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    Armi, beni ‘duali’, aviazione: l’Ue allinea le sanzioni alla Bielorussia a quelle contro la Russa

    Bruxelles – Russia e Bielorussia, due facce di una stessa medaglia fin qui trattate in modo diverso ma che l’Ue adesso decide di considerare allo stesso modo. Il Consiglio dell’Ue vara una stretta sanzionatoria che allinea le misure restrittive contro Mosca a quelle contro Minsk, con l’obiettivo chiudere gli spazi utili ad aggirare le decisioni a dodici stelle. Al fine di evitare che una nazione possa fornire all’altra beni che sono sottoposti al blocco delle esportazioni, i Ventisette estendono il divieto di vendita verso la Bielorussia di tutta una serie di beni e tecnologie altamente sensibili che contribuiscono al miglioramento militare e tecnologico del Paese alleato con la Federazione russa.
    Anche nei confronti della Bielorussia scatta il “divieto esteso” di esportazione di beni e tecnologie a duplice uso o ‘duali’ (vale a dire uso civile ma con potenziale impiego militare), come previsto nell’11esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca. Vuol dire stop a droni, sensori, laser, valvole, programmi informativi, materiale elettronico. Stop anche all’esportazione di merci utilizzate dalla Russia per la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina, quali dispositivi a semiconduttore, circuiti integrati elettronici, apparecchiature di produzione e collaudo, macchine fotografiche e componenti ottici. Niente più vendite al governo di Minsk e alle sue imprese di tecnologie adatte all’uso nell’industria aeronautica e spaziale, compresi motori di aeromobili. Anche questa una misura che si allinea all’11esimo pacchetto di sanzioni Ue contro la Russia. A tutto questo si aggiunge anche la messa al bando di vendita, fornitura, trasferimento o esportazione di armi da fuoco, loro parti e componenti essenziali e munizioni.
    “Adottiamo ulteriori misure contro il regime bielorusso in quanto complice della guerra di aggressione illegale e non provocata della Russia contro l’Ucraina”, scandisce Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue.
    L’Unione europea in realtà colpisce Alexander Lukashenko e il suo Paese due fronti. Vengono inasprite anche le sanzioni contro la Bielorussia per il deterioramento interno. Borrell denuncia le “continue violazioni sistematiche, diffuse e gravi dei diritti umani e alla brutale repressione contro tutti i segmenti della società bielorussa” da parte di quello che l’Alto rappresentante non esita a definire “un regime illegittimo“. Un riferimento alle contestate elezioni del 9 agosto 2020 di cui l’Ue non riconosce l’esito.
    Misure restrittive scattano contro nei confronti di 38 persone e 3 entità bielorusse “responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, che contribuiscono alla repressione della società civile e delle forze democratiche, nonché di coloro che beneficiare e sostenere il regime di Lukashenko”. I nuovi elenchi includono funzionari penitenziari considerati responsabili della tortura e del maltrattamento di detenuti, inclusi prigionieri politici, propagandisti di spicco, nonché membri del ramo giudiziario coinvolti nel perseguire e condannare oppositori democratici, membri della società civile e giornalisti.

    Borrell: “Bielorussia complice nella guerra in Ucraina”. La decisione per evitare che le misure anti-Putin siano aggirate

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    Putin e “le nuove dipendenze” con i prezzi bassi del grano. Borrell avverte le potenze G20 e chiede una risposta unitaria

