, riducendo le spese ricorrenti di almeno il 5 per cento rispetto all’anno precedente, istituire l’età pensionabile per tutti i lavoratori della Cisgiordania, pubblicare una nuova legge sulla protezione sociale e preparare un piano di riforma dell’istruzione. Tra le azioni preliminari concordate, figura anche l’approvazione di una legge sui pagamenti elettronici e il miglioramento dell’accesso alla giustizia e ai meccanismi di reclamo per i cittadini nei confronti degli enti governativi.Secondo quanto messo nero su bianco nella lettera d’intenti, questo sostegno a breve termine “aprirà la strada a un programma globale per la ripresa e la resilienza della Palestina“. La Commissione ha proposto di istituire una piattaforma di coordinamento dei donatori per la Palestina a partire dall’autunno 2024, fino alla fine del 2026. Nei piani di von der Leyen c’è la presentazione di una proposta legislativa per l’attivazione di questo programma globale all’inizio di settembre. Questo sostegno pluriennale “dovrebbe consentire all’Autorità palestinese di raggiungere l’equilibrio di bilancio entro il 2026 e di garantire in seguito la sua sostenibilità finanziaria a lungo termine”.Bruxelles e Ramallah hanno dedicato qualche riga anche al vicino israeliano, con cui sarà fondamentale che l’ANP migliori le relazioni economiche e finanziarie, in primo luogo “attraverso il regolare pagamento (da parte di Tel Aviv, ndr) delle entrate fiscali dovute all’Autorità Palestinese e la rimozione delle restrizioni all’accesso dei lavoratori palestinesi”. Come sottolineato dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, “i bisogni sono immensi”. L’assistenza immediata stanziata dall’Ue non basta: “Invitiamo nuovamente Israele a sbloccare urgentemente tutte le entrate fiscali”, ha chiesto Borrell.La Commissione europea ha messo inoltre in chiaro che nessuno dei fondi dedicati all’ANP dovrà finire nelle mani, direttamente o indirettamente, di persone o entità sottoposte a misure restrittive da parte dell’Ue. Nessuna sponsorizzazione del terrorismo, insomma. Perché la chiave per la creazione di uno Stato palestinese è delegittimare l’islamismo radicale di Hamas e della Jihad palestinese rafforzando l’unico interlocutore credibile individuato dall’Occidente, l’ANP. Poi però, ci sarà da fare i conti con Israele, il cui Parlamento ha approvato solo ieri a larghissima maggioranza una legge che vieta la creazione di uno Stato di Palestina.

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    Ue-Israele, è alta tensione. Borrell contro la decisione della Knesset: “Se non vogliono due Stati, cosa vogliono?”

    Bruxelles – Ue-Israele, le relazioni si complicano vieppiù e i malumori a dodici stelle nei confronti dello Stato ebraico aumentano. La decisione della Knesset, il parlamento israeliano, di dire ‘no’ alla nascita di uno Stato palestinese irrigidisce le posizioni di un’Europa che invece alla soluzione a due Stati continua a puntare. “Se vogliamo costruire la pace, una pace sostenibile, dobbiamo offrire una soluzione politica e un orizzonte politico anche per il popolo palestinese“, enfatizza l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, a margine dei lavori della Comunità politica europea: “Purtroppo la Knesset ha votato contro questo, contro lo Stato palestinese. Ebbene, se non vogliono la soluzione dei due Stati, cosa vogliono?“Borrell non digerisce l’orientamento dello Stato ebraico. I numeri lasciano poco spazio alle illusione di un’Ue che deve fare i conti con un partner che non intende sentire ragioni. Il parlamento di Tel Aviv ha respinto con 68 voti contro 9 la creazione di uno Stato palestinese, anche nel quadro di un accordo negoziato con Israele. “Qual è la loro soluzione?”, insiste un più che contrariato Borrell. “Se rifiutano questa soluzione”, quella di due Stati, “devono proporre un’altra soluzione”. E dunque, chiede polemicamente, “quali sono i loro piani per i milioni di palestinesi che vivono nei territori occupati?”A preoccupare l’Alto rappresentante dell’Ue è l’assenza di alternative, che vuol dire che Israele lavora per fare dei territori palestinesi l’estensione dello Stato ebraico. Esattamente l’opposto di ciò per cui lavora, da sempre, la Commissione europea. La Comunità politica europea diventa quindi il momento per fare un punto. “Spero che questo argomento venga discusso”.

