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    Trump torna alla Casa Bianca, e l’Unione europea si preoccupa

    Bruxelles – Dopo aver tenuto il mondo col fiato sospeso per mesi, alla fine le presidenziali statunitensi si sono concluse con la rielezione di Donald Trump. Lo scrutinio dei voti non è ancora completato, ma dai risultati parziali disponibili mercoledì mattina (6 novembre) è già certo che sarà il tycoon newyorkese a varcare, per la seconda volta, la soglia dell’ufficio ovale della Casa Bianca, da cui rimarrà invece esclusa la vicepresidente in carica, la candidata democratica Kamala Harris. È l’esito che temevano (quasi) tutti sull’altra sponda dell’Atlantico, poiché rischia di mettere nuovamente a dura prova le relazioni tra Washington e Bruxelles, nonostante i leader europei si stiano già congratulando con il presidente neo-rieletto.I risultati parzialiMancano ancora i risultati definitivi di cinque Stati – Alaska, Arizona, Maine, Michigan e Nevada – ma il quadro finale è già abbondantemente chiaro. Con 277 delegati già assicurati contro i 224 cui è rimasta inchiodata la sfidante democratica, il capo-padrone del Partito repubblicano (il Grand old party, come lo chiamano negli Usa) può dirsi già certo della rielezione, per la quale gliene bastavano 270. (Qui avevamo spiegato come funziona il complesso meccanismo del voto indiretto negli Usa.)Il voto popolare riflette del resto il vantaggio di Donald Trump su Kamala Harris: oltre 71 milioni per il primo, poco più di 66 milioni per la seconda. Così, dopo essere stato il 45esimo, Trump sarà il 47esimo presidente degli Stati Uniti, anche se la sua nomina formale da parte dei delegati all’Electoral college non avverrà prima di dicembre. L’insediamento è in calendario per il 20 gennaio 2025, qualche giorno dopo l’anniversario dell’assalto a Capitol Hill, da lui stesso fomentato il 6 gennaio 2021.Com’è andata l’elezionePer la seconda volta nella storia degli Usa, un ex presidente ha ottenuto un secondo mandato non consecutivo al primo (il precedente è di Grover Cleveland, presidente dal 1885 al 1889 e poi dal 1893 al 1897). Per la seconda volta, la candidata donna è stata sconfitta, ed entrambe le volte a vincere è stato proprio Trump (con Harris ora, con Hillary Clinton otto anni fa).Ma un dato importante da osservare è quello relativo ai consensi. Il candidato del Gop ha fatto meglio rispetto alla volta scorsa virtualmente ovunque: in ogni Stato, in ogni gruppo etnico, in ogni segmento d’età della popolazione (con aumenti anche di 12 punti percentuali, come in alcune contee in Florida). Dei sette swing states che secondo i pronostici avrebbero deciso l’esito della corsa presidenziale, l’ex inquilino della Casa Bianca ha sicuramente conquistato la Georgia, il North Carolina, la Pennsylvania (il più succulento in termini di voti, coi suoi 19 grandi elettori) e il Wisconsin, ed è in vantaggio anche in quelli dove il conteggio non è ancora terminato.Scoramento tra i sostenitori della candidata democratica Kamala Harris all’evento elettorale della Howard University a Washington, il 5 novembre 2024 (foto: Charly Triballeau/Afp)Soprattutto, Trump è riuscito a “ribaltare” tre Stati che erano blu (cioè erano andati ai dem) nell’ultima tornata elettorale del 2020, vinta dal presidente uscente Joe Biden, e facendoli diventare rossi (cioè a maggioranza repubblicana): Georgia, Pennsylvania e Wisconsin, cui si sta per aggiungere il Michigan. Insomma, nel cosiddetto blue wall – letteralmente “muro blu”, costituito da una dozzina di Stati che avevano rappresentato altrettante roccaforti democratiche dai primi anni Novanta (pur con qualche oscillazione nelle ultime tre elezioni) – si sono aperti dei buchi importanti, spalancando al tycoon le porte della Casa Bianca. Viceversa, Harris è andata male anche in quei distretti dove ci si aspettava una vittoria dei democratici.Non solo. Oltre alla presidenza, gli elettori votavano ieri anche per rinnovare un terzo dei senatori e l’intera Camera dei rappresentanti. I repubblicani hanno ottenuto la maggioranza al Senato (il che faciliterà il processo con cui Trump dovrà nominare esponenti dei rami esecutivo e giudiziario), mentre non è ancora detta per la Camera, dove i dem potrebbero avere ancora qualche flebile speranza. Se pure quella andrà al Gop, Trump avrà il Congresso in pugno almeno fino alle prossime elezioni di mid-term.Le reazioni dall’EuropaMercoledì mattina, Trump ha reclamato la vittoria durante un comizio in Florida, annunciando l’inizio di “una nuova età dell’oro per l’America”. Ma già nella notte tra martedì e mercoledì, dall’altra sponda dell’oceano sono cominciate ad arrivare le prime reazioni dei leader europei. La presidente dell’esecutivo Ue, Ursula von der Leyen, si è congratulata “calorosamente” con il candidato repubblicano, sottolineando la volontà di “lavorare insieme su un’agenda transatlantica forte”.Le ha fatto eco il presidente uscente del Consiglio europeo, Charles Michel, che ha ribadito come tra Usa e Ue ci sia “un’alleanza duratura e un legame storico” e come vada mantenuta la “cooperazione costruttiva” tra Washington e Bruxelles, “difendendo il sistema multilaterale basato sulle regole”. Al momento in cui scriviamo, non c’è alcuna comunicazione ufficiale da parte del capo della diplomazia comunitaria, l’Alto rappresentante Josep Borrell.Congratulations to President-elect @realDonaldTrump.