    Bruxelles – Un appello ai ministri degli Esteri delle 20 più importanti economie al mondo per convincere Putin a riaprire i negoziati con l’Ucraina sull’esportazione di cereali attraverso il Mar Nero. E’ in una lettera datata lunedì (31 agosto) che l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borell, ha invitato i suoi omologhi dei Paesi in via di sviluppo e del G20 a fare pressione sul Cremlino per riprendere l’Iniziativa del Mar Nero per i cereali – scaduta il 17 luglio e non rinnovata da Mosca – e ad astenersi dal prendere di mira le infrastrutture agricole dell’Ucraina.
    “Il principale beneficiario del blocco dell’iniziativa del grano sul Mar Nero è la Russia e il suo settore agricolo, che beneficerà ulteriormente dell’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e aumenterà la propria quota di mercato nel mercato globale dei cereali, limitando fortemente la capacità di esportazione del suo principale concorrente”, mette in guardia il capo della diplomazia europea nella lettera vista da Eunews, in cui ricorda che, secondo i dati disponibili, “dal primo luglio 2022 al 30 giugno 2023, le esportazioni di grano della Russia dovrebbero raggiungere circa 45 milioni di tonnellate, oltre il 10 per cento in più rispetto alla media degli anni precedenti”. Lo stesso aumento dei ricavi si stima sulle esportazioni russe di fertilizzanti, che “sono aumentati del 150 per cento nel 2022, grazie all’aumento dei prezzi”.
    Questa lettera, spiega a Eunews un portavoce dell’esecutivo comunitario, si inscrive nel tentativo di sensibilizzazione che l’Ue sta cercando di fare nei confronti dei Paesi terzi, a sostegno degli sforzi condotti dalle Nazioni Unite e dalla Turchia per riprendere l’attuazione dell’Iniziativa del Mar Nero per i cereali e per “contrastare la disinformazione russa sulla sicurezza alimentare globale” e sull’impatto delle sanzioni dell’UE, soprattutto in vista dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si terrà a settembre. Borrell ricorda nel documento ancora che mentre “il mondo affronta l’interruzione delle forniture e l’aumento dei prezzi, la Russia si rivolge ora ai Paesi vulnerabili con offerte bilaterali di spedizioni di grano a prezzi scontati, fingendo di risolvere un problema che ha creato lei stessa”.
    Il riferimento dell’alto rappresentante è al fatto che il presidente russo Vladimir Putin la scorsa settimana ha proposto ai leader africani di sostituire le esportazioni di grano ucraino verso l’Africa. Per Borrell si “tratta di una politica cinica che usa deliberatamente il cibo come arma per creare nuove dipendenze, esacerbando le vulnerabilità economiche e l’insicurezza alimentare globale”. L’appello alla comunità internazionale è quello a parlare con una voce “chiara e unitaria”, che potrebbe portare il Cremlino a riconsiderare di “riprendere la sua partecipazione a questa iniziativa vitale”. Borrell chiude la lettera invitando gli omologhi a sollecitare la Russia a tornare ai negoziati e ad astenersi dal prendere di mira le infrastrutture agricole dell’Ucraina.

    Il capo della diplomazia europea scrive una lettera agli omologhi dei Paesi G20 e avverte che offrendo grano a buon mercato Mosca vuole “creare nuove dipendenze esacerbando le vulnerabilità economiche e l’insicurezza alimentare globale”. L’appello a coordinarsi e convincere Putin a rientrare nell’Iniziativa del grano sul Mar Nero

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    Uranio e influenza in Africa, il dilemma Ue del Niger tra interessi russi e cinesi