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    Tre quarti dei membri Onu riconosce la Palestina come Stato

    Bruxelles – Divisi tra loro e divisivi per l’opinione pubblica. Israeliani e palestinesi, storia praticamente infinita di una questione, quella arabo-israeliana, sempre più un rompicapo. Due popoli, due Stati: quella che dovrebbe essere la soluzione per molti continua ad essere più retorica che pratica, nonostante la comunità internazionale riconosca la Palestina come Stato. Dei 193 Stati membri dell’Organizzazione delle nazioni Unite (Onu), ben 143 oggi riconoscono il diritto dei palestinesi di esistere come entità geografica e politica. Praticamente tre quarti della comunità internazionale vede la Palestina come Stato. Tra i 50 mancanti figurano all’appello  Stati Uniti, Canada, Australia e buona parte dei membri Ue.Novembre 1988, momento chiave per la Palestina e lo status di StatoLe rivendicazioni palestinesi conoscono un momento di svolta il 15 novembre 1988, quando l’allora presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Yasser Arafat, proclamò la Palestina Stato indipendente e sovrano, con Gerusalemme capitale. Un annuncio che non restò isolato: subito dopo la proclamazione, l’Algeria riconobbe la nuova entità, aprendo la strada al riconoscimento internazionale. Altri 82 Paesi seguirono, e tra novembre e dicembre 1988 ben 83 Paesi del mondo riconobbero la Palestina come Stato.La lista dei Paesi che riconoscono lo Stato palestinese nel 1988:Algeria, Bahrein, Indonesia, Iraq, Kuwait, Libia, Malesia, Mauritania, Marocco, Somalia, Tunisia, Turchia, Yemen, Afghanistan, Bangladesh, Cuba, Giordania, Madagascar, Malta, Nicaragua, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti , Serbia, Zambia, Albania, Brunei, Gibuti, Mauritius, Sudan, Cipro, Repubblica Ceca, Slovacchia, Egitto, Gambia, India, Nigeria, Seychelles, Sri Lanka, Namibia, Russia, Bielorussia, Ucraina, Vietnam, Cina, Burkina Faso , Comore, Guinea, Guinea-Bissau, Cambogia, Mali, Mongolia, Senegal, Ungheria, Capo Verde, Corea del Nord, Niger, Romania, Tanzania, Bulgaria, Maldive, Ghana, Togo, Zimbabwe, Ciad, Laos, Sierra Leone, Uganda, Repubblica del Congo, Angola, Mozambico, Sao Tomé e Principe, Gabon, Oman, Polonia, Repubblica Democratica del Congo, Botswana, Nepal, Burundi, Repubblica Centrafricana, Bhutan, Sahara Occidentale.Il post-1988: altri 20 riconoscimenti nel XX secoloL’accreditamento internazionale della Palestina non si arresta. Al primo blocco di Paesi, alla spicciolata, se ne aggiungono altri 20 negli anni successivi, e per la fine del secolo si contano ben 103 Stati del mondo a riconoscere uno Stato palestinese, con tutti diritti del caso. Africa, Asia centrale e pure Europa: il sostegno alla causa di Arafat arriva dai diversi quadranti del mondo.Paesi che riconoscono lo Stato Palestinese tra il 1988 e il 2000:Ruanda, Etiopia, Iran, Benin, Kenya, Guinea Equatoriale, Vanuatu, Filippine (1989), Swaziland (1991), Kazakistan, Azerbaigian, Turkmenistan, Georgia, Bosnia ed Erzegovina (1992), Tagikistan, Uzbekistan, Papua Nuova Guinea (1994), Sudafrica, Kirghizistan (1995), Malawi (1998)Il nuovo millennio e il sostegno dell’America latinaIl nuovo millennio si apre con nuove iniziative politico- diplomatiche a sostegno della causa palestinese e un riconoscimento dello Stato di Palestina, che arriva con uno slancio tutto nuovo dal centro e sud America.  Tra il 2004 e il 2012 altri 30 Paesi vanno ad ingrossare la lista di quanti ritengono che sia tempo di riconoscere la Palestina, che gode adesso di 133 Nazioni mondiali esplicitamente al proprio fianco.Paesi che riconoscono la Palestina tra il 2000 e il 2012: Timor Est (2004), Paraguay (2005), Montenegro (2006), Costa Rica, Libano, Costa d’Avorio (2008), Venezuela, Repubblica Dominicana (2009), Brasile, Argentina, Bolivia, Ecuador (2010), Cile, Guyana, Perù, Suriname, Uruguay, Lesotho, Sud Sudan, Siria, Liberia, El Salvador, Honduras, Saint Vincent e Grenadine, Belize, Dominica, Antigua e Barbuda, Grenada, Islanda (2011), Thailandia (2012).2013, il riconoscimento del Vaticano e nuove nazioni pro-stato PalestineseIl 2013 segna un momento storico per la causa palestinese. Il Vaticano, che non fa parte dell’Onu, prende ufficialmente posizione della questione arabo-israeliana, e riconosce la Palestina quale Stato. Una mossa non solo politica e diplomatica, ma anche dai toni confessionali forti: lo Stato della Chiesa sposa la parta arabo-islamica delle controversie in Medio Oriente. E’ solo uno dei momenti chiave della seconda decade degli anni Duemila in poi. La Svezia rompe gli indugi di un’Ue divisa e dubbiosa, e diventa il primo Paese dell’Europa occidentale a riconoscere lo stato palestinese.Riconoscimento dello Stato palestinese dal 2013 ai giorni nostriGuatemala, Haiti, Vaticano (2013), Svezia (2014), Santas Lucia (2015), Colombia (2018), Saint Kitts and Nevis (2019), Messico (2023), Bahamas, Trinidad e Tobago, Giamaica e Barbados (2024).