& have an enduring alliance and a historic bond. As allies and friends, the EU looks forward to continuing our constructive cooperation.The EU will pursue its course in line with the strategic agenda as a strong,…— Charles Michel (@CharlesMichel) November 6, 2024Che la maggior parte delle cancellerie europee sperassero in una vittoria di Harris, comunque, è un segreto di Pulcinella. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha il potenziale di cambiare molte cose per Bruxelles in diversi dossier cruciali e in una congiuntura internazionale particolarmente delicata. Un cambiamento che avrebbe il sapore del ritorno ad un passato che l’Ue aveva vissuto con estrema difficoltà e che era ben contenta di aver archiviato.Le conseguenze per l’Ue (e il mondo)Uno dei sismi maggiori arriverà in politica estera. A partire dall’Ucraina, dove da due anni e mezzo infuria una guerra che il neo-eletto presidente ha millantato di poter far finire nel giro di 24 ore. Non a caso, una delle prime reazioni alle elezioni è arrivata proprio da Kiev: “Continuiamo a contare sul forte supporto bipartisan per l’Ucraina negli Stati Uniti”, ha scritto su X Volodymyr Zelensky. Il suo Paese, ha detto, “è impegnato nell’assicurare pace e sicurezza a lungo termine all’Europa e alla comunità transatlantica, con il sostegno dei nostri alleati”. Come a dire: noi vogliamo continuare a difenderci, ma ci serve l’aiuto di Washington. Che, con Trump alla Casa Bianca, non può essere dato per scontato, dato che il presidente eletto ha fatto ampiamente intendere che punta a ridurre fortemente, o addirittura interrompere completamente, gli aiuti militari e finanziari a Kiev.Sullo scacchiere mediorientale, una seconda presidenza Trump significherà con ogni probabilità che il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrà carta bianca per continuare la sua guerra regionale, potendo contare sulla protezione incondizionata dell’ombrello a stelle e strisce in qualsiasi confronto miliare con i molti nemici dello Stato ebraico. Si spiega così la reazione di giubilo del capo del governo di Tel Aviv per la “enorme vittoria” del candidato repubblicano: “Congratulazioni per il ritorno più grande della storia!”, ha scritto Netanyahu su X, aggiungendo che tale “ritorno storico alla Casa Bianca offre un nuovo inizio all’America e un rinnovo del convinto impegno nella grande alleanza tra Israele e l’America”.Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (sinistra) e la moglie Sara in visita alla residenza di Donald Trump a Mar-a-Lago, in Florida (foto: Afp via Israeli government)In dubbio, almeno in termini di contribuzione finanziaria, potrebbe essere anche la partecipazione statunitense alla Nato. L’uscita di Washington dall’Alleanza appare ad oggi remota, ma è verosimile che nei prossimi quattro anni l’Europa debba ripensare in maniera strutturale la propria sicurezza, nel caso in cui Trump non voglia garantirla di fronte, ad esempio, all’aggressivo neo-imperialismo del presidente russo Vladimir Putin.Anche il commercio internazionale subirà un duro colpo a causa dei pesanti dazi che Trump ha annunciato di voler reintrodurre non soltanto sui prodotti made in China ma anche su quelli provenienti dal Vecchio continente. Un problema che si presenterà non solo per la Germania, che di fatto vive del suo export, ma anche per l’Italia (vedi ad esempio alla voce esportazioni casearie). Tanto che la premier Giorgia Meloni ha provato subito a metterci una pezza, richiamando l’importanza dei legami transatlantici come fatto dai vertici comunitari e ricordando come i due Paesi siano “Nazioni sorelle, legate da un’alleanza incrollabile, valori comuni e una storica amicizia” e da un “legame strategico”.Altri ambiti in cui la cooperazione tra Europa e Stati Uniti potrebbe presto entrare in crisi sono quelli del contrasto al cambiamento climatico (Trump nel 2020 ha ritirato Washington dagli accordi di Parigi) e della transizione energetica, visto che il neo-eletto presidente è un fautore del ricorso alle fonti fossili e di tecniche di estrazione controverse come il fracking.