    Bruxelles – Democrazia, diritti, e poi l’uranio. Le instabilità in Niger possono di mettere in difficoltà il mercato dell’energia nucleare dell’Unione europea, che proprio dal Niger acquista uranio grezzo per i propri reattori. Per ora si rassicura, e si escludono impatti negativi dal colpo di Stato nel Paese dell’Africa occidentale. “Non c’è alcun rischio di approvvigionamento”, sostiene il portavoce della Commissione europea, Adalbert Jahnz. “Le imprese hanno sufficienti scorte di uranio naturale per mitigare qualsiasi rischio di approvvigionamento a breve termine e per il medio e lungo termine ci sono abbastanza depositi sul mercato mondiale per coprire il fabbisogno dell’Ue”.
    C’è però una questione geo-politica in ballo, fatta di energia nucleare, risorse, e presenza europea nell’area. Fin qui il Niger è stato il forniture numero uno dell’uranio nella sua forma grezza. La relazione della Commissione europea sul mercato di uranio, con dati aggiornati al 2021, afferma che “analogamente agli anni precedenti, Niger, Kazakistan e Russia sono stati i primi tre paesi a fornire uranio naturale all’Ue nel 2021, fornendo il 66,94% del totale”. Il Niger da solo, è arrivato a rappresentare un quarto dell’import complessivo a dodici stelle (24,26%). Non un fornitore marginalcina e, dunque. Alla luce delle relazioni sempre più delicate e complesse con la Russia quale risultato dell’aggressione all’Ucraina, l’Ue ha bisogno di ridurre le dipendenze con la federazione russa e un deterioramento ulteriore della situazione in Niger potrebbe indurre a rivedere la domanda di uranio.
    La Commissione Ue per ora intendere rimanere presente nel Paese. Evacuazione del personale e chiusura delle sedi di rappresentanza non sono prese in considerazione, perché andare via vorrebbe dire lasciare mano libera ad altri attori, a cominciare da quello cinese. Dopo la Francia la Repubblica popolare è il secondo più grande investitore straniero.
    Pechino è presente in Niger dal 1974, e ha dato nuovi impulsi alle relazioni bilaterali dagli inizi degli anni Duemila. Ha iniziato ad investire in infrastrutture (strade, ospedali, telecomunicazioni), scambi culturali (borse di studio per nigerini in Cina), a garantire sostegni umanitari contro disastri naturali. In cambio ha ottenuto diritto di esplorazione petrolifera e di uranio. Il progetto dell’oleodotto di circa 675 chilometri per la connessione Niger-Benin è possibile grazie a PetroChina, il colosso petrolifero cinese. Mentre Cnnc, la società di Stato attiva nel settore del nucleare, ha già avuto modo di lavorare col governo di Niamey per lo sviluppo del giacimento di Azelik.
    A livello globale il Niger rifornisce appena il 5% circa dell’uranio mondiale, ma è un fornitore leader per l’Ue. Sottrarre quote di mercato agli europei sarebbe per la Cina, già allo stato attuale fornitore principale di tutto ciò che serve all’Ue in termini di materie prime per la transizione sostenibile, un ulteriore colpo alle ambizioni di indipendenza e potenza europea.
    L’instabilità politica rischia però di complicare anche i piani cinesi, e non a caso anche la Cina segue con attenzione gli sviluppi nel Paese africano invitando a una soluzione. Per quanto a Bruxelles si cerchi di minimizzare e si ostenti sicurezza, in gioco c’è molto. Perché l’Ue ha deciso che il nucleare è ‘green’, non inserendolo la tecnologia nella tassonomia, l’insieme dei criteri che servono a determinare la sostenibilità di attività e prodotti. L’Ue ha bisogno dell’uranio per il suo nucleare, e il suo principale fornitore adesso offre meno garanzie.
    C’è anche l’aspetto russo della questione nigerina. L’uranio è certamente una questione ‘calda’ per l’Ue, ancora troppo legato alla Russia per ciò che serve per le centrali attive in Europa, soprattutto nei Paesi membri del quadrante nord-orientale. Alternative al combustibile russo è qualcosa di tutt’altro che semplice, e l’Ue non può permettersi di finire nuovamente nelle braccia del Cremlino. Ma da anni Mosca agisce nel continente africano, attraverso forniture di armi, accordi di cooperazione militare. Il controllo del continente sta diventando sempre più strategico, per via della sue ricchezze naturali in termini di risorse e materie prime. Governi ‘amici’ fanno l’interesse della partita in atto.
    La presenza del gruppo Wagner è stata accertata in almeno cinque Paesi africani (Libia, Mali, Sudan, Repubblica centrafricana, Mozambico). Si teme che il gruppo para-militare possa diventare una presenza forte anche in Niger. Analisti ricordano l’esempio del Mali, dove la Russia ha saputo inserirsi perché più accomodante rispetto alle richieste e alla condizioni poste dagli europei. “Ci sono già segnali che l’Ue potrebbe affrontare un dilemma simile in Niger“, avvertiva un anno fa, a giugno 2022, il think-tank pan-europeo Ecfr.
    C’è dunque la possibilità che il confronto tra Europa e Russia non si consumi solo sul fronte ucraino. La destabilizzazione del Niger gioca a favore di Mosca, più che dell’Europa, che nel Niger contava e conta anche per la gestione dei flussi migratori. All’incrocio di diverse rotte migratorie, il Niger ha rafforzato la sua politica di lotta alla migrazione irregolare con il sostegno dell’Ue, nell’ambito del nuovo partenariato dell’Ue con i Paesi terzi. Ora tutto questo rischia di saltare.
    A Bruxelles c’è già chi fa i conti con le tensioni e le incertezze nel Paese. In Parlamento Ue si inizia a riconoscere che il golpe “rischia di destabilizzare ulteriormente il Paese, oltre a problemi esistenti come l’instabilità regionale, la proliferazione di gruppi jihadisti violenti, un’ondata di rifugiati e sfollati interni”. In questo clima “il colpo di stato, salutato da Yevgeny Prigozhin, il capo di Wagner, potrebbe aumentare l’influenza della Russia sul Paese“.
    Una presa d’atto anche in Commissione, con l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, che punta il dito contro Mosca. In Niger, scrive sul suo blog, “l‘unica interferenza di cui possiamo parlare oggi è quella dei militari che rovesciano un Presidente eletto e quella di una Russia imperialista che vuole usare questi regimi come pedine nella sua partita a scacchi mondiale” in cui l’Europa ha molto da perdere. Attacca frontalmente anche il leader del Cremlino. “Da diversi anni la Russia di Vladimir Putin alimenta questi colpi di stato con la sua falsa propaganda e approfitta dell’instaurazione di questi regimi militari con le sue milizie private”. Accuse e toni che confermano l’importanza della posta in gioco. L’Ue si vede scalzata dall’Africa, e non solo dal Niger e dalle sue forniture di uranio.