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    Borrell avverte Israele, con l’operazione militare a Rafah mette “a dura prova” le relazioni con l’Ue

    Bruxelles – Delle linee rosse che la comunità internazionale ha indicato a Israele nella sua feroce risposta all’attacco terroristico di Hamas, l’ultima è stata quella di non intraprendere alcuna operazione militare a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove in questi otto mesi si sono ammassati più di un milione di sfollati palestinesi. Ora che Tel Aviv ha già un piede e mezzo oltre questa linea, arriva l’ennesimo avvertimento dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell: a rischio – se Netanyahu continuerà per la sua strada – ci sono le relazioni stesse tra l’Ue e Israele.In una nota pubblicata oggi (15 maggio), il capo della diplomazia europea ha esortato Israele – a nome dei 27 – a “porre fine immediatamente all’operazione militare a Rafah”. Un’operazione che sta causando “ulteriori interruzioni” nella distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza, “nuovi sfollamenti interni, esposizione alla carestia e sofferenza”. Secondo l’Ufficio di coordinamento per gli Affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha), l’offensiva di terra israeliana continua a espandersi, in particolare nella parte orientale di Rafah e intorno ai varchi di Kerem Shalom e Rafah. “A causa delle attuali operazioni militari israeliane e dell’insicurezza”, le rotte terrestri critiche di Kerem Shalom e Rafah – da lì dovrebbe entrare la maggior parte degli aiuti umanitari – “sono state chiuse dal 6 al 10 maggio 2024”, conferma Ocha.Tendopoli sulla spiaggia di Deir el-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, in cui si stanno riversando migliaia di sfollati da Rafah (Photo by AFP)Nelle ultime settimane circa 150 mila persone hanno deciso di lasciare Rafah, seguendo l’ordine di evacuazione emanato dalle autorità israeliane verso aree che – come ritenuto dalle Nazioni Unite e sottolineato ancora una volta da Borrell – “non possono essere considerate sicure”. Per l’Alto rappresentante l’offensiva a Rafah è un punto di non ritorno: se Israele dovesse continuare a ignorare gli appelli della comunità internazionale, “ciò metterebbe inevitabilmente a dura prova le relazioni con l’Ue“.Fino ad oggi, il governo di Netanyahu è rimasto sordo a qualsiasi appello – vincolante o meno – delle maggiori istituzioni multilaterali globali. Anzi, le ha attaccate frontalmente: l’ultimo scontro si è consumato dopo la Risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che consentirà alla Palestina di divenire membro delle Nazioni Unite. Il governo israeliano l’ha respinta, e l’ufficio del primo ministro ha dichiarato che “non permetteremo loro di creare uno stato terrorista dal quale possano attaccarci ancora più forte”. Parallelamente – e non è la prima volta – l’ambasciatore israeliano presso l’Onu ha dichiarato alla radio dell’esercito che l’Onu è diventato “un’entità terroristica“.L’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep BorrellBorrell ha ribadito anche che “Israele deve consentire e facilitare il passaggio senza ostacoli dei soccorsi umanitari per i civili”. Come stabilito dalle misure provvisorie ordinate dalla Corte internazionale di giustizia il 26 gennaio e il 28 marzo per impedire un genocidio a Gaza. Sempre secondo Ocha, nei primi 10 giorni di maggio solo 9 delle 32 missioni di aiuto umanitario nel nord di Gaza sono state agevolate dalle autorità israeliane. Cinque sono state negate, undici sono state ostacolate e sette sono state cancellate a causa di problemi logistici. Allo stesso modo, nel sud della Striscia, Tel Aviv ha facilitato solo 25 delle 46 missioni di aiuto. Nove missioni sono state negate, tre ostacolate e nove sono state cancellate a causa di problemi logistici.Ricordando che, con il lancio di razzi su Kerem Shalom del 5 maggio scorso, anche Hamas è responsabile di aver ostacolato la consegna di aiuti umanitari, Borrell ha rilanciato l’invito “a tutte le parti a raddoppiare gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco immediato e il rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas”.