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    Presidenziali Usa, come funziona l’elezione dal risultato imprevedibile

    Bruxelles – Sembra quasi un paradosso, ma forse dice qualcosa sullo stato del mondo di questi tempi. Le presidenziali negli Stati Uniti, cioè le elezioni più importanti del 2024 – un anno elettorale senza precedenti nella storia globale – sono praticamente impossibili da prevedere. La posta in gioco è decisamente alta, soprattutto sullo scacchiere internazionale, ma mai come stavolta il risultato della sfida a due per la Casa Bianca è stato così difficile da anticipare. E si ridurrà tutto, alla fine, alla conquista di pochi Stati in bilico, o addirittura di uno solo. Potrebbe essere decisiva una manciata di voti. Ecco cosa c’è da sapere sul testa a testa tra la candidata democratica e vicepresidente in carica, Kamala Harris, e lo sfidante repubblicano ed ex presidente, Donald Trump, che si sta combattendo oggi (5 novembre) e che avrà enormi ripercussioni per il mondo in generale e per l’Europa in particolare.Come funziona il votoPer cominciare, va ricordato che quelle per la scelta del presidente degli Stati Uniti non sono elezioni dirette ma indirette: i cittadini non votano per il loro candidato preferito, bensì per la lista dei cosiddetti grandi elettori collegata al candidato suddetto. Ciascuno Stato federato dispone di un numero di grandi elettori (detti anche delegati) pari alla somma totale dei suoi rappresentanti al Congresso: il numero dei deputati alla Camera varia in base alla popolazione, mentre ogni Stato ha due senatori. Così, ad esempio, quest’anno la California ha 54 grandi elettori e il Delaware tre. Ci sono inoltre tre rappresentanti per il District of Columbia, il territorio non statale dove ha sede la capitale federale di Washington.Ora, l’assegnazione dei delegati avviene quasi sempre con il sistema winner-takes-all: tutti i grandi elettori di uno specifico Stato vengono ottenuti dal candidato presidente che ottiene la maggioranza semplice nel voto popolare di quello Stato (50 per cento più uno dei consensi). Solo due Stati, il Maine e il Nebraska (quattro e cinque delegati rispettivamente), adottano un metodo proporzionale: i due delegati “territoriali” (cioè quelli in rappresentanza del Senato) vengono ottenuti da chi vince il voto popolare su base statale, mentre gli altri vengono ripartiti tra i vari distretti elettorali in cui si dividono i due Stati.Il collegio elettoraleI grandi elettori sono in tutto 538 e si riuniranno a dicembre formando quello che si chiama Electoral college, letteralmente collegio elettorale, un organo che decide tramite un voto di “secondo livello” chi guiderà la Casa Bianca a partire dal 6 gennaio 2025. Il “numero magico”, cioè la soglia da superare per ottenere la presidenza, è di 270 voti, la maggioranza semplice dei grandi elettori. Nel caso in cui si arrivasse ad un pareggio (entrambi i candidati a 269 voti), a decidere tra i due è la Camera dei deputati, che attualmente è a maggioranza repubblicana.Un simile meccanismo comporta che, tecnicamente, per i candidati presidenti non è tanto importante vincere il voto popolare quanto assicurarsi un numero sufficiente di delegati nell’Electoral college. Per quanto possa sembrare controintuitivo, le due cose non sono necessariamente collegate: vincere il voto popolare su base nazionale (cioè quello dei cittadini in tutti e 50 gli Stati della federazione) non assicura automaticamente la presidenza se non si vincono abbastanza grandi elettori. Nell’ultimo quarto di secolo, per due volte è stato eletto presidente il candidato che aveva perso il voto popolare: nel 2000 con George W. Bush (contro lo sfidante Al Gore) e nel 2016 con Donald Trump (contro Hillary Clinton).Gli Stati in bilicoEcco perché, in questa competizione elettorale, la geografia politica gioca un ruolo determinante. Alcuni Stati sono tradizionalmente democratici (o blu, dal colore del partito) mentre altri sono roccaforti repubblicane (o rossi). La vera battaglia si combatterà invece in una manciata di Stati che si suole definire “in bilico” (gli swing states), in cui cioè non c’è una netta preferenza per nessuno dei due partiti: si tratta di Arizona (11 delegati), Georgia (16), Michigan (15), Nevada (6), North Carolina (16), Pennsylvania (19) e Wisconsin (10).Attualmente, secondo le ultime proiezioni, Harris dovrebbe già contare con ragionevole certezza su un tesoretto di 226 delegati mentre Trump su un numero che andrebbe da 219 a 230. Ad essere determinanti saranno insomma le “combinazioni” di Stati in bilico che ciascuno dei due candidati potrà portare a casa: se è pur vero che la Pennsylvania, coi suoi 19 grandi elettori, è quello più “succulento”, è anche vero che vincere solo quello non sarà sufficiente se non verranno conquistati anche i delegati di almeno altri due swing states. Uno degli scenari più accreditati in questo momento è quello per cui Trump riesce ad assicurarsi l’Arizona, la Georgia, il Nevada ed il North Carolina, arrivando a 268 delegati, mentre Harris si attesterebbe a 251 conquistando Michigan e Wisconsin. A quel punto, i 19 voti della Pennsylvania sarebbero determinanti per aprire ad entrambi le porte della Casa Bianca.Cosa dicono i sondaggiE qui si aprono i problemi delle previsioni. In nessuno dei sondaggi disponibili si registra un vantaggio netto di un candidato nei sette swing states: nella maggior parte dei casi, il distacco è inferiore ai due punti percentuali, cioè troppo vicino al margine di errore per poter accettare le rilevazioni come affidabili. In Pennsylvania sembrerebbe in leggero vantaggio Trump, ma il testa a testa è così serrato che si parla di una distanza dello 0,3 per cento.C’è anche il caso di un recente sondaggio che darebbe Harris in vantaggio su Trump di quattro punti in Iowa, uno Stato che nelle ultime due elezioni è andato ai repubblicani e che si pensava sarebbe rimasto rosso anche stavolta. Potrebbe trattarsi di un abbaglio (ricordiamo che i sondaggi non sono una scienza esatta, per quanto i modelli che adottano migliorino col tempo), oppure di una dinamica capace di rimettere in discussione anche altri Stati che i due partiti considerano blindati.A livello nazionale, i sondaggi danno Harris in lieve vantaggio, ma si tratta di una distanza dell’1 per cento. Il tycoon newyorkese era davanti all’attuale presidente, Joe Biden, finché quest’ultimo non si è ritirato lo scorso luglio lasciando il posto alla sua vice. Da allora, Harris è rimasta quasi sempre in testa, ma negli ultimi giorni il distacco tra i due candidati si è ridotto.I risultati definitiviAd ogni modo, per sapere chi ha vinto le elezioni dovremo probabilmente aspettare un po’. Gli ultimi seggi chiudono in Alaska e alle Hawaii alla mezzanotte locale, cioè le 6 di mercoledì mattina in Italia. Le prime elaborazioni parziali dei risultati dovrebbero arrivare già intorno alle 2 di notte, ma difficilmente si potrà avere un quadro sufficientemente completo della situazione prima delle 7-8 di mattina. Questo, naturalmente, nel caso in cui l’esito del voto sia chiaro: altrimenti, il conteggio potrebbe prendere ancora più tempo. Nel 2020, ad esempio, ci sono voluti quattro giorni perché Biden fosse proclamato presidente eletto, mentre nel 2000 Bush ha dovuto aspettare un mese prima che il suo sfidante concedesse la sconfitta.Data la crescente polarizzazione dell’elettorato statunitense e la pervasività di fake news e teorie del complotto, c’è da aspettarsi che, se i risultati di quest’elezione non consegneranno una vittoria netta a nessuno dei due candidati, la parte sconfitta rifiuti di riconoscere la vittoria dell’altra e si mobiliti per contestarla: tramite l’avvio di infinte cause legali nel migliore dei casi o, nel peggiore, con una riedizione dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.