    Per la Commissione ciò che serve al nucleare europeo non è a rischio ma in gioco c’è molto di più, con la presenza di Mosca e Pechino tutt’altro che marginale

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    L’Ue propone un piano da 20 miliardi di euro per il sostegno militare a lungo termine all’Ucraina fino al 2027

    Bruxelles – Cinque miliardi all’anno, per quattro anni per garantire un sostegno continuo alla difesa dell’Ucraina. Non si tratterà di un nuovo fondo da parte dell’Ue, ma di una specifica sezione dell’attuale strumento europeo per la pace (European Peace Facility), lo strumento finanziario fuori dal bilancio comunitario isitituito nel 2021 per migliorare la capacità dell’Ue di prevenire i conflitti e di finanziare azioni operative che hanno implicazioni militari o di difesa nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune.
    Dopo le indiscrezioni degli ultimi giorni, l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, ha messo oggi (20 luglio) la proposta di nuovi finanziamenti a Kiev sul tavolo dei ventisette ministri degli Esteri, riuniti a Bruxelles nell’ultimo Consiglio dell’Ue prima dell’estate. Si tratterà “sempre dello stesso strumento, l’European Peace Facility, che ha funzionato molto bene e continueremo a usarlo ma con un capitolo dedicato al suo interno, con un finanziamento specifico che può essere stimato sulle cifre che ho citato”, ha spiegato il capo della diplomazia europea in una breve conferenza stampa dopo la riunione.
    Venti miliardi di risorse extra da mobilitare fino al 2027. “Questa è la valutazione dei bisogni e delle necessità per garantire il sostegno dell’Ucraina”, ha aggiunto. A detta dell’alto rappresentante Ue i ministri dei Ventisette hanno avuto un primo scambio di idee sulla proposta, ma ne discuteranno in maniera approfondita a fine agosto, alla riunione informale dei ministri degli affari esteri nel tradizionale formato Gymnich che si terrà il 30 e 31 agosto. La proposta di Borrell fa parte di un più ampio sforzo per porre il sostegno europeo a Kiev su una base a più lungo termine, dopo più di un anno di tentativi per rispondere ai bisogni immediati dell’Ucraina a seguito dell’invasione della Russia.
    Solo di recente i due colegislatori dell’Ue, Parlamento e Consiglio, hanno trovato un accordo politico sull’Asap, il piano Ue per aumentare la consegna di munizioni e missili all’Ucraina e imprimere un cambio di passo sulla capacità di produzione bellica nei 27 Stati membri. Acronimo di ‘Act in support of ammunition production’ e di ‘As soon as possible’, il regolamento presentato dalla Commissione Ue lo scorso 3 maggio è stato in effetti finalizzato in tempo di record. Il piano prevede di mobilitare in via d’urgenza cinquecento milioni di euro dal bilancio comunitario fino a giugno 2025 per aumentare la capacità dell’industria europea di produrre munizioni, con l’obiettivo di produrre almeno un milione di pezzi all’anno, tra munizioni terra-terra, artiglieria e missili.
    Ultimo di tre pilastri di un più ampio e complesso ‘Piano per la difesa’ proposto ai Ventisette dal commissario al Mercato interno, Thierry Breton, e dall’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, per rispondere all’emergenza della fornitura di munizioni all’Ucraina, ma anche per costruire una visione di lungo termine per la difesa europea. Oltre all’Asap, il Piano per la difesa comprende un miliardo di euro mobilitato attraverso lo strumento europeo per la pace (strumento fuori bilancio comunitario) per la consegna immediata di munizioni a Kiev attraverso le scorte degli Stati membri e un altro miliardo di euro per gli acquisti congiunti di armi.

    La proposta dell’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, ai ministri degli Esteri dei 27 Stati membri, che ne discuteranno in maniera approfondita all’informale di Toledo del 30 e 31 agosto

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    Un piano per la de-escalation in Kosovo e il ritiro delle misure Ue. Meno polizia al nord ed elezioni locali dopo l’estate