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    Il Belgio prova a convincere l’Ue a bandire il ‘made in Israel’ proveniente dai territori palestinesi occupati

    Bruxelles – Bandire i prodotti israeliani provenienti dai territori palestinesi occupati. La presidenza belga del Consiglio dell’Ue prova a guidare quella che sarebbe una risposta senza precedenti al livello di Unione europea contro il partner della regione mediorientale. E’ il primo ministro del Belgio, Alexander De Croo, parlando ai media belgo-fiamminghi, a rivelare come si stia adoperando per convincere gli Stati membri dell’Ue a cancellare l’import ‘made in Israel’, con datteri, vino e olio d’oliva nel mirino.De Croo punta il dito contro la risposta dello Stato ebraico agli attacchi del 7 ottobre scorso. Dopo 35mila morti tra la popolazione palestinese e una violenza sta aumentando non solo nella Striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania, “è difficile per i paesi europei dire che continueremo ad agire come se nulla stesse accadendo“, sostiene il primo ministro belga. Il Belgio, che ha sostenuto il procedimento del Sudafrica contro Israele avviato alla Corte di giustizia internazionale dell’Aia con l’accusa di genocidio, vorrebbe una risposta ferma e decisa, sa che un’azione unilaterale avrebbe “effetto zero”, e quindi cerca di compattare il blocco dei Ventisette.Immaginarsi di avere un consenso unanime su una decisione di sanzioni contro Israele è arduo, e l’obiettivo della presidenza belga è quello di avere “almeno un grande gruppo di paesi che sono disposti a fare questo passo”. De Croo si mostra fiducioso. “Ci sono un certo numero di paesi che sono aperti al nostro ragionamento“, sostiene. Partendo da questo gruppi di Paesi, che non nomina, si cerca di spingersi oltre. “Stiamo cercando di andare oltre quel gruppo di Paesi che la pensano allo stesso modo, penso che sia logico cercare di convincere altri Paesi”.La presa di posizione di De Croo si spiega anche con ragioni di governo. All’interno della coalizione i partiti Ecolo, Groen (verdi francofoni e fiamminghi), Vooruit (socialisti fiamminghi) e Cd&V (cristiano-democratici fiamminghi) avevano già chiesto lo stop all’acquisto di prodotti israeliani provenienti dai territori palestinesi occupati, ma sono stati i liberali francofoni (Mr) a frenare su questa richiesta. Richiesta che non è caduta nel vuoto, e ora il premier belga ci prova.