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    Presidenziali Usa: Trump contro Harris, e l’Europa nel mezzo

    Bruxelles – La corsa per le presidenziali statunitensi è ormai giunta all’ultimo miglio. La data fatidica del 5 novembre si fa sempre più vicina, e nell’Unione europea aumenta di giorno in giorno l’apprensione per l’esito di quello che è forse il voto più rilevante di questo anno elettorale senza precedenti nella storia globale. A Bruxelles, la vittoria di Donald Trump è vissuta come un pericolo da scongiurare a ogni costo, mentre se venisse eletta Kamala Harris tutte le cancellerie (o quasi) dei Ventisette tirerebbero un sospiro di sollievo. Su quasi tutti i temi di interesse europeo le priorità dell’ex presidente repubblicano e della sua sfidante democratica si pongono in sostanziale opposizione. Quali potrebbero essere dunque i risvolti per l’Europa (e soprattutto l’Ue) nel caso di una vittoria dell’uno o dell’altra contendente?Politica esteraSicuramente, uno degli ambiti nei quali si misurano distanze siderali tra i due candidati è quello della politica estera. Per quanto riguarda la guerra in Ucraina, ad esempio, Trump ha ripetuto più volte che intende, a modo suo, mettere fine al più presto al conflitto. Secondo le indiscrezioni, il tycoon newyorkese intenderebbe proporre al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di cedere alla Russia almeno una parte delle regioni occupate, probabilmente alcune aree del Donbass e la Crimea, in cambio della cessazione delle ostilità. Se Washington decidesse di interrompere dall’oggi al domani il sostegno militare e finanziario a Kiev, sarebbe difficile per gli europei continuare a difendere l’ex repubblica sovietica.L’effetto che il disimpegno statunitense dall’Ucraina avrebbe sulla sicurezza del Vecchio continente – cui Trump non sembra essere particolarmente interessato – è difficilmente calcolabile ma sarebbe senza dubbio estremamente negativo per gli alleati transatlantici, che solo di recente (anche di fronte alla prospettiva di un secondo mandato dell’ex presidente) hanno iniziato a prendere più seriamente la questione della cosiddetta autonomia strategica.Un’amministrazione Harris si porrebbe invece su una linea di continuità con le scelte prese dal presidente uscente Joe Biden: Congresso permettendo, il supporto all’Ucraina verrebbe garantito almeno nel medio periodo. La vicepresidente democratica uscente ha esplicitamente criticato come “arrendevoli” le posizioni del rivale, rifiutando qualunque negoziato bilaterale con Mosca che escluda Kiev.Riguardo allo scacchiere mediorientale le differenze tra Harris e Trump potrebbero essere più sfumate, data la tradizionale solidità dell’alleanza tra Washington e Tel Aviv. Tuttavia, è verosimile che una Casa Bianca guidata dall’ex presidente garantirebbe allo Stato ebraico un appoggio virtualmente incondizionato (va ricordato che fu Trump l’architetto dei cosiddetti accordi di Abramo del 2020 per la normalizzazione dei rapporti diplomatici nella regione), finendo per esacerbare ancora di più le divisioni tra i Ventisette sulla crisi regionale in corso.La sfidante democratica potrebbe tentare di mettere alle strette (si fa per dire) il premier israeliano Benjamin Netanyahu, anche se, ormai, quest’ultimo appare più una scheggia impazzita (disposto a colpire addirittura i caschi blu dell’Onu) che un partner affidabile. Ma il Medio Oriente è un tassello troppo importante per la politica estera statunitense perché qualunque presidente abbandoni l’alleato storico al proprio destino.Il futuro della NatoLa guerra d’Ucraina si intreccia poi con la questione relativa al futuro della Nato: da tempo, Trump denuncia quello che definisce un impegno insufficiente da parte degli alleati del Vecchio continente (alcuni dei quali non hanno ancora raggiunto il target del 2 per cento del Pil da destinare alle spese militari), e ha polemicamente invitato il presidente russo Vladimir Putin a invadere i Paesi europei che non fanno la propria parte. Nemmeno il Congresso sembra dormire sonni tranquilli, dato che ha recentemente adottato una legge in cui si mette nero su bianco che per ritirare gli Usa dall’Alleanza non basta un decreto presidenziale ma serve l’approvazione parlamentare.Nei fatti, comunque, se Trump volesse ridimensionare la partecipazione statunitense alla Nato