    Bruxelles – Qualcosa si muove a Pristina, dopo le minacce dell’Unione Europea concretizzatesi nelle misure “temporanee e reversibili”, imposte lo scorso 28 giugno contro il governo del Kosovo per la mancanza di “misure necessarie” per la riduzione della tensione nel nord del Paese. Il confronto degli scorsi giorni tra il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, ha portato alla definizione di un piano in quattro tappe che da questa mattina (13 luglio) è già passato alla fase operativa e nel giro di due settimane dovrà portare a risultati concreti e misurabili.
    A rendere noto lo sblocco dello stallo era stato il rappresentante speciale Lajčák lunedì (10 luglio) al termine degli incontri istituzionali con i rappresentanti del governo di Pristina, ma solo ieri (12 luglio) il premier kosovaro ha pubblicato su Twitter la tabella di marcia con le quattro tappe per la de-escalation nel nord e la normalizzazione delle relazioni con la Serbia: “Questo dimostra la nostra volontà di compiere passi concreti per garantire pace, sicurezza e stabilità in Kosovo e nella regione, al servizio della democrazia e dello Stato di diritto”, ha commentato lo stesso Kurti. Le azioni che Pristina deve intraprendere si concentrano tutte nelle prime due settimane dall’accordo del 10 luglio. Nella prima settimana (entro il 17 luglio) il governo del Kosovo deve “annunciare pubblicamente il suo impegno a lavorare per evitare un’escalation della situazione e che non intraprenderà alcuna misura per inasprire la situazione nel nord del Kosovo”, come fatto ieri da Kurti. Questo impegno include soprattutto “un’immediata riduzione del 25 per cento di tutta la presenza della polizia all’interno e nei pressi degli edifici municipali” di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Il graduale ritiro degli agenti di polizia è iniziato questa mattina.
    Come secondo passo a partire dalla settimana 1 e da proseguire poi “su base continuativa” c’è la valutazione “regolare” delle condizioni di sicurezza insieme alla missione civile dell’Ue Eulex e “se dal caso” con la missione Nato Kfor, per “valutare la possibilità di diminuire ulteriormente la presenza della polizia all’interno e nei pressi degli edifici comunali“. Sempre entro il 17 luglio – e con “finalizzazione il prima possibile” – il governo del Kosovo dovrà rilasciare una dichiarazione pubblica “che incoraggia lo svolgimento di elezioni locali anticipate nei quattro comuni del nord dopo l’estate“, accompagnata dall’impegno a “predisporre la base giuridica necessaria per l’organizzazione” della nuova tornata elettorale anticipata. A fronte di questi tre passi compiuti da Pristina, nella seconda settimana (entro il 24 luglio) l’Ue inviterà i due capi negoziatori di Serbia e Kosovo a Bruxelles per “finalizzare il piano di sequenza dell’Accordo sul percorso di normalizzazione delle relazioni” e a quel punto potrà iniziare “l’attuazione di tutte le disposizioni dell’Accordo”. Dopo l’annuncio del premier Kurti l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha accolto “con favore” l’impegno del Kosovo a rispettare l’accordo raggiunto lunedì: “Ci aspettiamo che compia ulteriori passi positivi e continui a progredire in questa direzione”.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (22 giugno 2023)
    Con la messa a terra del piano in quattro tappe il Kosovo dovrebbe riuscire a convincere Bruxelles a ritirare le misure restrittive comunicate a Pristina il 28 giugno. Come appreso da Eunews, l’Ue ha temporaneamente sospeso il lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione avviato nel 2016. Sul piano diplomatico i rappresentanti del Kosovo non saranno invitati a eventi di alto livello e saranno sospese le visite bilaterali, fatta eccezione per quelle incentrate sulla risoluzione della crisi nel nord del Kosovo nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue. Dure anche le due decisioni sul piano finanziario: sospesa la programmazione dei fondi per il Kosovo nell’ambito dell’esercizio di programmazione Ipa 2024 (Strumento di assistenza pre-adesione) e le proposte presentate da Pristina nell’ambito del Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) non sono state sottoposte all’esame del Consiglio di amministrazione riunitosi il 29-30 giugno.
    Le tensioni tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
    La questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i leader Ue hanno condannato “i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo” e hanno chiesto “un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione Europea il 3 giugno 2023″ (riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese). Entrambe le parti sono state invitate a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo“, con la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. La soluzione risiede sempre nella ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo), con l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.

    Bruxelles e Pristina hanno concordato le tappe della tabella di marcia per ridurre la tensione tra il governo centrale e la minoranza serbo-kosovara. Già iniziata la riduzione del 25 per cento degli agenti di polizia, atteso a breve l’annuncio per il ritorno anticipato alle urne in quattro comuni

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    L’Ue alza l’allarme sulla situazione in Darfur dopo tre mesi di guerra in Sudan: “Violenze sessuali, uccisioni e sfollamenti”

    Bruxelles – Il Darfur torna nei radar dell’Unione Europea, ancora una volta per il rischio di un genocidio. Quando la guerra civile in Sudan sta per arrivare al suo terzo mese dall’inizio dei combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), da Bruxelles si alza l’allarme sulla situazione in una delle regioni dell’Africa orientale più tormentate degli ultimi vent’anni. “L’Unione Europea è particolarmente preoccupata per le notizie di attacchi su larga scala contro i civili, anche sulla base dell’etnia, in particolare nel Darfur“, è la denuncia dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, riferendosi a “notizie terribili di diffuse violenze sessuali e di genere, uccisioni mirate, sfollamenti forzati e costante armamento delle milizie”.
    La risposta a quesi tre mesi di guerra civile – che al momento non accenna ad arrestarsi – da parte della Commissione Ue è non solo un nuovo stanziamento di 190 milioni di euro in assistenza umanitaria (che ha raggiunto nei primi sei mesi del 2023 oltre 250 milioni), ma anche una costante pressione diplomatica. Nonostante l’azione sul campo sia resa ancora più difficile dall’assenza di corpo diplomatico Ue nel Paese da fine aprile. “Condanniamo fermamente il continuo rifiuto delle parti in conflitto di cercare una soluzione pacifica“, ha attaccato Borrell, esortandole ancora una volta ad arrivare a un cessate il fuoco “duraturo” da raggiungere “senza indugio” per garantire la protezione della popolazione. Di fronte alla realtà di una guerra che non si ferma e di continue violazioni degli accordi per un cessate il fuoco, l’alto rappresentante Ue chiede almeno di “facilitare la fornitura di assistenza umanitaria e a garantire un accesso sicuro, tempestivo e senza ostacoli alle operazioni umanitarie“.
    La guerra civile iniziata nella capitale Khartum si è espansa in questi mesi a macchia d’olio, con l’apertura di fronti di battaglia soprattutto in Darfur a ovest e nel Kordofan meridionale, al confine con il Sud Sudan: “In tali gravi circostanze garantire la protezione dei civili e prevenire ulteriori atrocità deve essere la nostra prima priorità”, è l’esortazione dell’alto rappresentante Ue ai Ventisette e a tutta la comunità internazionale. Il rischio è un ulteriore aggravamento della situazione umanitaria e migratoria, con “milioni di sudanesi costretti a fuggire dal conflitto” che si sono rifugiati nei Paesi circostanti: “L’Ue elogia gli Stati della regione per la loro costante accoglienza e apprezza l’assistenza umanitaria e gli sforzi di pace”. Ma ci sono anche due novità nell’appello di Bruxelles da considerare con attenzione: “Sosteniamo la raccolta di prove sulle gravi violazioni dei diritti umani e siamo pronti a considerare l’uso di tutti i mezzi a disposizione, comprese le misure restrittive” per mettere fine al conflitto. Una minaccia che al momento non trova altro riscontro nell’azione esterna dell’Unione né nelle discussioni dei 27 ministri degli Esteri, ma che potrebbe diventare uno strumento sempre più importante se la guerra dovesse continuare ancora per mesi e con l’intervento di attori esterni. La Russia – con o senza il gruppo mercenario Wagner – in testa.

    La guerra civile in Sudan e Darfur
    La guerra civile in Sudan è iniziata lo scorso 15 aprile, con lo scontro armato tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 presidente del Paese) e le forze paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati in guerra civile.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra. Nel corso dell’ultimo mese di guerra civile i combattimenti si sono concentrati soprattutto nel Darfur, dove il governatore Khamis Abakar è stato rapito e ucciso lo scorso 14 giugno per aver accusato le Rsf di genocidio in atto (di nuovo) contro la popolazione della regione.

    Dura condanna dell’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, al “continuo rifiuto delle parti in conflitto di cercare una soluzione pacifica”. Preoccupano le notizie di attacchi su larga scala sui civili in particolare nell’area occidentale del Paese, già luogo di genocidio a inizio anni Duemila

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    Prima del Consiglio Ue von der Leyen sente i leader di Kosovo e Serbia. Borrell: “Stati membri stanno perdendo la pazienza”