non avrebbe bisogno di abbandonarla: basterebbe semplicemente, in caso di attivazione del famigerato articolo 5 della Carta nordatlantica (per cui, in caso di attacco ad uno Stato membro, tutti gli altri dovrebbero “adottare le misure che ritengono necessarie per proteggere l’alleato attaccato”), non fornire una risposta militare ma semplicemente supporto diplomatico o civile. Da mesi, nella sede della Nato a Bruxelles, le alte sfere degli altri 31 Paesi membri stanno escogitando piani su come mantenere funzionale l’organizzazione (la cui guida è da poco passata nelle mani dell’ex premier olandese Mark Rutte) anche nel caso di una rielezione del candidato repubblicano.Politica commercialeLa politica commerciale è invece una materia in cui le differenze tra Harris e Trump potrebbero non essere così marcate come si crede. Durante il suo primo mandato, quest’ultimo ha preso alla sprovvista i partner europei con un’agenda (eloquentemente soprannominata America first) di feroce protezionismo, imponendo tariffe doganali elevate sulle importazioni dall’estero e mettendo in crisi il principio alla base del commercio internazionale, cioè l’apertura dei mercati.Se con la Cina c’è stata una vera e propria guerra dei dazi, nemmeno i Ventisette si sono vissuti tranquillamente la presidenza Trump, a cominciare dalla Germania (che letteralmente sopravvive grazie all’export). Il candidato repubblicano ha recentemente ventilato l’idea di reintrodurre tasse del 10 per cento su tutti i prodotti esteri in entrata negli States, provocando un certo panico al di là dell’Atlantico. Un’altra tecnica che l’ex presidente potrebbe adottare è quella di colpire con dazi mirati solo determinate tipologie di merci, creando così una dinamica di rivalità e competizione interna in Europa, secondo la vecchia tattica del divide et impera.D’altra parte, una presidenza democratica significherebbe il mantenimento di normali rapporti commerciali con l’Europa e con il resto del mondo, ma le scelte di Harris si porrebbero verosimilmente in continuità con quelle del suo predecessore. Il quale, partendo dall’eredità dell’era Trump, ha espanso l’arsenale di armi economiche in funzione anti-cinese e ha stimolato la produzione interna con l’Inflation reduction act (Ira), che a Bruxelles è stato visto come un gesto di concorrenza sleale – tanto che ha fatto da base di partenza per le riflessioni, incluse quelle del report di Mario Draghi, sul rilancio della competitività europea e sulla necessità di una strategia industriale comune.Cooperazione internazionaleIl ritorno del trumpismo, che nella sua essenza (non solo economica) è isolazionista e protezionista, avrebbe dei riflessi anche nei rapporti internazionali degli Usa, il che a sua volta produrrebbe inevitabili ricadute anche sull’Ue. Non è un mistero che l’ex presidente nutra poco rispetto per il multilateralismo, che dipinge più spesso come una camicia di forza che non come un’opportunità.Una differenza fondamentale tra i due candidati è proprio l’approccio verso gli alleati e più in generale i partner internazionali: per Harris si tratta di risorse potenzialmente fondamentali, per Trump di pesi morti o addirittura sanguisughe di cui sbarazzarsi. Stesso dicasi per le istituzioni multilaterali: la prima, in continuità con il suo attuale capo, punterebbe a farne uso e, eventualmente, riformarle, mentre il secondo preferisce ignorarle se non direttamente eliminarle.Per citare un tema in cui la cooperazione internazionale è centrale, il tycoon è convintamente ostile agli sforzi multilaterali in ambito climatico e ambientale. Nel 2020 ha fatto ritirare gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi del 2015, che ha definito “un disastro”, e ha promesso che se verrà rieletto continuerà su questa strada, annullando il rientro del Paese nel trattato (voluto da Biden all’inizio della sua presidenza) e magari andando anche oltre.Sul versante energia, una presidenza Trump 2.0 riporterebbe poi in auge (ancora di più) l’approvvigionamento energetico tramite i combustibili fossili, il che andrebbe evidentemente contro agli obiettivi che Bruxelles si è imposta con il Green deal. Harris dovrebbe invece puntare più decisamente sulle fonti rinnovabili, potenzialmente coinvolgendo l’Europa e altri partner globali nel percorso verso il definitivo phasing out degli idrocarburi.