    Bruxelles – Scende in campo la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, per cercare di dare il colpo definitivo ai rischi dell’aumento delle tensioni tra Kosovo e Serbia. “Ho sottolineato l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo facilitato dall’Ue sulla normalizzazione delle relazioni con la Serbia”, ha reso noto oggi (27 giugno) in un tweet la stessa numero uno dell’esecutivo comunitario dopo la telefonata con il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e poco prima di fare lo stesso con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. Colloqui che arrivano alla vigilia del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri Ue troveranno anche la questione delle violenze degli ultimi mesi nel nord del Kosovo e della tensione tra Pristina e Belgrado sul tavolo delle discussioni.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (27 giugno 2023)
    È la seconda volta che la presidente von der Leyen affronta la questione da quando il 26 maggio sono scoppiate le violente proteste nel nord del Kosovo che hanno portato a un aggravamento della situazione nella regione. “Le recenti tensioni sono preoccupanti, mi associo agli appelli rivolti a tutte le parti ad abbandonare lo scontro e ad adottare misure urgenti per ristabilire la calma“, aveva messo in chiaro la leader della Commissione presentando il nuovo piano di crescita per i Balcani Occidentali lo scorso 31 maggio. Da allora però è passato quasi un mese e sono stati pochi i segnali di riduzione delle provocazioni tra Pristina e Belgrado. Ma – come ha messo in chiaro l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in un punto stampa con il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, al termine dell’incontro di oggi – “gli Stati membri stanno perdendo la pazienza davanti a una situazione che continua a deteriorarsi“. Della questione i 27 governi ne hanno discusso ieri (26 giugno) al Consiglio Affari Esteri, trovandosi d’accordo sul fatto che “le parti devono permettere la de-escalation della situazione e trovare una via basata sulla tabella di marcia proposta loro la settimana scorsa” alla riunione di emergenza a Bruxelles.
    A proposito delle discussioni a livello Ue, saranno proprio i 27 capi di Stato e di governo ad affrontare direttamente la questione tra giovedì e venerdì. Come emerge dall’ultima bozza delle conclusioni visionata da Eunews, il Consiglio Europeo “condanna i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo e chiede un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione europea il 3 giugno 2023″, in riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese. La specifica sulla data è una novità rispetto alla prima versione delle conclusioni, ma non è l’unica. Spicca in particolare l’esortazione a entrambe le parti a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo” (Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica), mentre rimane la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. Uguale il passaggio sulla necessità della ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo). Ma nell’ultima bozza è stato incluso anche l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.
    L’arresto/sequestro di tre poliziotti kosovari dai servizi di sicurezza serbi nell’area di confine tra Serbia e Kosovo (14 giugno 2023)
    Anche il premier albanese Rama da Bruxelles ha messo in guardia sugli “effetti devastanti che un’ulteriore deterioramento della situazione potrebbe avere non solo in Kosovo e Serbia, ma in tutta la regione” dei Balcani Occidentali. Parole di soddisfazione sono state rivolte a Belgrado per aver risolto l’ultimo episodio di tensione – la liberazione di ieri dei tre poliziotti kosovari arrestati/rapiti dalle forze di sicurezza serbe il 14 giugno – ma “ora è tempo per una de-escalation urgente e immediata”, ha rimarcato il primo ministro: “Questa situazione non può impattare in modo negativo la regione, abbiamo molto da fare dopo tanti progressi, non può cadere tutto come un castello di sabbia”. Ecco perché l’idea condivisa da Tirana è quella di “una conferenza di massimo livello con Ue e Stati Uniti, che porti i leader dei due Paesi allo stesso tavolo“, è quanto avanzato da Rama. Da quel tavolo il premier Kurti e il presidente Vučić “non devono andarsene prima di aver trovato un accordo, altrimenti rischieranno di incorrere in conseguenze negative e spiacevoli per tutti”.
    Cosa sta succedendo tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la tensione tra Pristina e Belgrado rimane ancora alta e per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.

    La presidente della Commissione Ue ha telefonato al premier kosovaro, Albin Kurti, e al presidente serbo, Aleksandar Vučić, per ribadire “l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo”. Nella bozze di conclusioni del vertice dei leader Ue inserito un punto specifico

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    “Il mostro creato da Putin gli si è rivoltato contro”. L’Ue studia le conseguenze della crisi tra il Cremlino e la Wagner

    Bruxelles – Nessuno si sbilancia, nonostante ormai siano passati due giorni dalla fine del possibile colpo di Stato in Russia. Perché per le istituzioni comunitarie l’azione dell’entità militare privata Wagner e del suo leader Yevgeny Prigozhin e la risposta del Cremlino rimangono sempre “un affare interno della Russia”, in cui nessuno vuole entrare. Lo hanno dichiarato tutti oggi (26 giugno) al Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo, a partire dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “Stiamo seguendo da vicino quello che succede, il mostro creato da Vladimir Putin con la guerra in Ucraina sta agendo contro il suo creatore“.
    Da sinistra: l’autocrate russo, Vladimir Putin, e il leader del gruppo Wagner, Yevgeny Prigozhin (credits: Alexey Druxhinin / Sputnik / Afp)
    Questo è quanto dalle istituzioni comunitarie, per trovare altre reazioni di rilievo dalle capitali dell’Unione bisogna scavare nei dettagli delle dichiarazioni rilasciate a margine del Consiglio Affari Esteri. “Abbiamo notato un cambiamento e che sono apparse crepe nel sistema russo“, è stato il massimo dell’apertura da parte del ministro degli Affari esteri italiano, Antonio Tajani, che per il resto si è mantenuto cauto dietro a un ripetuto “non tocca a noi interferire nella situazione interna alla Russia“. Oppure il ministro degli Esteri svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Tobias Billström, che – barricandosi dietro a uno sterile “dobbiamo guardare la vicenda come un affare interno russo” – si è lasciato sfuggire quanto i Paesi vicini alla Russia e all’Ucraina avvertono da venerdì sera (23 giugno): “Quello che succede a Mosca ha un impatto sull’ambiente di sicurezza circostante“. Lo stesso ministro ha messo in chiaro che “non siamo in posizione per fare profonde analisi, serve ancora più lavoro”, ma che in ogni caso “tutti dobbiamo preoccuparci quando si parla della Wagner” e che “evidentemente Putin sta perdendo la guerra, non sta andando nella direzione che vorrebbe”. Parole simili a quelle dell’omologo italiano: “Certamente l’assenza di Wagner non rafforza l’armata russa“, ha aggiunto Tajani.
    Il quartier generale del gruppo Wagner a San Pietroburgo, Russia (credits: Olga Maltseva / Afp)
    A parlare in maniera più esplicita è però l’alto rappresentante Ue Borrell, in particolare al termine del confronto con i 27 ministri. “Insurrezione armata abortita, questo è il modo migliore per riferirsi agli eventi di questo fine settimana caratterizzati dalle azioni del gruppo Wagner”, in una situazione che ora “rimane complessa e difficilmente prevedibile”. Ciò che è chiaro è che il tentativo di colpo di Stato tra venerdì e sabato scorso ha mostrato la “fragilità anche del potere militare russo, l’Ucraina lo sta spezzando” e che “la credibilità di Putin è indebolita”. Il vero problema è che se “prima la Russia era una minaccia perché era forte, ora lo è perché potrebbe essere entrata in un’era di instabilità politica“. Instabilità interna e fragilità che preoccupano non poco l’Unione, dal momento in cui la Russia rimane “una grande potenza nucleare”. In ogni caso non è ancora possibile fornire analisi e previsioni degli scenari in caso la situazione a Mosca dovesse sfuggire dal controllo di Putin e della sua cerchia di oligarchi: “Non abbiamo dato scuse all’opinione pubblica russa per dire che siamo coinvolti, a dire la verità siamo sorpresi e gli scenari non si tratteggiano in sole 24 ore”, ha aggiunto Borrell. Per quanto riguarda la presenza di Prigozhin in Bielorussia e l’eventualità che il gruppo armato Wagner si sposti a Minsk, l’Alto rappresentante ha spiegato che “non abbiamo ancora preso in considerazione questo aspetto”.
    Il gruppo Wagner in Russia
    La Wagner è un gruppo paramilitare strettamente legato all’establishment politico e militare russo, soprattutto a livello personale tra l’autocrate Putin e il fondatore della milizia privata Prigozhin. Il nucleo originario – le cui origini risalgono al 2011 – è di circa 10 mila mercenari (tra ex-militari e agenti di sicurezza russi e di altri Paesi come la Serbia), ma nel corso del 2022 il numero complessivo è aumentato a diverse decine di migliaia, dopo la vasta campagna di reclutamento consentita dal Cremlino anche nelle carceri russe. Teoricamente in Russia gli eserciti di mercenari sarebbero illegali, ma proprio lo scorso anno il gruppo Wagner si è registrato come società con sede a San Pietroburgo. Le prime azioni militari sono state registrate in Crimea nel 2014, quando la Wagner affiancò l’esercito russo per conquistare il controllo della penisola. I mercenari si spostarono poi a Luhansk insieme ai separatisti filo-russi, fino all’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022: quest’anno si sono ritagliati un ruolo cruciale nella battaglia di Bakhmut (nell’Ucraina orientale), mantenendo quasi da soli la potenza di fuoco russa opposta a quella ucraina.
    Tuttavia proprio la battaglia di Bakhmut – con la strategia di logoramento messa in piedi appositamente da Kiev – ha fatto emergere Prigozhin come soggetto problematico per la presunta unità delle fila russe. Prima ha annunciato a maggio l’intenzione di voler ritirare le proprie truppe dalla città, poi ha accusato il governo russo (e in particolare il ministero della Difesa) di non fare abbastanza per sostenere le forze paramilitari. Dopo un’escalation di accuse, venerdì scorso ha attaccato senza mezzi termini tutta la macchina di propaganda della Russia e ha iniziato l’insurrezione nella notte tra venerdì e sabato. Dopo aver preso la città di Rostov e aver iniziato a marciare su Mosca, nel pomeriggio di sabato è arrivato l’annuncio dello stop alla “marcia della giustizia” per “non versare inutilmente sangue russo”. Lo stesso Prigozhin ha confermato di aver accettato il compromesso avanzato dall’autoproclamato presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, secondo cui tutti gli insorti riceveranno l’amnistia, i mercenari che non hanno partecipato alla sollevazione potranno integrarsi nell’esercito regolare e lo stesso leader del gruppo Wagner si sarebbe recato a Minsk.
    I mercenari della Wagner sono stati impegnati in Siria a partire dal 2017 nella guerra civile al fianco di Bashar al Assad, ed è nota la presenza in diversi Paesi africani (si sospetta anche nel Sudan recentemente travolto dalla guerra civile). Dall’ottobre 2020 Prigozhin è colpito dalle sanzioni dell’Unione Europea per l’avvelenamento di Alexei Navalny (uno dei principali oppositori di Putin), mentre le misure restrittive contro il gruppo Wagner sono state imposte pochi mesi prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Gli individui colpiti sono coinvolti in “gravi abusi dei diritti umani, tra cui tortura, esecuzioni e uccisioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, o in attività destabilizzanti” fuori dalla Russia: “Wagner ha reclutato, addestrato e inviato operatori militari privati in zone di conflitto in tutto il mondo“, dalla Libia alla Siria, dall’Ucraina alla Repubblica Centrafricana, “per alimentare la violenza, saccheggiare risorse naturali e intimidire i civili in violazione del diritto internazionale”.

    Al Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, ha aggiornato i 27 ministri sul tentato colpo di Stato da parte della milizia privata di Yevgeny Prigozhin e il ruolo della Bielorussia: “Mosca potrebbe essere entrata in un’era di instabilità politica”